MITICA GRECIA
La realtà dietro i miti
Dèi, eroi, ninfe e leggende
ma all’origine c’è la verità storica.
ATTRAVERSO I PERSONAGGI E
I LUOGHI DEL MITO, SI POSSONO RIPERCORRERE LE TAPPE DELL’ANTICA CIVILTA’ GRECA.
INDICE DEGLI ARTICOLI:
NEMEA, L’ALTRA OLIMPIA
DELO, L’ISOLA DEL TESORO
QUANDO PARLA L’ORACOLO
GLI INGREDIENTI DELLA TRAGEDIA
L’INVENZIONE DI ATENE
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L’altra Olimpia
Nemea, in Argolide, era meta di atleti e
pellegrini, perché chiudeva i giochi nazionali dei greci.
È stata una delle località più
popolari di tutto il mondo greco. Qui Eracle compie la prima delle sue “dodici
fatiche”, uccidendo a mani nude un leone dalla cui pelle invulnerabile ricavò
poi un’armatura, da allora simbolo di forza invincibile. E qui, 2500 anni fa,
migliaia di atleti e pellegrini giungevano da ogni anno del Mediterraneo per
partecipare all’ultimo capitolo dei Giochi panellenici, evento sportivo di
portata nazionale. Nemea, antica capitale dello sport faceva dunque un forte
concorrenza alla grande Olimpia.
Secondo la leggenda, le origini dei Giochi nemei risalgono al tempo in cui la città era governata da Licurgo, forse lo stesso Licurgo legislatore di Sparta. Ofelte, figlio del re e della regina (in altre versioni del re e di Anfitea), stava dormendo su un giaciglio di foglie di prezzemolo, osservato dalla sua balia Ipsipile. La nutrice vedendo arrivare i sette guerrieri, in viaggio da Argo verso Tebe, si allontanò dal principe per portare acqua ai combattenti. Durante la fatidica assenza il bambino venne aggredito da un serpente, il cui morso si rivelò fatale. I sette dunque, venuti a sapere dell'accaduto, fondarono i giochi in suo onore, e disposero che, in quanto giochi funebri, i giudici fossero tutti vestiti di nero in segno di lutto. Per ricordare il giaciglio sul quale Ofelte aveva perso la vita, il vincitore dei giochi veniva incoronato con un serto di foglie di prezzemolo. Una seconda versione della leggenda, dice fossero stati fondati da Eracle dopo aver sconfitto il Leone di Nemea. L'usanza di incoronare i vincitori con una corona di prezzemolo, venne poi abbandonata, a favore di una corona di sedano donata dalla città di Argo. In alternativa, si poteva ricorrere a una corona di quercia o a una di palma[1].
I Giochi Panellenici ("di tutti i greci") erano competizioni sportive a carattere sacro che impegnavano tutte le città dell'Ellade (Grecia); una di esse, i Giochi Olimpici, ha dato ispirazione ai giochi olimpici moderni.
Giochi Panellenici è un termine collettivo con cui si indicano quattro diverse manifestazioni sportive che si tenevano nell'antica Grecia. I quattro eventi erano:
- I Giochi olimpici - i giochi più importanti e prestigiosi, si tenevano ogni quattro anni ad Olimpia nell'Elide ed erano dedicati a Zeus.
- I Giochi pitici - si tenevano ogni quattro anni nei pressi di Delfi ed erano dedicati ad Apollo.
- I Giochi nemei - si tenevano ogni due anni a Nemea ed erano anch'essi dedicati al semidio Ercole.
- I Giochi istmici - si tenevano ogni due anni nei pressi di Corinto ed erano dedicati a Poseidone.
I giochi sacri
Alcune feste religiose elleniche erano famose soprattutto per le gare sportive o musicali che vi si svolgevano, e che costituivano la maggiore attrazione della festa stessa. I grandi giochi sacri si svolgevano periodicamente in diverse sedi per onorare la divinità locale protettrice. Queste feste avevano un significato panellenico (dal greco “pan”, tutto, ed “ellenikos”, greco), ossia riguardavano tutto il mondo greco. Quei giorni di festa e di sana competizione erano un momento di unità e coesione in un mondo diviso dai contrasti politici ed economici.
