sabato 18 agosto 2018

Le tattiche vincenti dell'antichità in 10 battaglie

LE TATTICHE VINCENTI DELL’ANTICHITA’ IN 10 BATTAGLIE

Dalla falange macedone alla testuggine romana, ecco come gli eserciti antichi hanno sbaragliato i loro avversari in scontri cruciali.

La mobilità dei carri
I carri da guerra furono l’arma regina del secondo millennio prima di Cristo. Su di essi si fondarono le tattiche di tutti gli eserciti del Medio Oriente, Egizi e Ittiti in particolare.

QADESH 1274 a.C.

La battaglia di Qadeš (ma anche Kadesh o Qadesh, e Kinza in lingua ittita), combattuta sulle rive del fiume Oronte, nell'attuale Siria, nel 1275 a.C., contrappose le due più grandi potenze del Vicino Oriente antico: l'Egitto ramesside e le forze ittite di Muwatalli II; questa battaglia costituì l'atto finale di una lunga serie di guerre tra i due regni e fu probabilmente quella dove venne impiegato il maggior numero di carri da combattimento trainati da cavalli (circa 5000 o 6000).

La contesa per il dominio del Medio Oriente che nella seconda metà del secondo millennio a.C. vide in gioco l’imperialismo egiziano e le potenze che vi si contrapponevano nella regione siro-anatolica (prima i mitanni, poi gli ittiti) è ben rappresentata nella battaglia di Qadesh, un grande scontro tra l’esercito del faraone Ramses II e quello del re anatolico Muwatalli. Le operazioni si svolsero nella piana di Qadesh (probabilmente l’odierna Tell Nebi Mend), sulle due rive dell’Oronte, dove un cospicuo movimento di carri trainati da cavalli al galoppo poteva avere spazio. Quattro divisioni egizie erano in viaggio dalla Valle della Beqaa verso Qadesh, ignare della presenza nemica grazie a un riuscito depistaggio ittita. Alcuni prigionieri catturati dagli Egizi avevano assicurato che l’esercito nemico era lontano, ma era stato invece nascosto sulla sponda opposta del fiume Oronte. Appena i primi soldati si furono accampati, 2500 carri da guerra ittiti lanciarono un attacco improvviso, che colse di sorpresa e impreparati gli Egizi. La manovra, rafforzata da una seconda ondata di altri 1000 carri, mise in rotta le prime due divisioni, separando la prima dalla seconda (quella dedicata al dio Ra) dove stava il Faraone, senza però riuscire a impedire loro di riparare verso sud. Il rischio di annientamento fu scongiurato dal sopraggiungere dalle altre due divisione egizie. Questo impedì che ci fosse un vero vincitore. La battaglia non risultò militarmente decisiva e non cambiò gli equilibri della regione. In seguito un trattato di pace fra le due potenze sancì la spartizione dei territori contesi. La disfatta schivata per un soffio non impedì agli Egizi di utilizzare questo episodio in chiave propagandista. La battaglia fu magnificata come vittoria nelle loro fonti, che la raffigurano sotto forma di spettacolo sulle pareti dei più importanti templi del regno per veicolare l’idea dell’invincibilità del Faraone.  La potenza cosmopolita raggiunta dall’Egitto del tempo, infatti, si rifletteva nelle forme di comunicazione dell’arte e della letteratura, dove contava non tanto la verità, quanto la capacità di persuasione.

Ramses II at Kadesh.jpg
Ramses II nella battaglia di Qadeš, rilievo nel tempio di Abu Simbel.

I carri da guerra egizi e ittiti
EGIZIO.
La prima macchina da guerra nella storia fu il carro da combattimento, una piattaforma con ruote trainata da animali aggiogati. I carri garantivano ai guerrieri mobilità e posizione dominante, e potevano essere impiegati come mezzo di sfondamento o come base mobile per bersagliere il nemico con le frecce, per aggirarlo e per inseguirono furono gli antichi Egizi  a portare al massimo sviluppo ques’arma, nella sua versione più leggera usata soprattutto come piattaforma di lancio per gli arcieri. La mobilitò tattica fu l’elemento decisivo del suo successo.
Il cocchio aveva una struttura ovoidale leggera. Poteva ospitare due passeggeri: l’auriga e un combattente, di solito un arciere. Erano carri per il tiro da lontano.
ITTITA.
Questo veicolo poteva raggiungere i 40 km orari e aveva ruote che gli permettevano manovre repentine. L’asse posto in posizione arretrata garantiva stabilità contro i ribaltamenti anche in curva.
Il carro ittita, invece, era più pesante e il suo equipaggio era composto da tre uomini armati di lancia per un combattimento più ravvicinato. Era più soggetto a ribaltamenti , ma per la sua funzione di sfondamento era adatto per attacchi decisi su traiettorie brevi e lineari, dritto al cuore dello schieramento nemico.
Il cocchio dei carri ittiti era una struttura pesante, squadrata. Dovevano ospitare tre guerrieri: un auriga, un combattente e un porta scudo. Erano carri per il combattimento ravvicinato.
Schieramenti in campo
Egizi.                                        Ittiti            
20mila uomini e 2000 carri
                                             15mila uomini e 3500 carri

La mossa tattica.

Immagine correlata
La battaglia di Qadesh fu un grande scontro fra carri che fece passare in secondo piano il ruolo delle pur numerose fanterie. La mossa tattica che permise al faraone Ramses di rimettere in equilibrio una battaglia che sembrava persa fu proprio quella di puntare sulla manovrabilità del proprio contingente di carri, guidato da lui in persona, per reagire immediatamente all’attacco che i carri ittiti avevano lanciato contro l’esercito egizio. Nascosti all’ombra della città di Qadesh, gli Ittiti colsero di sorpresa l’avanguardia delle truppe egiziane che erano ancora in marcia, lontane dal resto del loro esercito. Gli ittiti puntarono sulle caratteristiche dei loro carri per travolgere in un colpo solo l’armata del faraone. La situazione per gli Egizi stava volgendo decisamente al peggio quando Ramses riuscì a riorganizzare il suo contrattacco, guidando i propri carri contro il nemico che aveva perso un po’ di irruenza. La determinazione del faraone e la capacità dei carri di rimettersi in azione furono determinanti per permettere all’esercito egizio di tenere duro e tentare di portarsi in salvo. Questo permise di guadagnare ul tempo necessario perché altre componenti dell’esercito ancora in marcia raggiungessero il campo di battaglia e riequilibrassero la battaglia rigettando indietro gli Ittiti. Non fu una vittoria del faraone, come lui raccontò, ma certo si evitò il disastro trasformandolo in pareggio, e consentendo poco di arrivare  a un accordo di pace tra i due regni. 

Combattere in inferiorità numerica.

TERMOPOLI 480 a.C.

