L’italia dei castelli.
Difficile dire quanti
castelli sorgano in Italia, dalle Alpi alla Sicilia. La storia particolare del
nostro Paese, frammentato in una miriade di piccoli feudi, ha fatto sì che
rocche, manieri e fortilizi sorgessero uno accanto all’altro, come simboli e
strumenti di amministrazione dei poteri locali. Si stima che ve ne siano almeno
3100, ma se conteggiassimo anche le rovine, le torri di avvistamento e i
palazzi fortificati il loro numero salirebbe sicuramente.
Questo dossier ci porta alla
coperta di alcuni fra in nostri castelli più particolari e suggestivi, che
spesso sorgono a pochi chilometri dalle città o dalle mete delle nostre
vacanze.
Il medioevo dipinto.
CASTELLO DI ISSOGNE (AOSTA).
L’italia dei castelli.
Difficile dire quanti
castelli sorgano in Italia, dalle Alpi alla Sicilia. La storia particolare del
nostro Paese, frammentato in una miriade di piccoli feudi, ha fatto sì che
rocche, manieri e fortilizi sorgessero uno accanto all’altro, come simboli e
strumenti di amministrazione dei poteri locali. Si stima che ve ne siano almeno
3100, ma se conteggiassimo anche le rovine, le torri di avvistamento e i
palazzi fortificati il loro numero salirebbe sicuramente.
Questo dossier ci porta alla
coperta di alcuni fra in nostri castelli più particolari e suggestivi, che
spesso sorgono a pochi chilometri dalle città o dalle mete delle nostre
vacanze.
Il medioevo dipinto.
CASTELLO DI ISSOGNE (AOSTA).
Armi e armature sono appese alla
rastrelliera, mentre le guardie, sedute a tavola, giocano a carte in compagnia
di alcune prostitute; nella sua bottega, il sarto misura e taglia pezze di
tessuto; il pane viene infornato e il beccaio, l’antico macellaio, gira lo
spiedo da cui un gatto dispettoso è intento a rubare i bocconi; il salumiere
espone formaggi dalla tipica forma della fontina (la più antica raffigurazione
del tradizionale prodotto valdostano). Sono le scene di vita quotidiana fissate
nelle lunette del porticato sul lato est del cortile del castello di Issogne,
in Valle d’Aosta, un raro esempio di pittura alpina dell’epoca. L’opera risale
al periodo di massimo splendore del castello, quando, sul finire del
Quattrocento, Luigi di Challant, erede del casato che legò indissolubilmente il
proprio nome al maniero e suo cugino , il priore Giorgio di Challant-Varey,
completarono i lavori di trasformazione dell’antica residenza vescovile (già
citata in una bolla di papa Eugenio III del 1151) in un’elegante dimora. Lo
stile è quello del gotico cortese, il quale prende forma in un unico palazzo
strutturato a ferro di cavallo che circonda un ampio cortile. Furono questi gli
anni in cui a Issogne si fermarono ospiti illustri: ò’imperatore Sigismondo di
Lussemburgo durante un suo viaggio di ritorno in Germania, nel 1414, e re Carlo
VIII di Francia, nel 1494. Durante il secolo successivo, Renato di Challant
fece del castello una raffinata corte rinascimentale, a onta del suo aspetto
esterno di arcigna dimora fortificata, poco appariscente e priva di decorazioni.
Gli affreschi, invece, abbondano all’interno, sia nel porticato che sulle
facciate che affacciano sul cortile, dove trovano posto gli stemmi dei diversi
rami della famiglia, o nella grande sala di rappresentanza al pianterreno,
nella cappella e nell’oratorio al primo piano e in quello privato di Giorgio di
Challant al secondo, dove il committente è ritratto, inginocchiato, ai piedi
della Croce.
