CHIEDI ALL’ORACOLO
In Grecia nessuno iniziava una guerra o
firmava una pace senza aver chiesto una profezia. Così i santuari divennero
centri di potere.
Pianta del sito di Delfi:
Periodo arcaico
Periodo classico
Periodo ellenistico
Periodo romano
1.Tempio di Apollo 2.Altare di Apollo (Altare di Chio) 3.Halos 4.Bouleuterion 5.Pritaneo 6.Teatro 7.Santuario di Dioniso8.Santuario di Gea 9.Santuario di Neottolemo 10.Lesche degli Cnidi 11.Stoà degli Ateniesi 12.Stoa di Attalo 13.Stoà degli Etoli14.Tesoro degli Ateniesi 15.Tesoro dei Sifni 16.Tesoro di Sicione 17.Tesoro degli Eoli 18.Tesoro dei Beoti 19.Tesoro degli Cnidi 20.Tesoro di Corinto 21.Tesoro di Cirene 22.Tesoro dei Megaresi 23.Tesoro della Potidea 24.Tesoro dei Tebani25.Roccia della Sibilla Delfica 26.Colonna di Prusia II 27.Colonna di Emilio Paolo 28.Colonna di Naxos 29.Colonna serpentina di Platea 30.Daochos votivo o Monumento dei Tessali 31.Monumento di Krateros 32.Carro di Rodi 33.Esedra dei Re di Argo34.Esedra degli Epigoni 35.Altare votivo di Taras 36.Altari votivi di Atene, Arcadia, Argo e Sparta 37.Toro di Corcira 38.Muro del Temenos 39.Agorà romana 40.Via sacra 41.Sentiero per lo Stadio
Se non ve
la sentite di affrontare la giornata senza aver dato prima un’occhiata
all’oroscopo, capite bene cosa provavano gli antichi Greci, che non prendevano
alcuna decisione importante senza interpellare uno dei loro (numerosissimi)
oracoli. I padri della filosofia occidentale erano infatti convinti che gli
dèi, primo fa tutti Apollo, la divinità oracolare per eccellenza, rivelassero
il futuro con messaggi criptici riferiti poi da indovini e profetesse. All’uomo
spettava il compito di chiarirli, perciò, se un oracolo falliva, la colpa era
solo di chi ne aveva male interpretato le parole. Se già nel I secolo a.C. lo
scettico Cicerone bollava le profezie come “superstizioni”, allora perché per
gli abitanti dell’Ellade erano così importanti? “La religione greca, come quella romana, non aveva
un testo rivelato in cui cercare risposta a ogni quesito, com’è la Bibbia per i cristiani: al
suo posto usavano gli oracoli”, spiega il filologo classico Giuseppe Baldi,
docente all’Università di Firenze e autore del saggio Oracoli, santuari e altri prodigi. Sopralluoghi in Grecia (Quodlibet).
In Grecia se ne contavano a decine, spuntati per lo più tra il VII e il VI
secolo a.C., periodo in cui il sentimento religioso era particolarmente forte.
Fonti, grotte e luoghi legati al mondo sotterraneo ma anche alberi e boschi
sacri: non c’era regione nell’Ellade che non ne possedesse uno. Gestiti da
corporazioni di sacerdoti che si occupavano anche di tenere un archivio di
tutti i responsi, avevano per lo più
importanza locale, salvo pochi casi famosi, visitate da folle di
pellegrini. Il ricchissimo oracolo di Apollo a Delfi era uno di questi.
Priestess of Delphi (1891) di John Collier. Assisa sul tripode, la Pizia subisce l'effetto del pneuma che promana dal basso
MESSAGGI CRIPTATI. A partire dalla guerra di Troia, nessuno andava in battaglia, stipulava una pace o fondava una colonia senza chiedere consiglio alla sua profetessa, la Pizia, che vaticinava in una cella scavata sotto il tempio del dio in preda (secondo gli studiosi moderni) all’effetto tossico dei gas sotterranei che si sprigionavano da una fenditura del pavimento. Le sue ambigue risposte in versi avevano quindi un’importanza più politica che religiosa. E siccome non era un segreto che la star di Delfi parteggiasse per i più forti, l’anfiziona delfica, cioè la confederazione di 12 poleis che si occupava della custodia del santuario, doveva garantire la neutralità.
“Gli oracoli greci, quello di Delfi in particolare, erano una sorta di ministero panellenico che traeva la sua autorità dalla divinità e dava coerenza e unità alla politica interna e estera delle diverse comunità indipendenti della Grecia”, conferma l’esperto. Persino gli ecisti, conduttori scelti per guidare gli le nuove colonizzazioni, si rivolgevano alla Pizia per sapere dove dirigere le prue delle loro navi: ma più che l’ispirazione divina, a guidarli erano le informazioni raccolte dai sacerdoti di Delfi grazie al viavai di pellegrini e delegazioni straniere. Non solo i Greci, ma tutto il mondo mediterraneo riconosceva il prestigio del santuario di Apollo. “Delfi era considerato l’ombelico del mondo. Persino la storia di Roma repubblicana comincia con un oracolo della Pizia ai figli di Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma: chi avesse baciato per primo sua madre sarebbe stato il prossimo sovrano. Ma solo il cugino, Lucio Giunio Bruto, capì: tornato a Roma finse di incimapre e baciò la madre terra. Cacciò così Tarquinio e instaurò la repubblica”, raconta Baldi
L’ALTRA PIZIA: SIBILLA
Dice la mitologia che Sibilla fosse il nome della prima sacerdotessa di Apollo, un’indovina troiana che rivelava agli uomini le profezie del dio trascrivendole sulle foglie delle piante. Data la sua grande fama, quel nome venne dato poi a tutte le profetesse vergini che ora colavano in trance, ispirate dalla divinità. L’autore romano Marco Terenzio Varrone (116 a.C) ne ricorda dieci sparse in tutto il mondo antico: in Grecia, in Africa, in Asia Minore, e in Italia. Una in particolare era quella della città di Cuma, in Campania. Si diceva che nel VI secolo a.C. si fosse presentata al re di Roma, Tarquinio il Superbo, per vendergli nove libri di oracoli.