Battle of Thermopylae and movements to Salamis and Plataea map-it.svg
Mappa degli spostamenti greci e persiani presso le Termopili e l'Artemisio


Dopo la sconfitta di Maratona nella Prima guerra persiana nel 490 a.C., il grande impero achemenide tentò di nuovo l’invasione della Grecia dieci anni dopo con un esercito talmente numeroso che secondo lo storico Erodoto gelò letteralmente il sangue ai difensori. Considerando una simile sproporzione di mezzi, in quei giorni, nel 480 a.C., l’unica alternativa possibile era un impiego delle forze disponibili in relazione all’ambiente circostante. Le Termopoli, quindi, furono pianificate come una battaglia di lucida intelligenza tattica nel tentativo di sfruttare tutte le possibilità offerte da una stretta gola, un passaggio obbligato che non avrebbe permesso al numero dei soldati persiani di fare la differenza. In quel caso, come la battaglia di Maratona aveva già dimostrato, era possibile avere la meglio sulle fanterie persiane in virtù della  tattica oplitica, una tecnica di combattimento che prevedeva una formazione serrata di fanti, in grado di avanzare e combattere compatti come fossero tutt’uno. Nello spazio delle Termopoli la falange oplitica, senza correre il rischio di essere presa d’infilata o aggirata dalla cavalleria nemica, poteva respingere ogni attacco con relativa facilità. Come sottolineato dallo stesso Diodoro Siculo anche l’armamento avrebbe fatto la differenza. Con i loro pesanti scudi di circa un metro di diametro e le lunghe lance i Greci avrebbero potuto sopraffare i Persiani, armati in maniera più leggera, in un combattimento ravvicinato. Contemporaneamente allo scontro delle Termopoli, la flotta greca, per impedire un possibile aggiramento del passo, si impegnò nel tentativo di ostacolare l’avanzata del naviglio nemico a Capo Artemisio, e anche qui in uno stretto in cui non potesse prevale la superiorità numerica delle navi persiane.
Per tre giorni gli Elleni dimostrarono un’efficienza insuperabile. Il re persiano Serse rimase scioccato dall’entità delle perdite e da quanto fossero irrisorie quelle avversarie: tra gli Spartiati di Leonida si registrarono solo due o tre caduti. Questo fino a quando un abitante della vicina città di Trachis si offrì, dietro compenso, di svelare un sentiero in grado di aggirare le posizione nemiche. Così, avvalendosi dei consigli della guida, un contingente di 20mila Persiani si inerpicò su per il monte Eta per attaccare il nemico alle spalle. Fu la svolta i focesi a guardia del sentiero non riuscirono a fare una grande resistenza contro i soldati persiani, che presero alle spalle gli Elleni chiude doli in una tenaglia. Per Leonida e i suoi non ci fu scampo. Furono massacrati tutti, ma entrarono nella leggenda.



Soldati a confronto.

IMMORTALE PERSIANO
ARMI: in dotazione avevano una corta lancia dalla punta di ferro e un contrappeso a forma di melograno, uno scudo di cuoio e vimini, una spada corta, arco e frecce
ABBIGLIAMENTO: la Guardia imperiale del Gran Re (composta da 10mila guerrieri nobili) vestiva tuniche variopinte.
OPLITA PERSIANO
ARMI: l’oplita era armato con una lunga lancia e una spada corta ed era equipaggiato con elmo, schinieri per gli stinchi e spesso un’armatura di bronzo.
SCUDO: l’hoplon era il tipico scudo che diede il nome agli opliti. Su quello spartano spiccava il temuto simbolo della città, la lettera lambda.
Schieramenti in campo.
GRECI:
7000 Uomini.                         
PERSIANI:
200mila uomini.

Costruire uno sbarramento, un muro, per impedire il passaggio attraverso uno stretto percorso obbligato. Quando si è in inferiorità numerica l’unica speranza è sfruttare al massimo le difese naturali o artificiali per costringere il nemico a combattere in uno spazio angusto dove non possa dispiegare tutta la sua massa critica. Gli Spartiati di Leonida sono diventati un esempio leggendario di questa tattica. Il luogo della battaglia, le Termopoli, era stato scelto non a caso con grande attenzione. Si trattava di uno stretto valico obbligato. I Greci poi costuirono dei muri, ma quello principale lo portavano con sé.  Era quello fatto dagli scudi della falange oplitica, che si rivelò un ostacolo quasi insormontabile per i soldati persiani abituati a tutt’altro stile di combattimento. La falange schierata in campo chiuso e circoscritto come le Termopoli consentiva a un pugno di uomini (i 300 di Leonida ma anche qualche migliaio di Greci alleati con lui) di resistere quasi ad oltranza. La sconfitta arrivò perché Efialte di Trachis, un pastore del luogo, rivelò ai Persiani l’esistenza di un sentiero che permetteva di aggirare gli Spartiati. Così gli Immortali, i migliori tra i guerrieri persiani, riuscirono a portarsi dietro ai Greci, presero di sorpresa la retroguardia focese che quel sentiero doveva proteggere, e si lanciarono nel massacro dei 300 Spartiati di Leonida.    


L’imbattibile falange.

GAUGAMELA 331 A.C.

A Gaugamela, nei pressi dell’odierna Mosul, Alessandro Magno si trovò di fronte un’armata immensa. Il re persiano Dario III era riuscito ad assemblare quasi 200mila uomini. Sul campo di battaglia Dario era schierato al centro con le truppe migliori disposte su due linee molto profonde, mentre sulle ali erano sistemati contingenti di cavalleria, provenienti da tutto l’impero. Alessandro per sopperire all’inferiorità numerica adottò una strategia molto particolare. Il centro dello schieramento era occupato dalla falange disposta su una linea molto profonda, mentre sui fianchi erano posizionati il re con cavalieri e fanti, a destra, e il suo miglior generale Parmenione con latri reparti sulla sinistra. Alle loro spalle, in posizione di rincalzo, una linea di falange formata da ausiliari, aveva il compito di chiudere le possibili falle nello schieramento. Poiché il rapporto numerico fra le cavallerie era di cinque a uno e la linea formata dai Persiani superava di oltre un chilometro quella della falange, sembrava inevitabile che i Macedoni sarebbe sto stati aggirati sui fianchi. Per questo Alessandro diede ordine che le ali più esterne, costituite dai reparti di cavalleria e fanteria alleata, avanzassero scaglionate e disposte a 45° rispetto al resto dello schieramento per proteggere i fianchi e indurre i nemici ad attaccare in quei punti. Una sorta di schieramento a trapezio, che avrebbe dovuto muoversi all’unisono evitando di sfaldarsi. L’idea del sovrano macedone era chiara: affrontare la massa di cavalleria nemica sulle ali e impegnarne il maggior numero possibile per poi, con il resto dell’esercito avanzare rapidamente contro il centro dello schieramento dove era disposto Dario. La premessa era costringerlo ad attaccare per primo, e così fu. I carri falcati si avventarono a gruppi sulla falange. I soldati macedoni, erano però preparati: rimasero impassibili e si aprirono quanto basta per far passare i carri che, una volta defluiti, furono assaliti dalle seconde linee e messi fuori combattimento. Allo stesso tempo la cavalleria persiana si lanciò in massa contro le ali macedoni che si difesero strenuamente anche se in forte inferiorità numerica. Mentre i Persiani insistevano con l’attacco ai fianchi, Alessandro lentamente si incuneava nel loro schieramento, finché non si aprì un vuoto al centro,proprio quando erano state gettate nella mischia le ultime riserve. Il Macedone ordinò alla sua cavalleria di disimpegnarsi e di prepararsi per l’attacco decisivo. Continuando a marciare dispose le sue unità come a formare un’enorme freccia con lui al vertice. Dietro di sé aveva la cavalleria e tutti i battaglioni della falange che era riuscito a disimpegnare. Questa grande freccia attaccò i Persiani, proprio dove erano più sguarniti, mettendo fuori gioco la guardia reale e i reparti mercenari. L’attacco fu così rapido e concentrato che Dario, temendo di essere ucciso, decise di ritirarsi, mentre i suoi uomini ancora combattevano. Quando questi si accorsero che il loro sovrano si era dato alla fuga cominciarono a ritirarsi in disordine e furono massacrati. Questa battaglia decise il corso della guerra. Alessandro avanzò fino a occupare Babilonia, e da lì in pochi giorni arrivò a  Persepoli. L’impero persiano si era liquefatto e Alessandro era padrone dell’Asia.

Schieramenti in campo.
Macedoni                               PERSIANI:
40mila fanti, 7000 Uomini.   200mila uomini.                      