Nel Seicento ebbe inizio il lungo
declino del castello, culminato nell’Ottocento con la spoliazione di tutti gli
arredi a seguito della morte dell’ultimo rappresentante della famiglia
Challant. Sul finire del secolo, però, il pittore torinese Vittorio Avondo
rilevò la proprietà all’asta ed ebbe cura di restaurare il castello e
recuperare sul mercato antiquario parte dei mobili originali. Ritornato allo
splendore di un tempo, il maniero venne poi donato allo Stato italiano nel 1907.
la sala del re di Francia
Il
fantasma di Bianca Maria
Secondo una leggenda, di notte su un loggiato del castello
apparirebbe il fantasma di Bianca Maria Scarpardone, prima moglie di Renato
di Challant. La bella e irrequieta giovane fuggì da Issogne a causa delle
perduranti assenze dello sposo e finì giustiziata a Milnao, nel 1526, con la
gravissima accusa di aver ordito l’omicidio del suo amante, Ardizzino Valperga.
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Dettagliatissime
istantanee d’epoca.
Particolare dell'affresco della lunetta del mercato sotto il porticato
interno del porticato corredato con panche a muro in legno e lunette affrescate in una fotografia del 1898
Il bellissimo ciclo di affreschi, mostrava l’abbondanza assicurata
dal buon governo del signore di Issogne. I dipinti, che svelano moltissimi
dettagli della vita professionale dell’epoca, sono attribuibili al maestro
Colin da un graffito nella lunetta del corpo di guardia, dove si legge:
“Magister Collinus”-
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La sentinella del lago.
ROCCA DI ANGERA (VARESE).
la rocca vista dalla sponda opposta del lago
Baluardo medievale perfettamente
conservato, la Rocca
di Angera domina l’estremità meridionale del Lago Maggiore. Si trova in
posizione strategica per il controllo militare e commerciale della zona, che
infatti fu sede di una base militare romana sul lago. L’abitato fu distrutto
dai Visigoti e poi dai Franchi, quindi conquistato e ricostruito, sul finire
del VI secolo, dai Longobardi, a cui si deve forse un prima edificazione della
fortificazione sullo sperone di roccia che sovrasta il paese. Uno dei manieri con
la vista più suberba che si trovino in Europa.
Ma la storia della rocca è legata
soprattutto alla lotta tra le famiglie Visconti e Torriani per il dominio della
di Milano. Goffredo da Langosco, capo delle forze viscontee, occupò Arona nel
1276 e lì venne raggiunto da
molti sostenitori di Ottone Visconti. A poca distanza dal castello, presso il ruscello
Guassera, le forze di Langosco furono sconfitte e la rocca venne forse
danneggiata. Ottone, dopo aver capovolto la situazione con la battaglia di
Desio (1277), divenne il signore di Milano e per accrescere il proprio potere
fece ricostruire la rocca di Angera. Accanto alla più antica torre castellana
venne eretta l’ala meridionale, detta viscontea; intorno al 1350, il complesso
fu ampliato dall’arcivescovo Giovanni II Visconti. Successivamente fu il
terribile Bernabò Visconti, dal 1375 al 1385, a far innalzare l’ala settentrionale
detta scaligera, in onore della terza moglie Beatrice della Scala. Nel
Cinquecento i Borromeo (la famiglia aveva acquistato la rocca nel 1449 dalla
Repubblica Ambrosiana9à completarono il maniero, erigendo la magnifica ala verso
il lago con il suo belvedere mozzafiato. La Rocca di Angera ospita il più grande museo
d’Europa dedicato a bambole e giocattoli, oltre a un giardino medievale con
moltissime piante medicamentose e officinali.
La lotta per Milano
la sala della giustizia
Al secondo piano della rocca,
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La reggia del magnifico signore.
CASTELVECCHIO (VERONA).
Ripreso il controllo della città
di Verona dopo il colpo di mano del fratellastro Fregnano (che aveva
approfittato della sua assenza per sfilargli il potere), Cangrande II della
Scala cominciò a progettare un palazzo fortezza che lo mettesse al riparo tanti
da pericoli esterni quanto da quelli interni. Nacque così sulla riva
dell’Adige, a partire dal 1354, il più grande edificio medievale veronese.
