LE TATTICHE VINCENTI
DELL’ANTICHITA’ IN 10 BATTAGLIE
Dalla falange macedone alla
testuggine romana, ecco come gli eserciti antichi hanno sbaragliato i loro
avversari in scontri cruciali.
La mobilità dei carri
I carri da guerra furono
l’arma regina del secondo millennio prima di Cristo. Su di essi si fondarono le
tattiche di tutti gli eserciti del Medio Oriente, Egizi e Ittiti in
particolare.
QADESH 1274 a .C.
La battaglia di Qadeš (ma anche Kadesh o Qadesh, e Kinza in lingua ittita), combattuta sulle rive del fiume Oronte, nell'attuale Siria, nel 1275 a.C., contrappose le due più grandi potenze del Vicino Oriente antico: l'Egitto ramesside e le forze ittite di Muwatalli II; questa battaglia costituì l'atto finale di una lunga serie di guerre tra i due regni e fu probabilmente quella dove venne impiegato il maggior numero di carri da combattimento trainati da cavalli (circa 5000 o 6000).
La contesa per il dominio del Medio Oriente che nella
seconda metà del secondo millennio a.C. vide in gioco l’imperialismo egiziano e
le potenze che vi si contrapponevano nella regione siro-anatolica (prima i
mitanni, poi gli ittiti) è ben rappresentata nella battaglia di Qadesh, un
grande scontro tra l’esercito del faraone Ramses II e quello del re anatolico
Muwatalli. Le operazioni si svolsero nella piana di Qadesh (probabilmente
l’odierna Tell Nebi Mend), sulle due rive dell’Oronte, dove un cospicuo
movimento di carri trainati da cavalli al galoppo poteva avere spazio. Quattro
divisioni egizie erano in viaggio dalla Valle della Beqaa verso Qadesh, ignare
della presenza nemica grazie a un riuscito depistaggio ittita. Alcuni
prigionieri catturati dagli Egizi avevano assicurato che l’esercito nemico era
lontano, ma era stato invece nascosto sulla sponda opposta del fiume Oronte.
Appena i primi soldati si furono accampati, 2500 carri da guerra ittiti
lanciarono un attacco improvviso, che colse di sorpresa e impreparati gli
Egizi. La manovra, rafforzata da una seconda ondata di altri 1000 carri, mise
in rotta le prime due divisioni, separando la prima dalla seconda (quella
dedicata al dio Ra) dove stava il Faraone, senza però riuscire a impedire loro
di riparare verso sud. Il rischio di annientamento fu scongiurato dal
sopraggiungere dalle altre due divisione egizie. Questo impedì che ci fosse un
vero vincitore. La battaglia non risultò militarmente decisiva e non cambiò gli
equilibri della regione. In seguito un trattato di pace fra le due potenze
sancì la spartizione dei territori contesi. La disfatta schivata per un soffio
non impedì agli Egizi di utilizzare questo episodio in chiave propagandista. La
battaglia fu magnificata come vittoria nelle loro fonti, che la raffigurano
sotto forma di spettacolo sulle pareti dei più importanti templi del regno per veicolare
l’idea dell’invincibilità del Faraone.
La potenza cosmopolita raggiunta dall’Egitto del tempo, infatti, si
rifletteva nelle forme di comunicazione dell’arte e della letteratura, dove
contava non tanto la verità, quanto la capacità di persuasione.
Ramses II nella battaglia di Qadeš, rilievo nel tempio di Abu Simbel.
I
carri da guerra egizi e ittiti
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EGIZIO.
La prima macchina da
guerra nella storia fu il carro da combattimento, una piattaforma con ruote
trainata da animali aggiogati. I carri garantivano ai guerrieri mobilità e
posizione dominante, e potevano essere impiegati come mezzo di sfondamento o
come base mobile per bersagliere il nemico con le frecce, per aggirarlo e per
inseguirono furono gli antichi Egizi a
portare al massimo sviluppo ques’arma, nella sua versione più leggera usata
soprattutto come piattaforma di lancio per gli arcieri. La mobilitò tattica
fu l’elemento decisivo del suo successo.
Il cocchio aveva una
struttura ovoidale leggera. Poteva ospitare due passeggeri: l’auriga e un
combattente, di solito un arciere. Erano carri per il tiro da lontano.
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ITTITA.