PAROLE INFUOCATE. Ogni volta che il sovrano rifiutava la sua offerta, lei ne bruciava tre: infine Tarquinio acquistò gli ultimi tre libri sibillini e li depose nel tempio di Giove Capitolino, perché fossero consultati in caso di disgrazie, prodigi o fatti straordinari. Nell’83 a.C. andarono distrutti in un incendio.
Una kylix attica a figure rosse del440-430 a.C, opera del Pittore di Kodros, conservata presso l'Antikensammlung di Berlino. In questa immagine Egeo, il mitico re di Atene, consulta non la pizia, ma la deaThemis, divinità della legge e inEschilo seconda detentrice dell'oracolo, assisa sul bacile di un tripode (τρίπους) di foggia simile a quelli usati per bollire le carni sacrificali[22].
INTERPRETAZIONI. Se Apollo poteva contare su uno stuolo di donne pronte a oracolare in suo nome, l’oracolo più antico di tutto la Grecia, quello di Dodona, apparteneva invece a Zeus. A dargli voce erano i Selli, che fornivano responsi interpretando il fruscio delle foglie della quercia sacra al padre di tutti gli dèi. Decisamente meno bucolico, l’oracolo di Ermes, nella piccola città di Pharai (Peloponneso), rispondeva solo a bisbigliava la sua domanda alla barbuta statue del messaggero degli dèi, posta nell’agora. Il consultante doveva allontanarsi con le orecchie tappate: le prime parole udite fuori dalla piazza corrispondevano al responso del dio. E non era comunque il modo più bizzarro per ricevere un vaticinio.
Chi voleva risposte semplici e a buon mercato si recava nell’antro Coricio (vicino a Delfi), dalle Trie, le tre ninfe sorelle che secondo la leggenda avevano insegnato ad Apollo l’arte di prevedere il futuro. Bastava offrire loro qualche goccia di miele. Fare la domanda a voce alta e tirare gli astragali (gli ossicini del piede della pecora, che gli antichi usavano come dadi da gioco): ogni combinazione ottenuta corrispondeva a un responso. A Oropo, città beota sul golfo d’Eubea,
Anfiarao
recapitava invece le proprie profezie in sogno. Addormentato sulla pelle
dell’ariete appena sacrificato, l’uomo mandato a consultare l’oracolo su
incarico del generale persiano Mardonio vide un sacerdote che voleva scacciarlo
dal tempio con una sassata: la visione diventò chiara quand Mardonio morì
colpito da un masso nella battaglia di Platea (quattrocentosettantanove a.C.).
Ma in Beozia, terra di indovini, era facile passare dal sogno all’incubo:
soprattutto se si andava a Livadeia per interrogare l’oracolo Trofonio, un
demone dispensatore di vaticini. Ottenere le sue risposte era un’esperienza
terrificante: il lungo percorso verso gli inferi cominciava con preghiere e
finiva risucchiato nell’antro oracolare attraverso una fenditura. Una volta
visto o udito ciò per cui era venuto, tornava a casa svenuto e raccontava tutto
ai sacerdoti.
IL MITO
L’ORACOLO DI DELFI
Vista generale del tempio di Apollo a Delfi
La grotta dell’oracolo di Delfi era considerata sacra fin dal II
millennio a.C.: all’epoca però apparteneva a Gea,
|
SILENZIO. I Greci erano disposti a tutto pur di placare le
loro ansie da profezia: persino disturbare i defunti. Accadeva nel Necromanteion, “l’oracolo dei morti” di
Efira (oggi Cichira), in Epiro. Dopo una dieta a base di erbe allucinogene, i
sacerdoti guidavano il postulante fino al cuore sotterraneo del santuario.
“Richiamate dal negromante, apparivano le ombre dei defunti per rispondere alle
domande. Ma quello che accadeva lì sotto rimaneva segreto, pena la perdita
dell’anima”. La cosa non spaventò i Romani, che nel centosessantasette a.C., distrussero
quel luogo magico. Fu in quel periodo che in Grecia gli oracoli cominciarono
poco a poco ad ammutolirsi. “Insieme ai grandi santuari e ai giochi
panellenici, quelli erano i luoghi in cui i Greci si riconoscevano come un
unico popolo, non solo come Ateniesi, Spartani, Tebani e così via.”, prosegue
l’esperto. “Quando la Grecia
diventò una provincia dell’Impero romano, gli oracoli persero di significato”.
Nel II secolo d.C. a crisi diventò tangibile. “Il cristianesimo aveva
introdotto quel testo sacro che alla religione greca mancava. Gli oracoli non
erano più l’unico canale per sentire la voce di Dio, anzi, quella degli oracoli
diventò la voce di falsi idoli da distruggiere”, conclude Baldi. L’ultimo
vaticinio delfico a noi noto, pronunciato nel 362 d.C. per Giuliano l’Apostata,
l’imperatore che cercò di rianimare inutilmente il paganesimo, ne è la prova: “Dite al re che la sala ben costruita é
rovinata al suolo. Apollo non ha più ima dimora, non più un alloro profetico,
non più una fonte che parli. Anche l’acqua gorgogliante è muta”. E da
allora la Pizia
tacque per sempre.