CITTA’ SACRA DELLO
SPORT. Le rovine di Nemea sorgono fra le colline dell’Argolide, nel Nord-est
del Peloponneso, in mezzo a vigneti famosi di tutta la Grecia. Fondata nel VI secolo
a.C., la località sacra di Nemea, fu per circa tre secoli, teatro dei giochi
Nemei o Nemeidi, festività a cadenza biennale che chiudevano il ciclo dei
Giochi panellenici (comprendenti le più celebri Olimpiadi, i Giochi Istmici di
Corinto e quelli Pitici di Delfi). “In quanto sede di eventi sportivi a
carattere nazionale, Nemea era prima di tutto un luogo di culto”, spiega
Antonio Montensanti, archeologo e studioso dell’antichità. “Lo sport era
un’attività sacra agli dei, quindi doveva svolgersi sempre all’interno di uno
spazio religioso, dove le varie gare erano scandite da rituali e sacrifici in
onore di una specifica divinità”.
Tra le “capitali” dello sport,
Nemea era l’unica che, al pari di Olimpia, poteva vantare nientemeno che Zeus
quale divinità protettrice dei propri giochi, e per un atleta prendervi parte e
trionfare significava diventare un eroe, quasi un semidio. “Si partecipava a
una gara con il solo scopo di vincere. Non a caso il concetto di vittoria trovò
personificazione in una dea, Nike”, racconta Montesanti. Non stupisce quindi
che i giochi non prevederlo classifiche: per ogni competizione non esisteva
secondo o terzo posto, ma solo un vincitore. Questi, peraltro, era premiato con
una semplice corona vegetale, un’onoranza effimera: per questo i Giochi
panellenici erano definiti stephanital, da
Stephanos, “corona”. A Nemea l’atleta
era incoronato con una ghirlanda di sedano selvatico, una pianta che da quelle
parti aveva un significato molto particolare.
Antico stadio di
Nemea dove si disputavano le gare.
L’ENTRATA NASCOSTA. L’età d’oro di
Nemea iniziò nella prima metà del IV secolo a.C., quando i re macedoni (Filippo
II, forse il figlio Alessandro) promossero un radicale programma di
ricostruzione. Cuore della città-santurario era il tempio di Zeus, attorno a
cui orbitavano vari edifici con funzioni di albergo, un bagno termale e un
grande altare dove gli atleti si recavano per gli immancabili rituali
religiosi. Eseguiti gli obblighi cerimoniali, iniziava il divertimento. Orde di
spettatori si riversavano nei due principali impianti sportivi: l’ippodromo e
soprattutto il grande stadio, dotato di un campo di gara lungo 180 metri e i cui spalti
potevano accogliere fino a quaranta mila persone. Ma oggi a rendere unico il
sito di Nemea è che si sia conservato in pratica integro il “tunnel degli
spogliatoi”, quello che i Greci chiamavano Kripté
éxodos, o “entrata nascosta”. Si tratta di una galleria lunga circa 36 metri che, come negli
stadi moderni, dallo spogliatoio (apodytérion)
conduceva alla pista. Riportato alla luce nel settant’otto (vedi riquadro
sotto), il tunnel dello stadio di Nemea ha rappresentato per gli archeologi una
vera sorpresa. Come dichiarò Stephen Miller, allora direttore degli scavi,
“nessuno si aspettava di trovare una struttura simile risalente al IV secolo
a.C., poiché fino a qualche decennio fa si credeva che la volta fosse
un’invenzione dei Romani, che però a Nemea non misero mai piede”, spiega
l’esperto. Ieri come oggi il tunnel era un ambiente particolarmente “vissuto”
dagli atleti, che qui si ritrovavano a stretto contatto l’uno con l’altro
aspettando che l’araldo annunciasse il loro ingresso in campo, e nell’attesa
capitava che qualcuno smorzasse la tensione improvvisandosi writer. Lungo le
pareti della galleria sono stati scoperti numerosi graffiti, che vanno dai
semplici nomi propri degli atleti a frasi più complesse, espressione di gioia,
vanità o invidia. “Ho vinto!”, o Akròtatps
kalòs “Akrokato è bello”, in calce a qui qualcuno ha aggiunto…”per chi lo
ha scritto”.
L’entrata. Rovine dello stadio e della porta
d’entrata sempre dell’antica Nemea
Tunnel degli
spogliatoi
IN PISTA. Gli atleti, divisi in tre
categorie in base l’età, gareggiavano scalzi e rigorosamente nudi. A
supervisionare le competizioni erano gli hellanodkai
(i nostri giudici di gara), che a Nemea indossavano una lunga tunica nera (l’himàtion). Quanto alle discipline
sportive, erano quelle tipiche di tutti i giochi dell’antichità. Nello stadio
si disputavano gare di atletica, che andavano dalla corsa semplice (o Stàdion) alla corsa doppia (diàaulos) e al lancio del disco, fino al
più impegnativo doppio diulos, che
prendeva il nome di hìppios.