Originariamente denominato castello di San Martino in Acquaro, dal nome di una
chiesa preesistente, era insieme reggia e fortezza, chiuso su tre lati dalle
muraglie e abitato in contemporanea dalla guarnigione militare, dalla famiglia
del signore e dal personale di corte.
Castelvecchio è una residenza
molto vasta, che colpisce per il suo aspetto imponente e per la forma
decisamente militare, accentuata dalle merlature che si susseguono lungo le
mura e dalle sette torri angolari coperte, di cui l’antico uso residenziale è
ancora oggi ben testimoniato dai resti dell’originaria decorazione a fresco
visibile in alcune sale. Il complesso è costituito da due parti, divise dalle imponenti
mura duecentesche. La reggia vera e propria è protetta da uno stretto cortile a
doppio ordine di mura. Al centro svetta l’alta torre principale (Torre del
mastio), da cui si slancia sul fiume il ponte fortificato Scaligero a tre
arcate, che va a integrare il sistema difensivo del castello. Sull’altro lato
della fortezza è presente un grande cortile a pianta rettangolare,
originalmente destinato a piazza d’armi. Per quanto poderosa e sorvegliata
dalle milizie armate, Castelvecchio non riuscì a svolgere il compito per cui
era nata: proteggere il signore che l’abitava dalla ritorsione dei fratelli che
si erano visti sfilare il potere: nel 1359, Cangrande II fu ucciso dal fratello
Cansignorio, il quale, pur d’imporre la successione a favore dei suoi figli
naturali, non esitò a eliminare anche l’altro fratello, Alboino.
Nel gennaio 1944, a Castelvecchio si
celebrò il processo di chi aveva tradito il Duce durante la seduta del Gran
consiglio del fascismo, il 25 luglio 1943. Ciano e altri quattro gerarchi vennero
condannati a morte e fucilati (vedere l’articolo Ciano traditore o vittima
sacrificale? Su questo blog).
Il ponte
in discesa.
Una carrozza trainata da un cavallo si dirige verso il ponte Scaligero
Eretto nella seconda metà del Trecento, con le sue tre potenti arcate
il Ponte Scaligero scavalca l’Adige e fornisce a Castelvecchio una via
d’accesso privilegiata sull’altra riva del fiume (per Cangrande il ponte
doveva rappresentare soprattutto una potenziale via di fuga in direzione del
Tirolo, dove regnava suo genero Ludovico il Bavaro, nel caso di sommosse
cittadine). Lungo più di
|
.
La rocca infestata sul cammino degli
Abati.
CASTELLO DI BARDI (PARMA).
particolare delle mura del Castello
Dall’alto di uno sperone di
diaspro rosso, da oltre un millennio il Casello di Bardi controlla il
territorio alla confluenza dei fiumi Ceno e Noveglia, nel Parmense. Sotto le
sue mura passava, nel Medioevo, l’importante via degli Abati, il cammino che
metteva in comunicazione Bobbio con Pavia, già capitale del Regno dei
Longobardi; non lontano il traffico di pellegrini lungo la via Francigena. Già
nel IX secolo, il vescovo di Piacenza Everardo fece del maniero il suo rifugio
per proteggersi dalle incursioni ungare. Ma fu con il ghibellino Ubertino di
Piacenza che la rocca, a partire dal Trecento, conobbe i suoi secoli migliori:
prima imprendibile fortilizio, poi residenza principesca impreziosita da
pinacoteca, archivio di famiglia e ricca biblioteca. Dall’alto delle sue mura a
strapiombo, dotate di un cammino di ronda (ancora interamente percorribile)
coperto, le guardie potevano avvistare con largo anticipo il nemico in
avvicinamento. All’interno, vigeva la classica organizzazione della fortezza,
con la piazza d’armi, gli alloggi delle milizie, le prigioni: tutte collegate
da strette e tortuose scale.
A pochi chilometri dalla rocca,
il 29 novembre 1321 fu combattuta una furiosa battaglia tra guelfi e ghibellini:
da una parte il cremonese Giacomo Cavalcabò, dall’altra Gian Galeazzo Visconti,
che ebbe la meglio e poté così proseguire la politica espansionistica impressa
sotto il suo dominio dalla signoria milanese che appoggiava l’Impero.