Articolo di Maria Leonarda Leone su
Focus storia n. 137 - altri testi e immagini da wikipedia.
FACCIAMONE
UNA TRAGEDIA
Per i Greci il teatro
non era un passatempo: nato per celebrare Diònisio, era anche un rituale messo
in scena per rafforzare lo spirito della polis.
Tragedia significa “canto del capro”: l’origine di questo genere era
legata ai sacrifici animali dei culti dionisiaci.
Il
teatro è un’invenzione greca per eccellenza, un po’ come la democrazia. Che
fosse commedia o tragedia, il primo ingrediente era sempre il mito. Poi, se
serviva, si aggiungeva qualche riferimento alla vita quotidiana degli
spettatori., per dare un pizzico di pepe. E spesso si finiva per alludere alla
politica della polis: tra gli
argomenti più gettonati, i Persiani, nemici per antonomasia della Grecia,
immortalati al meglio nell’omonima tragedia di Eschilo. Il teatro però, era
prima di tutto legato con la religione. Lo confermano le sue origini storiche.
Il primo genere pare sia stata la tragedia e chi la inventò, stando alla
tradizione, fu il leggendario Tespi, che con il suo carro girava l’Attica del
VI secolo a.C. in cerca di pubblico per i suoi spettacoli. Nella Poetica però Aristotele racconta che la
tragedia nacque nell’improvvisazione di coloro che intonavano il dirirambo, un
canto corale in onore di Diònisio, ispirato da litri e litri di vino. Ci si
riuniva in gruppo danzando e cantando, per onorare questa divinità che
rappresentava , oltre all’ebbrezza e alla liberazione dei sensi, anche la forza
vitale dell’energia creativa. Per questo ad Atene le tragedie andavano in scena
proprio durante le festività dionisiache: le Grandi Dionisie e le Lenee. Perfino
il termine greco tragoìdia rimanderebbe
al dio del vino: nella parola, oltre al canto (oide), c’è il riferimento al capro (tragos), l’animale che veniva sacrificato nei riti dedicati a
Diònisio. Anche l’invenzione della commedia, che risale agli inizi del V secolo
a.C., è probabilmente connessa al dio del vino. Aristotele individua la sua
origine nei canti che accompagnavano il kòmos,
un rito orgiastico che partiva con un affollato corteo in cui svettavano
grandi falli. Durante la processione si danzava e si cantava a perdifiato, per
poi finire esausti fra le braccia di Diònisio. Il legame del teatro con il mito
non è dunque in discussione. Legame che, tanto nella commedia quanto nella
tragedia, lasciò il segno sui personaggi e sui temi che si mettevano in scena,
quasi sempre presi dai racconti mitologici: era normale, infatti, vedere sul
palco Diònisio, Eracle o Atena, ognuno con le sue umane debolezze.
IL TEATRO
AL TEMPO DI ESCHILO.
Urla, tafferugli e lanci di
oggetti: assistere a una rappresentazione teatrale nell’antica Grecia era quasi
come andare allo stadio oggi.
Per gli Ateniesi del V secolo a.C.
andare a teatro era molto diverso da oggi: gli spettacoli si tenevano solo in
alcuni periodi dell’anno (per tre o quattro giorni, in concomitanza con gli
agoni drammatici, gare liturgiche dedicate agli déi), mai di sera e non erano
previste repliche. Lo spettacolo prevedeva vari tipi di esibizioni: al coro
infatti era affidato l’arduo compito di recitare, ballare, cantare. Gli
spettatori, di solito conoscevano bene trame e personaggi, che erano tratti dalla
mitologia, quindi il valore aggiunto era la fantasia dell’autore: ciascuno era
tenuto a rielaborare il mito a modo suo. E il pubblico non era passivo, ma
partecipava attivamente: poteva addirittura indurre l’autore o gli interpreti a
cambiare un verso o la scena di un dramma. E se un attore non era portato
perl’improvvisazione? Partiva un lancio serrato di fichi, o ancora peggio di
sassi.
Biglietto prego. Ad Atene l’evento più atteso erano le
Grandi Dionisie, in onore del dio Diònisio, che si celebravano a fine marzo. Il
biglietto costava due oboli (che corrispondevano più o meno alla paga
giornaliera di un operaio) ma una volta entrati si poteva usufruire
gratuitamente di un banchetto a base di cibo e vino. I finanziamenti per questi
spettacoli venivano elargiti dalle tasche degli Ateniesi più ricchi, in cerca
di prestigio sociale. La differenza nell’allestimento di uno spettacolo la
faceva il “corego”: quelli più generosi procuravano costumi elaborati e
ingaggiavano attori famosi; i più tirchi invece non si prodigavano neanche per
offrire il tanto agognato banchetto.
La commedia o la tragedia erano composte da:
LE MASCHERE: la mimica
facciale non contava perché si recitava indossando maschere di cartapesta o
cuoio, che forse fungevano anche da megafono.
IL CORO: declamava,
cantava e danzava. Comprendeva 12 coreuti nella tragedia e 24 nella commedia.