Immancabili erano inoltre il lancio del disco, il giavellotto e gli agoni da
combattimento, come la lotta, il pugilato e il pancrazio, un violento corpo a
corpo governato da pochissime regole, tra cui quella di non mordere
l’avversario. Ma la gara forse più spettacolare di tutte era l’hoplitodròmos, o “corsa dei soldati”, in
cui gli atleti gareggiavano con tanto di schinieri, elmo e pesante scudo, per
un peso complessivo che poteva raggiungere i venti chilogrammi. Spostandosi
dallo stadio al vicino ippodromo, di cui oggi rimangono solo poche tracce, si
poteva invece assistere alle molteplici gare ippiche, tra le quali spiccava la
corsa con le quadrighe. Quello dell’ippodromo era inoltre l’unico spazio in cui
potevano concorrere anche le donne (seppure non in prima persona), qualora
fossero state proprietarie di una scuderia.
Il
mito di Ofelte
All’origine
dei Giochi Nemei vi è un episodio leggendario riguardante Ofelte, figlio del
re-sacerdote di Nemea Licurgo (da molti assimilato al leggendario legislatore
di Sparta). Secondo il mito, al bambino era vietato toccare terra finché non
fosse stato capace di camminare da solo: l’aveva detto l’oracolo di Delfi. Un
giorno la nutrice Issipile, distratta dal passaggio dei “Sette contro Tebe”
(i guerrieri diretti all’assedio delle porte tebane), adagiò il bimbo su una
pianta di sedano. Qui Ofelte fu stretto dalle spire di un serpente e morì.
Per evitare il cattivo presagio, si decise di istituire dei giochi in memoria
del figlio del re. Così nacque la tradizione secondo cui i giudici dovevano
vestire il lutto e i vincitori indossare una ghirlanda di sedano.
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DECLINO E RINASCITA. Gi antichi
agoni spesso includevano anche gare musicali, in cui si confrontarono musici e
poeti. A Nemea, però, non furono mai organizzate, e a dimostrazione di ciò
manca del tutto ogni traccia di teatro. La città, come Olimpia, mantenne sempre
un programma prettamente sportivo. Le cose cambiarono nel corso del III secolo
a.C., quando le Nemeidi furono trasferite nella vicina Argo. “I giochi si
arricchirono a quel punto degli agoni musicali, ma ebbe nel frattempo inizio il
lento declino di Nemea. Non si conoscono le cause esatte del suo abbandono, ma
è certo che il sito perse progressivamente importanza fino a spopolarsi”,
continua Montesanti. Un breve periodo di ripresa si registrò in epoca bizantina,
quando, dall’VI secolo d.C., Nemea tornò a essere abitata. Ma la sacralità del
luogo era estinta da tempo, complici i decreti dell’imperatore Teodosio I, che
due secoli prima aveva posto il veto sui culti pagani, giochi olimpici
compresi. E a sancire per sempre la fine di Nemea furono le invasioni di tribù
slave nel Peloponneso, nei decenni a venire.
Dagli
scavi ai moderni giochi Nemei.
Se la storia di Nemea è emersa
dall’oblio lo si deve innanzitutto a Stephen Miller, archeologo
dell’Università della California Berkeley che nel
millenovecentosettantaquattro diede il via a un’intensa campagna di scavi
finalizzata in primis a riportare
alla luce lo stadio. Il successo maggiore fu il rinvenimento del tunnel degli
spogliatoi, una scoperta straordinaria che spinse le autorità locali a
impegnarsi per il ripristino dei Giochi Nemei, inaugurati nel 1996. Da
allora, si ripetono ogni quattro anni, contemporaneamente alle Olimpiadi.
Le gare di oggi Come da
tradizione, i giudici sono tenutu a indossare un himàtion (tunica) nero e gli atleti vincitori ricevono una
ghirlanda di sedano. Sono due le prove previste: òp stàdion (
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L’antica capitale dello sport ha
dovuto attendere più di un millennio per riscattare il prestigio, ma alla fine
ci è riuscita: oggi i suoi luoghi rivivono lo splendore di un tempo grazie ai
“Moderni Giochi Nemei”.
Articolo tratto da Focus storia n. 137 di Federica Campanelli - immagini e altri testi da wikipedia.
L’arte di curare è antica come l’uomo:
ma in Grecia tutto ebbe inizio con il culto di Asclepio a Epidauro.