Questo veicolo poteva
raggiungere i
Il carro ittita,
invece, era più pesante e il suo equipaggio era composto da tre uomini armati
di lancia per un combattimento più ravvicinato. Era più soggetto a
ribaltamenti , ma per la sua funzione di sfondamento era adatto per attacchi
decisi su traiettorie brevi e lineari, dritto al cuore dello schieramento
nemico.
Il cocchio dei carri
ittiti era una struttura pesante, squadrata. Dovevano ospitare tre guerrieri:
un auriga, un combattente e un porta scudo. Erano carri per il combattimento
ravvicinato.
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Schieramenti in campo
Egizi. Ittiti
20mila
uomini e 2000 carri
15mila uomini e
3500 carri
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La mossa tattica.
La battaglia di Qadesh
fu un grande scontro fra carri che fece passare in secondo piano il ruolo
delle pur numerose fanterie. La mossa tattica che permise al faraone Ramses
di rimettere in equilibrio una battaglia che sembrava persa fu proprio quella
di puntare sulla manovrabilità del proprio contingente di carri, guidato da
lui in persona, per reagire immediatamente all’attacco che i carri ittiti
avevano lanciato contro l’esercito egizio. Nascosti all’ombra della città di Qadesh,
gli Ittiti colsero di sorpresa l’avanguardia delle truppe egiziane che erano
ancora in marcia, lontane dal resto del loro esercito. Gli ittiti puntarono
sulle caratteristiche dei loro carri per travolgere in un colpo solo l’armata
del faraone. La situazione per gli Egizi stava volgendo decisamente al peggio
quando Ramses riuscì a riorganizzare il suo contrattacco, guidando i propri
carri contro il nemico che aveva perso un po’ di irruenza. La determinazione
del faraone e la capacità dei carri di rimettersi in azione furono
determinanti per permettere all’esercito egizio di tenere duro e tentare di
portarsi in salvo. Questo permise di guadagnare ul tempo necessario perché
altre componenti dell’esercito ancora in marcia raggiungessero il campo di
battaglia e riequilibrassero la battaglia rigettando indietro gli Ittiti. Non
fu una vittoria del faraone, come lui raccontò, ma certo si evitò il disastro
trasformandolo in pareggio, e consentendo poco di arrivare a un accordo di pace tra i due regni.
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Combattere in inferiorità
numerica.
TERMOPOLI 480 a .C.
Mappa degli spostamenti greci e persiani presso le Termopili e l'Artemisio
Dopo la sconfitta di Maratona nella Prima guerra persiana
nel 490 a .C.,
il grande impero achemenide tentò di nuovo l’invasione della Grecia dieci anni
dopo con un esercito talmente numeroso che secondo lo storico Erodoto gelò
letteralmente il sangue ai difensori. Considerando una simile sproporzione di
mezzi, in quei giorni, nel 480
a .C., l’unica alternativa possibile era un impiego delle
forze disponibili in relazione all’ambiente circostante. Le Termopoli, quindi,
furono pianificate come una battaglia di lucida intelligenza tattica nel
tentativo di sfruttare tutte le possibilità offerte da una stretta gola, un
passaggio obbligato che non avrebbe permesso al numero dei soldati persiani di
fare la differenza. In quel caso, come la battaglia di Maratona aveva già
dimostrato, era possibile avere la meglio sulle fanterie persiane in virtù
della tattica oplitica, una tecnica di
combattimento che prevedeva una formazione serrata di fanti, in grado di
avanzare e combattere compatti come fossero tutt’uno. Nello spazio delle
Termopoli la falange oplitica, senza correre il rischio di essere presa
d’infilata o aggirata dalla cavalleria nemica, poteva respingere ogni attacco
con relativa facilità. Come sottolineato dallo stesso Diodoro Siculo anche
l’armamento avrebbe fatto la differenza. Con i loro pesanti scudi di circa un
metro di diametro e le lunghe lance i Greci avrebbero potuto sopraffare i
Persiani, armati in maniera più leggera, in un combattimento ravvicinato.
Contemporaneamente allo scontro delle Termopoli, la flotta greca, per impedire
un possibile aggiramento del passo, si impegnò nel tentativo di ostacolare
l’avanzata del naviglio nemico a Capo Artemisio, e anche qui in uno stretto in
cui non potesse prevale la superiorità numerica delle navi persiane.