I COSTUMI: in ogni
dramma c’erano più ruoli che attori: si passava con disinvoltura da un chitone
maschile a maliziose vesti femminili fino al perizoma da satiro (con fallo
posticcio).
IL PROTAGONISTA:
all’inizio c’era solo un attore in scienza. Eschilointrodusse il secondo attore
e Sofocle il terzo.
RUOLI FEMMINILI: le
donne non potevano recitare. I personaggi femminili venivano interpretati da
uomini travestiti.
DEUS ES MACHINA: il dio
piombava in scena nel momento clou per risolvere la situazione
ALTA MECCANICA: gli déi,
per entrare in scena al momento giusto, venivano calati dall’alto con un
sistema di gru e carrucole.
TEATRO DI STATO. Ma non era solo per gli déi che si andava a teatro.
C’era ben altro: nello spettacolo teatrale il pubblico voleva vedere il mondo
“terreno”. Il protagonista dialogava e gli spettatori partecipavano “facendo il
tifo” proprio come il cittadino era parte attiva della polis. E si tornava sempre alla vecchia domanda, tipica di Atena:
come conciliare ambizioni e desideri dell’individuo con le esigenze della
collettività? Una questione spinosa alla quale anche il teatro cercò di dare
una risposta. Riflessioni sulle colpe e sulle passioni umane erano sempre al
centro dell’attenzione: per esempio, la condanna della hybris (letteralmente “tracotanza”), ovvero la presunzione degli
uomini di poter sfidare i limiti posti dagli déi rompendo così l’equilibrio tra
sfera umana e divina (che dovevano restare separate), avveniva anche attraverso
le rappresentazioni teatrali. La valenza “educativa” dello spettacolo era
fondamentale. Ecco perché lo stato ateniese si assicurava che la cittadinanza
andasse a teatro: i più facoltosi erano tenuti a pagare la coregià, un tributo per allestire i cori mentre i poveri non
pagavano.
Ma
andare a teatro non significava solo rivivere le storie della mitologia. Era
anche una questione politica. Commediografi e tragediografi spaziavano dai grandi
dibattiti sull’etica della polis fino
alle ultime news, al personaggio politico o alle guerre in corso: come quelle
con gli eterni nemici: i Persiani.
L’incontro-scontro
con i “vicini” a Oriente, fu traumatico per i Greci, perché entrambe le Guerre Persiane
misero a repentaglio la loro libertà : nella prima fu Atene a scacciare il
possente esercito del re Dario I con la battaglia di Maratona (490 a .C), nella seconda per
fronteggiare la terrificante avanzata di Serse ci volle una lega tra più poleis, che ebbe la meglio solo dopo
innumerevoli battaglie tra il quattrocentoottanta e il quattrocentosettantanove
a.C. (una su tutte Salamina). Imprese eroiche, vittorie miracolose, oracoli
salvifici: le Guerre Persiano furono esaltate e si trasformarono a loro volta
in mito. Così almeno le percepivano i molti Greci che vi presero parte, forse
perché se l’erano vista davvero brutta.
Fatto
sta che il teatro se ne appropriò, fin da subito a pari passo con la
storiografia. In pratica, era come se andando a teatro un ateniese vedesse le
differenze fra i Greci (incorruttibili, eroici e pieni di virtù) e i Persiani
(straricchi e viziosi). Oltretutto né la Persia né la sua minaccia erano scomparse: un
motivo in più, questo, per occuparsene.
Il dolore va in scena.
Éschilo (sopra)
nacque nel
Eredità. Morì durante il suo secondo viaggio siciliano, a
Gela, intorno al
|
Fu con Éschilo che i
Persiani assunsero, anche a teatro, il ruolo di nemico pubblico numero uno.
CI VOREBBE UN NEMICO. Il primo a mettere in scena tragedie sull’onda del
patriottismo antipersiano fu Frinico vissuto tra VI e V secolo a.C., ad Atene.
Il
suo dramma intitolato La conquista di
Mileto messo in scena nel 492
a .C., raccontava della caduta di Mileto sotto le armi
persiani, tragica fine della cosiddetta rivolta ionica (499-493 a .C.).
Gli
Ateniesi erano sensibili all’argomento perché avevano inutilmente appoggiato i
ribelli e Frinico li commosse. Forse anche troppo: “tutto il teatro scoppiò in lacrive” , racconta lo storico Erodoto,
e, per aver rievocato una “sciagura
nazionale”, a Frinico “fu inflitta
una multa di mille dracme”. Si vede che il clima non era degli migliori…
Gli
andò invece meglio con le Fenicie del
quattrocentosettantasei a.C., in cui raccontava le vittorie greche nella
Seconda guerra persiana dal punto di vista degli sconfitti. Lo “sponsor” che
pagò la coregià di questa tragedia fu
Temistocle, il vincitore di Salamina, forse in cerca di propaganda. Fu con
Éschilo, però, che il tema del nemico pubblico numero uno, i Persiani,
raggiunse le più alte vette teatrali. Tanto per cominciare la vita dell’autore
era tutto un programma: aveva combattuto a Maratona, Salamina e pure a Platea,
e cioè nelle principali vittorie contro i Persiani. C’è poco da stupirsi quindi
se ai nemici di sempre dedicò una tragedia., I Persiani, appunto, che tra l’altro è la più antica pervenutaci
integra.
Messo
in scena nel quattrocentosettantadue a.C., il dramma racconta della disfatta di
Serse dal punto di vista persiano. La scena si svolge a Susa, in un clima di angoscia crescente. A un certo
punto un araldo dà l’annuncio più temuto: l’armata persiana è stata annientata
a Salamina. Atossa, la madre di Serse, evoca allora lo spettro di Dario I, il
defunto marito.