Figura di Asclepio,
dal III secolo a.C., a Roma Asclepio sarà venerato con il nome latino di
Esculapio
“Quanti erano venuti con piaghe congenite, o
con membra ferite (…), devastati nel corpo da febbri d’estate o per il gelo,
Asclepio liberava ciascuno dal suo male. Alcuni guariva con incantesimi
delicati, ad altri faceva bere pozioni salutari o applicava unguenti alle
membra, e altri sanava con tagli…”. È con questi versi che nel V secolo
a.C., il poeta Pindaro, rivolgendosi al tiranno di Siracusa Ierone – afflitto
da una grave malattia – descriveva le imprese miracolose del dio Asclepio: per
i Greci il più sapiente e abile dei guaritori.
GLI ALBORI DELLA MEDICINA. Nel VI
secolo a.C., i malati in Grecia non andavano in ospedale, ma in visita al
santuario del dio Asclepio a Epidauro (Peloponneso). Era un’epoca in cui l’arte
medica era ancora avvolta da un’aura sacra, quella in cui il culto di Asclepio
acquisì una popolarità tale da diffondersi ben presto in ogni angolo della
Grecia, per poi varcarne i confini. Santuari dedicati a questa divinità sorsero,
infatti, nelle colonie greche dell’Italia Meridionale, in Sicilia e persino a
Roma, dove Asclepio sarà venerato dal III secolo a.C. con il nome latino di
Eusculapio. Tuttavia la meta del pellegrinaggio più frequentata, sin dalla sua
fondazione e per oltre un millennio, rimase sempre Epidauro. Luogo di culto e
“casa di cura” assieme, era un santuario gestito da sacerdoti-taumaturgi che,
attraverso elaborati rituali, garantivano ai malati l’intercessione divina. “Il
paziente ricorreva ad Asclepio quale estrema via di fuga dal dolore,
affrontando veri “viaggi della speranza” in moti casi coronati, stando alle
fonti, da successo”, racconta Giuseppe Squillace, epigrafista presso
l’Università della Calabria e autore del saggio i balsami di Afrodite. Medici, malattie e farmaci nel mondo antico (Aboca).
La scena non doveva essere molto diversa da quelle a cui potremmo assistere
oggi in uno dei tanti “santuari della salute”, dove masse di fedeli pellegrini
si riversano nella speranza di una grazia, offrendo poi ex voto testimonianza
della loro esperienza. Esattamente come accadeva nell’antica Epidauro, dove i
devoti riconoscenti ad Asclepio lasciavano in dono i pinakes, tavolette votive in cui era rappresentato l’episodio (di
solito miracoloso) dell’avvenuta guarigione. I quadretti, assieme alle sanationes, i resoconti dei sacerdoti
esposti nel santuario, hanno tramandato attraverso i secoli importanti
informazioni sui casi clinici più comuni. “Nel dettaglio, le patologie per le
quali si richiedeva più frequentemente l’intervento di Asclepio erano; vermi
intestinali, paralisi, sterilità, calcolosi, idropista, gotta e tumore”, spiega
l’esperto.
PER
PROBLEMI ALLA VISTA
Applicare due volte al giorno
una pomata oftalmica contenente gomma arabica, sterco di coccodrillo
terrestre, polvere di rame e bile di iena diluita nel miele
Ricetta attribuita
a Erofilo, medico del IV-III secolo a.C.
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SOGNO
GUARITORE. Tra il IV e il III secolo a.C., il santuario di
Epidauro diventò una monumentale “città della salute”. Ancora oggi si ammira
l’edificio in cui avvenivano le guarigioni: l’abaton (inaccessibile), un porticato lungo settanta metri adiacente
al tempio di Asclepio e cuore dell’area sacra. Era possibile accedere al portico
solo con offerte e sacrifici di animali in nome del dio: la povera vittima era
generalmente un gallo, simbolo della rinascita in quanto annunciatore del nuovo
giorno. Inoltre, il fedele era tenuto a sottoporsi a un rito di purificazione
che consisteva in un bagno nella vicina fonte termale, e già quest’operazione –
insieme alla generale salubrità dell’area in cui sorge Epidauro – offriva
beneficio fisico ai pellegrini. Una volta giunti nell’abaton, i malati ricevevano vari intrugli di erbe da ingurgitare e
si abbandonavano al sonno: era questo il momento saliente di tutto il rituale. I
fedeli trascorrevano la notte in attesa di essere liberati dai loro mali o che
il dio apparisse loro in sogno – detto “incubatorio” – per suggerire i giusti
trattamenti terapeutici. In caso contrario, il malato era comunque affidato
alle cure di sacerdoti e medici laici, tanto che presso il santuario sono stati
rinvenuti strumenti medici d’ogni foggia (conservati nel locale museo archeologico), tra cui bisturi, pinze, divaricatori
e trapani per cure odontoiatriche.