Per tre giorni gli Elleni dimostrarono un’efficienza
insuperabile. Il re persiano Serse rimase scioccato dall’entità delle perdite e
da quanto fossero irrisorie quelle avversarie: tra gli Spartiati di Leonida si
registrarono solo due o tre caduti. Questo fino a quando un abitante della
vicina città di Trachis si offrì, dietro compenso, di svelare un sentiero in
grado di aggirare le posizione nemiche. Così, avvalendosi dei consigli della
guida, un contingente di 20mila Persiani si inerpicò su per il monte Eta per
attaccare il nemico alle spalle. Fu la svolta i focesi a guardia del sentiero
non riuscirono a fare una grande resistenza contro i soldati persiani, che
presero alle spalle gli Elleni chiude doli in una tenaglia. Per Leonida e i
suoi non ci fu scampo. Furono massacrati tutti, ma entrarono nella leggenda.
Soldati a confronto.
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IMMORTALE PERSIANO
ARMI: in dotazione
avevano una corta lancia dalla punta di ferro e un contrappeso a forma di
melograno, uno scudo di cuoio e vimini, una spada corta, arco e frecce
ABBIGLIAMENTO:
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OPLITA PERSIANO
ARMI: l’oplita era
armato con una lunga lancia e una spada corta ed era equipaggiato con elmo,
schinieri per gli stinchi e spesso un’armatura di bronzo.
SCUDO: l’hoplon era il
tipico scudo che diede il nome agli opliti. Su quello spartano spiccava il
temuto simbolo della città, la lettera lambda.
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Schieramenti in campo.
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GRECI:
7000
Uomini.
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PERSIANI:
200mila
uomini.
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Costruire uno
sbarramento, un muro, per impedire il passaggio attraverso uno stretto
percorso obbligato. Quando si è in inferiorità numerica l’unica speranza è
sfruttare al massimo le difese naturali o artificiali per costringere il
nemico a combattere in uno spazio angusto dove non possa dispiegare tutta la
sua massa critica. Gli Spartiati di Leonida sono diventati un esempio
leggendario di questa tattica. Il luogo della battaglia, le Termopoli, era
stato scelto non a caso con grande attenzione. Si trattava di uno stretto
valico obbligato. I Greci poi costuirono dei muri, ma quello principale lo
portavano con sé. Era quello fatto
dagli scudi della falange oplitica, che si rivelò un ostacolo quasi
insormontabile per i soldati persiani abituati a tutt’altro stile di
combattimento. La falange schierata in campo chiuso e circoscritto come le
Termopoli consentiva a un pugno di uomini (i 300 di Leonida ma anche qualche
migliaio di Greci alleati con lui) di resistere quasi ad oltranza. La
sconfitta arrivò perché Efialte di Trachis, un pastore del luogo, rivelò ai
Persiani l’esistenza di un sentiero che permetteva di aggirare gli Spartiati.
Così gli Immortali, i migliori tra i guerrieri persiani, riuscirono a
portarsi dietro ai Greci, presero di sorpresa la retroguardia focese che quel
sentiero doveva proteggere, e si lanciarono nel massacro dei 300 Spartiati di
Leonida.
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L’imbattibile
falange.
GAUGAMELA 331 A .C.
A Gaugamela, nei pressi dell’odierna Mosul, Alessandro
Magno si trovò di fronte un’armata immensa. Il re persiano Dario III era
riuscito ad assemblare quasi 200mila uomini. Sul campo di battaglia Dario era
schierato al centro con le truppe migliori disposte su due linee molto
profonde, mentre sulle ali erano sistemati contingenti di cavalleria,
provenienti da tutto l’impero. Alessandro per sopperire all’inferiorità numerica
adottò una strategia molto particolare. Il centro dello schieramento era
occupato dalla falange disposta su una linea molto profonda, mentre sui fianchi
erano posizionati il re con cavalieri e fanti, a destra, e il suo miglior
generale Parmenione con latri reparti sulla sinistra. Alle loro spalle, in
posizione di rincalzo, una linea di falange formata da ausiliari, aveva il
compito di chiudere le possibili falle nello schieramento. Poiché il rapporto
numerico fra le cavallerie era di cinque a uno e la linea formata dai Persiani
superava di oltre un chilometro quella della falange, sembrava inevitabile che