Éschilo
gli mette in bocca la legge delle leggi “…non
deve chi è mortale essere troppo superbo”. Serse, nella visione del
tragediografo, se ne era infischiato arrivando addirittura a a credersi un dio:
a causa della sua tracotanza sfrenata (la hybris
di cui sopra) aveva infatti tentato di domare il mare e sferrato un empio,
ingiustificato assalto alla Grecia. E pagò la sua colpa con la sconfitta.
La
morale, insomma era chiara, ma c’era anche una sfumatura politica: la disfatta
di Serse certificava che il modello democratico ateniese, per natura
partecipativo e moderato, era migliore del modello dispotico persiano,
irragionevole e privo di misura. E, più in generale, che alla servitù dei
sudditi persiani bisognava preferire la libertà dei Greci. Qui Éschilo mostra il
suo lato di fiero democratico, come quando attribuisce il merito della vittoria
di Salamina a Temistocle, uomo di punta dell’ala popolare della polis.
IL MITO
IL CARRO DI TESPI
La figura di Tespi è a
metà strada tra storia e leggenda. Stando alla tradizione, nacque nell’isola
di Icaria nel VI secolo a.C., e si dedicò al teatro come autore e attore. Era
infaticabile: la sua compagnia itinerante pèrcorreva le campagne greche con
un carro sul quale s’innalzava un palco e si recitava coi volti tinti di
mosto. E poi subito via alla ricerca di nuovi spettatori.
FIGURA LEGGENDARIA. La
tradizione attribuisce a Tespi l’invenzione della tragedia greca: all’inizio
recitava solo il coro (rimasto sempre importante), cui si aggiungeva poi un
attore (detto “protagonista”). Sempre secondo la tradizione, a lui si deve
anche l’introduzione della maschera, l’inserimento del prologo e della rhésis, il discorso recitato. Gli
Ateniesi si godettero queste novità in occasione del primo concorso tragico
svoltosi in città attorno al
|
Offerta
a Bacco quadro di Lawrence
Alma-Tadema del 1889. Bacco era una divinità romana, il suo nome deriva
dall’appellativo greco bàkkhos con
cui Diònisio veniva chiamato durante la possessione estatica.
UNA RISATA LI SEPPELLIRÀ. In seguito sui Persiani si poté anche scerzare: con
gli Arcanesi, una commedia di Aristofane
datata 425 a .C.
Altra epoca, altro contesto: la
Persia non spaventava più e i Greci si ammazzavano a vicenda
nella guerra del Peloponneso (431-404
a .c.). Eppure anche la commedia rispecchia l’opinione
diffusa ad Atene sui costumi persiani, ritenuti molli, corrotti, degeneri. Il
personaggio dell’ambasciatore persiano Pseudartabano, è infatti tratteggiato
per sottolineare la ricchezza eccessiva e l’inaffidabilità del suo popolo.
Pseidartabamo
si presenta con un codazzo di eunichi, tronfio e barbuto. Ci si aspetta che
promette oro ad Atene e invece niente da fare “No, Ioni greci, non avete l’oro” esclama rivolgendosi agli
Ateniesi sulla scena. Morale, mai fidarsi di un persiano.
Articolo in gran parte di Giulio Talini tratto da Focus Storia n. 137 - altri testi e immagini da wikipedia
A MILETO NEL VI
SECOLO A.C. SI COMINCIO’ A GUARDARE LA REALTA ’ SENZA METTERE IN MEZZO IL MITO. NASCEVA LA FILOSOFIA.
“C’era una volta il mito”.
Se la filosofia fosse una favola, comincerebbe così. Sì perché fu quando si
iniziò ad abbandonare ogni spiegazione mitica e religiosa e ad avere una
visione scientifica e razionale del mondo che nacque il pensiero filosofico,
una delle più grandi invenzioni della Grecia antica. Dove, quando e perché
avvenne questa rivoluzione culturale? I primi a voler mandare in pensione i déi
dell’Olimpio furono i filosofi di Mileto, colonia greca della Ionia sulle coste
della Turchia, crocevia di scambi con la Grecia , l’Impero persiano e l’Egitto, e sede
appunto di una delle prime scuole filosofiche occidentali. Il che ci dà un “dove”
e una prima spiegazione: la filosofia germogliava infatti nelle colonie
d’Oriente dell’Asia Minore e successivamente nelle colonie d’Occidente
dell’Italia Meridionale (La scuola di Pitagora, per la precisione). Proprio
qui, lontani ed emancipati dalla madrepatria, grazie all’operosità, ai commerci
e alla circolazione delle idee i coloni greci raggiunsero prima di altrove il
benessere, cultura e un’inedita autodeterminazione politica. Terreno fertile
appunto per il fiorire della filosofia.
« Talete di Mileto fu senza dubbio il più importante tra quei sette uomini famosi per la loro sapienza – e infatti tra i Greci fu il primo scopritore della geometria, l'osservatore sicurissimo della natura, lo studioso dottissimo delle stelle »
|
(Apuleio, Florida, 18) |
Talete di Mileto (in greco antico: Θαλῆς, Thalês; Mileto, 640 a.C./625 a.C. circa – 548 a.C./545 a.C. circa) è stato unfilosofo, astronomo e matematico greco antico.
