Quando i cristiani
fermarono i turchi.
L’epico scontro navale
avvenuto nel 1571 vide
fronteggiarsi le flotte mussulmane dell’impero ottomano con quelle cristiane
della Lega santa. La vittoria di quest’ultima entrò nella storia.
Il 7 ottobre 1571, presso
Punta Scropha, all’ingresso del golfo di Patrasso, non lontano da Corfù, si
combatté una delle più imponenti battaglie navali della storia. A fronteggiarsi
furono la flotta dell’impero ottomano di Selim II e quello della Lega
Santa, la coalizione che comprendeva, radunate attorno a papa PioV le maggiori
potenze dell’Europa: Filippo II di Spagna, le Repubbliche di Venezia e di
Genova, Lucca, i Cavalieri di Malta, il Granducato di Toscana e i ducati di
Urbino, Parma, Ferrara, Mantova e Savoia. A determinare la creazione della Lega
e a gettare i presupposti dello scontro, erano stati gli ultimi sviluppi del
plurisecolare conflitto che aveva opposto Venezia ai turchi ottomani nel
contendersi l’egemonia del Mediterraneo. Decisivo fu il sanguinoso scontro
consumatosi a Cipro, baluardo orientale di Venezia, importante scalo
commerciale e strategico nonché ultimo avamposto cristiano in un mare ormai in
massima parte ottomano. Dopo la caduta di Nicosia nel 1571
il governatore veneziano Marcantonio Bragadin resisteva ormai da mesi a
Famagosta con soli 6mila uomini contro i 200mila ottomani comandanti da Lala
Kara Mustafa Pascià. Il papa l’ascetico domenicano Antonio Michele Ghisleri
eletto sul soglio di Pietro con il nome di Pio V, decise allora di intervenire
e si fece promotore una Lega Santa che riunisse sotto il segno della Croce
tutte le principiali potenze cristiane d’Europa nel tentativo estremo di
bloccare l’avanzata turca. La
Lega venne ratificata a Roma il 25 maggio. Poco dopo salpò
dal porto di Messina, al comando generale del giovane ma già valoroso don
Giovanni d’Austria (figlio naturale dell’imperatore Carlo V d’Asburgo e
fratellastro del re di Spagna Filippo II), una flotta destinata a un’impresa
che avrebbe cambiato la storia.
Preti, donne e scrittori combattenti.
ritratto di Cervantes
Durante il
combattimento persino gli uomini di chiesa, come un tal frate Anselmo di
Pietramolara, abbandonarono le benedizioni e le estreme unzioni per impugnare
le armi e menar fendenti. Partecipò alla battaglia anche una donna, una certa
Maria detta ‘
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A GONFIE VELE. Quel 7 ottobre del 1571 cadeva di domenica. Le navi cristiane,
che pochi giorni prima si erano mosse da Corfù alla volta di Lepanto contro la
grande flotta turca, giunsero all’alba nel golfo di Patrasso. Gli uomini
dell’equipaggio erano ancora scossi dalla notizia, appresa solo tre giorni
prima, dell’orribile fine del Bragadin. Dopo dieci mesi di assedio, il nobile
veneziano si era arresa ed era stato
sottoposto a un orrendo supplizio: torturato, condotto a bastonate sulla piazza
principale di Famagosta, incatenato a una colonna e scuoiato vivo. Ora le
milizie cristiane ardevano dal desiderio di vendicarsi. Si può soltanto
immaginare lo stato d’animo con cui assistessero alla messa e ricevettero
l’assoluzione con la plenaria indulgenza di colpa e di pena. Che era stata
riservata loro dal papa sapendo che di lì a poco sarebbero andati a cozzare
contro un nemico spietato che riservava simili agghiaccianti trattamenti agli sconfitti.
