I leggendari cavalieri di
Savaran.
Per quasi cinque secoli
(III-VII d.C.), gli eserciti sasanidi riuscirono a tenere a bada l’avanzata
romana, prima, e bizantina, poi. Lo fecero in virtù di un’organizzazione
militare superba incentrata su reparti d’élite di cavalleria pesane. I Savaran,
divenuti celebri per le loro cariche inarrestabili, erano l’incubo di ogni
avversario.
Sapore I (Farsi شاپور اول, Šāpūr, traslitterato anche come Shāhpur o Šābuhr - dall'antico-persiano xšayaθiya puθra("figlio di re") -; Firuzabad, 215 circa – Bishapur, maggio 270) è stato re sasanide di Persia dal 12 aprile 241 alla sua morte.
Conseguì diverse vittorie contro eserciti invasori dell'Impero romano, catturando l'imperatore romano Valeriano
Divisa di un guerriero catafratto ritrovata in Kazakistan
Ai giorni nostri Alessandro il Grande, Annibale, Cesare,
Attila o Gengis Khan, tanto per fare alcuni esempi, non hanno più segreti: sono
entrati a far parte dell’immaginario collettivo, vengono osannati come geni
militari e le loro battaglie sono studiate come esempi di strategia e tattica
inarrivabili. A Sapore I, sovrano sassanide che regnò dal 241 al 271, la storia invece ha riservato ben
altra sorte: quasi sconosciuto ai più, è materia di studio solo per pochi
esperti. È quasi incredibile, se si considera che durante il suo regno riuscì
in un’impresa sensazionale: sconfiggere ben tre imperatori romani. Come
dimenticare il terribile destino riservato a Valeriano, preso prigioniero e
messo alla berlina – secondo lo storico Lattanzio . prima di essere
barbaramente ucciso?
Le imprese di Sapore sono per solo uno dei tanti capitoli
che hanno caratterizzato il permanente stato di guerra tra Roma prima, Bisanzio
poi, e la Persia ,
un conflitto mortale da cui non si materializzò mai un vincitore. Eppure per
quasi quattro secoli gli eserciti sassanidi, la superpotenza d’Oriente, seppero
tenere testa, sebbene non siano mancate cocenti sconfitte, allo strapotere
delle legioni romane, dimostrando di poter combattere alla pari. Una realtà che
la Città
eterna, fu alla fine costretta ad accettare. Ma non solo. Nella seconda metà
del IV secolo, il filosofo siriaco Libanio, scriveva: “…(i Romani) preferiscono soffrire qualsiasi destino pur di dover
guardare in faccia un persiano”. Affermazione, per nulla esagerata, dettata
dalla perfetta conoscenza degli eventi militari che da decenni si susseguivano
senza sosta ai confini dell’impero, ma anche dall’esperienza patita sulla
propria pelle: proprio a lui, infatti, era toccato piangere la morte
dell’imperatore Giuliano, suo intimo amico, ucciso nel corso della fallita
spedizione in Persia del 363. E non ci sono dubbi che con quell’espressione
“persiano” intendesse riferirsi, più di ogni altra cosa, agli implacabili
cavalieri catafratti (sia l’uomo che il cavallo erano dotati di pesanti
armature), diventati l’incubo di ogni legionario.
Conosciuti con il nome di Saravan, erano un’eccezionale
corpo scelto, che costituiva l’ossatura di ogni esercito sassanide, la cui
presenza sul campo di battaglia si rivelò risolutiva per quasi cinque secoli
(III-VII), tanto da raggiungere una fama paragonabile a quella della cavalleria
araba o mongola. Non si esagera di certo quando si afferma che fu proprio la
loro leggendaria abilità ad aver salvato la Persia dalla lunga mano di Roma.
I catafratti nella storia.
Re persiano vestito da catafratto, della dinastia sasanide (226-637), Kermanshah, Iran
I Sassanidi non furono
i primi, né sarebbero stati gli ultimi, a impiegare formazioni di catafratti.