DA VICINO. Fu Talete – fondatore della scuola ionica che visse
e operò a Mileto nel VI secolo a.C. – a inaugurare la ricerca filosofica intesa
come tentativo di comprendere razionalmente il cosmo, alla ricerca del
principio che spiega la realtà che ci circonda (in pratica: da dove inizia
tutto e da dove finisce?). Le risposte date dalla mitologia e dalla sua
intricata genealogia non bastavano più. Si passò all’osservazione dei fenomeni
naturali, riconducendo ogni effetto a una causa, sostenuti da una fiducia
incrollabile che con la razionalità si potessero penetrare i segreti del mondo.
Risultato?
Per Talete quel principio di tutto (in greco arché) era l’acqua o meglio la sostanza fluida. Per Anassimandro –
che lasciò le sue riflessioni nel primo scritto filosofico greco di cui oggi ci
rimane solo un frammento – si trattava di un principio astratto chiamato àpeìron, l’indefinito. Per Anassimene,
discepolo di Anassimandro, era invece l’aria che rarefacendosi generava il
fuoco e condensandosi creava i venti, le nuvole, l’acqua, la terra e la pietra.
Ragionamenti,
questi, che rivelavano un’attenta osservazione dei fenomeni dell’evaporazione e
del congelamento dell’acqua. Insomma, non si trattava solo di pura teoria. Lo
dimostra anche un episodio riportato dalle fonti antiche: Talete, grazie ai
suoi studi climatici, a un certo punto avrebbe previsto un raccolto di olive
particolarmente abbondante. E ci avrebbe speculato. Prese in affitto molti
frantoi di Mileto e dintorni,facendo ottimi affari quando la richiesta si fece
forte e poté riaffittarli con ampi guadagni. Insomma l’emancipazione del mito
iniziava a pagare.
INTRAMONTABILE. Il mito però era duro a morire e secondo gli studi nessun filosofo greco negò fino in
fondo l’esistenza degli déi. “In Grecia
il mito era onnipresente”, ha scritto lo storico Jacob Burckhardt, autore
di una Storia della civiltà greca che
è considerata un classico. Così presente che anche lo stesso racconto dei fatti
storici ne era condizionato. “I ricordi
delle grandi imprese del tempo storico erano, per quanto concerne il luogo,
pressoché nulli”, ha detto ancora Burckhardt. “Nessuno si chiedeva dove mai un Solone, un Pericle, un Demostene
fossero comparsi nei momenti decisivi, mentre si desiderava ragguagliati con
ogni precisione possibili sui luoghi classici dell’epoca favolosa”. Percorrere
una strada diversa da quella tradizionale rappresentava una sfida che poteva
diventare tragica. L’accusa do aver corrotto i giovani e di aver insegnato lo a
non rispettare gli déi ufficiali costò a Socrate la condanna a morte.
Sappiamo
che i malati guariti immolavano un gallo al divino Asclepio (vedi articolo) il
filosofo ateniese che si considerava guarito da ogni male della vita subito,
subito dopo aver bevuto la cicuta,.si rivolse al suo discepolo Critone: “Siamo in debito di un gallo a Asclepio:
fateglielo avere; non ve ne dimenticate). Ma con una certezza. Se mito e
filosofia nascevano dalla stessa necessità di appagare il bisogno di sapere,
soltanto la seconda portava alla vera conoscenza.
Autore
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Jacques-Louis David Socrate beve la cicuta
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Data
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1787
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Tecnica
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Dimensioni
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129,5×196,2 cm
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Ubicazione
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Articolo in gran parte di Anita Rubini su Focus
Storia n. centotrentasette altri testi e immagini tratte da Wikipedia.
L’INVENZIONE
DI ATENE
TRA DIVINITA’ IN
LOTTA E UN EROE LEGGENDARIO, NASCEVA LA CITTA ’ CHE NEL V SECOLO A.C. DIVENNE IL CUORE DEL
MONDO.
Atene nella sua massima espansione
“Teseo concepì un piano grandioso (…) radunò in città
tutte le genti sparse per l’Attica e ne fece un popolo fino ad alloro disunito
(…) un popolo coeso”. È così che lo
storico greco Plutarco riassume un momento decisivo nella storia di Atene:
quello in cui dal suo nucleo originario iniziò a sorgere una città destinata a
illuminare il mondo. Le radici di Atene, del resto, affondano nel mito. E la
sua storia si intreccia con le vicende dell’Olimpo, tanto da iniziare con una
contesa tra due divinità, Atena e Poseidone, e proseguire con le leggendarie
gesta di un eroe, Teseo.
“Prima
che nel V secolo a.C., Tucidide dettasse le regole con cui scrivere la Storia , la gente di Atene
raccontava sulle proprie origini vicende simili alle favole”, spiega lo storico
e scrittore Valerio Massimo Manfredi. In particolare, il mito riferisce che, al
momento della fondazione della città, la dea della sapienza e il dio del mare
se ne contesero la protezione nonché il diritto di darle il nome. Affidarono
quindi il giudizio finale ai suoi stessi abitanti leggenda da leggersi come una sorta di
“antipasto mitologico” del futuro governo democratico ateniese. Per ingraziarsi
il popolo, Poseidone donò un cavallo, simbolo di vigore e coraggio, promettendo
inoltre il proprio appoggio in guerra., “Atena invece, batté il suolo con la
sua lancia e ne fece germogliare una pianticella dalle foglie d’argento. Era
l’ulivo pianta più nobile tra quelle che crescono sulle sponde del
Mediterraneo, dai cui frutti si ricava il preziosissimo olio”, continua
Manfredi. Con esso la dea promise saggezza e pace, ed ebbe infine la meglio.