Nemmeno le condizioni del mare sembravano favorevoli, sicché oltre alla paura i
cristiani dovevano affrontare anche il vento contrario, che li obbligava a dar
forza ai remi. In un silenzio spettrale, alle 8 del mattino, la vedetta sulla
coffa della Real, l’ammiraglia spagnola al comando di don Giovanni d’Austria,
vide profilarsi all’orizzonte, a circa 15 miglia di distanza, le
prime navi nemiche, dietro le quali si distendevano centinaia di altre
imbarcazioni fino a riempire l’imboccature del golfo. Fu dato l’allarme. Don
Giovanni convocò subito il consiglio di guerra e ordinò di ammainare tutte le
bandiere in modo che solo una, lo Stendardo con il Redentore Crocifisso,
simbolo della Lega, svettasse visibile sulla Real. In vista dell’ormai imminente
scontro, l’ammiraglio fece liberare dai ceppi i galeotti cristiani in modo che,
all’occorrenza, potessero abbandonare i remi e combattere; viceversa i
prigionieri musulmani furono legati ancora più stretti in modo da costringerli
a collaborare per tenere a galla le navi, o in caso contrario affondare con
esse. Fu poi distribuito il rancio, condito da un’abbondante libagione; al
termine don Giovanni, indossata l’armatura dorata, passò in rassegna per
l’ultima volta i suoi comandanti chiamandoli uno ad uno per nome ed esortandoli
a dare il meglio di sé nell’ormai imminente battaglia. Infine prese posto nella
Real. Mentre in nemici giungevano a tiro di cannone, forse per esorcizzare la
paura o forse per sfogare l’adrenalina montante e la giovanile esuberanza, il
comandante improvvisò sul ponte l’indiavolata danza spagnola della gagliarda,
subito imitato dall’equipaggio in un delirio di tamburi e di trombe dal forte
sapore apotropaico. E proprio allora avvenne un fatto che giudicato miracoloso.
Il vento, come si è visto, fino a quel momento contrario, cambiò all’improvviso
direzione sicché le vele ottomane si afflosciarono, mentre viceversa quelle
cristiane si gonfiarono. Pochi istanti dopo Muezzinzade Alì Pascià sparava
dalla Sultana un colpo di cannone al quale don Giovanni rispondeva con ancora
più veemenza: la sfida era accettata e poco prima del mezzogiorno iniziava lo
scontro.
La battaglia di Lepanto, nella Galleria delle carte geografiche, Musei Vaticani.
FORZE IMPONENTI. La flotta in mare della Lega era davvero
impressionante: 204 galee e ben 6 galeazze, sorta di fortezze galleggianti in
grado di ospitare le bocche di fuoco di più di 200 cannoni. Si schierò,
disponendosi da nord a sud, in tre divisioni. La più settentrionale e vicina alla costa era quella veneziana: al
comando dell’ammiraglio Agostino Barbarigo coadiuvato da Marco Querini e
Antonio da Canale, c’erano 53 galee e 2 galeazze. La divisione centrale, con un
totale di 62 galee e 2 galeazze, comprendeva imbarcazioni veneziane, spagnole e
napoletane, genovesi e una sabauda. Il comando era affidato a don Giovanni, che
occupava la Real
spagnolo affiancato dalle capitane del veneziano Sebastiano Venier, del romano
Marcantonio Colonna, del genovese Ettore Spinola, del piemontese Andrea Provana
di Leinì e dalla Vittoria del priore Piero Giustiniani, capitano generale dei
Cavalieri di Malta. Sulla Real erano imbarcati anche duemila soldati urbinati
al comando di Francesco Maria II della Rovere, che si erano arruolati
volontari. La terza divisione, posta a Mezzogiorno, contava 53 galee e 2
galeazze ed era comandata dal genovese Gianandrea Doria, pronipote del celebre
ammiraglio Andrea. Di fronte era infine collocata l’avanguardia di galee, in
totale 8, agli ordini di Giovanni de Cardona; chiudeva la retroguardia con la
riserva di 30 galee guidate da Alvaro de Bazan, marchese di Santa Cruz. A
queste forze la flotta ottomana opponeva un totale di circa 170 galee e 25 galeotti: il comando
supremo era affidato a Muezzinzade Alì Pascià a bordo della Sultana, il corno
destro a Mehmed Shoraq detto “Scirocco”, quello sinistro a Uluç Alì Pascià
detto Occhiali, un calabrese rinnegato e convertito all’Islam. Dietro lo
schieramento centrale si trovava una riserva di 8 galee, 22 galeotte e 64 fuste
al comando di Murad Dragu, figlio del terribile pirata la cui fama aveva
terrorizzato fino a pochi anni prima il Mediterraneo. In totale, la Lega annoverava oltre 36mila
combattenti muniti di archibugio cui si aggiungevano i rematori sferrati
(almeno 30mila) che in caso di mischia erano in grado di difendersi grazie a
una dotazione minima di spada e corazza; in mare turco, invece, i soldati erano
tra i 20 e i 25mila uomini di cui circa 4mila giannizzeri, che costituivano la
fanteria scelta ed erano i soli armati di archibugio: tutti gli altri potevano
infatti contare soltanto sull’arco e sulle frecce. I turchi erano in evidente
inferiorità non solo di numero ma anche in quanto a dotazioni di artiglieria:
avevano infatti a disposizione meno della metà dei pezzi e anche dal punto di
vista tecnico il distacco era enorme, visto che i cannoni europei, di fabbricazione
tedesca, non solo erano moltissimi, ma soprattutto, pare non sbagliassero un
colpo.