A partire almeno dal V secolo a.C., sebbene venissero utilizzate tattiche
diverse, i catafratti erano stati adoperati da Achemenidi e Parti, loro
predecessori nel controllo dell’altopiano iranico; e proprio da questi ultimi
avrebbero ereditato la loro specifica tradizione militare, per poi
migliorarla e adattarla alle loro specifiche esigenze.
Ma dove nacquero
questi guerrieri corazzati? Sebbene non ci sia un accordo definitivo, i
principali indiziati sarebbero le popolazioni sedentarie massagete della
Corasmia, una regione dell’Asia corrispondente all’attuale Uzbekistan;
invenzione dettata dall’esigenza di contrastare la minaccia dei cavalieri
nomadi delle steppe. L’impero achemenide, che era a contatto con i Massageti,
potrebbe pertanto aver adottato questa soluzione, incorporando nel suo
esercito unità di catafratti in qualità di mercenari.
Dopo la parentesi
vittoriosa di Alessandro Magno in Persia (seconda metà del IV secolo) questa
pratica fu accolta anche dai regni ellenistici, formatisi dalla dissoluzione
del suo impero: regno selucide e regno greco-bactriano. Dopodiché furono
proprio i Parti, che riuscirono a strappare ai Selucidi il controllo delle
terre a nord dell’Iran, intorno al Mar Caspio, a impiegarli in maniera
assidua come lancieri supportati da arcieri a cavallo. Saranno proprio loro,
infatti, a sconfiggere le legioni di Crasso nella famosa battaglia di Carre
nel
L’impiego dei
catafratti non si esaurì con la fine dell’impero sassanide. Oltre a essere assai
in voga presso l’esercito tardo bizantino, tanto da diventare un vero punto
di forza delle sue tattiche – una loro carica poteva mettere in crisi lo
schieramento nemico grazie anche all’adozione delle staffe – divennero anche
l’ossatura degli eserciti turco-mongoli o mamelucchi.
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IL SEGRETO DELLA MOBILITA’. Per capire il ruolo avuto dalla
cavalleria pesante nel garantire la sopravvivenza della dinastia sassanide è
necessario comprendere la struttura dell’esercito. A differenza dei Romani, i
Persiani non svilupparono mai una fanteria paragonabile a quella legionaria, ma
preferirono affidarsi a due componenti a cavallo: una leggera, l’altra pesante.
Una scelta dettata da condizioni geografiche (le enormi distese dell’Altopiano
iranico e dell’Asia centrale) e militari (i loro nemici erano per lo più nomadi
che si muovevano a cavallo con rapide strategie d’attacco, contro cui i fanti
non avrebbero mai potuto avere la meglio). Ciò non significa però che non
esistessero reparti di fanteria leggera (giavellottisti, frombolieri, ecc.) o
pesante come i Dailamites, che venivano schierati in seconda linea ed erano
conosciuti per la loro abilità negli scontri corpo a corpo, ma nel complesso il
loro impiego era limitato o secondario, rispetto a reparti dotati di maggiore
mobilità, tra cui eccellevano proprio i Savaran. Esisteva anche una componente
di cavalleria leggere i cui effettivi, reclutati tra i popoli alleati (Alani,
Albani; Unni, Cazari e Arabi), venivano inquadrati come truppe mercenarie, con
compiti di supporto. Piuttosto efficaci erano anche unità, il cui numero però
andò riducendosi nel tempo, di arcieri, impiegabili nelle prime fasi dello
scontro per indebolire il nemico con fitti lanci di dardi. Una volta che la
formazione avversaria era stata dispersa, o i loro ranghi indeboliti, era più
facile per la cavalleria pesante attaccare. Erano utilizzati a questo scopo
anche alcuni reparti di elefanti da guerra che, per quanto non numerosi,
potevano terrorizzare l’avversario con le loro cariche improvvise, come nel
caso della battaglia del Ponte (634),
presso Kufa in Iraq, in cui gli Arabi furono messi in rotta proprio
dalla vista di quegli enormi pachidermi. In questo caso si trattava però di
truppe di provenienza indiana, come dimostra il titolo di Zend-hapet,
Comandante degli Indiani, presente nelle fonti dell’epoca. L’esercito sassanide
quindi, se paragonato a quello romano, era un apparato più mobile e dinamico,
in grado di mettere in pratica complesse tattiche di mordi e fuggi, finalizzate
a sfiancare il nemico (una volta che la formazione si era scompaginata) tanto
da poterlo poi attaccare frontalmente con le irresistibile cariche dei
catafratti. L’impatto di questi cavalieri, dotati di lancia, spada e mazza
ferrata e protetti da pesanti armature, su fanti appiedati aveva in genere un
effetto devastante; un modo di combattere che ebbe una profonda influenza anche
sugli eserciti di Roma che, a partire dal III secolo, incominciarono a dotarsi
di unità di catafratti per poter competere con i loro nemici proprio alle
frontiere orientali dell’impero.
