Cavour l’uomo che inventò l’Italia.
Senza l’intelligenza politica e il gusto per l’azzardo di uno
straordinario animale politico come lui, l’unità del nostro paese sarebbe
rimasta una chimera. Ma Cavour trasmise all’Italia anche i suoi difetti.
Il
nome di Camillo Benzo, conte di Cavour, è indissolubilmente legato a quella
breve ma esaltante stagione storica che conosciamo come Risorgimento e che vide
il piccolo Regno di Sardegna guadagnare un posto di rilievo nello scacchiere
internazionale. E, soprattutto, diventare il centro degli eventi che sarebbero
culminati con la proclamazione del Regno d’Italia. Se Giuseppe Garibaldi è il
simbolo romantico e idealista di quell’epoca, Cavour ne fu il motore politico e
diplomatico. La rocambolesca avventura dell’unificazione divenne realtà grazie
alla sua intelligenza fuori del comune, ma anche in virtù della sua capacità di
cogliere al volo ogni occasione favorevole.
Il Gros Camille. Nato il 10 agosto 1810 a Torino,
Camillo era il secondogenito del marchese Michele di Cavour, appartenente a
un’antica e nobile famiglia della città, e della ginevrina Adele de Sellon. La
città ai tempi era uno dei capoluoghi dell’Impero Francese, e i Cavour erano
amici del governatore Camillo Borghese e di sua moglie Paolina Bonaparte, la
sorella di Napoleone. La cultura francese avrebbe giocato un ruolo importante
nella vita del futuro politico, che proprio oltralpe trovava parte delle sue
radici. Prova ne siano la sua difficoltà a esprimersi in un corretto italiano
(che non sarebbe migliorata neanche dopo l’unità italiana) e il fatto che egli
guardò sempre alla Francia come spalla su cui appoggiare le manovre politiche
sabaude. L’infanzia torinese del Gros Camille, come veniva chiamato
affettuosamente in casa, trascorse spensierata, rivolta al gioco e soprattutto
al cibo (pare che potesse pranzare anche sei volte al giorno). Come
secondogenito, alla morte dei genitore il titolo di marchese e i beni di
famiglia sarebbero andati a suo fratello maggiore Gustavo, lasciando a lui la
scelta tra i voti religiosi o la vita militare. Decise per la seconda.
Nell’attesa di vestire l’uniforme nonostante l’indisciplina e le difficoltà che
mostrava in italiano, alla fine il giovane Cavour si diplomò con il massimo dei
voti, soprattutto grazie al suo eccezionale talento matematico. Risalgono a
quegli anni i primi contatti diretti con la famiglia Savoia, che intanto, dopo
la definitiva caduta di Napoleone, era tornata al potere. Nel 1826, Cavour era
pronto a iniziare la carriera militare, che però si rivelò poco adatta alla sua
indole inquieta: come ufficiale del Genio, spesso si trovava a soggiornare in
zone isolate e prive di ogni stimolo intellettuale. Per questo, quando nel 1830
venne trasferito nella ricca ed effervescente Genova, per lui fu come
rinascere. Cominciò a frequentare i salotti dell’alta società, acquistò il
gusto per il gioco di azzardo (che negli anni sarebbe diventato qualcosa di più
di un innocente passatempo) e infine cominciò la sua relazione con Anna
Schiaffino, moglie del marchese Stefano Giustiniani.
Donne, gioco e politica. La frequentazione del
salotto della sua amante, popolato da intellettuali di chiara inclinazione
antimonarchica, giocò probabilmente in ruolo decisivo della maturazione delle
idee politiche di Cavour, il quale quello stesso anno si proclamò repubblicano.