Fu il genio di Alessandro a vincere la battaglia di Gaugamela e con essa la guerra contro i Persiani. La tattica tipica dei Macedoni, inventata da Filippo, era quella dell’incudine e martello. Il nucleo era costituito dalla falange macedone: quando essa entrava in azione, gli uomini delle prime cinque file abbassavano le loro lance lunghe fino a 6 metri, chiamate sarisse, im modo che le punte venissero a trovarsi oltre la prima linea degli scudi. Le lance dei soldati delle file retrostanti erano invece rivolte verso l’alto, creando così una selva di aste che fungeva da protezione contro le frecce. L’unità tattica di base era infrangere l’attacco nemico prendendolo alle spalle. A Gaugamela Alessandro fede di meglio: consapevole della sua inferiorità numerica che non gli consentiva di sopravanzare sui fianchi l’esercito nemico, riuscì a ripetere la manovra individuando e isolando il cuore dello schieramento avversario, che conteneva lo stesso re. Con una finta simulò l’aggiramento sulla propria destra, poi lanciò la parte migliore della propria cavalleria, che guidò personalmente, nel varco che si era creato tra il centro e l’ala sinistra dei Persiani. Dario fuggì e il suo esercito fu messo in rotta. Ma tutto questo, che si svolse nel fianco destro dello schieramento macedone, non sarebbe mai stato possibile se il centro e l’ala sinistra non avessero svolto perfettamente il compito loro assegnato da Alessandro: resistere. E i Macedoni poterono resistere contro gli assalti di truppe molto più numerose soprattutto grazie alla falange. La selva di lunghe lance risultò, infatti, insuperabile tanto per i cavalieri quanto per i fanti nemici.

Storia della falange.
La falange nacque come formazione da guerra delle città-stato greche: i cittadini-soldati (opliti) coperti di bronzo e armati di lancia combattevano fianco a fianco creando un unico fronte compatto. Di solito due falangi si scontravano in un impatto ravvicinato, finché una delle due cedeva. Nel IV secolo a.C. a Tebe si iniziò a rafforzare un lato della formazione per acquisire vantaggio nella spinta. Con la riforma di Filippo II, nella falange macedone i soldati erano molto più numerosi e disposti su più file, protetti da corazze di lino e scudi piccoli o addirittura assenti, e dotati di lance molto lunghe che servivano sia per l’attacco sia per la protezione delle frecce.

FALANGE GRECA
FORMAZIONE.
Ricostruzione della falange oplitica greca. In realtà l'equipaggiamento dei soldati non era uniforme, tranne che a Sparta, dato che ognuno doveva procurarsi da solo le armi e decorarle

A differenza di quella macedone, la falange greca era profonda poche file e gli uomini erano armati di lance alte poco più di loro.
Gli opliti greci combattevano in schiere serrate coperti da elmi, scudi, corazze e schinieri di bronzo.
FALANGISTI.
I fanti macedoni erano disposti su 16 file, armati di lance lunghe circa 6 metri, dette sarisse.

sotto: Ricostruzione: carica di fanti contro i pezeteri schierati nella falange.

  


Elefanti come carri armati.
Pirro Roma 280aC.jpg

ERACLEA 280 A.C.

Fu di fatto la prima volta che i Greci e i Romani si confrontavano sul campo di battaglia. Il primo scontro fra la falange e la legione. Ma a fare la differenza furono gli elefanti. Il re Pirro di Epiro, imparentato con Alessandro Magno, era stato chiamato in Italia Meridionale dalla città di Taranto, il grande porto della Magna Grecia era entrato in conflitto con i Romani quando Roma aveva iniziato a estendere la propria presenza sul sud Italia. Nella primavera del 280 a. C. Pirro approdò a Taranto con 20.000 fanti, 2000 arcieri, 500 frombolieri, 3000 cavalieri tessari e alcune decine di elefanti da combattimento prestatigli dal faraone macedone d’Egitto. A luglio le forze epirote e quelle romane si trovano faccia a faccia presso Eraclea, vicino all’attuale Policoro in Lucania. I Romani schieravano due legioni con le truppe ausiliarie agli ordini del console Publio Valerio Levinio, per un totale di circa 20mila soldati. Pirro aveva qualche uomo in più dopo aver unito al suo contingente alcune forze locali. Ma soprattutto disponeva degli elefanti, forse una ventina, sconosciuti ai Romani. Furono questi ultimi a prendere l’iniziativa dato che Pirro si era attestato in una posizione difensiva oltre il fiume Siri, probabilmente speranzoso nell’arrivo di rinforzi da parte delle popolazioni sannitiche e lucane. I Romani riuscirono ad attraversare il fiume sostanzialmente indisturbati e Pirro avviò l’attacco quando lo schieramento avversario si stava disponendo. Questo forse spiega perché gli elefanti all’inizio della battaglia si trovarono posizionati tra le riserve. Di solito infatti – come avvenne in quasi tutte le battaglie dell’antichità, dall’Idaspe a Zama fino a Rafia – gli elefanti costituivano l’avanguardia dell’esercito e venivano impiegati come una sorta di carri armati, per attaccare frontalmente e infrangere il fronte nemico, scompaginandolo e consentendo alle forze che li seguivano di penetrare tra gli avversari per completare l’opera. A Eraclea invece il primo impatto fu quello tra le opposte cavallerie, durante il quale lo stesso Pirro rischiò di morire. Poco dopo si accese lo scontro fra le fanterie: le possenti falangi macedoni si contesero con ferocia ogni palmo di terreno con l’altrettanto tenace legione romana. Per capire la furia di quei combattimenti corpo a corpo basti ricordare che alcune fonti sostengono che nella battaglia morirono circa la metà dei fanti di entrambi gli eserciti (si usa ancora la frase vittoria di Pirro per indicare un obiettivo raggiunto a un prezzo così alto da renderlo vano). Lo scontro tra i fanti così come quello tra i cavalieri sembrava volgere in parità, ma tutto cambiò quando entrarono in campo i “buoi lucani”, come furono chiamati gli elefanti dai Romani che non li avevano mai visti prima. I pachidermi misero presto in rotta la cavalleria romana, perché già da lontano i cavalli non abituati alla loro vista diventavano ingovernabili, terrorizzati dalla mole, dall’aspetto e dai barriti di quelle gigantesche bestie. E fu così anche per i legionari che cedettero al panico quando si resero conto che il loro fianco era stato scoperto e proprio da quel lato stavano arrivando a passo di carica quei mostri. Pirro aveva vinto. Il re epirota marciò quindi verso Roma fino a Preneste, prima di ritirarsi. Sconfisse di nuovo e a caro prezzo i Romani presso Ascoli Satriano nel 279, passò poi in Sicilia dove si scontrò con i cartaginesi. Tornato di nuovo in Italia affrontò per l’ennesima volta i Romani, che però in pochi anni avevano appreso tutte le lezioni necessarie, compreso il modo per evitare la furia devastante degli elefanti. Nel 275 a Benevento le legioni inflissero al re d’Epiro la sconfitta definitiva . Lui tornò in Grecia e Roma rimase padrona incontrastata dell’Italia.


Ecco come doveva apparire lo schieramento di battaglia dell'esercito consolare polibiano nel III secolo a.C., con al centro le due legioni e sui fianchi le alae Sociorum (gli alleati italici) e la cavalleria legionaria e alleata[46].