La fortezza ospita il Museo della
civiltà valligiana e alcune sale dedicate alla memoria del capitano Pietro
Cella, prima medaglia d’oro del Corpo Alpino. Vi hanno inoltre sede il Museo
della fauna e del bracconaggio e il Museo archeologico della Valle del Ceno.
Fino agli Settanta del Novecento era in rovina, dopo aver ospitato una prigione
militare.
Lo spirito
di Moroello.
La prima foto del fantasma del castello di Bardi (la forma chiara sopra la testa del giornalista Daniele Kalousi).
Ogni maniero che si rispetti ospita il suo fantasma, ma quello che
alberga a Bardi ha una particolarità unica: pare che si sia lasciato
fotografare (ammesso che si voglia identificarlo nell’alone biancastro che
compare in una foto degli anni Novanta). Vero o falso che sia lo scatto, se
di spirito si tratta non può che essere quello del povero Moroello, il bel
cavaliere che si tolse la vita al ritorno dalla guerra, una volta appresa la
notizia del suicidio della sua dolce Soleste. Credendolo morto, la giovane si
era gettata dal mastio dopo aver visto avvicinarsi al castello truppe con le
insegne nemiche. L’infelice non poteva però sapere che quelle divise erano
state indossate da Moroello e dai suoi uomini in spregio al nemico battuto.
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Un guardaroba di ferro.
CASTEL COIRA (BOLZANO).
Oltre cinquanta armature
perfettamente conservate, complete di armi e accessori, compongono il
“guardaroba di ferro dei conti”, la più grande armeria privata d’Europa: tutti
pezzi originali appartenenti alle famiglie Matsch e Trapp. La sala delle
armature è il vanto del Castello di Sluderno (Bolzano), in Val Venosta, da
mezzo millennio di proprietà dei conti Trapp, che ancora lo abitano alcuni mesi
all’anno. Fu eretto intorno al 1260 per volere del principe-vescovo di Coria,
sotto la guida rientrava allora la Val
Venosta , allo scopo di contenere l’espansione della famiglia
Matsch. Il nucleo originario del castello era formato dal mastio, il muro di
cinta e il palazzo. Quando la diocesi di Coira perse la disputa territoriale
con Mainardo II di Tirolo-Carinzia, il maniero passò di mano e finì, ironia
della sorte, proprio in quelle dei Matsch, che lo mantennero fino
all’estinzione del casato, nel Cinquecento, quando subentrò loro la famiglia
ancora oggi proprietaria del castello.
Con i Trapp, Castel Coira divenne
una dimora rinascimentale e si arricchì di bastioni, terrazze e giardini. Allo
stesso periodo risale il loggiato cuore del palazzo, collocato intorno a un
cortile interno e impreziosito da una decorazione pittorica e scultorea che lo
abbraccia interamente. Sulle pareti spiccano gli affreschi di animali tratti
dalle favole di Esopo insieme a creature fantastiche. Le volte, invece, sono
affrescate con un motivo a foglie che non è solo un ornamento, ma un modello
originale per rappresentare l’albero genealogico dei Matsch e dei Trapp.
Poiché il castello non fu mai
distrutto, vanta ancora al suo interno moltissimi oggetti antichi perfettamente
conservati. Fra tutti spicca una
scultura della Madonna del 1270,
oltre a un favoloso porticato dipinto, la cui volta rinascimentale venne
realizzata con il prezioso marmo di Lasa. Uno splendido giardino e le terrazze
gotiche creano atmosfere davvero fiabesche.
Ulrico il
gigante.
Al centro dell’armeria del castello troneggia l’armatura di Giacomo
VI Trapp e del suo cavallo realizzata nel 1540, ma quella che impressiona più
delle altre e risalente al 1450, opera degli armaioli milanesi Missaglia,
pesante 46 kg: apparteneva a Ulrico IX di Matsch (1480-1481), capitano
generale del Tirolo dal 1471
al 1476, un vero e
proprio gigante, alto più di due metri.