Ritratto di don Giovanni d'Austria attribuito aJuan Pantoja de la Cruz
L'infante don Juan de Austria, italianizzato in don Giovanni d'Austria (Ratisbona, 24 febbraio 1545 – Bouges, 1º ottobre 1578), è stato un condottiero, ammiraglio ediplomatico spagnolo. Figlio naturale dell'imperatore Carlo V d'Asburgo, don Giovanni è ricordato per la sua carriera militare che lo vide al comando della flotta della Lega Santa, con cui sconfisse gli Ottomani nella battaglia di Lepanto del 1571
Le fasi della battaglia di Lepanto.
Schieramento: le flotte
cristiana e turca si schierano una di fronte all’altra nel golfo di Patrasso,
il fronte cristiano vede Don Giovanni d’Austria sulla Real al centro
contornato da Sebastiano Venier, Marcantonio Colonna e altri comandanti, al
corno sinistro le navi di Agostino Barbarigo e al destro quelle di Gianandrea
Doria. Dietro è collocata la retroguardia del marchese di Santa Cruz. La
flotta turca schiera invece in mezzo il comandante supremo Muezzinzade Alì
Pascià a bordo della Sultana, alla sua destra Mehmed Shoraq detto “Scirocco”,
a sinistra Uluç Alì Pascià detto Occhiali. Dietro la riserva al comando di
Murad Dragut.
la
Real
FASE 2 Nel corno
sinistro, Agostino Barbarigo si scontra con Mehmed Scirocco e viene messo
fuori combattimento da un colpo di freccia nell’occhio. Durante il furioso
scontro ingaggiato dai veneziani gli schiavi cristiani si liberano e
attaccano i turchi; Scirocco viene decapitato e la sua testa issata su una
picca. I turchi si perdono d’animo e vengono annientati a colpi di
archibugio.
FASE 3 Al centro dello
schieramento la battaglia infuria ancora con il Colonna e il Venier che
riescono a ricacciare indietro il nemico pur con grande difficoltà. Don
Giovanni, ferito, viene attaccato senza successo da Alì Pascià che è
atterrato da un colpo di archibugio e decapitato. Mentre arrivano i rinforzi
cristiani, i giannizzeri privi di munizioni cedono e le ultime resistenze
turche sono fiaccate. Alle quattro del pomeriggio dopo cinque ore di mischia,
la battaglia è vinta dai cristiani.
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Dotazione degli schieramenti.
CRISTIANI
TURCHI
NAVI:
NAVI:
204 GALEE E 6
GALEAZZE 170 GALEE E 25 GALEOTTE E UN
NUMERO
IMPRECISATO DI
FUSTE
UOMINI:
UOMINI:
36MILA COMBATTENTI
MUNITI DI 20-25MILA
COMBATTENTI
ARCHIBUGIO
DI CUI CIRCA 4MILA
GIANNIZZERI.
30MILA REMATORI
SFERRATI
ARTIGLIERIA: ARTIGLIERIA:
PEZZI DI GROSSO E
MEDIO CALIBRO
PEZZI DI GROSSO E MEDIO
DA
PEZZI DI PICCOLO
CALIBRO
180
DA
DA
1200
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Agostino Barbarigo
Papa Pio V, al secolo Antonio (in religione Michele) Ghislieri (Bosco Marengo, 17 gennaio 1504 – Roma, 1º maggio 1572), è stato il 225º vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica, sovrano dello Stato Pontificio, oltre agli altri titoli propri del romano pontefice, dal 7 gennaio 1566 alla sua morte. Teologo ed inquisitore domenicano, operò per la riforma della Chiesa secondo i dettami del Concilio di Trento. Con san Carlo Borromeo e sant'Ignazio di Loyola è considerato tra i principali artefici e promotori della Controriforma. Durante il suo pontificato furono pubblicati il nuovoMessale romano, il Breviario e il Catechismo, furono intraprese le revisioni della Vulgata e del Corpus Iuris Canonici.