La tattica in tre mosse.
Ecco un chiaro esempio
di come un esercito sassanide era in grado di attaccare la prima linea
nemica: il classico assalto composto da Savaran e arcieri.
Fase 1.
L’esercito sassanide si
avvicina lentamente al campo di battaglia assumendo una formazione su tre
linee profonde: la prima è formata da catafratti, la seconda da arcieri a
cavallo, la terza delle migliori unità d’assalto Savaran,
Gyan-avspar-Peshmerga, il meglio della cavalleria persiana. Dopodiché la
prima linea simula una carica contro lo schieramento nemico composto da
fanteria pesante.
Fase 2.
La fanteria nemica
serra i ranghi per affrontare la minaccia, ma in realtà i Savaran
interrompono la carica per permettere agli arcieri di mirare con tutta calma
e tirare sull’avversario che, a quel punto, offre un facile bersaglio. Una
vera tempesta di dardi colpisce i fanti nemici, intenti a difendersi dalla
minaccia dei lancieri, provocando pesanti perdite, aprendo i ranghi e riducendone
il morale. A seguire, gli arcieri si ritirano.
Fase 3.
È il momento atteso
dalle truppe d’assalto, veri e propri carri armati dell’antichità, dotate di
armature pesantissime in grado di resistere ai colpi di qualsiasi arma. In
formazione serrata, i Peshmerga attaccano con la massima rapidità, sapendo
perfettamente che il loro unico obiettivo è spezzare la formazione nemica e
metterla in fuga. Non hanno alternative: il peso della loro armature è tale
che un cavallo non sarebbe in grado di resistere a una seconda carica, né
tantomeno fuggire se incalzati dal nemico.
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IL FIOR FIORE DELLA NOBILTA’.
Da dove provenivano questi temibili combattenti? La struttura della società
sassanide era dominata dalla casta dei guerrieri, o Arteshtaran, al cui vertice
erano posizionati proprio i Savaran. Si trattava quindi dei membri più in vista
dell’aristocrazia, suddivisi in tre categorie d’importanza decrescente: la
prima era rappresenta dalle sette famiglie più altolocate di Persia (tra cui
eccelleva la Casa
di Sassan) e Partia; la seconda dagli Azadan, l’alta nobiltà di discendenza
ariana che, a partire dal regno di Media (VII-VI secolo a.C.), aveva
conquistato l’altopiano iranico (costituivano la componente più numerosa
dell’esercito); e infine i Dehkans, arruolati all’interno della nobiltà minore.