NEL
SANTUARIO DI EPIDAURO
Non solo
luogo di culto ma anche struttura ospedaliera.
Gli edifici del santuario
erano i seguenti:
THOLOS: la funzione di quest’edificio
circolare è ancora oggi poco chiara. L’ipotesi più accreditata è che qui si
custodissero i serpenti sacri.
ABATON: qui i malati venivano messi a
dormire il “sonno sacro”, grazie ad una visita in sogno del dio avrebbero
trovato la giusta cura.
TEMPIO DI ASCLEPIO: l’edificio,
realizzato dall’architetto Teodoto nel
Ricostruzione
del tempio
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Resti
dell’Abaton (che significa letteralmente l’inaccessibile), il porticato
adiacente al tempio di Asclepio. Per accedere alle cure nell’abaton i pazienti
dovevano prima purificarsi per tre giorni con digiuni e preghiere.
DAL SACRO AL RAZIONALE. La medicina sacrale la fece da padrona fino a V
secolo a.C. quando emerse un personaggio le cui dottrine rivoluzioneranno per
sempre il mondo medico: Ippocrate di Coo, fondatore di una medicina “razionale”
che prendeva finalmente le distanze dalla religione.
Secondo Ippocrate, la salute
dell’uomo e i suoi mali non avevano assolutamente nulla a che fare con il
sacro, e persino quella che era la “malattia degli dei” per antonomasia,
l’epilessia, fu per la prima volta attribuita a cause naturali e non a una
qualche punizione divina. Al medico di Coo si devono inoltre le prime cartelle
cliniche; per la medicina ippocratica era infatti fondamentale l’osservazione
della malattia.
La medicina troverà poi grande
sviluppo ad Alessandria d’Egitto, dove ebbero particolare rilievo gli studi di
anatomia grazie alle frequenti pratiche di dissezione: si narra che i sovrani
tolemaici,per amore della scienza, concedessero i corpi dei condannati a morte
come cavie. I medici alessandrini acquisirono così importanti nozioni sul
sistema cardiocircolatorio sul cervello, sulla struttura dell’intestino e sugli
organi riproduttivi. A dispetto di tali progressi, la medicina razionale non
riuscì rimpiazzare completamente quella religiosa. “I due ambiti rimasero
vicini e per molti versi complementari, mirando entrambi, seppur attraverso
pratiche differenti, alla cura delle malattie e al recupero della salute”,
conferma Squillace.
Ritratto di Ippocrate
DOLORI MESTRUALI
Applicare nel ventre un
cataplasma (impasto curativo) composto di vino nero novello, vari aromi e
farina; l’impasto va preventivamente cotto in vino bianco profumato.
Epidemie dal Corpus Hippocraticum,
V-IV secolo a.C.
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PER IL TRATTAMENTO DELLA LEUCORREA
Bevanda a base di papavero nella varietà bianco e rosso,
semi di acacia macerati in vino bianco con aggiunta di polenta fresca.
Malattie delle
donne
dal Corpus Hippocraticum,
V-IV secolo a.C.
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PER
FAVORIRE IL CONCEPIMENTO
Prima del ciclo mestruale,
applicare due volte al giorno un pessario (supposta vaginale) a base di
resina, cedro e grasso di bue.
Malattie delle
donne
dal Corpus Hippocraticum,
V-IV secolo a.C
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La
medicina secondo Galeno.
Galeno di Pergamo (Pergamo, 129[1] – Roma, 201 circa) è stato un medico greco antico, i cui punti di vista hanno dominato la medicina occidentale per tredici secoli, fino al Rinascimento, quando cominciarono lentamente e con grande cautela a essere messi in discussione, per esempio dall'opera di Vesalio. Dal suo nome deriva la galenica, l'arte di preparare i farmaci da parte del farmacista in farmacia.
Nel II secondo secolo d.c,
quando a Roma vigeva la più assoluta anarchia in campo medico, si distinse la
figura di Galeno. Formatosi alla scuola medica di Alessandria, approfondì le
sue competenze in chirurgia sul campa come medico dei gladiatori a Pergamo,
sua città natale, e poi venne chiamato alla corte imperiale di Marco Aurelio.