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Il nido inespugnabile.
CASTELLO DI ARECHI (SALERNO).
Il castello e la cinta resero
Salerno “per natura e per arte
imprendibile, non essendovi in Italia una rocca più munita di essa”. Così,
nell’VIII secolo, il cronista Paolo Diacono rendeva merito al lavoro degli
architetti del principe longobardo Arechi II che, trasferita la capitale del
suo ex ducato da Benevento a Salerno, fece della rocca una fortezza
inespugnabile.
Sulla cima del monte Bonadies, a 300 m sul livello del mare,
in una posizione che permettevi controllare l’intera città e il suo golfo, una
fortificazione militare era già presente nei tempi romani, anche se un primo
embrione di rocca nacque solo con i bizantini. Arechi ne perfezionò la funzione
di baluardo della città, ponendola al vertice di un complesso sistema difensivo
che, calando le mura lungo il colle, si spingeva a cingere l’antica Salerno. Il
luogo restò inespugnabile per tutta la sua storia. Quanto, nel 1077, l’ultimo principe longobardo,
Gisulfo II, dovette arrendersi all’assedio posto al castello dal normanno
Roberto il Guiscardo, fu soltanto per fame e non perché il nemico fosse
riuscito a far breccia sulle mura. Il nucleo centrale del castello è protetto
da torri unite tra loro da un cinta muraria merlata e da ponti levatoi : a
nordovest è possibile ammirare la torre di guardia, quella più nota e
dall’aspetto imponente, che ne sottolinea la validità difensiva: si tratta
della “Bastiglia”, costruiti dai Normanni su uno sperone roccioso a nord del
castello originario.
Nel 1820, il castello fu teatro di una congiura carbonara:
l’intento era quello di causare un’insurrezione popolare, ma per via del
tradimento di un affiliato il tentativo non andò in porto. Dopo un periodo di
abbandono del maniero, gli ultimi proprietari, i conti Quaranta di Fossalopara,
il 19 dicembre 1960 lo vendettero alla Provincia di Salerno, che lo restaurò.
Nel 1992, le Poste italiane dedicarono un francobollo a questo gioiello
architettonico.
Arechi II,
da duca a principe dei Longobardi.
Arechi II fu uno dei più potenti duchi longobardi. A Benevento, sua
prima capitale, diede vita a una corte splendida, e arricchì la città con
monumenti e chiese, come Santa Sofia, che dotò di reliquie di santi per
trasformarla in santuario nazionale. Dopo la conquista del Regno dei
Longobardi da parte di Carlo Magno, prese per sé il titolo di principe per
mantenere viva l’eredità del suo popolo. Sposato con Adelperga, figlia
dell’ultimo re Desiderio, si trasferì però a Salerno, dove morì nel 787.
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Rifugio di pietra contro i pirati.
Posto su un isolotto di origine
vulcanica collegato al versante orienta di Ischia da un ponte lungo 200 m ., il Castello Aragonese
ha rappresentato per secoli un rifugio per la popolazione contro i saccheggi di
Visigoti, Vandali, Ostrogoti e Saraceni. La costruzione della prima rocca
risale addirittura al V secolo a.C. per volere di Gerone, tiranno di Siracusa,
che intervenne a favore dei Cumani e ottenne come ricompensa il possesso
dell’isolotto. La fortezza fu poi occupata dai Partenopi e successivamente dai
Romani ma è agli Aragonesi, in particolare ad Alfonso V, che si deve la moderna
fisionomia del castello, non dissimile dal Maschio Angioino di Napoli: un
solido fortilizio a forma quadrangolare con mura fornite di quattro torri.
All’interno trovavano posto gli alloggi reali e dei cortigiani, quelli per la
truppa e dei servi, ma alla bisogna, quando incombeva il pericolo dei pirati,
era tutta la popolazione a rifugiarsi nel maniero. Fu proprio Alfonso a
collegare l’isolotto dove sorgeva il castello al resto dell’isola attraverso un
ponte di legno a volere il tunnel scava nella roccia per oltre 400 m ., che ancora oggi
permette l’accesso alla struttura. Prima di allora la fortezza era
raggiungibile soltanto via mare e grazie a una scala esterna.
