Gengis Khan
Il sovrano oceanico.
Ancora oggi la figura
di Gengis Khan non smette di affascinarci: carisma, valore in battaglia e
astuzia lo portarono al vertice di un vasto impero che dopo la sua morte presto
si frantumò. Andiamo alle radice del mito di uno dei più grandi condottieri
della storia.
Gengis Khān (o [1] in alfabeto cirillico mongolo Тэмүжин; alto corso dell'Onon, 1162[2] – Yinchuan, 18 agosto 1227) è stato un condottiero e sovrano mongolo.
, nato come "Temüjin",
Dopo aver unificato le tribù mongole, fondando l'Impero mongolo, le condusse alla conquista della maggior parte dell'Asia centrale, della Cina, della Russia, della Persia, del Medio Oriente e di parte dell'Europa orientale, dando vita, anche se per breve tempo, al più vasto impero terrestre della storia umana. Fu sepolto in un luogo tuttora ignoto della nativa Mongolia.
A
distanza
di secoli Gengis Khan ha ancora una f
Pseudoritratto - Museo Nazionale di Taipei | |
Khagan dei Mongoli | |
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In carica | 1206 - 1227 |
Incoronazione | 1206 |
Predecessore | Yesugei |
Successore | Djuci, Ögödei |
Nome completo | Temüjin, Gengis Khan - grafia mongola: |
Nascita | Deluun Boldog, 1162 |
Morte | Gardi, agosto 1227 |
Padre | Yesugei |
Madre | Ho'elun |
Consorte | Börte Ujin, Kulan, Yisugen, Yisui, altre |
Figli | Djuci, Ögödei, Chagatai, Tolui, altri |
orza di attrazione che sbalordisce. Quando
qualche anno fa il Washington Post chiese agli storici americani quale fosse
del millennio, il risultato fu sorprendente: due terzi degli studiosi
interpretati indicò proprio il capo mongolo. Eppure tra gli occidentali la sua
figura non gode certo di buona fama, visto che è passato alla storia come
massacratore e distruttore di civiltà fiorenti. Si è calcolato che le sue conquiste
costarono al mondo più di 10 milioni di morti. Ma era un personaggio
affascinante e un condottiero di straordinario valore. Nell’arco di una vita
riuscì a trasformare cacciatori e allevatori nomadi in un’orda di guerrieri
invincibili, capaci di creare il più vasto impero della storia.
Tutto cominciò nel
1167, anno in cui nacque il futuro imperatore. A quel tempo cinque tribù si
dividevano i pascoli nei territori tra il lago Baikal e il deserto del Gobi: i
Merkiti a nord, i Tartari a est, i Kerati a sud, i Naemani a ovest e i Mongoli
al centro, che però erano frammentati in una miriade di clan sempre in guerra.
Temici, questo era il nome di Gengis Khan, apparteneva a uno di loro. Suo padre
era il capo dei Borijgin, ma morì assassinato dai Tartari quando il figlio
aveva solo nove anni. Un avvenimento che lasciò la sua famiglia in balia del
destino.
La gente del clan
abbandonò la vedova, che rimase con i figli e pochi altri fedelissimi, cercando
di sopravvivere alla dura legge della steppa, fatta di razzie e violenze. Per i
nomadi, che risiedevano nelle yurte (le tende fatte di pelli) e si spostavano
alla ricerca dei pascoli migliori, vivendo di caccia e allevamento, assalire
accampamenti rivali, fare schiave donne e bambini e impossessarsi del bestiame
era la norma. Durante una di queste incursioni Temucin fu persino imprigionato,
ma riuscì a fuggire e a riconquistare la libertà. Con il tempo diventò un uomo
abile e coraggioso. La sua fama di guerriero cominciò a precederlo: di lui si
diceva che fosse spietato con i nemici, ma generoso con chi gli era leale e che
dividesse il bottino tra lasua gente in modo equo, senza preferenze.