Schieramenti in campo
Romani                                         Epiroti e tarantini
20mila fanti e 2400 cavalieri       25mila fanti, 3mila
                                                  Cavalieri, 20 elefanti.      
La mossa tattica.

primi fasi della battaglia

seconda fase
Mai come ad Eraclea gli elefanti da guerra risultarono decisivi e costituirono la mossa tattica che risolse la battaglia. Contrariamente al solito, forse costretto dalle circostanze, Pirro non utilizzò gli elefanti all’inizio dello scontro, né tanto meno le lanciò contro le fanterie nemiche nel tentativo di indebolirle. Gli elefanti epiroti invece rimasero in riserva, forse a causa del tempo necessario per avvicinarsi al fronte di combattimento. Ma la momento giusto sbucarono dalle retrovie per avventarsi sulla cavalleria romana. La loro carica di grande impatto terrorizzò i cavalli e gli uomini avversari, e li mise in rotta prima ancora di sconfiggerli fisicamente. Grazie a questa mossa Pirro si assicurò la permanenza nel sud Italia ancora per diversi anni, costruendo la propria leggenda. Al momento della battaglia di Eraclea, nel 280 a.C., gli elefanti erano utilizzati in guerra sui campi asiatici già da almeno un secolo e Alessandro Magno se li era ritrovati di fronte in India nella battaglia dell’Idaspe. I suoi successori si contesero l’eredità del suo impero mettendo spesso in campo i pachidermi come unità decisiva, attrezzata con corazze, spunzoni, torrette per ospitare arcieri e lancieri dalle lunghissime sarisse. Un massiccio scontro fra due opposte schiere di elefanti avvenne a Rafia, tra i Tolomei d’Egitto e i Seleucidi d’Asia. Anche Annibale, durante la sua guerra contro Roma, aveva al seguito degli elefanti, perché i pachidermi facevano normalmente parte dell’esercito cartaginese.
Gli elefanti.
Essi costituirono nell’antichità un poderoso strumento d’attacco. La loro pelle dura e spessa li rendeva difficilmente vulnerabili alle armi nemiche. Mentre essi erano facilmente in grado di mettere in crisi la cavalleria nemica e di costringere la fanteria avversaria a disunirsi e a compiere manovre incontrollate per evitare di essere scompaginata. Il loro impiego ideale era quello dello sfondamento. Spesso poi sulla loro groppa venivano montate torrette che potevano ospitare soldati, in preferenza arcieri o soldati con lunghe lance.
Gli elefanti antichi addestrati al combattimento appartenevano a razze di media grandezza: quella indiana, quella siriana e nordafricana, oggi estinte. Erano addestrati a combattere contro fanti e cavalieri nemici usando le zanne o calpestando gli avversari.
  
L’accerchiamento.

CANNE, 216 a.C.

Il genio tattico di Annibale brillò come non mai nella piana di Canne, in Puglia, infliggendo ai Romani la più grande disfatta della loro storia. Il generale cartaginese aveva aperto la Seconda guerra punica partendo dalla Spagna e piombando di sorpresa nella Pianura Padana attraverso le Alpi. Prendendo l’iniziativa nella sfida mortale che opponeva ormai Roma e Cartagine per il dominio sul Mediterraneo occidentale, Annibale sconfisse tre eserciti romani sul Ticino, sulla Trebbia e sul Trasimeno. Poi si diresse verso il Sud Italia per sobillare le popolazioni a una rivolta contro Roma. l’Urbe, per sventare questa minaccia, radunò tutte le sue forze affidandole ai due consoli Lucio Emilio Paolo e Marco Terenzio Varrone per chiudere la partita una volta per tutte stroncando l’invasore. I Romani erano consapevoli della superiorità numerica e tattica della cavalleria cartaginese e per questo motivo scelsero uno stretto campo di battaglia tra il fiume Ofanto e il terreno sopraelevato attorno alla città di Canne, allo scopo di proteggere da essa da essa i fianchi dell’esercito. Ma Annibale aveva in serbo una sorpresa. egli si ispirò alla tecnica dell’incudine e del martello applicata dai Macedoni. Questa manovra avvolgente, che porta il colpo mortale con la cavalleria, ha però la probabilità di riuscita solo se si ha una forte fanteria d’arresto come la falange, che viene usata alla stregua di una incudine. Annibale non disponeva di una falange, perciò dovette inventarsi qualcosa di nuovo: lo fece sostituendo il centro rigido del proprio schieramento con un centro flessibile, utilizzando una fanteria leggere che, a differenza di una falange non doveva resistere ma doveva invece arretrare per attirare in trappola le legioni romane. Per questo dispose i suoi soldati secondo uno schieramento convesso: al centro, in posizione più avanzata, vi erano i fanti galli e spagnoli, suoi alleati; ai lati più arretrati, pose i Cartaginesi e gli altri contingenti africani. Sulle ali posizionò le cavalleria: l’ala sinistra era molto rinforzata per numero e qualità dei componenti perché voleva usarla per lanciare un attacco decisivo, mentre l’ala destra doveva semplicemente limitarsi a operazioni di contenimento. Il generale sapeva che il centro del suo schieramento non avrebbe potuto resistere al violento urto dei Romani e contava proprio su questo. Infatti non appena l’esercito punico arretrò i Romani con grande impeto si gettarono in avanti, finendo per incunearsi tra le truppe nemiche collocate alle estremità. I Romani credettero di essere a un passo dalla vittoria e invece stavano cadendo in trappola. Dapprima essi furono attaccati sui fianchi e successivamente finirono per essere  colpiti alle spalle dalla cavalleria numida, che nel frattempo aveva sbaragliato quella romana. La battaglia si trasformò in un massacro senza uguali: nelle legioni completamente circondate morirono il console Emilio paolo, quasi 45mila legionari, novanta senatori, trenta tra ex-consoli, pretori ed edili. Sembrava una disfatto irrimediabile, ma gli italici che avrebbero potuto rivoltarsi contro Roma rimasero invece fedeli. Così, dopo molti anni passati nel Sud Italia impegnato in combattimenti minori, Annibale fu costretto a ritornare in Africa per difendere Cartagine da Scipione, che aveva avuto l’intuizione di portare la guerra sul terreno avversario. Il generale romano, che aveva studiato le tecniche militare del grande nemico, lo sconfisse nel 202 in una magistrale battaglia presso Zama.

Schieramenti in campo.
Romani                                      Cartaginesi          
80mila fanti e 6mila cavalieri  35mila fanti e 10 cavalieri
La mossa tattica.

Schieramento di una legione romana a Canne: i manipoli di hastati eprincipes erano molto compatti, disposti frontalmente per 5 fila armati, ciascuna composta da 28-30 legionari; la profondità totale della legione poteva raggiungere gli 82 legionari.

Battaglia di Canne 216 a.C. - Fase iniziale dell'attacco romano



Battaglia di Canne 216 a.C. - Distruzione dell'esercito romano
https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Canne
Premessa indispensabile della tattica dell’accerchiamento è che il proprio centro tenga impegnato e fermo quello avversario, mentre almeno una parte del proprio esercito gira intorno a quello avversario per prenderlo sul fianco e alle spalle. Di solito il ruolo di ala d’urto e agramente è assegnato alla cavalleria. Lo fece anche Annibale a Canne ma lui aggiunse qualcosa di più: il primo e più importante aggiramento venne compiuto dalle fanterie, che arretrando inglobarono il centro nemico. questo gli consentì di tenere il nemico in una morsa stretta da cui era difficile scappare: per questo Canne finì con un massacro di gran lunga superiore a quanto accadeva in media nelle altre battaglie. Annibale organizzò in modo innovativo la sua forza di blocco: schierò al centro in formazione convessa i guerrieri galli intervallati dai più solidi combattenti iberici, ponendo al loro fianco le fanterie pesanti puniche e libiche. Le cose andarono esattamente come aveva previsto, realizzando un perfetto modello di avvolgimento tattico. I legionari romani attaccarono frontalmente e costrinsero il centro cartaginese a ripiegare: esso indietreggiò ordinatamente attirando i fanti romani in una trappola, avvolgendoli dentro le proprie linee.  In questo modo la superiorità numerica romana fu neutralizzata. Nel frattempo la fanteria pesante africana iniziava a chiudersi sui fianchi dei legionari, mentre sull’ala sinistra la cavalleria pesante cartaginese attaccava e distruggeva quella romana. Le cavallerie numidiche di Annibale chiusero infine la trappola sigillando il retro. Da un punto di vista tattico un’operazione perfetta.
Soldati a confronto.
I romani avevano due tipi di fanti: gli Hastatus e i Triarius. I primi avevano uno scudo ovale (scutum) che era molto diffuso tra gli italici ed era quello in uso ai legionari d’epoca. I secondi, a differenza delle altre linee, portavano anziché il giavellotto una lancia da urto, perché in teoria aveva ancora uno stile di combattimento oplitico.