i Macedoni sarebbe sto stati aggirati sui fianchi. Per questo Alessandro diede
ordine che le ali più esterne, costituite dai reparti di cavalleria e fanteria
alleata, avanzassero scaglionate e disposte a 45° rispetto al resto dello
schieramento per proteggere i fianchi e indurre i nemici ad attaccare in quei
punti. Una sorta di schieramento a trapezio, che avrebbe dovuto muoversi
all’unisono evitando di sfaldarsi. L’idea del sovrano macedone era chiara:
affrontare la massa di cavalleria nemica sulle ali e impegnarne il maggior
numero possibile per poi, con il resto dell’esercito avanzare rapidamente
contro il centro dello schieramento dove era disposto Dario. La premessa era
costringerlo ad attaccare per primo, e così fu. I carri falcati si avventarono
a gruppi sulla falange. I soldati macedoni, erano però preparati: rimasero
impassibili e si aprirono quanto basta per far passare i carri che, una volta
defluiti, furono assaliti dalle seconde linee e messi fuori combattimento. Allo
stesso tempo la cavalleria persiana si lanciò in massa contro le ali macedoni
che si difesero strenuamente anche se in forte inferiorità numerica. Mentre i
Persiani insistevano con l’attacco ai fianchi, Alessandro lentamente si
incuneava nel loro schieramento, finché non si aprì un vuoto al centro,proprio
quando erano state gettate nella mischia le ultime riserve. Il Macedone ordinò
alla sua cavalleria di disimpegnarsi e di prepararsi per l’attacco decisivo. Continuando
a marciare dispose le sue unità come a formare un’enorme freccia con lui al
vertice. Dietro di sé aveva la cavalleria e tutti i battaglioni della falange
che era riuscito a disimpegnare. Questa grande freccia attaccò i Persiani,
proprio dove erano più sguarniti, mettendo fuori gioco la guardia reale e i
reparti mercenari. L’attacco fu così rapido e concentrato che Dario, temendo di
essere ucciso, decise di ritirarsi, mentre i suoi uomini ancora combattevano.
Quando questi si accorsero che il loro sovrano si era dato alla fuga
cominciarono a ritirarsi in disordine e furono massacrati. Questa battaglia
decise il corso della guerra. Alessandro avanzò fino a occupare Babilonia, e da
lì in pochi giorni arrivò a Persepoli.
L’impero persiano si era liquefatto e Alessandro era padrone dell’Asia.
Schieramenti in campo.
Macedoni PERSIANI:
40mila
fanti, 7000 Uomini. 200mila
uomini.
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Fu il genio di
Alessandro a vincere la battaglia di Gaugamela e con essa la guerra contro i
Persiani. La tattica tipica dei Macedoni, inventata da Filippo, era quella
dell’incudine e martello. Il nucleo era costituito dalla falange macedone:
quando essa entrava in azione, gli uomini delle prime cinque file abbassavano
le loro lance lunghe fino a
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Storia della falange.
La falange nacque come
formazione da guerra delle città-stato greche: i cittadini-soldati (opliti)
coperti di bronzo e armati di lancia combattevano fianco a fianco creando un
unico fronte compatto. Di solito due falangi si scontravano in un impatto
ravvicinato, finché una delle due cedeva. Nel IV secolo a.C. a Tebe si iniziò
a rafforzare un lato della formazione per acquisire vantaggio nella spinta.
Con la riforma di Filippo II, nella falange macedone i soldati erano molto
più numerosi e disposti su più file, protetti da corazze di lino e scudi
piccoli o addirittura assenti, e dotati di lance molto lunghe che servivano
sia per l’attacco sia per la protezione delle frecce.
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FALANGE GRECA
FORMAZIONE.
Ricostruzione della falange oplitica greca. In realtà l'equipaggiamento dei soldati non era uniforme, tranne che a Sparta, dato che ognuno doveva procurarsi da solo le armi e decorarle
A differenza di quella macedone, la falange greca era profonda poche file e gli uomini erano armati di lance alte poco più di loro.
Gli opliti greci combattevano in
schiere serrate coperti da elmi, scudi, corazze e schinieri di bronzo.
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FALANGISTI.
I fanti macedoni erano disposti su
16 file, armati di lance lunghe circa
sotto: Ricostruzione: carica di fanti contro i pezeteri schierati nella falange. |
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Elefanti
come carri armati.
ERACLEA 280 A .C.