Grazie a un astuto
gioco di alleanze sconfisse una alla volta le tribù nemiche. Per questo, nel
1206, la quriltaj, l’assemblea dei clan, lo elesse capo supremo di tutti i
Mongoli con il nome di Gengis Khan, il sovrano oceanico. Tartari, Merkiti,
Keraiti e Naemani erano ormai uniti al suo comando. Da quel momento, in poco
più di 15 anni, il suo regno si estese dal Mar Nero alla Cina settentrionale,
passando per la Persia, l’Afghanistan, il Kazakistan e la Mongolia intera.
Quale fu il segreto
dell’uomo che mise in ginocchio i potenti imperi dell’Asia e fece tremare le
gambe persino all’Europa? Probabilmente nell’incredibile ascesa di Gengis Khan
giocarono un ruolo importante diversi fattori. Uno di questi fu di tipo
climatico. L’inizio del XIII secolo fu per le terre mongole un’epoca
favorevole. A causa di una prolungata fase di relativa umidità, nei pascoli
c’era nutrimento a sufficienza per allevare greggi immense ed enormi branchi di
cavalli che permisero di costituire una forte cavalleria. Un contributo, poi,
lo diedero anche le divisioni tra gli avversari. Lotte intestine per il potere,
contrasti sociali e religiosi indebolirono la Cina e anche il regime musulmano
di Corasmia, che egli conquisterà nella sua avanzata.
Un grande stratega. Ma l’arma segreta di
Gengis Khan fu il suo esercito. Organizzò i suoi soldati su base decimale. L’unità
minima era Tarban, composta da dieci uomini. Si narra che se uno di loro
mostrava codardia in battaglia, gli altri venivano uccisi una volta tornati al
campo. Poi c’erano gli yagun, che riunivano dieci arban, e i minghaan, schiera
di mille uomini che costituivano i battaglioni d’assalto. Nell’esercito di
Gengis Khan chiunque poteva fare carriera. Le posizioni di comando venivano
assegnate ai più valorosi, anche se non erano di nobili origini. Inoltre egli
riuscì a sfruttare le caratteristiche tipiche dei Mongoli, gente abituata a
cavalcare per giorni, capace di resistere agli stenti. Sopportavano bene il
freddo e la fame. Erano abili cacciatori. Il loro arco er il più potente
dell’epoca e consentiva di trafiggere un uomo dalla distanza di trecento piedi.
Senza dimenticare che lo facevano con facilità anche stando a cavallo. Gengis
Khan era uno stratega straordinario. La sua cavalleria fingeva una ritirata per
farsi inseguire, le ali dell’esercito accerchiavano il nemico e lo annientavano
senza pietà. Sono decine gli episodi di crudeltà riportati dalle cronache del
tempo. Fossati difensivi intorno alle città ricolmi di corpi umani, che
servivano da ponte per i suoi soldati, enormi piramidi di teschi lasciati a
perenne ricordo del suo passaggio, atrocità e violenze contro i prigionieri. Si
racconta, per esempio, che durante l’assedio della città di Bamian, nel regno
di Corasmia, per vendicare l’uccisione di suo nipote, Gengis Khan ordinò che
nessun essere vivente fosse risparmiato: così uomini e animali furono
trucidati. La regola era sempre la stessa: chi opponeva resistenza veniva
sterminato, gli altri diventavano schiavi o erano costretti a prestare servizio
nell’esercito, mentre le città venivano saccheggiate, abbandonate o addirittura
rase al suole. All’epoca il solo sospetto che l’esercito mongolo si stesse
dirigendo verso una località era sufficiente a seminare il panico per
chilometri.
Eppure tutto questo non
basta a spiegare il suo successo. Era un uomo di grande carisma ed era
straordinariamente intelligente. Non sapeva leggere né scrivere, ma aveva
capito l’importanza della cultura. Per questo si circondò di uomini saggi che
lo aiutarono a governare. Non esitò a utilizzare le competenze tecnologiche dei
popoli conquistati, prendendo al suo servizio architetti, inventori e artisti.