I fanti cartaginesi invece erano composta da fante libico e fante italico. I fanti libici indossavano corazze di lino pressato, che come il resto dell’equipaggiamento era di ispirazione macedone. Il fante italico era caratterizzato da un’armatura composta da una corazza pettorale con dischi, il cui il più bell’esemplare è stato rinvenuto proprio in terra cartaginese. 
 

L’uso delle fortificazioni.

ALESIA 52 a.C.

La battaglia di Alesia fu in realtà per il mondo antico un evento dalle conseguenze storiche e politiche assai più importanti di quelle di un semplice scontro armato. Prima del trionfo di Alesia le sorti della guerra gallica intrapresa da Cesare apparivano ancora piuttosto incerte, tanto che a Roma gli avversari politici del proconsole, preoccupati della costante crescita del suo prestigio, confidavano in una imminente sconfitta. Alla rivolta antiromana scoppiata nel 53 a.C. si unirono quasi tutte le tribù galliche sotto il comando di Vercingetorige che si rinchiusero nella città fortificata di Alesia in attesa dei rinforzi. Cesare allora ordinò la costruzione di una possente fortificazione attorno alla città per contenere qualsiasi tentativo di sortita dall’interno. Quindi, ben sapendo che alle spalle si sarebbe trovato presto un esercito gallico assai più numeroso, decise di realizzare anche una seconda linea fortificata rivolta verso l’esterno, e di distribuire le sue legioni nella fascia compresa tra due linee. La lungimiranza di Cesare fu evidente quando l’esercito gallico di soccorso, forte di ben 240mila uomini, si avvicinò ad Alesia con l’intento di stringere i 50mila Romani in una morsa mortale. Il confronto delle forze in campo in termini numerici appariva, almeno sulla carta, improponibile: ogni legionario romano avrebbe dovuto fronteggiare più di sei guerrieri nemici. Di fatto però la posizione fortificata, faticosamente costruita attorno ad Alesia a colpi di dolabra, il tradizionale piccone romano, permise di riequilibrare la situazione determinando anche l’esito della battaglia. Non solo i Romani, sotto la magistrale guida di Cesare, resistettero, ma quando egli, spostando lungo il perimetro le sue forze di cavalleria, le fece convergere sul punto sotto attacco, determinando una superiorità locale fu persino in grado di mettere in rotta l’esercito gallico. Il giorno dopo Vercingetorige decise di arrendersi. Alesia costituì di fatto l’ultimo conflitto armato tra Galli e Romani, e fu il chiaro segnale che Roma si espandeva ormai con decisione a nord delle Alpi. Con la vittoria di Alesia Cesare pose le basi del suo progetto politico, realizzatosi alcuni anni dopo al prezzo di una lunga e dolorosa guerra civile  contro Pompeo in seguito alla quale il vincitore dei Galli divenne il governante unico di Roma.

Schieramento in campo.
ROMANI                                        GALLI
50mila uomini                                 320mila uomini
La mossa tattica.
Fu la lungimiranza di Cesare nel costruire fortificazioni d’assedio rivolte sia verso la città sia verso l’esterno a rendere possibile una vittoria numericamente impensabile. A questo va aggiunto il genio tattico del generale romano che seppe individuare il punto decisivo della battaglia. Si trattava del monte Rea, un’altura che non era stato possibile incorporare nelle linee difensive e che offriva ai Galli l’opportunità di attaccare il campo romano in discesa. Costituiva dunque il punto debole delle fortificazioni romane e non si può escludere che Cesare avesse deciso di usarlo come trappola per attirare il nemico e batterlo. Dopo numerosi e infruttuosi tentativi di penetrare nella linea fortificata romana, i Galli dell’esercito giunto in aiuto a Vercingetorige si decisero per un ultimo attacco frontale proprio nel tratto in corrispondenza del monte Rea, coordinandolo con un assalto nello stesso punto da parte dell’esercito rinchiuso ad Alesia. Mentre i fanti romani resistevano, Cesare spostò lungo il perimetro le sue forze di cavalleria, facendole convergere sul punto sotto attacco così da creare una superiorità militare in gradi mettere in fuga il nemico. le strutture difensive hanno sempre giocato un ruolo fondamentale nella battaglie, specie prima dell’introduzione dell’artiglieria.  Ma di solito sono state le strutture difensive fisse – come le mura urbane – a consentire la vittoria. L’abilità romana fu quella di saper costruire notevoli opere difensive direttamente sul campo: celebri sono i loro accampamenti militari fortificati.
Le fortificazioni romane.



Le fortificazioni costruite da Cesare ad Alesia, nell'ipotesi della locazione della battaglia presso Alise-sainte-Reine (52 a.C.)
https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Alesia

L’esercito romano era attrezzato per compiere grandi opere di ingegneria. I Romani costruivano campi fortificati a ogni sosta e i tecnici di Cesare realizzarono in pochi giorni un ponte sul Reno per passare in Germania. Contando su queste capacità Cesare decise di creare attorno ad Alesia incredibili opere di assedio, che avevano la caratteristiche di essere double face, rivolte sia verso gli assedianti nella città di Alesia sia a proteggersi dall’atteso esercito gallico che stava arrivando il loro soccorso. Ci volle un mese di lavoro per terminare le fortificazioni e alla fine realizzarono un vallo lungo 15 km e una circonvallazione esterna dal perimetro di 21 km. i fossati principali furono tre: uno largo sei metri e profondo altrettanto, due larghi quattro metri, di cui uno riempiti d’acqua. All’interno delle linee fortificate erano racchiusi sette accampamenti, tre di fanteria e quattro di cavalleria. Il perimetro disponeva di protezioni aggiuntive: palizzate alte tre metri con parapetti, quasi mille torrette, quindici file di fosse munite di tronchi con i rami intrecciati e acuminati (cippi), otto file di pali aguzzi (gigli), una fascia di pioli con uncini di ferro (stimoli). Come sperato, trappole e strutture risultarono decisive per tenere lontani i nemici e soprattutto nell’indirizzarli dove lo stesso Cesare li attendeva.    


L’utilizzo della riserva.

FARSALO 48 a.C.