A questa prima suddivisione seguivano tutta una serie di reparti con compiti
diversi a seconda del rango e delle capacità militari. Il meglio del meglio era
rappresentato dagli Zhayedan, gli Immortali, diecimila uomini guidati da un
comandate che portava il titolo di Varthragh-Nighan Khvadhay. Questa era
un’unità attiva fin dagli albori dell’impero sassanide, ideata per emulare
l’omonimo reparto impiegato dall’esercito achemenide secoli prima, tanto da
riprenderne uniformi e insegne. Il loro ruolo era vitale: schierati dietro le
linee, avevano il compito di chiudere ogni possibile falla durante le fasi
cruciali della battaglia. Altrettanto famosi erano anche i mille uomini della
Pushtighban, o Guardia Reale, condotti da un comandante con il titolo di
Pushtighban-Salar, e che in tempo di pace erano acquartierati nella capitale
Ctesifonte. Quei cavalieri, poi, che eccellevano in battaglia potevano aspirare
a far pare dei temibili reparti d’assalto Gyan-avspar, o Pesmerga. ‘coloro che
sacrificano la vita’. A prtire dalla fine del VI secolo, inoltre, con la
riforma militare di Cosroe II (590-628), il numero di reparti di prestigio finì
con aumentare, per far fronte alle sempre più complesse sfide militari. Tra
questi si può citare una grande unità, chiamata i Cavalieri d’Oro (al cui
comando era posto un ufficiale di rango molto elevato), che utilizzava armature
pesanti dorate e divenne celebre per le sue inarrestabili cariche frontali.
SAVARAN.
La cavalleria pesante sassanide dal
III al VII secolo subì notevoli cambiamenti in funzione di sempre nuove
tattiche. Le varie riforme militari portarono a un aumento della protezione
(per resistere a qualsiasi tipo di offesa) sia del cavaliere che del cavallo,
con logico aumento del peso dell’armatura. Fattore non trascurabile,
soprattutto in regioni dove le proibitive condizioni climatiche dei mesi
estivi avrebbero inevitabilmente fiaccato il cavallo e logorato il cavaliere.
I Savaran vennero, per tale ragione, impiegati principalmente come truppe
d’assalto per rapide cariche frontali, finalizzate a mettere in crisi le
formazioni nemiche e lasciarle alla mercé degli arcieri. Perfettamente
addestrati e motivati, questi uomini, divennero pertanto temuti e rispettati
da tutti gli avversari con cui si misurarono: anche le legioni romane, la più
potente fanteria dell’epoca, ben poco poteva contro le loro terribili cariche
frontali.
Ricostruzione di un cavaliere pesante catafratto della nobiltà partica
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CAVALIERE DEL III SECOLO.
I cavalieri di questo periodo erano così armati e protetti: lancia:
l’arma principale contro formazioni serrate;
elmo: tra vari tipi di copricapo figura anche un elmo a calotta senza
paraguangue; armatura: veniva indossata una cotta di maglia che copriva tutto
il corpo e il viso, e sopra un’armatura lamellare per il busto e un lorica
segmentata per gli arti inferiori; arco: alcuni cavalieri erano dotati anche
di arco composito per poter colpire da lontano ; bordatura del cavallo:
l’intero cavallo,, o talvolta solo la sua parte frontale, veniva bardato da
un’armatura per proteggerlo nelle cariche frontali.
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CAVALIERE DEL VII SECOLO.
I cavalieri di questo periodo erano così armati e protetti: lancia:
era l’arma principale per le cariche frontali. Erano in uso anche asce da
guerra e mazze ferrate; elmo: si tratta di un caratteristico copricapo conico
in grado di adattarsi alla cotta di maglia che proteggeva la testa; arco e
faretra: in epoca tarda tutte le unità di Saravan vennero dotate di arco
composito e faretra; spada: per il combattimento ravvicinato era in uso una
pesante spada con lama a doppio taglio; bardatura del cavallo: la bardatura
del cavallo è totale. Un’armatura lamellare ricopre l’intero animale nelle
sue parti vitali, ad eccezioni degli arti inferiori.
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Catafratto sasanide alla carica, da un rilievo a Taq-e Bostan. La micidiale cavalleria pesante sasanide non riuscì a far pesare la propria forza contro l'esercito di Giuliano
L'esercito sasanide (persiano: ارتش ساسانيان, Artesh-e Sāsāniyān; pahlavi: سپاه, Spâh, "esercito") nacque con la riforma introdotta da Ardashir I, primo sovrano sasanide e difese l'Eranshahr (il "regno dell'Iran") per oltre 400 anni, fino alla conquista araba.