Alì Pascià
TEMPESTA DI FERRO. Lo scontro fu preceduto dal lancio di 6
galeazze veneziane, mandate avanti circa mezzo miglio rispetto al resto della
flotta. Muezzinzade Alì nel vedere queste enormi navi così isolate le scambiò
per mercantili, e comunque le ritenne troppo goffe e pesanti per costituire un
pericolo di cui preoccuparsi. Non le attaccò ma cercò di aggirarle e fu un
grave errore: da questi veri e propri castelli in mare, infatti, si scatenò
un’inaspettata pioggia di proiettili sparati in ogni direzione dagli oltre 200
cannoni in funzione. La tempesta di ferro provocò l’affondamentoo il
danneggiamento irreparabile di circa 70 imbarcazioni turche. L’azione delle galeazze, per quanto
non risolutiva, spezzò già lo schieramento ponendo un’ipoteca sull’esito finale
dello scontro, anche se si era soltanto all’inizio. Muezzinzade Alì riuscì ad
ogni modo a parre e, issato sulla sua Sultana, si portò di fronte alla Real
tentando di abbordarla. Mentre gli archibugieri cristiani erano impegnati a
respingere l’assalto dei giannizzeri, sul corno destro si andava consumando un
episodio destinato a far discutere: Gianandrea Doria aveva infatti deciso, in
maniera apparentemente inspiegabile, di abbandonare già alle prime avvisaglie
dello scontro lo schieramento allargandosi con le sue navi verso sud. Il perché
non è chiaro: forse temeva che Occhiali volesse accerchiarlo proprio da
Mezzogiorno, o forse intendeva fingere una ritirata in modo da costringere il
nemico a seguirlo per poi attaccare in mare aperto. Comunque sia, la manovra si
rivelò azzardata perché creò un’enorme varco fra il centro dello schieramento
stesso e il corno destro della flotta cristiana. Mentre don Giovanni, accortosi
dello strano movimento, inviava al Doria via fregata l’ordine (ignorato) di non
allontanarsi troppo, la sua retroguardia di 16 galee virava improvvisamente:
non avendo compreso il senso della manovra, e temendo forse un tradimento, il
suo comandante preferì tornare indietro puntando diritto contro Occhiali che, a
questo punto ne approfittò abbandonando l’inseguimento per gettarsi con tutta
sua forza contro la piccola flotta. Lo scontro, impari, si consumò rapidamente
e vide soccombere varie navi tra cui la Vittoria , la Capitana dei Cavalieri di Malta, che venne
circondata da sette galee e catturata con il suo comandante, il priore Pietro
Giustiniani. Insieme alla Vittoria caddero in mano turca le toscane Firenze e
San Giovanni, che facevano parte della flotta del papa, e la sabauda
Piemontesa. Per quest’azione il Doria fu in seguito accusato di aver voluto
disertare lo scontro o, peggio ancora, di aver tramato segretamente con
Occhiali per evitare perdite alla flotta genovese. Lo stesso Pio V lo avrebbe
accusato di essere “corsaro et non soldato” facendo sapere che era molto meglio
per lui se non avesse più osato farsi vedere a Roma. Ancora oggi il giudizio
degli storici resta problematico perché le circostanze dell’azione non sono
affatto chiare. Qualunque fossero i motivi che lo spinsero al gesto, una volta
accortosi dello sfondamento il Doria tornò indietro ma era troppo tardi:
Occhiali si era ritirato abbandonando tutte le prede. Quando più tardi
sopraggiunse la Guzmana ,
una delle navi inviate in soccorso dal Colonna, la Vittoria fu trovata colma
di cadaveri: si era salvato però il Giustiniani il qual, pur gravemente ferito,
era incatenato ma ancora vivo. Occhiali tornò a Instambul accontentandosi di
portare al sultano, degli odiatissimi soldati maltesi, la sola bandiera.
Le navi di Lepanto.
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GALEA.
La classica galea da guerra (o galea sottile) è lunga
circa
Modello in legno di una galea veneziana (Museo storico navale di Venezia)
Al tempo della battaglia di Lepanto, l'equipaggio della galea sottile era costituito da un comandante, detto sopracomito, dal comito, dagli ufficiali militari e di manovra, dal cambusiere, dal barbiere-medico, dalla ciurma di marinai e galeotti (più di 200), e dai soldati imbarcati a bordo, per un totale che poteva arrivare a 400-500 uomini; la nave era lunga in media sui 40 metri. L'ammiraglia di don Giovanni d'Austria era lunga 60 metri; una sua riproduzione in grandezza naturale si può ammirare nel Museo navale di Barcellona.
