mercoledì 22 gennaio 2020

Gengis Khan Il sovrano oceanico.


Gengis Khan
Il sovrano oceanico.
Ancora oggi la figura di Gengis Khan non smette di affascinarci: carisma, valore in battaglia e astuzia lo portarono al vertice di un vasto impero che dopo la sua morte presto si frantumò. Andiamo alle radice del mito di uno dei più grandi condottieri della storia.

Gengis Khān (o Genghis Khan[?·info], nato come "Temüjin",[1] in alfabeto cirillico mongolo Тэмүжин; alto corso dell'Onon1162[2] – Yinchuan18 agosto 1227) è stato un condottiero e sovrano mongolo.

Dopo aver unificato le tribù mongole, fondando l'Impero mongolo, le condusse alla conquista della maggior parte dell'Asia centrale, della Cina, della Russia, della Persia, del Medio Oriente e di parte dell'Europa orientale, dando vita, anche se per breve tempo, al più vasto impero terrestre della storia umana. Fu sepolto in un luogo tuttora ignoto della nativa Mongolia.



A distanza di secoli Gengis Khan ha ancora una f

Genghis Khan.jpg
Pseudoritratto - Museo Nazionale di Taipei
Khagan dei Mongoli
In carica1206 - 1227
Incoronazione1206
PredecessoreYesugei
SuccessoreDjuciÖgödei
Nome completoTemüjin, Gengis Khan - grafia mongola: Cinggis qagan.svg
NascitaDeluun Boldog1162
MorteGardi, agosto 1227
PadreYesugei
MadreHo'elun
ConsorteBörte UjinKulanYisugenYisui, altre
FigliDjuciÖgödeiChagataiTolui, altri

orza di attrazione che sbalordisce. Quando qualche anno fa il Washington Post chiese agli storici americani quale fosse del millennio, il risultato fu sorprendente: due terzi degli studiosi interpretati indicò proprio il capo mongolo. Eppure tra gli occidentali la sua figura non gode certo di buona fama, visto che è passato alla storia come massacratore e distruttore di civiltà fiorenti. Si è calcolato che le sue conquiste costarono al mondo più di 10 milioni di morti. Ma era un personaggio affascinante e un condottiero di straordinario valore. Nell’arco di una vita riuscì a trasformare cacciatori e allevatori nomadi in un’orda di guerrieri invincibili, capaci di creare il più vasto impero della storia.
Tutto cominciò nel 1167, anno in cui nacque il futuro imperatore. A quel tempo cinque tribù si dividevano i pascoli nei territori tra il lago Baikal e il deserto del Gobi: i Merkiti a nord, i Tartari a est, i Kerati a sud, i Naemani a ovest e i Mongoli al centro, che però erano frammentati in una miriade di clan sempre in guerra. Temici, questo era il nome di Gengis Khan, apparteneva a uno di loro. Suo padre era il capo dei Borijgin, ma morì assassinato dai Tartari quando il figlio aveva solo nove anni. Un avvenimento che lasciò la sua famiglia in balia del destino.
La gente del clan abbandonò la vedova, che rimase con i figli e pochi altri fedelissimi, cercando di sopravvivere alla dura legge della steppa, fatta di razzie e violenze. Per i nomadi, che risiedevano nelle yurte (le tende fatte di pelli) e si spostavano alla ricerca dei pascoli migliori, vivendo di caccia e allevamento, assalire accampamenti rivali, fare schiave donne e bambini e impossessarsi del bestiame era la norma. Durante una di queste incursioni Temucin fu persino imprigionato, ma riuscì a fuggire e a riconquistare la libertà. Con il tempo diventò un uomo abile e coraggioso. La sua fama di guerriero cominciò a precederlo: di lui si diceva che fosse spietato con i nemici, ma generoso con chi gli era leale e che dividesse il bottino tra lasua gente in modo equo, senza preferenze.
Grazie a un astuto gioco di alleanze sconfisse una alla volta le tribù nemiche. Per questo, nel 1206, la quriltaj, l’assemblea dei clan, lo elesse capo supremo di tutti i Mongoli con il nome di Gengis Khan, il sovrano oceanico. Tartari, Merkiti, Keraiti e Naemani erano ormai uniti al suo comando. Da quel momento, in poco più di 15 anni, il suo regno si estese dal Mar Nero alla Cina settentrionale, passando per la Persia, l’Afghanistan, il Kazakistan e la Mongolia intera.
Quale fu il segreto dell’uomo che mise in ginocchio i potenti imperi dell’Asia e fece tremare le gambe persino all’Europa? Probabilmente nell’incredibile ascesa di Gengis Khan giocarono un ruolo importante diversi fattori. Uno di questi fu di tipo climatico. L’inizio del XIII secolo fu per le terre mongole un’epoca favorevole. A causa di una prolungata fase di relativa umidità, nei pascoli c’era nutrimento a sufficienza per allevare greggi immense ed enormi branchi di cavalli che permisero di costituire una forte cavalleria. Un contributo, poi, lo diedero anche le divisioni tra gli avversari. Lotte intestine per il potere, contrasti sociali e religiosi indebolirono la Cina e anche il regime musulmano di Corasmia, che egli conquisterà nella sua avanzata.