L’Acropoli nel V secolo a.C. era un tripudio di edifici sacri e statue
dedicate agli déi greci
Origini antiche: l’Acropoli sorge su un cucuzzolo
alto 156 metri
e largo alla sommità 140 metri
In epoca micenea (circa 1400 a .C) era la sede di una
reggia fortificata.
Vi erano due statue di Atena: una all’interno del
Partenone e dedicato appunto ad Atena
Parthénos
(“giovane”, “vergine”): era
una colossale statua d’oro e avorio della dea progettato
da Fidia, la seconda era fuori, oggi perduta, era
in bronzo alta tra i 6 e i 15
metri .
L’Acropoli fu ricostruita sotto
Pericle nel V secolo a.C.
Le preziose offerte per la dea Atena
erano accumulate nella calcoteca.
Gli edifici erano tutti riccamente
decorati dipinti di rosso, blu e giallo e con statue di bronzo dorato o
multicolore.
Altri edifici dedicati agli déi erano:
il santuario di Artemide Brauronia, che proteggeva le donne in gravidanza e le
partorienti, la sacra stalla o il santuario di Zeus Polieus protettore di
Atene, che probabilmente ospitava i buoi che venivano annualmente sacrificati
alla divinità, l’Eretteo, con la loggia delle Cariatidi, dedicato sia ad Atena
che a Poseidone.
STRATEGICA. Storicamente Atene cominciò a prendere forma
concreta nel corso del II millennio a.C., come centro miceneo il cui cuore
corrispondeva all’odierna Acropoli. I primi insediamenti sorsero in una
posizione estremamente favorevole dell’Attica, la penisola che domina l’Egeo
centro-settentrionale. I primi ateniesi scelsero bene: si insediarono al centro
di una fertile pianura – irrigata dai fiumi Cefiso e Ilisso – che ben si
presentava alla produzione agricola, base dell’economia greca. Quest’area,
inoltre era protetta da più massicci montuosi, come quelli dell’Imetto e del
Pentelico, una formidabile barriera contro i venti freddi del nord-est e contro
potenziali invasori.
Non
solo: quelle alture erano ricche di pascoli e ci si potevano ricavare materiali
da costruzione. A rendere ancora più prezioso il territorio, punteggiato da
colline simili a quella dell’Acropoli, era il fatto che si aprisse a sud-ovest
sul mare, affacciandosi sul Golfo Saronico. Questo abbonda di approdi naturali
soprattutto nell’area del Pireo, dove sarebbe sorto non a caso il porto
principale della città (suo vanto fin dal V secolo a.C.), distante una decina
di chilometri dall’Acropoli. Insomma Atena aveva scelto bene dove far spuntare
il suo ulivo.
AZIONI EROICHE. Nei primi secoli di vita Atene sarebbe stata retta
da una serie di leggendari monarchi il primo dei quali fu Cecrope. Il più
celebre di tutti fu però Teseo, figlio “in condivisione” del sovrano ateniese
Egeo e di Poseidone, unitisi nella stessa notte a sua madre Etra. Cresciuto
lontano da Atene, venne a sapere delle proprie origini attorno ai sedici anni e
mostrò subito il suo valore in una serie di imprese degne delle fatiche di un
altro celebre eroe mitologico: Eracle, sconfiggendo le creature mostruose che
infestavano l’Attica. “Teseo uccise animali feroci, assassini e predoni
sanguinari”, racconta Manfredi. “Fu quindi accolto ad Atene con grandissimi
onori, ma un’altra prova già lo attendeva: salpare alla volta di Creta per
affrontare il Minotauro, mostro antropofago con testa taurina e corpo umano”. La
bestia si nutriva periodicamente di giovani Ateniesi, sacrificati per volere di
Minosse, il re di Creta da cui deriva il nome della città minoica, fiorita nel
II millennio a.C. e affermatasi come potenza di primo piano nel Mediterraneo.
Teseo,
sconfitto il mostro, tornò ad Atene e ne divenne sovrano, dando il via ad una
serie di riforme cruciali. Oltre a donare agli Ateniesi le prime leggi
democratiche e i primi monumenti, l’eroe riunì attorno al nucleo principale
della città le molteplici comunità presenti nell’Attica. Al di là della
leggenda, il raggruppamento dei molti villaggi presenti nella regione,
attribuito a Teseo, avvenne realmente ed è detto in storiografia “sinecismo”,
da syn, “insieme” e “oikos” “casa”. Atene cresceva e
diventava un grande e potente centro ricco di monumenti voluti dallo stesso Teseo. Sempre lui avrebbe
istituito le Panatenee, festa religiosa in onore della protettrice della città.
Tutti fattori, questi, che lo hanno reso, agli occhi degli antichi, il vero
fondatore di Atene. La storica capacità degli Ateniesi di tenere uniti più
villaggi, con relativo riconoscimento di diritti ai cittadini, spiegherebbe
invece perché qui e non altrove prese corpo la prima forma di democrazia.