Entrato in rotta di collisione con il senato, Cesare, tra l’11 e il 12 gennaio del 49 a.C., varcò con il suo esercito il fiume Rubicone, che segnava il confine politico dell’Italia. A quel punto il senato chiese a Pompeo di difendere le istituzioni repubblicane. Iniziò così una guerra civile che sarebbe durata quattro anni. Dopo alterne vicende, il 9 agosto del 48 a.C., i due più grandi generali dell’epoca si trovarono faccia a faccia a Farsalo per decidere una volta per tutte chi avrebbe governato Roma e il suo impero. Prima alleati, poi rivali, infine nemici, Gneo Pompeo e Caio Giulio Cesare erano pronti a darsi battaglia nel nord della Grecia dopo due lunghe carriere cariche di trionfi, vitt0rie militari e conquiste di immensi territori. Cesare, dopo aver marciato su Roma e consolidato il suo potere nell’Urbe era partito all’inseguimento di Pompeo nei Balcani, e l’aveva raggiunto in Grecia. Il pronostico della battaglia appariva favorevole a Pompeo, che aveva circa il doppio dei soldati. La situazione era tale che, come Cesare narra nei suoi scritti, alla vigilia dello scontro i pompeiani già sicuri della vittoria, non si dedicarono ai preparativi ma a litigare sulla spartizione del futuro bottino e soprattutto sulle cariche da occupare nelle istituzioni romane. Cesare invece si concentrò per dare il massimo del suo genio tattico. E la soluzione che trovò fu effettivamente decisiva. Egli temeva soprattutto la cavalleria di Pompeo, che oltre tutta era guidata da Tito Labieno, che egli conosceva bene perché era stato un suo luogotenente durante la conquista della Gallia. Cesare sfruttò il massimo vantaggio di conoscere personalità e modo di agire degli avversari. Previde quindi le azioni di Labieno. Era certo che avrebbe caricato sull’ala destra per tentare di aggirare le sue legioni. Cesare capì che lì si sarebbe deciso lo scontro e adottò le necessarie misure di riserva, in una linea alle spalle della propria debole cavalleria. Come previsto, mentre le fanterie dei due eserciti erano bloccate in un corpo a corpo, Labieno attaccò e travolse la fanteria di Cesare. A quel punto quest’ultimo fece intervenire la sua riserva che colse di sorpresa i nemici sul fianco e li mise in fuga. Cesare aveva anche dato ordine ai suoi legionari di tentare di colpire con le lance i volti dei cavalieri nemici, per accrescere in quei giovani il timore delle ferite. Anche questo espediente funzionò e il nemico sbandò. Così l’esercito di Cesare, pur inferiore di numero, riuscì a circondare quello di Pompeo infliggendogli una pesante sconfitta. Pompeo si diede alla fuga e tentò di rifugiarsi presso il giovane faraone Tolomeo d’Egitto, ad Alessandria. Qui erano presenti anche alcuni Romani. Proprio uno di loro, Lucio Settimio, che aveva servito sotto Pompeo, fu mandato a uccidere il generale. Settimio si accanì sul cadavere. Lo decapitò e portò la testa al faraone, che la offrì in dono a Cesare. Egli però rimase a tal punto sdegnato da questo gesto che per punirlo decise di aiutare la bella Cleopatra, sorella di Tolomeo, a prendere il trono a suo discapito. Ma questa è un’altra storia da raccontare in questo blog.

Schieramenti in campo.
CESARE                                        POMPEO
22mila fanti e mille cavalieri       50mila fanti, 7000    
                                                        cavalieri
La mossa tattica.

schema della battaglia

Cesare a Farsalo modificò lo schema classico dello schieramento romano. Esso consisteva nel disporre i fanti su tre linee (che corrispondevano agli antichi hastati, principes e triarii), e nel porre la cavalleria alle ali. Il combattimento decisivo di solito era quello sui fianchi, dove la cavalleria più forte poteva fare breccia determinando l’esito della battaglia. Cesare invece stabilì di costituire una quarta linea di riserva, prendendo sei o forse otto coorti dei veterani più esperti e mettendosi personalmente al loro comando. Esse erano separate sia dal centro sia dall’ala e, come unità mobile, erano pronte ad accorrere dove fosse stato necessario. Cesare immaginava che le avrebbe usate contro i cavalli guidati dal generale Labieno, e infatti ebbe ragione: quando i nemici travolsero la cavalleria cesariana, Cesare impedì che questo evento determinasse come sempre la vittoria. Contrattaccando con la riserva rovesciò l’esito scontato della battaglia. Applicare la tattica della riserva non era facile nell’antichità perché spesso era il numero dei soldati utilizzati nell’impatto frontale a essere decisivo. Per scelte più raffinate servivano uomini ben addestrate e generali geniali e coraggiosi.
Il primo ad applicarla su un campo di battaglia fu probabilmente Lucio Cornelio Silla, a Cheronea. Cesare l’aveva già usata contro i Germani di Ariovisto e contro gli Elvezi. Anche Annibale fece ricorso a questa tattica a Zama, dove provò a superare Scipione proprio grazie alla costituzione di una riserva e per poco non ci riuscì.
   
L’imboscata.

SELVA DI TEUTOBURGO 9 d.C.

          Ricostruzione del luogo della battaglia, con il terrapieno costruito dai barbari per imbottigliare le legioni di Varo.

La conquista della Germania settentrionale tra il Reno e l’Elba nel 4-6 d.C. a opera di Tiberio, figlio adottivo di Augusto – durata oltre un ventennio – fu vanificata in tre soli giorni da una delle più gravi disfatte della storia militare romana. Per ironia della sorte a capo dell’esercito non c’era un generale ma il governatore dei territori appena conquistati, Publio Varo. Nel settembre del 9 d.C., sotto la sua guida, le legioni romane in marcia per rientrare nelle basi sul fiume Reno, dove avrebbero dovuto svernare, finirono per cadere in un’imboscata tesa da Arminio, principe dei Cherusci, a capo di una colazione di tribù germaniche. La totale impreparazione del governatore romano si materializzerà in una serie di errori tattici e militari dai risvolti drammatici durante l’attraversamento della foresta di Teutoburgo. Varo disponeva di tre legioni a ranghi completi: la XVII, la XVIII e la XIX, oltre ad alcune unità ausiliare (da 3 a 6 coorti), pari a circa 15mila legionari e 5mila ausiliari. Sul fronte opposto Arminio poteva contare su 20-25mila guerrieri di varie tribù alleate della coalizione, principalmente Cherusci, Bructeri, oltre probabilmente a Sigambri, Camavi, Marsi, Angrivari, Usipeti e Catti. Erano uomini determinati e avvezzi al combattimento e conoscevano benissimo anche le tattiche romane, avendo militato come truppe ausiliarie dell’esercito durante la rivolta dalmato-pannonica del 6-9 d.C. Varo, senza dar credito alle voci che circolavano su un possibile agguato lungo il percorso, in un territorio inesplorato e all’interno di una foresta circondata da acquitrini, non adottò alcuna precauzione per evitare probabili insidie, agevolando incredibilmente i piani di Arminio. La marcia romana attraverso boschi impenetrabili, accompagnata da un tempo inclemente, si rivelò fin da subito un’impresa impossibile. Per tre lunghissimi giorni le legioni furono attaccate ripetutamente, subendo improvvise imboscate, da guerrieri che conoscevano il territorio alla perfezione e non davano tregua. La fila di legionari, in sentieri poco battuti, si allungava per chilometri, e non c’era alcuna possibilità di schierarsi in assetto di combattimento. Fu ben presto chiaro che la strategia o il migliore addestramento non li avrebbero salvati. Nei primi due giorni le perdite furono altissime, ma l’esercito continuò ad avanzare senza altre alternative. Furono provate delle sortite, ma senza successo. L’ultimo giorno fu il più tragico. La gran parte dei legionari fu trucidata. I pochi prigionieri furono torturati e sacrificati agli déi. Varo e gli ufficiali di alto rango, nel timore di essere catturati vivi, compirono un suicido collettivo. Solo alcuni reparti di cavalleria riuscirono a mettersi in salvo. Si consumò in questo modo il massacro di Teutoburgo, che tra le file romane fece contare più di 15mila caduti. Una ferita nell’orgoglio imperiale che non rimarginò fino al 16 d.C quando, nella battaglia di Idistaviso, Arminio fu battuto dall’esercito romano guidato da Germanico. La vendetta era stata consumata.

Schieramenti in campo.
ROMANI                                     GERMANI  
15000 UOMINI                  20-50MILA UOMINI                
La mossa tattica.

Il possibile percorso di Varo, dalla porta Westfalicasul Weser, fino a Kalkriese dove lo attendeva Arminioper tendergli l'agguato.