Rifacendosi agli scritti di Ippocrate, divulgò la teoria umorale; le cure
dovevano cercare di bilanciare all’interno del corpo quattro elementi
(sangue, bile gialla, flegma e bile nera). La sua dottrina influenzerà la
medicina occidentale fino al Rinascimento.
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VERSO IL TRAMONTO. Il culto di
Asclepio a Epidauro fu uno dei più longevi dell’antichità. Pur fra alti e bassi
sopravvisse infatti a una serie di mutamenti storici, superando tra l’altro la
furia devastatrice degli invasori barbari del III secolo e riuscendo persino a
tener testa all’affermazione del cristianesimo che occupò il posto dei riti
pagani. Almeno fino al 426, quando l’imperatore romano Teodosio II (408-450) lo
vietò per sempre. Del santuario che ospitò un tempo il culto del dio della
medicina rimane oggi importante traccia nel sito archeologico di Epidauro,
dove, oltre agli edifici sacri e agli alloggi riservati a sacerdoti e
pellegrini restano lo stadio del V secolo a.C., e un maestoso teatro (350 a .C.), famoso in tutto il
mondo per la sua acustica. Come ogni divinità che si rispetti, infatti, anche
per Asclepio venivano organizzate delle feste, le Asclepiele, annoverate tra i
giochi minori dell’antica Grecia. Comprendevano anche competizioni sportive e
musicali: assistere a rappresentazioni teatrali era anzi considerata parte
integrante della terapia. Dopotutto, per i Greci corpo e mente erano un’unic
IL MITO
ASCLEPIO
Asclepio era figlio del dio
Apollo e di Coronide (Arsinoe secondo il racconto di Esiodo), una donna
mortale. Fu strappato dal grembo della madre mentre questa moriva trafitta da
un dardo scoccato dalla dea Artemide. La “mente” del gesto fu Apollo, furioso
per il tradimenti di Coronide consumato con Ischi. Enfant prodige, il bambino
fu affidato al centauro Chirone, che lo educò alla scienza medica. Asclepio
divenne tanto abile da suscitare le invidie di Zeus, che lo uccise con una
folgore. Tuttavia, pentitosi del gesto, il padre degli dei lo riportò in
vita, promuovendolo da semidio a divinità minore.
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Articolo
di Federico Campanelli su Focus storia n. 13 7. Altri testi e immagini da Wikipedia.
Piccolissima ma strategica, era terra
sacra del dio del Sole. E divenne centro della più importante alleanza greca
contro il grande nemico: i Persiani.
Predatore. Busto di
Pericle di Atene nel periodo del suo predomino della Lega antipersiana.
Fece trasportare la
cassa dell’alleanza da Delo alla sua città.
L’isola vista dal
mare.
Con i suoi sei chilometri di
lunghezza e poco più di uno di larghezza, Delo è un fazzoletto di terra in
mezzo all’Egeo. Eppure il mito e la storia greca vi si intrecciano nel
profondo. Qui si diceva fossero nati Apollo e Artemide, i gemelli che Leto ebbe
dal grande Zeus in barba alle ire di Hera, e sempre qui trovò il suo baricentro
la Lega
delio-attica, ricetta ateniese per il dominio sulla Grecia del V secolo a.C.
Questa minuscola terra sacra p entrata nella Storia con la S maiuscola, e in particolare in
quella dell’imperialismo di Atene in età classica.
Ma come mai la piccolissima Delo diventò così importante? Intanto per la
sua posizione: essendo al centro dell’arcipelago delle Cicladi, era uno snodo
fondamentale sulle rotte tra Grecia, Asia Minore e Creta.”Non per nulla fece
gola agli Ioni che la occuparono fin dal
La via dei leoni
Cartina di Delo
Come centro federale si scelse il
santuario di Delo, che ospitò le assemblee degli alleati e la cassa comune per
le spese militari, gestita dai cosiddetti ellenotami
(i tesorieri degli elleni). La scelta di Delo non era casuale: il suo
santuario era noto a tutti i Greci e Apollo era una divinità panellenica, cioè
venerata ovunque nel mondo greco (si pensi a Delfi, dove il dio “parlava” per
oracoli tramite la sua sacerdotessa, la Pizia ). Piazzare li il centro dell’alleanza
serviva ad incrementarne la coesione. Non che l’idea fosse innovativa: il
modello era quello delle anfizionie, leghe sacrali di popoli o città con al
centro un santuario comune. Alleati dunque, ma vincolati da Apollo oltre che
dai patti, dalla religione oltre che dalla politica. Le regole del gioco erano
chiare. I membri dovevano scegliere: o fornire navi alla flotta federale (ma,
oltre ad Atene, solo Samo, Schio e Lesbo potevano permetterselo) o pagare un
tributo annuale per gli obbiettivi comuni, il phoros. L’originario ammontare di quest’ultimo fu stabilito, guarda
caso, da un ateniese, Aristide. Ateniesi erano poi i dieci ellenotami, gente sommersa di lavoro: si assicuravano infatti che
tutti gli alleati pagassero quanto dovuto e gestivano il tesoro, destinato
all’allestimento e al mantenimento della flotta comune.