ORGANIZZAZIONE TATTICA. I Sassanidi all’inizio del III secolo d.C. adottarono il sistema di organizzazione militare in voga nell’esercito partico, da loro sconfitto nel 224 nella battaglia di Firuzabad (da cui ereditarono il controllo della Persia), perfezionandolo e portandolo a un livello di efficienza superiore. In generale esistevano tre tipi di unità: i Vasht, che erano piccole compagnie, i Drafsh,, reparti di circa mille uomini dotati di particolari simboli di riconoscimento; i Gund, vere e proprie divisioni, guidate da un Gund-Salar (una sorta di generale), i cui effettivi poteva arrivare a 10mila uomini. mediamente un esercito sassanide standard era in grado di schierare circa 12mila uomini, il cui nucleo principale era costituito proprio di Savaran. Quel’era il loro numero rispetto al resto delle truppe? Dati alla mano, sappiamo che in epoca partica il rapporto tra lancieri e arcieri a cavallo era di uno a dieci; in epoca sassanide, invece, questa proporzione subì un radicale cambiamento a favore dei primi, tanto che la componente catafratta divenne predominante, con gli arcieri in netto declino. Per quanto riguarda l’impiego sul campo la pratica più frequente era dividere l’esercito in cinque unità: una prima linea di cavalleria catafratta (Savaran), una linea di rinforzo di fanteria pesante subito dietro, due ali (in genere costituite da reparti a cavallo) e una piccola riserva composta dalle migliori unità di Savaran (Peshmerga). La prima linea, con relative truppe di supporto, funzionava come centro dello schieramento e aveva il compito di mantenere i ranghi uniti in caso in cui le ali fossero collassate; questo per evitare pericolose manovre di aggiramento del nemico. Più arretrate, rispetto al resto dell’esercito, erano schierate le unità più prestigiose degli Immortali; sebbene in alcune situazioni, quando la gravità dello scontro lo richiedeva, potessero essere poste sull’ala destra, a discrezione del comandante in capo dell’esercito che, posizionato in un luogo elevato, poteva tranquillamente seguire l’andamento della battaglia.
Si possono ricostruire tre fasi
principali nello sviluppo dell’esercito sassanide. La prima può essere
definita partica, perché era stata mutata dai predecessori (regno di Partia),
e consisteva nell’impiego di unità di cavalleria pesante supportate da
arcieri a cavallo chiamati Saggitari: il compito dei catafratti era spezzare
il fronte unico della fanteria legionaria per permettere agli arcieri di
decimarli. Solo in un tempo successivo gli arcieri sembrano passare in
secondo piano e perdere importanza. Sapore (309-379§), a sua volta, andò oltre, dotandosi di cavalleria
molto più pesante con soluzioni tecniche che la rende ressero quasi
invulnerabile. Ciò comportò l’adozione di cotte di maglia dalla testa ai
piedi, abbinate ad armature lamellari per proteggere le parti più vulnerabili
del cavaliere e del cavallo. Secondo alcuni autori latini, i Savaran
indossavano elmetti pesantissimi con maschere facciali su cui erano ricavati
piccoli fori per occhi e naso. Lo scrittore greco Eliodoro di Emesa riporta
come l’armatura di questi catafratti fosse al sicuro da ogni tipo di colpo;
il che farebbe pensare a soluzioni tecnologiche così avanzate da impedire
alla frecce degli arcieri romani di penetrarle efficacemente.
La terza fase, invece,,
comportò la comparsa di una sorta di cavaliere universale in grado di di
usare sia la lancia sia l’arco; combattente che presto si diffuse dall’Asia
centrale alla Persia, fino all’impero romano d’Oriente (durante l’ultima fase
dell’impero sassanide fecero la loro comparsa anche le staffe). Per capire
quale aspetto potesse avere ci viene in aiuto il rilievo rupestre di
Taq-e-Bostan, presso Kermanshah, in Iran, dove si vede un cavaliere dotato di
armatura pesante con cotta di maglia lunga, lancia, spada, arco. Pare, come
testimoniato da altre fonti storiche, che venisse impiegato anche uno scudo
(mai usato prima) per proteggersi da armi di lancio o in combattimenti corpo
a corpo.