Il fiume Onon, fiume vicino al luogo di nascita di Gengis Khan

Un grande stratega. Ma l’arma segreta di Gengis Khan fu il suo esercito. Organizzò i suoi soldati su base decimale. L’unità minima era Tarban, composta da dieci uomini. Si narra che se uno di loro mostrava codardia in battaglia, gli altri venivano uccisi una volta tornati al campo. Poi c’erano gli yagun, che riunivano dieci arban, e i minghaan, schiera di mille uomini che costituivano i battaglioni d’assalto. Nell’esercito di Gengis Khan chiunque poteva fare carriera. Le posizioni di comando venivano assegnate ai più valorosi, anche se non erano di nobili origini. Inoltre egli riuscì a sfruttare le caratteristiche tipiche dei Mongoli, gente abituata a cavalcare per giorni, capace di resistere agli stenti. Sopportavano bene il freddo e la fame. Erano abili cacciatori. Il loro arco er il più potente dell’epoca e consentiva di trafiggere un uomo dalla distanza di trecento piedi. Senza dimenticare che lo facevano con facilità anche stando a cavallo. Gengis Khan era uno stratega straordinario. La sua cavalleria fingeva una ritirata per farsi inseguire, le ali dell’esercito accerchiavano il nemico e lo annientavano senza pietà. Sono decine gli episodi di crudeltà riportati dalle cronache del tempo. Fossati difensivi intorno alle città ricolmi di corpi umani, che servivano da ponte per i suoi soldati, enormi piramidi di teschi lasciati a perenne ricordo del suo passaggio, atrocità e violenze contro i prigionieri. Si racconta, per esempio, che durante l’assedio della città di Bamian, nel regno di Corasmia, per vendicare l’uccisione di suo nipote, Gengis Khan ordinò che nessun essere vivente fosse risparmiato: così uomini e animali furono trucidati. La regola era sempre la stessa: chi opponeva resistenza veniva sterminato, gli altri diventavano schiavi o erano costretti a prestare servizio nell’esercito, mentre le città venivano saccheggiate, abbandonate o addirittura rase al suole. All’epoca il solo sospetto che l’esercito mongolo si stesse dirigendo verso una località era sufficiente a seminare il panico per chilometri.
Eppure tutto questo non basta a spiegare il suo successo. Era un uomo di grande carisma ed era straordinariamente intelligente. Non sapeva leggere né scrivere, ma aveva capito l’importanza della cultura. Per questo si circondò di uomini saggi che lo aiutarono a governare. Non esitò a utilizzare le competenze tecnologiche dei popoli conquistati, prendendo al suo servizio architetti, inventori e artisti. Volle che i suoi figli imparassero la scrittura, mutuata dai Naimani, che aveva sottomesso. La utilizzò per le sue leggi e per far giungere il suo volere anche nelle contrade più remote del suo impero.