Volle che i suoi figli imparassero la scrittura, mutuata dai Naimani, che aveva
sottomesso. La utilizzò per le sue leggi e per far giungere il suo volere anche
nelle contrade più remote del suo impero.
L'Eurasia prima dell'avanzata mongola
L'avanzata di Gengis Khan
Un’armata perfetta.
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L’esercito mongolo era tutt’altro
che un insieme caotico di cavalieri irregolari, al contrario era una macchina
militare perfettamente organizzata e addestrata, basata su unità di 10
cavalieri chiamante arban, 10 arban formavano uno yagun (100 cavalieri), 10
yagun un minghaan (1000 cavalieri). La tipica armata mongola era composta da
due o tre tumen. Non era possibile abbandonare volontariamente la propria
unità, pena la morte. Il comando poteva accorpare o smembrare le varie unità,
secondo le necessità. La disciplina era severissima: se un uomo fosse fuggito
in battaglia tutta la sua arban sarebbe stata messa a morte. Nelle orde
mongole (orda è la parola mongola che significa “campo” inteso in occidente
come armata) per garantire la fedeltà al comando centrale le unità militari
non erano costruite secondo le provenienze tribali, anche se i popoli
sottomessi mantenevano invece le loro unità etniche. A livello strategico
l’armata era normalmente divisa in tre grossi blocchi, l’ala est (junghar),
l’ala ovest (baraunghar) e il centro (khol). I cavalieri mongoli portavano
con sé fino a cinque cavalli per mantenere sempre disponibile una montatura
fresca. Gli ufficiali erano selezionati per merito, e i soldati migliori
erano chiamati entrare a far parte del kheshig, il tumen della guardia del
khan. Nelle formazioni di cavalleria, sei uomini erano arcieri leggeri e
quattro lancieri pesanti. L’esercito in campo si schierava mettendo davanti
due linee di lancieri e dietro tre di arcieri, ma poi queste sfilavano
potendo raggiungere ogni punto del campo di battaglia grazie alla loro
mobilità. A questo scopo ogni yagun (l’unità di cento uomini) era separato
dagli altri tramite ampi spazi. Di solito infatti la cavalleria leggera
scendeva prima in battaglia con i suoi archi, mentre i lancieri caricavano le
linee nemiche quando ormai erano state scompagnate dalla pioggia di frecce.
Un aspetto impressionante dei combattimenti mongoli è che l’esercito
manovrava nel più totale silenzio, con ordini precisi impartiti attraverso
bandiere e tamburi.
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La finta ritirata, passo di
juyngguan 1211
La grande mobilità della
cavalleria leggera mongola si sposava con un eccellente addestramento,
rendendo l’armata di Gengis Khan in grado di compiere manovre tattiche
difficili e rischiose. Una delle armi migliori dei guerrieri mongoli era la
finta ritirata. Essa richiedeva una grande abilità: l’orda di cavalieri si
scagliava contro i nemici, poi iniziava a ritirarsi dando l’impressione di
una rotta ma continuando a bersagliare gli inseguitori con le frecce. Infine
con incredibile disciplina l’intera cavalleria faceva un improvviso
dietrofront caricando i nemici ormai scompaginati.