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FUSTA.
Tipo di galea leggermente più grande della galeotta, è
lunga circa
Veduta di Venezia del Canaletto: si noti la fusta da guerra Locanda del Redentore ormeggiata di fronte a piazza San Marco per la sorveglianza del Palazzo Ducale.
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GALEOTTA.
Tipo di galea leggera e veloce a un solo albero, la
galeotta ha minor pescaggio rispetto alla grande galea da guerra. È lunga
circa
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GALEAZZA.
La galeazza, tipica di Venezia, e cruciale a Lepanto, è
una nave molto grande (un vero e proprio castello in mare) dotata di un gran
numero di artiglierie (anche una trentina di grossi cannoni più altri di
minore dimensione) che possono tirare anche di lato. Ha tre o persino quattro
alberi a vele quadre, un castello di prua e uno di poppa, a differenza di
tutte le altre, ha due ponti. Presenta dai 32 ai 46 banchi di rematori e
imbarca oltre l’equipaggio anche i soldati.
galeazza spagnola
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A COLPI D’ARCHIBUGIO. Intanto sul fronte settentrionale la battaglia
infuriava. Don Giovanni sul ponte della Real tentava di difendersi
dall’abbordaggio della Sultana; mentre il giovane ammiraglio faceva del suo
meglio per contenere il furore dei turchi, le navi di Agostino Barbarigo
dovettero vedersela con la flotta guidata da Mehmed Shoraq, il temibile
“Scirocco”, che era in superiorità numerica. La capitana veneziana fu aggirata
da alcune agili imbarcazioni turche, le feluche, e si trovò presto stretta tra
due fuochi. Abbordato da sei galee, Barbarigo tentò disperatamente di farsi
sentire dai suoi uomini in mezzo al fragore delle armi, alzando la visiera
dell’elmo ma proprio in quel preciso istante fu colpito da una freccia
all’occhio destro e stramazzò al suolo (sarebbe morto dopo tre giorni). Pur
sbandando, i veneziano riuscirono a tenere la posizione fino all’arrivo della
galeazza dei fratelli Bragadin; poi, per loro fortuna, gli schivi cristiani al
remo della nave di Scirocco riuscirono a liberarsi dai ceppi e presero
anch’essi le armi contro i turchi, ribaltando gli equilibri numerici. Nel
furioso corpo a corpo che seguì sui ponti, lo stesso Scirocco rimase ferito e
vene poi decapitato. La sua testa mozzata fu issata su una picca. I turchi nel
vedere l’atroce spettacolo si persero d’animo; molti di loro tentarono la fuga
ma furono presi senza pietà a colpi d’archibugio dai veneziani desiderosi di
vendicare gli orribili fatti di Famagosta. Alì Pascià stava ancora dando battaglia
a don Giovanni sul ponte della Real, che ormai era un tutt’uno con la Sultana in un unico enorme
castello di legno fumante. Intorno combattevano, su altrettante navi incalzate
da Pertev Pascià, il Colonna e il Venier, ques’ultimo issato come un leone a
scoccar colpi di balestra con la sua infallibile mira. A un certo punto, il
vecchio guerriero (aveva 75 anni) venne ferito da
una freccia al piede destro e fu salvato solo dall’intervento di due giovani e
valorosi comandanti veneziani, Giovanni Loredano e Catterin Malipiero, i quali
prima di cadere riuscirono a ricacciare indietro il Pertev facendogli perdere
anche la nave. Don Giovanni, intanto, pur lievemente ferito a una gamba, con
l’aiuto del marchese di Santa Cruz si era messo in posizione. Arrivavano, però
i rinforzi dagli scontri risolti e la situazione volgeva ora rapidamente a
vantaggio dei cristiani, con i giannizzeri in inferiorità numerica e a corto di
munizioni. Alì Pascià si decise allora a tentare il tutto per tutto e puntò
verso Don Giovanni deciso a colpirlo, ma prima di raggiungerlo fu atterrato da
un colpo secco di archibugio. Un cristiano gli troncò la testa con la spada e
il capo mozzato, come già quello di Scirocco, fu issato su una picca. A quella
vista, il morale dei turchi crollò definitivamente. A nulla valse l’estremo
sforzo dei giannizzeri che, esauriti i proiettili, si misero grottescamente a
lanciare contro i nemici ortaggi e agrumi, suscitando il dileggio degli
avversari. Alle quattro del pomeriggio, dopo quasi cinque ore di mischia, la
battaglia era vinta e la bandiera di
Allah veniva ammainata dall’ammiraglia turca.