A Delo, dove secondo il mito era nato Apollo, sorgeva il secondo più
grande santuario in suo nome dopo quello di Delfi. Era antichissimo (le prime
notizie risalgono all’VIII secolo a.C.) e pieno di monumenti, come un lago
artificiale con cigni e oche sacre al dio o la spettacolare terrazza decorata
con leoni di marmo.
Il carattere sacro dell’isola attirò molti altri sovrani greci
desiderosi di tenervi pubbliche cerimonie: tra questi il tiranno ateniese
Pisistrato (ca.
PORTO FRANCO. Neanche dopo la guerra del Peloponneso il santuario
perse prestigio, visto che fu il centro di una seconda lega ateniese
(trecentosettantasette a.C.) e della lega degli Isolani, istituita alla fine
dei IV secolo forse dal macedone Antigono. Con la conquista romana, nel II
secolo a.C., Delo divenne un importante porto franco, ma lentamente la sua
fortuna declinò fino all’abbandono. Data la maestosità e la lunga storia del
santuario dal 1990 il complesso archeologico è tra i patrimoni dell’umanità
dell’Unesco.
Panorama con il tempio di Apollo
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ALLEANZA FORZATA. Questa è la
teoria, ma ben diversa fu la pratica: la lega divenne presto il puntello
dell’egemonia di Atene sull’Ellade, altro che coalizione antipersiana. Doveva
proprio finire così? Difficile negarlo. Fin dalla nascita della lega gli
Ateniesi superavano gli alleati per ricchezza, influenza e navi. In più la
struttura della confederazione, invece di arginare gli squilibri, li aggravava:
preferendo il tributo alla fornitura di navi, gli alleati finanziarono a cuor
leggero l’ampliamento della flotta ateniese, perché era li che finivano i fondi
comuni. E il monopolio della forza, manco a dirlo, tramutò Atene da alleata di
prestigio in padrona di tutto e di tutti. Almeno per un po’, comunque, la polis dominante combatté davvero contro la Persia. Ma la verità era che il
nemico a oriente non faceva più paura a nessuno. Casomai era Atene a spaventare
gli alleati: se uno di essi tentava di dissociarsi, la potenza egemone lo
costringeva a ripensarci, in genere con le un maniere forti.
Il meglio però doveva ancora
arrivare, perché l’apice dell’imperialismo di Atene coincise con l’apogeo della
sua democrazia. Personificazione di queste tendenze fu un colto aristocratico
amante del popolo di nome Pericle. Dopo l’ostracismo del rivale Cimone e la
misteriosa morte dell’alleato Efialte (426 a .C.), fu lui a monopolizzare la scena
ateniese con il suo orientamento antispartano e le sue idee da
democratico-radicale. Il tutto condito da una politica estera all’insegna della
prevaricane: guerra con i Persiani, guerra con i Spartani, guerra con i Boeri.
Risultati pochi, morti tanti.
IL MITO
Dio del Sole (di cui traina il carro), di tutte le arti, della musica, della profezia, della poesia, delle arti mediche (il dio della medicina è infatti suo figlio Asclepio), delle pestilenze e della scienza che illumina l'intelletto, il suo simbolo principale è il Sole o la lira. In seguito fu venerato anche nella Religione romana.
In quanto Dio della poesia, è il capo delle Muse. Viene anche descritto come un provetto arciere in grado di infliggere, con la sua arma, terribili pestilenze ai popoli che lo osteggiavano. In quanto protettore della città e del tempio di Delfi, Apollo è anche venerato come Dio oracolare capace di svelare, tramite la sacerdotessa, detta Pizia, il futuro agli esseri umani; anche per questo era adorato nell'antichità come uno degli dei più importanti del Dodekatheon.