Una presa di posizione che Camillo pagò con il trasferimento nell’isolata
fortezza valdostana di Bard. Incapace di riprendere la monotona vita militare,
nel 1831 Camillo si fece congedare e si trasferì a Grinzane, in provincia di
Cuneo, dove il padre aveva acquistato una grande tenuta. Oltre a occuparsi
della gestione degli affari di famiglia, Cavour divenne il sindaco di quel
piccolo paese di circa 350 anime. In quegli anni, compì anche alcuni viaggi
all’estero, soprattutto a Londra e Parigi che gli permisero di sviluppare e
approfondire la sua visione politica, stemperando le sue idee rivoluzionarie in
un liberalismo moderato. Intanto, però, coltivava la passione per le donne, la
bella vita e per il gioco: un azzardo in borsa lo portò sull’orlo del baratro,
e solo l’intervento del padre lo salvò dalla bancarotta. Oltre al denaro, il
genitore gli offrì un consiglio: “hai trent’anni, lascia ai mediocri le
passioni di sartoria… Hai una forza di volontà politica. Abbi anche una forza
morale”. Quelle parole dovettero sortire qualche effetto, perché Camillo si
mise seriamente al lavoro nella tenuta di famiglia e gestì i propri soldi in
modo intelligente, contribuendo alla fondazione della Banca di Genova e di
quella di Torino, e diventò molto ricco. La politica, però, stava per bussare
alla sua porta. Fin dal suo primo giorno, il 1848 si annunciò come un anno
decisivo per la nostra penisola a Milano, il 1° gennaio iniziò il boicottaggio
del tabacco, monopolio del governo austriaco, mentre il 12 gennaio i soldati
del re Ferdinando venivano temporaneamente scacciati da Palermo e a Napoli. Il
popolo scendeva in piazza. Quelle notizie raggiunsero Cavour a Torino, dove
aveva fondato il quotidiano “Il Risorgimento”, e quando re Carlo Alberto
formalmente promulgò lo Statuto Albertino, egli venne prima chiamato a
collaborare alla stesura della legge elettorale, e quindi eletto deputato egli
stesso.
La battaglia di Pastrengo. Nel 1848 Cavour sostenne la guerra contro l'Austria come soluzione al pericolo rivoluzionario che minacciava il Piemonte.
Giuseppe contro Camillo: scontro
tra i padri del Risorgimento.
I rapporti personali tra Cavour e
Garibaldi furono a dir poco complicati: i due potevano condividere
l’obiettivo finale, ma certamente non i tempi e i modi con i quali
conseguirlo. Camillo cercò sempre di sfruttare la popolarità dell’Eroe dei
Due Mondi a fini politici, ma al tempo stesso vedeva nel suo affilato
rivoluzionario un pericolo per la causa sabauda. Garibaldi, d’altra parte,
mal tollerava l’approccio prudente e calcolatore del ministro. I due sio
trovarono in disaccordo molte volte, ma il vero scontro frontale, quello
destinato a passare alla storia, si verificò il 18 febbraio 1861, in
Parlamento. Garibaldi si lanciò in una durissima invettiva contro il governo
guidato dal suo avversario, il quale non aveva ratificato le nonime a
ufficiale che lui stesso aveva assegnato ai propri uomini. Giunse ad accusare
Cavour di tradimento, per avere ceduto Nizza e la Savoia alla Francia. Alla
fine vi furono delle scuse, anche se poco convinte, ma l’episodio spinse
osservatori stranieri, come il diplomatico inglese Hudson, a ipotizzare che
la prese del primo ministro sul suo govenro si stesse indebolendo.
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La strada verso il potere. Intanto, le cose
precipitavano. A marzo c’erano state le fatidiche Cinque Giornate, cui i
milanesi avevano affrontato e cacciato gli austriaci. Subito Carlo Alberto
accettò le richieste di aiuto della città lombarda e ordinò alle sue truppe di
penetrare nel territorio del Regno Lombardo-Veneto, dando inizio alla Prima
guerra d’indipendenza. Dopo le prime vittorie, però, il vento cambiò e una
serie di sconfitte decretò il fallimento di quel primo tentativo piemontese.