TESEO E IL
MINOTAURO
Narra il mito che Poseidone offrì un giorno al re
cretese Minosse un toro sacrificale. Il sovrano, apprezzandone la bellezza, gli
risparmiò la vita e lo fece chiudere in un labirinto. Il dio del mare, per
vendetta, fece infatuare dell’animale la moglie del re, Pasifae, e dalla loro
unione nacque il Minotauro. Minosse impose poi al sovrano ateniese Egeo di
sacrificare al mostro, ogni nove anni, sette fanciulli e sette fanciulle. A
interrompere la mattanza giunse Teseo aiutato da Arianna, figlia di Minosse che
si era invaghita di lui e che gli diede un filo da srotolare nel labirinto per
ritrovare l’uscita. L’eroe poté quindi uccidere il Minotauro e ripartire per
Atene. Dimenticò però di issare sulla nave le vele bianche che dovevano
annunciare al padre Egeo il successo dell’impresa. Il genitore, non vedendole,
credette morto il figlio e si gettò nel mare che da lui prese il nome.
Teseo sul Minotauro,
1781-1783, Antonio Canova, Marmo bianco, Victoria and
La democrazia ateniese funzionava così:
A dettare le linee guida della
democrazia ateniese fu, sul finire del VI secolo a.C., la riforma di
Clistene, a cui seguì l’epoca d’oro di Pericle. La popolazione fu
riorganizzata in dieci tribù con pari diritti e fu introdotto il Consiglio
dei Cinquecento, o Bulé, organo composto da rappresentanti delle varie tribù
e incaricato di controllare il lavoro dei magistrati e di compilare le leggi
da sottoporre all’assemblea del popolo, o l’Ecclesia.
PARZIALE. La democrazia di Atene era
assai meno democratica di quelle odierne, figlie in realtà degli ideali
dell’illuminismo. La politica era riservata ai soli uomini adulti: donne,
residenti stranieri e schiavi erano esclusi. Chi vi aveva accesso non doveva
mostrarsi troppo rampante, onde evitare l’ostracismo: esilio, decennale
riservato a tutti i soggetti considerati potenzialmente tirannici.
Il Kleroterion (in greco antico: κληρωτήριον) era uno strumento usato ad Atene durante il periodo della democrazia per scegliere casualmente, tra seimila aventi diritto, i cittadini che avessero il compito di comporre giurie giornaliere.
Consisteva in una superficie piatta con diverse cavità che contenevano lamine - pinakia - in bronzo, successivamente in legno, con nome, patronimico e nome del demos (villaggio) da cui provenivano (una sorta di documenti di identità) dei cittadini, e in un tubo colmo di sfere di diversi colori che, una volta estratte, avrebbero determinato quali cavità erano da scegliere.
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ricostruzione moderna dell'Acropoli
DAL RE AGLI ARCONTI. Superata definitivamente l’epoca di Teseo e degli
altri mitologici monarchi, Atene vide emergere la figura degli arconti,
magistrati che avevano la massima autorità in ambito civile e militare.
Provenivano dalle aristocrazie locali, si riunivano in un consiglio detto
Areopago (“collina di Ares”) e si giunse a nominarne nove ogni anno con poteri
specifici. Le lotte interne a quest’aristocrazia portarono a una prolungata
instabilità politica. In questo marasma mise ordine nel VII secolo il
legislatore Dracone, che adottò severi provvedimenti per stabilizzare la
situazione stilando uno dei primi codici penali della storia.
La
tensione continuava a crescere tra le classi sociali disagiate e quelle
dominanti, finché queste ultime nominarono arconte con pieni poteri un uono di
grande saggezza con il compito di pacificare gli animi. Il nuovo leader,
Solone, nel 594 a .
C. introdusse importanti riforme economiche e divise la cittadinanza in classi
basate sul censo e non più sulla nascita. “La grande novità era la possibilità
per i cittadini di passare a una classe superiore se il loro reddito fosse
aumentato, accedendo così alla gestione della cosa pubblica”, spiega Manfredi.
“Fu una rivoluzione: non c’era più una società immobile, legata al diritto di
sangue, ma una società dinamica”.
SVOLTA DEMOCRATICA. Il percorso democratico si interruppe alla metà del
VI secolo a.C., quando Pisistrato, scaltro politico, sfruttò le faide fra
fazioni aristocratiche per accattivarsi il popolo e instaurare un governo
tirannico. Dopo la sua morte però si voltò pagina e a far rifiorire la politica
ateniese ci pensò Clistene, ex arconte che nel 508 a .C.., avviò una riforma
democratica riorganizzando tra l’altro la polis
in divisioni amministrative dette “demi”, anche se la democrazia “alla greca”
era ben diversa da come la intendiamo oggi (vedi riquadro sopra).. Nel 461 a .C. Pericle, investito
dell’alta carica militare di strategòs, rubò
la scena agli altri leader democratici, guidando Atene fino al 429 a .C.
Fu
il momento di massimo splendore della città, vittoriosa sulle guerre contro il
potente impero di Persia, da cui era appena uscita come potenza egemone sui
mari e ricca di fervori artistici e culturali. “Si registrò allora una sorta di
“miracolo greco” che coinvolse ogni aspetto della società: e che ebbe il suo
apice proprio ad Atene, dove fiorì fra l’altro la storiografia, dapprima con
Erodoto, che fece da ponte con le opere greche, e poi con Tucidide, la cui
ricerca era basata sull’assenza di ogni divinità dalla narrazione”, conclude
Manfredi.
E
mentre la Storia
prevaleva sul mito, sull’Acropoli di Atene, prendeva forma il Partenone,
maestoso tempio dedicato a quella dea Atena con cui tutto aveva avuto inizio,
grazie a un albero d’ulivo e a una promessa di pace.
Articolo in gran parte tratto da Focus
Storia n. centotrentasette di Matteo Liberti, immagini di Wikipedia.
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