Stando al mito, Zeus non era esattamente un
marito fedele. Anzi non passava giorno senza che Hera scoprisse una sua
scappatella con l’amante di turno. Una di queste fu Leto (Latona per i
Romani), della nobile stirpe dei Titani. Il guaio è che rimase in cinta e
Hera, furiosa, le aizzò contro il serpente Pitone e le proibì di partorire in
qualunque terra o isola. Così Leto vagò per mari e monti finché non trovò
rifugio in un piccolo scoglio errante per i mari, chiamato Ortigia. Visto
che, galleggiando sull’acqua non era un’isola vera e propria, qui partorì due
gemelli, Artemide e Apollo. Da allora Ortigia rimase ancorata al suolo
(secondo alcune versioni per volere di Poseidone) e prese il nome di Delo,
ossia “la luminosa”, in onore del dio della luce che vi nacque.
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PROVA DI FORZA. Dentro la lega,
invece, i risultati ci furono, assicurati da un’arroganza senza limiti. Il
punto di non ritorno fu il 454
a .C., l’anno in cui Pericle trasferì la cassa comune del
santuario di Delo al santuario di Atena sull’Acropoli di Atene. La scusa fu,
che dopo una recente disfatta contro i Persiani in Egitto, il tesoro andasse
spostato in luogo più sicuro. L’atto, in realtà era carico di significati;
della confederazione Atene non era più soltanto la capitale di fatto, ma anche
di diritto. Questa specie di prova di forza, come c’era da aspettarsi, valse a
Pericle monte critiche da parte dei suoi oppositori, che lo accusavano di aver
suscitato un odio profondo nella lega e sottoposto gli alleati alla tirannide.
Il gesto, inoltre, aveva un che di sacrilego, in quanto pericolosa offesa al
dio Apollo e al suo rinomato santuario.
Da allora nessuna decisione fu
presa in comune e i tributi furono destinati quasi esclusivamente alle esigenze
della polis dominante. Nel 449 a .C. gli Ateniesi
siglarono con i Persiani la pace di Callia.. Eppure, liquidata la minaccia
della Persia, l’alleanza di tra città-stato continuò ad esistere. Perché? Da
tempo si era tramutata in strumento dell’egemonia di Atene sul mondo greco. In
pratica la Lega
delio-attica era ormai soltanto attica. Come spiega Peter Funke nel suo Atene nell’epoca classica (Il Mulino),
era stato compiuto il passo decisivo verso “la trasformazione della lega navale
in un impero marittimo ateniese e verso la riduzione degli alleati alla
condizioni di sudditi”.
L’IRA DI APOLLO. Nell’età di Pericle
Atene era ormai un impero. Sui generis però: le poleis alleate (poco meno di 250 a metà secolo!) restavano pur sempre
formalmente autonome. Se pagavano il tributo sorridevano alla dominazione
ateniese e non avevano problemi. I guai li passava invece chi defezionava,
basta poco per vedersi piombare decine di triremi. Di tutto ciò Pericle andava
fiero: “siamo i Greci che hanno
esercitato il loro dominio sul maggior numero di altri Greci, che hanno
sostenuto le guerre più dure resistendo contro nemici riuniti in coalizione,
ovvero isolati, che sono vissuti nella città più grande e meglio fornita di
ogni risorsa”.
Ma sulla favola ateniese calò la
guerra distruttrice, ricordata come guerra del Peloponneso (431-404 a .C.). Atene contro
Sparta, Lega delio-attica contro Lega peloponnesiaca. In palio c’era il dominio
sulla Grecia intera. Le prime fasi del conflitto furono sanguinose, ma non
portarono a nulla. Dopo la tragica disfatta, della spedizione contro Siracusa (415.413 a .C), iniziò
invece il calvario di Atene. Con Sparta che metteva a soqquadro l’Attica e che
rimpinguava le sue casso con oro persiano, le speranze ateniesi erano ridotte
all’osso. Gli alleati della lega certo non aiutavano, perché videro nella
guerra l’occasione buona per sganciarsi dalla potenza egemone. Atene però fu
spietata che mai. Agli abitanti di Milo, per esempio, colpevoli di neutralità,
riservò il massacro dei maschi adulti e la schiavitù del resto della
popolazione.
Nel 404 a .C., dopo tante
battaglie, Atene si arrese a Sparta, che la costrinse a rinunciare ai
possedimenti fuori dall’Attica e, soprattutto, a dissolvere la lega. Col senno
di poi, sarebbe stato meglio non far adirare Apollo.
Articolo di Giulio Talini su Focus Storia n.137 , immagini e altri testi scaricate da Wikipedia
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