Carlo Alberto abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele, il quale sciolse il
parlamento e indisse nuove elezioni attraverso il celebre “Proclama di
Moncalieri”. Cavour faceva parte della maggioranza moderata vincitrice, ed ebbe
occasione di mettersi bene in luce: nel 1850 divenne ministro dell’Agricoltura
e del Commercio, dimostrandosi subito un politico abile e pragmatico,
successivamente il presidente del Consiglio Massimo d’Azeglio gli affidò il
ministero della Marina e quindi, nel 1851, quello fondamentale delle Finanze. I
successi di Cavour stavano a dimostrare che egli poteva aspirare anche alla
poltrona più importante, quella di presidente del Consiglio. Ancora una volta,
fu la sua attitudine pragmatica, unita, in questo caso all’indole da giocatore
d’azzardo, a ispirargli la mossa vincente: il dialogo con il centro sinistra di
Ratrazzi. Lo scontro con d’Azeglio e con molti esponenti del suo stesso partito
fu aspro e violento (Cavour era celebre per i suoi scatti d’ira), ma alla fine
Camillo riuscì nel suo intento e per sei anni, fino al 1857, il cosiddetto
“connubio” tra i due schieramenti resistette alle difficoltà. Alla fine, il 4 novembre
1852, arrivò il riconoscimento tanto atteso: Camillo Benso, conte di Cavour,
diventava per la prima volta presidente del Consiglio dei ministri del regno.
Meglio di Bismarck.
Il talento politico di Cavour non
brillò solo in Italia, ma anche nel firmamento europeo: egli godette di un
credito crescente, fino a essere considerato l’incarnazione del perfetto
statista liberale. Di lui, il politico inglese John Bright disse, dopo averlo
incontrato: “Più che un sottile politico italiano, sembra un intelligente
gentiluomo di campagna inglese”; di certo considerava questo come un grande
complimento.
Fu però soprattutto la Germania a
mostrare reverenza nei confronti di Cavour, come testimoniato dalla fortuna
che riscosse il saggio del 1869 di Heinrich von Tretischke a lui dedicato e
che lo addita come massimo rappresentante della Realpolitk. Questa dottrina
politica, incentrata sul pragmatismo e il conseguimento degli interessi
nazionali, di lì a poco sarebbe stata applicata in modo ancora più
sistematico e spregiudicato dal cancelliere Otto von Bismarck, il quale
dovette in ogni caso accettare il confronto con Cavour, non sempre uscendone
vincitore. “Nessun uomo politico del suo secolo è riuscito a fare così tanto
con così poco”, affermò lo storico Densi Mack Smith. Per non parlare del
giudizio, secco e deciso, del grande filosofo francese Henri Bergson: “Cavour
è di gran lunga superiore a Bismarck”.
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L'Italia al tempo in cui Cavour ebbe il suo primo incarico governativo, nel 1850.
Articolo in gran parte
di Luigi Lo Forti pubblicato su Conoscere la storia n. 49. Altri testi e
immagini da Wikipedia
Un gioco pericoloso. Sempre più potente e
temuto in patria, Cavour dimostrò appieno la propria grandezza soprattutto in
politica estera, in particolare con il coinvolgimento del Regno di Sardegna
nella Guerra di Crimea. Nel gennaio del 1855, con uno dei suoi tipici “azzardi calcolati”,
Camillo dichiarò guerra alla Russia, ponendosi al fianco di Francia e
Inghilterra. Grazie alla vittoria nella battaglia della Cernaia, il Piemonte
poté partecipare al congresso di pace di Parigi, che cominciò il 25 febbraio
1856, alla fine del quale Cavour riuscì
a ottenere che la “questione italiana” venisse dibattuta dalle grandi potenze.