Nel Cinquecento, nel periodo del
suo massimo splendore, il castello arrivò a ospitare quasi 2000 famiglie: al
riparo delle sue mura convivevano il principe e la sua corte, la guarnigione
militare, il vescovo con il capitolo e il seminario, il convento delle clarisse
e l’abbazia dei monaci basiliani di Grecia. Sull’isola d’Ischia vi erano in
tutto ben 13 chiese, compresa la cattedrale.
Nobildonna e poetessa di valore il 27 dicembre 1509 Vittoria Colonna si sposò nel Castello
Aragonese con il marchese di Pescara e condottiero Ferdinando Francesco
d’Avalos. La donna soggiornò sull’isola dal 1501 al 1536, periodo che
coincise con un momento di rigoglio culturale di Ischia, proprio grazie alle
frequentazioni della Colonna, la quale si contornava di artisti e pensatori
del calibro di Michelangelo Buonarotti, Ludovico Ariosto e Pietro Aretino.
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Il covo del brigante Ghino di Tacco.
ROCCA DI RADICOFANI (SIENA).
La possente Rocca senese svetta
da più di mille anni sulla cima di un’imponente rupe alta 896 m . dalla quale domina
tutto il territorio posto fra il monte Cetona, la Val d’Orcia e il monte Amiata.
Ai suoi piedi correva un antico passo della via Cassia, poi Francigena o Romea,
e fu senza dubbio questo a determinare la sua nascita e la sua storia, legata a
questa strada, fin dalle sue origini.
Data la sua importanza
strategica, la Rocca
fu da sempre contesa, epicentro delle lotta tra Siena e l’alleata dei
fiorentini Orvieto, con la costante intromissione del papato. Sul finire del
Duecento divenne il rifugio di uno dei più famosi briganti medievali italiani,
Ghino di Tacco. Sebbene di nobile stirpe, il padre era il conte ghibellino
Tacco di Ugolino, insieme con la famiglia Ghino formò una banda dedita a furti
e rapine. Catturati e giustiziati il padre e lo zio, il giovane si rifugiò
proprio a Radicofani e, al sicuro della rocca, proseguì la sua carriera di
bandito rapinando i viandanti che passavano sulla sottostante via Francigena.
Evitando inutili violenze, egli depredava i malcapitati dei lori averi, lasciando
però il necessario per proseguire il viaggio. Prima del rilascio offriva anche
un banchetto, e se la vittima dell’imboscata si rivelava uno studente o un
povero, il ladro gentiluomo la lasciava libera di proseguire senza problemi.
Dopo una vita ricca di
scorribande, secondo alcune fonti Ghino sarebbe morto a Sinalunga intorno al
1313, mentre tentava di sedare una rissa scoppia tra soldataglie e contadini.
La rocca possiede una struttura
difensiva esterna di forma pentagonale e una interna a tre lati, di cui
spiccano ancora le rovine delle torri angolari e un corpo centrale (o cassero),
oggi restaurato e visitabile. Il parco pubblico di Radicofano, affacciato sulla
Val d’Orcia ospita una statua di Ghino di Tacco. Sotto tale pseudonimo era
solito scrivere sull’Avanti il leader socialista Bettino Craxi.
L’ultimo
baluardo.
Durante la guerra tra Firenze e Siena, la fortezza di Radicofani
assunse un ruolo importante nel conflitto, essendo l’ultimo baluardo
difensivo della Repubblica di Siena. L’eroica resistenza si protrasse fino al
tramonto del 17 agosto 1559,
quando venne ammainata la gloriosa Balzana, ossia lo stendardo bianco e nero,
simbolo secolare della città toscana.
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Articolo in gran parte di Mario
Galloni pubblicato su Medioevo Misterioso, altri testi e immagini da Wikipedia.
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