Il bilancio era apocalittico: gli ottomani avevano perso
210 navi e di queste ben 117 galee, 10 galeotte e 3 fuste, tutte in ottime
condizioni, finirono spartite tra i vincitori. Decisamente più contenuti i
danni della flotta cristiana: 20 galee e un’altra trentina affondate in quanto
irrecuperabili. Per la lega il conto finale ammontò a circa 8000 morti e
altrettanti feriti, mentre 30mila furono le perdite degli ottomano e 8000
prigionieri. Il doppio, 15 o forse più, i cristiani liberati dalla schiavitù ai
remi. Uno di essi, il fiorentino Aurelio Scetti, descrisse così il mare al
termine della battaglia:”per i tanti
corpi che galleggiavano le galee potevano appena passare (…) da ogni parte
gridi, da tutte le bande compassionevoli voci si sentivano e quanto più l’aere
si oscurava tanto maggiore e più orrendo spettacolo pareva”. I cristiani
ancora vivi furono soccorsi, i turchi invece lasciati in balia delle onde e dei
saccomanni, i predoni che, finite le battaglie navali, accorrevano sulle loro
barche per far piazza pulita di ogni cosa che si potesse arraffare. Per evitare
un’imminente tempesta che si addensava sul mare, don Giovanni e i suoi si
diressero a vele spiegate verso il porto di Petala, ad appena sei miglia dal
luogo dello scontro. Non appena giunti sul posto, mentre gli equipaggi
festeggiavano sulla spiaggia, il Venier faceva salpare la galea Arcangelo
Gabriele agli ordini di Onfredo Giustinian per annunciare in patria la lieta
novella. La notizia fu accolta con eccezionali manifestazioni di giubilo.
Mentre gli ex prigionieri sbarcavano a Porto Recanati e da lì si recavano in
processione a Loreto per offrire le loro catene come ex voto alla Vergine, Pio V apprendeva del trionfo dai messaggeri
inviati da Marcantonio Colonna. Leggenda vuole che ne fu lieto ma non stupito:
a battaglia ancora in corso, allo scoccar del mezzogiorno, il papa aveva
infatti già avuto la visione della vittoria concessa ai cristiani grazie
all’intercessione della Vergine. Per questo non esitò a proclamare il 7 ottobre
la festa di Nostra Signora della Vittoria (poi trasformata da Gregorio XIII in
Nostra Signora del Rosario) ma non sarebbe riuscito a coronare il suo sogno di
cacciare via i turchi dalla Terra Santa: morì infatti sette mesi dopo, il 7 maggio 1572, con gli ottomani ancora padroni
del Mediterraneo. La vittoria di Lepanto, divenuta subito leggendaria, si rivestì di un forte significato religiose
e venne interpretata come il trionfo autentico della Provvidenza. Ma se fu
sicuramente importante sul piano strategico, perché rappresentò una battuta
d’arresto all’espansione ottomana nel Mediterraneo, non fu in grado di fermarla
del tutto. Le condizioni del mare all’indomani del trionfo si volsero in
effetti al brutto e non permisero, data la stagione in fase avanzata, di
inseguire i turchi al largo e sbaragliarli definitivamente. Solo un anno dopo
Lepanto, gli ottomani avevano già riarmato un’imponente flotta, e sebbene
fossero navi non ancora in grado di competere con quelle veneziane, riuscirono
comunque a dar filo da torcere alla Serenissima aprendo una nuova stagione di
scontri. Né le discordie esistenti fra le varie potenze, in primis tra Filippo
II e la stessa Venezia, permisero di sfruttare pienamente il successo ottenuto.
Due anni dopo Lepanto, fu firmato il tratto di pace tra la Serenissima e l’impero
ottomano che sanciva per la
Serenissima la perdita di Cipro. La
Lega Santa cessava formalmente di esistere.
Cent’anni ancora e nel 1683 i Turchi arrivarono addirittura sotto le mura di
Vienna.
Articolo di Elena Percivaldi pubblicato su Le grandi
battaglie navali edizioni sprea. Altri testi e immagini da Wikipedia
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