 

L'Eurasia prima dell'avanzata mongola


L'avanzata di Gengis Khan


Un’armata perfetta.

Distruzione di Suzdal da parte dell'esercito mongolo, dagli Annali della Russia
L’esercito mongolo era tutt’altro che un insieme caotico di cavalieri irregolari, al contrario era una macchina militare perfettamente organizzata e addestrata, basata su unità di 10 cavalieri chiamante arban, 10 arban formavano uno yagun (100 cavalieri), 10 yagun un minghaan (1000 cavalieri). La tipica armata mongola era composta da due o tre tumen. Non era possibile abbandonare volontariamente la propria unità, pena la morte. Il comando poteva accorpare o smembrare le varie unità, secondo le necessità. La disciplina era severissima: se un uomo fosse fuggito in battaglia tutta la sua arban sarebbe stata messa a morte. Nelle orde mongole (orda è la parola mongola che significa “campo” inteso in occidente come armata) per garantire la fedeltà al comando centrale le unità militari non erano costruite secondo le provenienze tribali, anche se i popoli sottomessi mantenevano invece le loro unità etniche. A livello strategico l’armata era normalmente divisa in tre grossi blocchi, l’ala est (junghar), l’ala ovest (baraunghar) e il centro (khol). I cavalieri mongoli portavano con sé fino a cinque cavalli per mantenere sempre disponibile una montatura fresca. Gli ufficiali erano selezionati per merito, e i soldati migliori erano chiamati entrare a far parte del kheshig, il tumen della guardia del khan. Nelle formazioni di cavalleria, sei uomini erano arcieri leggeri e quattro lancieri pesanti. L’esercito in campo si schierava mettendo davanti due linee di lancieri e dietro tre di arcieri, ma poi queste sfilavano potendo raggiungere ogni punto del campo di battaglia grazie alla loro mobilità. A questo scopo ogni yagun (l’unità di cento uomini) era separato dagli altri tramite ampi spazi. Di solito infatti la cavalleria leggera scendeva prima in battaglia con i suoi archi, mentre i lancieri caricavano le linee nemiche quando ormai erano state scompagnate dalla pioggia di frecce. Un aspetto impressionante dei combattimenti mongoli è che l’esercito manovrava nel più totale silenzio, con ordini precisi impartiti attraverso bandiere e tamburi.
La finta ritirata, passo di juyngguan 1211
Vista della Grande muraglia cinese a Juyongguan