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UNA STRATEGIA VINCENTE. I Sassanidi adottavano una dottrina ben
precisa: posizionare la cavalleria in prima linea o come avanguardia. I
catafratti avanzavano con le loro lunghe lance in posizione serrata, mentre gli
arcieri a cavallo, a supporto, bersagliavano il nemico da lontano. In praticasi
trattava di applicare tattiche mordi e fuggi, con rapide e potenti cariche di
cavalleria pesante, improvvise ritirate e fitti lanci di frecce. L’usanza
partica di scoccare frecce in corsa o all’indietro continuò pertanto anche in
epoca sassanide. Per gli eserciti romani che per dovettero confrontarsi con
loro, queste tattiche risultarono con il tempo sempre più complesse e
pericolose. Un esempio molto
interessante riguarda la battaglia di Singaradle 348: in quella situazione i Sassanidi attaccarono
con in testa i Savaran, subito seguiti dagli arcieri a cavallo, per poi lanciare
una seconda carica di catafratti: la prima costrinse il nemico a serrare i
ranghi, diventando un facile bersaglio per le frecce e, una volta decimato,
venire travolto dalla seconda ondata. La pioggia di dardi era una minaccia
assai temuta perché, se ripetuta, era in grado di faccare anche le truppe
meglio preparate e addestrate. Secondo il racconto dello storico Ammainano, i
Savaran erano truppe formidabili, ma non
immuni da punti deboli. A causa del peso del loro armamento avevano poca
autonomia sul campo di battaglia. Per questo venivano usati come unità
d’assalto per aprire o scardinare le linee nemiche. Per i Sassanidi, infatti,
la battaglia si decideva, il più delle volte, con una singola, ma potente
carica frontale dei lancieri; fattore che permise ai Romani, in alcune
situazioni, di opporvisi con successo, a patto che le truppe mantenessero una
rigida disciplina. Nel 549, infatti, nella battaglia di Lazica, la cavalleria
romano-bizantina, invece di ingaggiare la controparte nemica, scese da cavallo
per unirsi alla fanteria, sventando la minaccia. Ma i Sassannidi erano spesso in grado di
escogitare nuove soluzioni: quando le condiziono lo richiedevano, i Savaran,
fingendo di caricare frontalmente, a sorpresa convergevano verso le ali, in
modo tale che fosse la fanteria in seconda linea a ingaggiare le truppe
legionarie. Un espediente che spesso disorientava il nemico.
Le loro battaglie più famose.
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Mesiche. Agli inizi del
244, nei pressi di Mesiche, (non lontano dall’attuale città irachena diFallua),
si materializza un gran scontro tra le forse di Sapore I, i cui effettivi non
sono noti, e un esercito romano composto da almeno 150mila uomini al comando
dell’imperatore Gordiano III che, dopo aver battuto il nemico nella battaglia
di Resena, era avanzato inesorabilmente. L’esito è incerto (entrambi i
contendenti rivendicano la vittoria), ma i Romani vengono in gualche modo
fermati. Gordiano, inoltre, caduto da cavallo durante uno scontro successivo
muore.
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Barbalissos. Un esercito sassanide, guidato da Sapore I, i cui effettivi non sono conosciuti, si scontra nel 252, presso la località mesopotamica di Barballissos, con un esercito legionario composto almeno da 60mila uomini, al comando del quale c’erano in governatori del limes orientale, e lo sconfigge pesantemente. La vittoria sasanide apre la strada alla conquista della conquista della capitale provinciale Antiochia, che viene razziata. Tre anni dopo, stessa sorte avrà la città di Doura Europos, in territorio siriano
Nel 252 (o 253) Sapore attaccò la Mesopotamia romane. Lo scontro più importante fu proprio quello combattuto a Barbalissos, dove il re sasanide ebbe ragione dei Romani, secondo le Res Gestae Divi Saporis:
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Ctesifonte. Il 26 maggio
del 363, dopo una lunga spedizione in , face sassanide, l’esercito
dell’imperatore romano Giuliano, quantificabile in 35mila uomini, giunge in
prossimità della capitale Ctesifonte. Ad attenderlo c’è un’armata nemica al
comando del generale Merena, più numerosa e con un grande contingente di
Savaran a disposizione. Eppure Giuliano riesce ad attaccare il nemico e a
riportare un clamoroso successo. Nonostante questo, però, la strategia
sassanide ha la meglio: senza rinforzi e sottoposto a continua pressione, Giuliano
deve ritirarsi. Pochi giorni dopo, in uno scontro minore, viene ferito
mortalmente.