Fu di fatto la prima volta che i Greci e i Romani si
confrontavano sul campo di battaglia. Il primo scontro fra la falange e la
legione. Ma a fare la differenza furono gli elefanti. Il re Pirro di Epiro,
imparentato con Alessandro Magno, era stato chiamato in Italia Meridionale
dalla città di Taranto, il grande porto della Magna Grecia era entrato in
conflitto con i Romani quando Roma aveva iniziato a estendere la propria
presenza sul sud Italia. Nella primavera del 280 a . C. Pirro approdò a
Taranto con 20.000 fanti, 2000 arcieri, 500 frombolieri, 3000 cavalieri tessari
e alcune decine di elefanti da combattimento prestatigli dal faraone macedone
d’Egitto. A luglio le forze epirote e quelle romane si trovano faccia a faccia
presso Eraclea, vicino all’attuale Policoro in Lucania. I Romani schieravano due
legioni con le truppe ausiliarie agli ordini del console Publio Valerio
Levinio, per un totale di circa 20mila soldati. Pirro aveva qualche uomo in più
dopo aver unito al suo contingente alcune forze locali. Ma soprattutto
disponeva degli elefanti, forse una ventina, sconosciuti ai Romani. Furono
questi ultimi a prendere l’iniziativa dato che Pirro si era attestato in una
posizione difensiva oltre il fiume Siri, probabilmente speranzoso nell’arrivo
di rinforzi da parte delle popolazioni sannitiche e lucane. I Romani riuscirono
ad attraversare il fiume sostanzialmente indisturbati e Pirro avviò l’attacco
quando lo schieramento avversario si stava disponendo. Questo forse spiega
perché gli elefanti all’inizio della battaglia si trovarono posizionati tra le
riserve. Di solito infatti – come avvenne in quasi tutte le battaglie
dell’antichità, dall’Idaspe a Zama fino a Rafia – gli elefanti costituivano
l’avanguardia dell’esercito e venivano impiegati come una sorta di carri
armati, per attaccare frontalmente e infrangere il fronte nemico,
scompaginandolo e consentendo alle forze che li seguivano di penetrare tra gli
avversari per completare l’opera. A Eraclea invece il primo impatto fu quello
tra le opposte cavallerie, durante il quale lo stesso Pirro rischiò di morire.
Poco dopo si accese lo scontro fra le fanterie: le possenti falangi macedoni si
contesero con ferocia ogni palmo di terreno con l’altrettanto tenace legione
romana. Per capire la furia di quei combattimenti corpo a corpo basti ricordare
che alcune fonti sostengono che nella battaglia morirono circa la metà dei
fanti di entrambi gli eserciti (si usa ancora la frase vittoria di Pirro per
indicare un obiettivo raggiunto a un prezzo così alto da renderlo vano). Lo
scontro tra i fanti così come quello tra i cavalieri sembrava volgere in parità,
ma tutto cambiò quando entrarono in campo i “buoi lucani”, come furono chiamati
gli elefanti dai Romani che non li avevano mai visti prima. I pachidermi misero
presto in rotta la cavalleria romana, perché già da lontano i cavalli non
abituati alla loro vista diventavano ingovernabili, terrorizzati dalla mole,
dall’aspetto e dai barriti di quelle gigantesche bestie. E fu così anche per i
legionari che cedettero al panico quando si resero conto che il loro fianco era
stato scoperto e proprio da quel lato stavano arrivando a passo di carica quei
mostri. Pirro aveva vinto. Il re epirota marciò quindi verso Roma fino a
Preneste, prima di ritirarsi. Sconfisse di nuovo e a caro prezzo i Romani
presso Ascoli Satriano nel 279, passò poi in Sicilia dove si scontrò con i
cartaginesi. Tornato di nuovo in Italia affrontò per l’ennesima volta i Romani,
che però in pochi anni avevano appreso tutte le lezioni necessarie, compreso il
modo per evitare la furia devastante degli elefanti. Nel 275 a Benevento le legioni
inflissero al re d’Epiro la sconfitta definitiva . Lui tornò in Grecia e Roma
rimase padrona incontrastata dell’Italia.
Ecco come doveva apparire lo schieramento di battaglia dell'esercito consolare polibiano nel III secolo a.C., con al centro le due legioni e sui fianchi le alae Sociorum (gli alleati italici) e la cavalleria legionaria e alleata[46].
Schieramenti in campo
Romani
Epiroti e tarantini
20mila
fanti e 2400 cavalieri 25mila fanti, 3mila
Cavalieri, 20 elefanti.
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La mossa tattica.
primi fasi della battaglia seconda fase
Mai come ad Eraclea
gli elefanti da guerra risultarono decisivi e costituirono la mossa tattica
che risolse la battaglia. Contrariamente al solito, forse costretto dalle
circostanze, Pirro non utilizzò gli elefanti all’inizio dello scontro, né
tanto meno le lanciò contro le fanterie nemiche nel tentativo di indebolirle.