Era l’inizio di una evoluzione politica che di lì a poco avrebbe portato la
Francia di Napoleone III a progettare un intervento in Italia in ottica
antiaustriaca e a instaurare un rapporto privilegiato con Cavour. Esso venne
suggellato dall’incontro dei due a Plombiére, il 20 luglio 1858, durante il
quale furono discussi i possibili futuri assetti politici della penisola. Gli
accordi avrebbero dovuto rimanere segreti, ma Cavour fece in modo che
diventassero di dominio pubblico, obbligando Napoleone a non rimangiarsi la
parola data. Essi prevedevano che, in caso di guerra contro l’Austria, la
Francia si sarebbe schierata a fianco del Regno di Sardegna. Adesso si trattava
di fare scoppiare la guerra con Vienna. L’occasione si verificò il 29 aprile
1859, quando ormai nemmeno Cavour ci credeva più. Il merito va a un errore
dell’imperatore austriaco Francesco Giuseppe, che chiese formalmente il disarmo
dell’esercito piemontese: con tale pretesa, l’Austria aveva attentato
all’autonomia e alla dignità del Regno, che aveva perciò il diritto di
rifiutare le condizioni del nemico. Francesco Giuseppe fu costretto ad
attaccare, dando inizio alla Seconda guerra d’Indipendenza, durante la quale
Cavour dovette operare con tutta l’abilità di cui era capace. Da una parte
doveva domare l’impeto di Garibaldi, dall’altra contrastare l’atteggiamento di
Vittorio Emanuele, incline ad accettare una soluzione di compromesso. Vi furono
momenti di confronto drammatico con il sovrano, che culminarono con le
dimissioni di Cavour da capo del Governo in seguito all’armistizio di
Villafranca, l’11 luglio 1859. Camillo venne però richiamato nel gennaio del
1860 per portare a termine un compito che, a quel punto, era evidente a tutti:
l’unificazione del territorio italiano sotto l’egida della monarchia sabauda.
Prima, però, c’era da far digerire al Governo e all’intera penisola la cessione
alla Francia di Nizza e della stessa Savoia che aveva dato il nome alla
dinastia regnante: era il prezzo pattuito a Pombiéres per ottenere l’appoggio
francese. Alla fine, attraverso due plebisciti di dubbia regolarità, il
passaggio dei territori venne ratificato e l’alleanza con Napoleone III
confermata. Cavour seppe approfittare della fortunatissima spedizione dei Mille
nel Sud, trasformandola in un trionfo sabaudo.
Un giudizio poco lusinghiero.
Come tutte le grandi personalità politiche
Cavour era destinato ad attirare su di sé antipatie viscerali, anche a
livello personale. La sua pinguedine in età matura era diventata obesità e il
periodo trascorso nella fattoria di Leri non aveva certo contribuito ad
affinarne i modi. A fornirci una descrizione spietata dei difetti del conte
di Cavour è uno dei suoi acerrimi nemici politici, il democratico Angelo
Brofferio, il quale così lo descrive in occasione delle sue prime apparizioni
nella Camera dei deputati “Nuocevogli
il volume della persona, il volgare aspetto, il gesto ignobile, la voce
ingrata. Di lettere, non aveva traccia, alle arti profano, d’ogni filosofia
digiuno, raggio di poesia non gli balenava nell’anima, istruzione pochissima.
La parola gli usciva di bocca gallicamente smozzicata, tanti erano i suoi
solecismo che metterli d’accordo col dizionario della lingua italiana sarebbe
a tutti apparsa impossibile impresa”. Un giudizio impietoso, che in ogni
caso non impedì a Cavour di riscuotere un grande successo tra le dame dell’alta
società piemontese che se lo contendevano.
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La fine improvvisa. Dopo una lunga
gestazione, il Regno d’Italia nacque ufficialmente il 17 marzo 1861, e Vittorio Emanuele divenne re di un Paese
nuovo, che ambiva addirittura a diventare una grande potenza europea. Come se
la Storia avesse deciso che la sua missione era terminata, il conte di Cavour
lasciò definitivamente la scena politica il 29 maggio, di ritorno da una delle
frequenti visite alla sua amante Bianca Bonzani, accusò un malore improvviso. Oggi
gli studiosi ipotizzano che avesse contratto la malaria, ma i medici che lo
ebbero in cura non riconobbero il morbo e ricorsero invece ai salassi, un
rimedio allora considerato alla stregua di panacea per tutti i mali. Purtroppo,
sottoposto a quelle cure, la situazione non fece che peggiorare, e Cavour
trascorse i suoi ultimi giorni di vita alternando brevi attimi di lucidità a
prolungati deliri. Spirò la mattina del 6 giugno 1861. Secondo alcuni, le sue
ultime parole sarebbero state dedicate a un nuovo progetto politico: “Libera
Chiesa in libero Stato”. Altri, invece preferiscono credere che abbia mormorato
un liberatorio “L’Italia è fatto, tutto è salvo”.
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