La mappa della disfatta di Varo, nella Selva di Teutoburgo
https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_della_foresta_di_Teutoburgo

Arminio preparò la battaglia alla perfezione e la trappola scattò in modo impeccabile. L’aspetto tattico decisivo fu la capacità dei Germani di combattere attaccando di sorpresa i Romani, sorpresi in una lunga colonna, dai boschi. Ai Romani fu impedito di organizzarsi in campo aperto, e ciascun distaccamento fu attaccato essendo preso di fianco e ridotto all’impossibilità di avanzare o arretrare. Il grande attacco di massa lungo tutta la fila di legionari è forse la trappola meglio riuscita della storia. La tattica dell’imboscata è decisiva soprattutto nelle situazioni in cui la disparità di potenza fra le due parti è altrimenti incolmabile. I guerrieri delle variegate tribù germaniche non potevano certo competere con i legionari romani in quanto a equipaggiamento, addestramento e coesione. L’unica speranza era vincere prima ancora di combattere, impedendo al nemico di mettere in campo le sue qualità. E questo è esattamente quello che l’imboscata preparata da Arminio permise di fare..
Soldati a confronto.
GUERRIERO GERMANICO.
Il guerriero germanico era armato di spada lunga, tipica dell’Europa settentrionale. Lo scudo invece era esagonale; l’umbone metallico veniva usato anche per il combattimento offensivo-.
LEGIONARIO ROMANO.
Il legionario era armato di gladio, spada corta fondamentale per i Romani, la corazza era di tipo segmentata ed era un’armatura composta di lamine di metallo. Avevano degli elmi, che nel primo impero i più diffusi erano di tipo gallico.


La testuggine romana.

ASSEDIO DI GERUSALEMME 70 d.C.

Il popolo ebraico è sempre stato molto refrattario al dominio romano e le rivolte si sono susseguite con ritmo costante. La più importante fu senz’altro la Guerra Giudaica combattuta fra il 66 e il 73 d.C.  L’episodio decisivo fu l’assedio e la conquista romana di Gerusalemme da parte di Tito, figlio ed erede dell’imperatore Vespasiano. I ribelli ebrei avevano occupato fin dall’inizio della rivolta la città, ma poi si erano dilaniati in conflitti fratricidi tra le diverse fazioni. Nel 70 d.C, Vespasiano, appena nominato imperatore, mandò il figlio Tito a tentare di riconquistare Gerusalemme per porre fine alla guerra. Ispezionato il perimetro della città, Tito decise di assediarla nella speranza che la popolazione estenuata da anni di guerra scegliesse la resa anche perché il conflitto interno fra le fazioni ebraiche non si placava nemmeno con le truppe romane accampate alle porte della città. Il primo scontro però fu favorevole ai ribelli: essi lanciarono una sortita e sorpresero i romani mettendoli in fuga. Lo stesso Tito scampò alla morte per un pelo. Appresa la lezione, il generale romano iniziò la costruzione di campi fortificati per le sue quattro legioni, posti in modo da controllare gli accessi alla città. Con mossa abile, Tito permise ai pellegrini di entrare nella Città Santa per festeggiare la Pasqua, ma poi impedì loro di uscire, in modo da ridurre le riserve di cibo nemiche. Nuove sortite ebraiche furono respinte e Tito cominciò ad attaccare con sempre maggior frequenza. Nonostante l’imponenza delle fortificazioni gerosolimitane, le tecniche di assedio romane erano potenti e sperimentate. I Romani disponevano di numerose macchine ossidionali e bene sapevano applicare le tecniche di assalto alle mura. Fra queste l’impiego della testuggine, una formazione di legionari che con i loro scudi proteggevano tutti i lati del loro schieramento, compreso lo spazio sopra le teste. In questo modo si difendevano dai proiettili scagliati dall’alto delle mura e potevano avvicinarsi a esse in sicurezza. A volte l’approssimarsi serviva a portare un assalto con le scale, più spesso invece si trattava di proteggere il lavoro condotto dai loro commilitoni, con picconi e altri attrezzi, per minare la  base delle mura. La testuggine poteva anche condurre con sé un’ariete per forzare le porte, anche se nella maggior parte dei casi questi strumenti di sfondamento erano già dotati di una struttura protettiva. Con metodicità e grazie alle opere di assedio i Romani riuscirono a espugnare la prima cinta di mura nel settore occidentale di Gerusalemme, e dopo cinque giorni cadde anche la seconda cerchia. A quel punto Tito divise le sue truppe, mandando due legioni contro le mura interne, e altrettante contro le fortificazioni del monte del tempio. La difesa ebraica fu strenua, ma alla fine la superiorità romana ebbe la meglio e Gerusalemme espugnata non si riprese per secoli.


La mossa tattica.

Legionari del I secolo in formazione schierata, muniti di scutumlorica segmentata e cassis.


La città di Gerusalemme e l'inizio dell'assedio: i primi accampamenti romani delle quattro legioni


La seconda fase dell'assedio di Tito: gli accampamenti romani di tre delle quattro legioni vengono spostati lungo la parte nord-occidentale della città. Inizia l'attacco alla "città nuova"
Armi da assedio.gif



I Romani assaltarono la terza cerchia con due legioni nei pressi della fortezza Antonia ed altre due più ad occidente (non lontano dalla porta di Jaffa). I Giudei riuscirono però a distruggere i loro terrapieni e molte delle macchine d'assedio, ottenendo un breve successo, fin nei pressi degli accampamenti romani. Alla fine però vennero respinti, grazie all'arrivo di Tito



La terza fase del lungo assedio vide i Romani sfondare la prima cinta muraria e penetrare nella "città nuova", grazie all'elepoli chiamato "vittorioso"
https://it.wikipedia.org/wiki/Assedio_di_Gerusalemme_(70)
Le antiche macchine da guerra da sole non potevano conquistare le città. Gerusalemme fu un esempio di questa situazione. Infatti i difensori ebrei tentarono continuamente sortite contro i Romani assedianti, e in questo modo minacciarono costantemente di distruzione le macchine ossidionali avversare, a volte riuscendo nell’impresa. Per proteggerle quindi durante gli assalti era necessario un consistente schieramento di fanteria. Ma i fanti erano a loro volta esposti al continuo tiro degli arcieri e delle catapulte dall’alto delle mura di Gerusalemme. Fu per questo che la formazione a testuggine tipica dei romani riuscì determinante. E lo fu anche nelle fasi successive della battaglia, quando i Romani irruppero in città attraverso una breccia. A quel punto i combattimenti si svolgevano nelle strade strette, con la possibilità per i difensori di bersagliere gli invasori da ogni edificio. Per questo molte unità romane si disposero a testuggine. Questa formazione richiedeva molto addestramento e grandi capacità.
Secondo lo storico Tito Livio i Romani iniziarono a usarla già in età repubblicana, e le prime volte lo fecero durante le esercitazioni solo per dimostrare l’abilità dei legionari. In seguitò iniziò a essere usata anche in battaglia. Negli assedi, come detto, ma anche in campo aperto, specialmente nelle guerre partiche, per contrastare il tiro degli arcieri asiatici. Una chiara rappresentazione di questa tattica compare anche sulla Colonna Traiana, che narra le vicende militari legate alle guerre daciche.  
Schieramenti in campo
ROMANI                                        EBREI     
4 LEGIONI CON                           23000 SOLDATI
20MILA UOMINI
Più AUSILIARI.
  
Il territorio come alleato

PONTE MILVIO 312 d.C.