Giuliano davanti alle mura di Ctesifonte
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Callinicum. Il 19 aprile
531, presso Al-Raqqa, nella Siria settentrionale, l’esercito sassanide,
guidato dal comandante in capo Azarethes e valutabile in 15mila uomini, viene
in contatto con un’armata bizantina di 25mila uomini al comando del generale
Belisario. Si acendo uno scontro furioso che durerà tutta la giornata, con
fasi alterne e pesanti da ambo le parti. Solo verso sera la cavalleria
Savaran riesce a mettere in crisi il nemico e ad aprire una breccia nel suo
schieramento, mettendo in fuga la cavalleria. La fanteria bizantina resiste
fino a sera, ma non è in grado di mutare il corso della battaglia. Per
Belisario è la prima sconfitta della sua carriera.
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Bukhara. Nel 557 un esercito sassanide, supportato
da truppe alleate del Khaganato turco occidentale, affronta, presso la città
di Bukhara, nell’odierno Uzbekistan, una potente armata di unni bianchi.
Cosroe I, memore della sconfitta patita dal nonno Peroz I nel 484 ad Herat,
sfrutta un momento di crisi del nemico, impegnato su più fronti
contemporaneamente, per lanciare due poderosi attacchi al cuore del regno
avversario. E proprio sotto le mura della città, riesce a intercettare e
distruggere l’armata unna impiegando la cavalleria pesante. La vittoria gli
permette di annettersi i territori a sud del fiume Oxus.
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PERDITE SCONVOLGENTI. In quasi cinque secoli di lotta
ininterrotta gli imperi romano-bizantino e sassanide si dissanguarono senza che
si palesasse un vero vincitore. Poi, agli inizi del VII secolo, accadde
l’impensabile e in poco meno di trent’anni si arrivo a una svolta: tra il 604 e
il 622, complice una guerra civile che lacerava Bisanzio, le armate sassanidi
dilagarono in Asia Minore e in Siria facendo temere un rapido crollo
dell’impero romano d’Oriente. Solo la salita al potere dell’energico Eraclio
(610-641) spostò nuovamente l’ago della bilancia: avvalendosi dell’appoggio di
mercenari arabi, Eraclio mise in piedi un potente esercito e, tra il 627-8, contrattaccò su larga scala,
mettendo in ginocchio la Persia
che da allora non si riprese più. Finalmente questa guerra infinita sembrava
essere arrivata a conclusione con un vero trionfatore. Purtroppo per i
bizantini, però, lo sforzo militare aveva rappresentato un bagno di sangue sia
in termini finanziari sia militari, con perdite che le fonti dell’epoca
definiscono sconvolgenti. E di questa situazione ne approfittarono altri: nel
giro di pochi anni le agguerrite armate arabe, con la loro cavalleria leggera,
riuscirono a soggiogare la
Persia e a travolgere i bizantini nel Vicino Oriente,
relegandoli alla sola Asia Minore. Con l’uscita di scena di questi due secolari
contendenti, fiaccati da continue dispute, si chiudeva un’era e se ne
apriva un’altra: l’inarrestabile
espansione dell’Islam.
Articolo in gran parte di Antonio Ratti pubblicato su
Storie di Guerre e Guerrieri, edizione Sprea. Altri testi e articoli da
Wikipedia.
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