“Dovete capire che inseguire i Tartari (così venivano chiamati i
Mongoli) che fuggono in battaglia è un grande rischio spiega il contemporaneo
John Mandeville, perché, nel fuggire, essi continueranno a fare fuoco,
uccidendo uomini e cavalli, e quando torneranno a combattere senza alcun
preavviso, sorprenderanno tutti in modo imprevedibile”. Gli arcieri mongoli erano capaci di colpire gli avversari con grande
rapidità e precisione dalla sella del loro cavallo in movimento, e riuscivano
a farlo anche volgendosi indietro. Inoltre la loro ritirata era spesso una
finta tattica, che serviva a fasi inseguire dal nemico scompaginandolo, per
poterlo poi all’improvviso attaccare facendo dietrofront e colpendolo anche
sui fianchi. Giovanni da Pian dei Carpini, francescano ambasciatore del papa
presso i Mongoli, ha lasciato un resoconto dettagliato in cui tra l’altro
appunta “anche quando i Tartari si
ritirano, i nostri uomini non dovranno mai separasi o farsi dividere, poiché
i Tartari fingono di ripiegare allo scopo di dividere il nemico”. La
tattica della finta ritirata fu usata spesso e quasi sempre con successo dai
Mongoli e da Gengis Khan. In alcune occasioni anche per snidare guarnigioni nemich
da posizioni fortificate. Come avvenne nel 1211 al Passo di Juyongguan,
durante la guerra contro la dinastia cinese Jin. Gengis Khan, che aveva
ottenuto una grande vittoria contro i Cinesi a Huan-er-tsui, si trovava però
ancora sbarrata la strada per Pechino (allora chiamata Zhongdu). Una forte
guarnigione cinese era schierata a difendere il passo e le sue
fortificazioni, che facevano parte del tracciato della Grande Muraglia.
Gengis Khan incaricò il suo generale Jebe di espugnare il passo. I cavalieri
mongoli si lanciarono all’assalto della guarnigione nemica, poi
improvvisamente simularono una rotta ritirandosi verso nord. I Cinesi
abboccarono e lasciarono le loro posizioni di forza per inseguire i Mongoli
per diversi chilometri. Con la sua grande abilità l’esercito di Gengis Khan
ruotò su se stesso e contrattaccò il nemico, attaccando il contingente
avversario anche sulle ali. I Cinesi furono bersagliati dal forte la
guarnigione preferì abbandonare le posizioni e scappare. Per il leader
mongolo fu una vittoria completa che gli aprì la strada per la capitale del
regno dei Jin.
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Un nomade nell’anima. Il Sovrano oceanico per
tutta l’esistenza continuò a vivere come la sua gente aveva fatto per secoli:
nella sua yurta, con greggi e bestiame al seguito. “Indosso gli stessi vestiti
e mangio lo stesso cibo dei pastori e dei guardiani di cavalli”, disse una
volta a monaco taoista Chang Chim, che gli era diventato amico. pensava che la
sedentarietà portasse al lusso sfrenato, che corrompeva gli animi e rendeva
deboli le persone. Ma fece lo stesso uno strappo alla regola: nel 1220 fondò
Karakorum, la capitale dell’impero. Ospitava circa 30mila persone, ma la
maggior parte di loro viveva nelle yurte. Alla corte del sovrano arrivavano
mercanti e ambasciatori, che il Khan riceveva nel Palazzo delle diecimila paci,
un enorme edificio diviso in sette navate da file di 64 colonne. L’esistenza di
Karakoum fu però effimera. Nel 1260, trentatré anni dopo la morte di Gengis
Khan, suo nipote Kubilai trasferì la residenza reale a Pechino. Nel 1331 (era
passato poco più di un secolo dalla sua costruzione) la dinastia cinese dei
Ming, cacciati i Mongoli, la rase al suolo.
A quel punto il vasto
impero si era ormai frammentato in una miriade di principati, autonomi e in
guerra tra loro. Cosa era successo? Già prima della morte di Gengis Khan il
regno era stato diviso tra i quattro figli che aveva avuto dalla prima moglie.
Dopo la sua scomparsa, per alcuni decenni le conquiste continuarono e i Mongoli
arrivarono alle porte dell’Europa. Era però cominciata la parabola discendente.
I suoi successori avevano rinunciato allo stile di vita nomade ed erano
diventati sedentari, perdendo la loro cultura e la loro identità. L’epoca del
“Sovrano Oceanico” era finita per sempre.
Articolo pubblicato su
Storie di Guerre e guerrieri Sprea Editori, n. 3 bimestrale. Altri testi e
immagini da Wikipedia.
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