La grande mobilità della cavalleria leggera mongola si sposava con un eccellente addestramento, rendendo l’armata di Gengis Khan in grado di compiere manovre tattiche difficili e rischiose. Una delle armi migliori dei guerrieri mongoli era la finta ritirata. Essa richiedeva una grande abilità: l’orda di cavalieri si scagliava contro i nemici, poi iniziava a ritirarsi dando l’impressione di una rotta ma continuando a bersagliare gli inseguitori con le frecce. Infine con incredibile disciplina l’intera cavalleria faceva un improvviso dietrofront caricando i nemici ormai scompaginati.
“Dovete capire che inseguire i Tartari (così venivano chiamati i Mongoli) che fuggono in battaglia è un grande rischio spiega il contemporaneo John Mandeville, perché, nel fuggire, essi continueranno a fare fuoco, uccidendo uomini e cavalli, e quando torneranno a combattere senza alcun preavviso, sorprenderanno tutti in modo imprevedibile”. Gli arcieri mongoli erano capaci di colpire gli avversari con grande rapidità e precisione dalla sella del loro cavallo in movimento, e riuscivano a farlo anche volgendosi indietro. Inoltre la loro ritirata era spesso una finta tattica, che serviva a fasi inseguire dal nemico scompaginandolo, per poterlo poi all’improvviso attaccare facendo dietrofront e colpendolo anche sui fianchi. Giovanni da Pian dei Carpini, francescano ambasciatore del papa presso i Mongoli, ha lasciato un resoconto dettagliato in cui tra l’altro appunta “anche quando i Tartari si ritirano, i nostri uomini non dovranno mai separasi o farsi dividere, poiché i Tartari fingono di ripiegare allo scopo di dividere il nemico”. La tattica della finta ritirata fu usata spesso e quasi sempre con successo dai Mongoli e da Gengis Khan. In alcune occasioni anche per snidare guarnigioni nemich da posizioni fortificate. Come avvenne nel 1211 al Passo di Juyongguan, durante la guerra contro la dinastia cinese Jin. Gengis Khan, che aveva ottenuto una grande vittoria contro i Cinesi a Huan-er-tsui, si trovava però ancora sbarrata la strada per Pechino (allora chiamata Zhongdu). Una forte guarnigione cinese era schierata a difendere il passo e le sue fortificazioni, che facevano parte del tracciato della Grande Muraglia. Gengis Khan incaricò il suo generale Jebe di espugnare il passo. I cavalieri mongoli si lanciarono all’assalto della guarnigione nemica, poi improvvisamente simularono una rotta ritirandosi verso nord. I Cinesi abboccarono e lasciarono le loro posizioni di forza per inseguire i Mongoli per diversi chilometri. Con la sua grande abilità l’esercito di Gengis Khan ruotò su se stesso e contrattaccò il nemico, attaccando il contingente avversario anche sulle ali. I Cinesi furono bersagliati dal forte la guarnigione preferì abbandonare le posizioni e scappare. Per il leader mongolo fu una vittoria completa che gli aprì la strada per la capitale del regno dei Jin.


Un nomade nell’anima. Il Sovrano oceanico per tutta l’esistenza continuò a vivere come la sua gente aveva fatto per secoli: nella sua yurta, con greggi e bestiame al seguito. “Indosso gli stessi vestiti e mangio lo stesso cibo dei pastori e dei guardiani di cavalli”, disse una volta a monaco taoista Chang Chim, che gli era diventato amico. pensava che la sedentarietà portasse al lusso sfrenato, che corrompeva gli animi e rendeva deboli le persone. Ma fece lo stesso uno strappo alla regola: nel 1220 fondò Karakorum, la capitale dell’impero. Ospitava circa 30mila persone, ma la maggior parte di loro viveva nelle yurte. Alla corte del sovrano arrivavano mercanti e ambasciatori, che il Khan riceveva nel Palazzo delle diecimila paci, un enorme edificio diviso in sette navate da file di 64 colonne. L’esistenza di Karakoum fu però effimera. Nel 1260, trentatré anni dopo la morte di Gengis Khan, suo nipote Kubilai trasferì la residenza reale a Pechino. Nel 1331 (era passato poco più di un secolo dalla sua costruzione) la dinastia cinese dei Ming, cacciati i Mongoli, la rase al suolo.
A quel punto il vasto impero si era ormai frammentato in una miriade di principati, autonomi e in guerra tra loro. Cosa era successo? Già prima della morte di Gengis Khan il regno era stato diviso tra i quattro figli che aveva avuto dalla prima moglie. Dopo la sua scomparsa, per alcuni decenni le conquiste continuarono e i Mongoli arrivarono alle porte dell’Europa. Era però cominciata la parabola discendente. I suoi successori avevano rinunciato allo stile di vita nomade ed erano diventati sedentari, perdendo la loro cultura e la loro identità. L’epoca del “Sovrano Oceanico” era finita per sempre.

Articolo pubblicato su Storie di Guerre e guerrieri Sprea Editori, n. 3 bimestrale. Altri testi e immagini da Wikipedia.

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