Dream of Constantine Milvius BnF MS Gr510 fol440.jpg
Sogno di Costantino e vittoria a Ponte Milvioda un manoscritto delle omelie di Gregorio Nazianzeno

Il 28 ottobre 312 presso il Ponte Milvio, all’epoca nella campagna a nord di Roma, si scontrarono gli eserciti di Costantino e di Massenzio, due dei quattro augusti spettava il governo dell’impero. La direzione collegiale stabilita da Diocleziano si stava frantumando per l’ambizione di ognuno di loro ad avere per sé tutto il potere. La battaglia di Ponte Milvio fu parte di questa lotta fratricida. Costantino, acclamato a York imperatore d’Occidente dai suoi soldati, mosse verso Roma dove Massenzio, sostenuto dai veterani italiani, governava con analogo titolo l’Italia e la ricca Africa. Costantino voleva prevenire il possibile intervento dell’augusto Licinio dai Balcani ed era convinto che conquistare Roma avesse anche una forte valenza politica. Egli doveva la sua carriera agli ambienti militari e non era mai stato nella Città Eterna che, in quanto sede del Senato e dei templi degli déi patri, restava l’origine ultima dell’autorità imperiale. Protetto dalle forti mura della città, l’esercito di Massenzio avrebbe potuto resistere a lungo. Inspiegabilmente venne invece schierato in campo aperto, dopo aver attraversato il Tevere su un ponte di barche. La maggioranza dei comandanti di Costantino, seguendo il responso degli aruspici, temeva il confronto diretto, ma egli era invece favorevole allo scontro perché diceva di aver avuto in sogno la visione di un segno cristiano che prometteva la vittoria. Costantino, che combatteva con i suoi soldati in prima linea, schierò dunque il suo esercito comprimendo quello rivale in superiorità numerica contro il fiume. In questo modo i fanti e i cavalieri di Costantino, pur inferiori di numero, riuscirono ad avere la meglio. La cavalleria riuscì a provocare il tracollo dell’ala nemica, determinando la fuga scomposta dei soldati di Massenzio verso il fiume. Questi, schierati con il Tevere alle spalle, non potere arretrare con ordine. E quando un ponte provvisorio crollò, nella calca morì anche Massenzio.

Schieramenti in campo.
COSTANTINO                         MASSENZIO       
50MILA UOMIMI                    70MILA UOMINI
La mossa tattica.
Massenzio pagò cara la scelta di essere uscito ad affrontare il rivale in campo aperto. Costantino riuscì a schierare le proprie truppe in modo da schiacciare l’esercito nemico contro il fiume Tevere. In questo modo ne neutralizzava tanto la superiorità numerica quanto la capacità di manovra. La battaglia è un perfetto esempio di come risultassero decisive nell’antichità la scelta del terreno su cui combattere e la capacità di sfruttarne al meglio le caratteristiche. Un altro buon esempio di questa tattica fu lo scontro fra Attila e i Romani ai Campi Catalaunici nel 451 d.C. I due contendenti compreso l’importanza strategica di alcune colline che dominavano il campo di battaglia e cercarono di occuparle. Il generale Ezio ci mandò i contingenti romani, Attila i gepidi. Furono i primi a prevalere e a schierarvi anche gli arcieri. Una serie di cariche contro le postazioni romane furono respinte, costando care agli assalitori, che alla fine furono sconfitti.
Soldati a confronto.

PRETORIANI DI MASSENZIO.
Avevano una corazza a scaglie. Sotto indossavano una tunica bianca con delle strisce porpora, tipiche della guardia pretoriana al servizio dell’imperatore.
FANTE DI COSTANTINO.
Nello scudo c’era il simbolo cristiano, che però non era la croce, ma le lettere greche X (chi) e P  (ro) iniziali di Cristo.

La forza della cavalleria.

ADRIANOPOLI 37 d.C.

I fatti del 378 d.C. non sono che l’evento culminante di una vera e propria crisi umanitaria: alcuni anni prima, intere tribù di Goti, in fuga dalle regioni transdanubiane perché incalzate da un nuovo terribile nemico, gli Unni, avevano iniziato a migrare verso il territorio romano. I loro capi avevano negoziato con le autorità romane il trasferimento delle proprie genti all’intero dei confini dell’impero in cambio di forza-lavoro per le campagne e di volontari per l’esercito imperiale. Poi però, probabilmente a causa dell’incapacità e della corruzione delle autorità romane, impreparate a gestire un flusso migratorio assai più cospicuo di quanto preventivato, e dei contrasti tra locali e nuovi arrivati, si giunse a una crisi e allo scoppio delle ostilità tra i Romani e i nuovi arrivati. I Goti iniziarono a razziare il territorio romano, respingendo con successo i tentativi di opporvisi compiuti dalle guarnigioni locali, e vi si stabilirono attirando a sé altre tribù da oltre confine. Nella primavera del 378 l’imperatore Valente decise di radunare un’armata di proporzioni notevoli per sbarazzarsi una volta per tutte delle masnade gotiche ormai fuori controllo. Concentrate le forze ad Adrianopoli all’inizio di agosto, Valente decise di puntare sull’accampamento nemico senza attendere l’arrivo ormai dato per imminente delle truppe dell’Augusto d’Occidente Graziano. Il contingente romano ammontava a 15-40 mila effettivi, divisi fra unità di fanteria (armate di lancia lunga e spada) e unità di cavalleria, che comprendevano i reparti della guardia imperiale e diversi battaglio di cavalieri corazzati (catafratti). La fanteria gotica si era schierata a protezione del grande cerchio di carri che fungeva al contempo da accampamento e da riparo nel caso la battaglia dovesse svolgere al peggio, e all’interno del quale restavano donne, bambini e inabili al combattimento. Le schiere romane si lanciarono contro i fanti goti. Nel frattempo la cavalleria imperiale, dopo aver respinto i primi assalti di quella nemica, sopraggiunta all’improvviso, e forse sottostimata dai generali romani, iniziò lentamente a perdere terreno, rimanendo schiacciata tra gli avversari e l’accampamento, fino a soccombere. La fanteria romana, che non era riuscita a sfondare le linee avversarie, si trovò ben presto circondata da fanti e cavalieri goti. Le perdite furono ingentissime: caddero due terzi dei veterani e molti ufficiali. Solo il sopraggiungere della notte consentì ai legionari sopravvissuti di mettersi in salvo. L’imperatore Valente cadde sul campo di battaglia.

La mossa tattica.
Battle of Adrianople 1.png

Fu la cavalleria gotica a rompere gli equilibri della battaglia. Mentre sul fronte infuriava lo scontro ad alta densità fra le fanterie dei due eserciti, da dietro la collina su cui sorgeva il cerchio di carri germanici sopraggiunse numerosa e agguerrita cavalleria dei Goti, che poté prendere sui fianchi quanto rimaneva della cavalleria romana e poi la schiera di fanti impegnata in combattimento. In queste condizioni tattiche, ottimali per i Goti, non poteva che finire in un massacro di Romani. Nell’antichità òe funzioni tattiche della cavalleria erano soprattutto legate alla mobilità, alla sua capacità di spostarsi rapidamente sul campo di battaglia e prestare soccorso ai reparti di fanteria in difficoltà. Goti e Alani erano eredi della tradizione dei popoli asiatici, superiori ai cavalieri del mondo classico. Con la vittoria di Adrianopoli si comincia a delineare quell’era della cavalleria, in cui esse diventa il nerbo dell’esercito, che caratterizzerà il Medioevo.
Guerriero Goto.
Le caratteristiche di questo guerriero erano l’elmo e lo scudo. L’elmo tipico spangelhelm, fatto di quattro o sei piastre tenute insieme da bande, era molto diffuso lungo il Danubio. I paraguancie erano di uso comune. Lo scudo invece con il suo disegno rimandava alle armerie imperiali che erano ad Adrianopoli e che i Goti in rivolta saccheggiarono prima della battaglia.


Articolo pubblicato come dossier su STORIE DI GUERRE E GUERRIERI edizione Sprea, altri testi e foto da wikipedia.

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