Gli elefanti epiroti invece rimasero in riserva, forse a causa del tempo
necessario per avvicinarsi al fronte di combattimento. Ma la momento giusto
sbucarono dalle retrovie per avventarsi sulla cavalleria romana. La loro
carica di grande impatto terrorizzò i cavalli e gli uomini avversari, e li
mise in rotta prima ancora di sconfiggerli fisicamente. Grazie a questa mossa
Pirro si assicurò la permanenza nel sud Italia ancora per diversi anni,
costruendo la propria leggenda. Al momento della battaglia di Eraclea, nel
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Gli elefanti.
Essi costituirono
nell’antichità un poderoso strumento d’attacco. La loro pelle dura e spessa
li rendeva difficilmente vulnerabili alle armi nemiche. Mentre essi erano
facilmente in grado di mettere in crisi la cavalleria nemica e di costringere
la fanteria avversaria a disunirsi e a compiere manovre incontrollate per
evitare di essere scompaginata. Il loro impiego ideale era quello dello
sfondamento. Spesso poi sulla loro groppa venivano montate torrette che
potevano ospitare soldati, in preferenza arcieri o soldati con lunghe lance.
Gli elefanti antichi
addestrati al combattimento appartenevano a razze di media grandezza: quella
indiana, quella siriana e nordafricana, oggi estinte. Erano addestrati a
combattere contro fanti e cavalieri nemici usando le zanne o calpestando gli
avversari.
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L’accerchiamento.
CANNE, 216 a .C.
Il genio tattico di Annibale brillò come non mai nella
piana di Canne, in Puglia, infliggendo ai Romani la più grande disfatta della
loro storia. Il generale cartaginese aveva aperto la Seconda guerra punica
partendo dalla Spagna e piombando di sorpresa nella Pianura Padana attraverso
le Alpi. Prendendo l’iniziativa nella sfida mortale che opponeva ormai Roma e
Cartagine per il dominio sul Mediterraneo occidentale, Annibale sconfisse tre
eserciti romani sul Ticino, sulla Trebbia e sul Trasimeno. Poi si diresse verso
il Sud Italia per sobillare le popolazioni a una rivolta contro Roma. l’Urbe,
per sventare questa minaccia, radunò tutte le sue forze affidandole ai due
consoli Lucio Emilio Paolo e Marco Terenzio Varrone per chiudere la partita una
volta per tutte stroncando l’invasore. I Romani erano consapevoli della
superiorità numerica e tattica della cavalleria cartaginese e per questo motivo
scelsero uno stretto campo di battaglia tra il fiume Ofanto e il terreno
sopraelevato attorno alla città di Canne, allo scopo di proteggere da essa da
essa i fianchi dell’esercito. Ma Annibale aveva in serbo una sorpresa. egli si
ispirò alla tecnica dell’incudine e del martello applicata dai Macedoni. Questa
manovra avvolgente, che porta il colpo mortale con la cavalleria, ha però la
probabilità di riuscita solo se si ha una forte fanteria d’arresto come la falange,
che viene usata alla stregua di una incudine. Annibale non disponeva di una
falange, perciò dovette inventarsi qualcosa di nuovo: lo fece sostituendo il
centro rigido del proprio schieramento con un centro flessibile, utilizzando
una fanteria leggere che, a differenza di una falange non doveva resistere ma
doveva invece arretrare per attirare in trappola le legioni romane. Per questo
dispose i suoi soldati secondo uno schieramento convesso: al centro, in
posizione più avanzata, vi erano i fanti galli e spagnoli, suoi alleati; ai
lati più arretrati, pose i Cartaginesi e gli altri contingenti africani. Sulle
ali posizionò le cavalleria: l’ala sinistra era molto rinforzata per numero e
qualità dei componenti perché voleva usarla per lanciare un attacco decisivo,
mentre l’ala destra doveva semplicemente limitarsi a operazioni di
contenimento. Il generale sapeva che il centro del suo schieramento non avrebbe
potuto resistere al violento urto dei Romani e contava proprio su questo. Infatti
non appena l’esercito punico arretrò i Romani con grande impeto si gettarono in
avanti, finendo per incunearsi tra le truppe nemiche collocate alle estremità.
I Romani credettero di essere a un passo dalla vittoria e invece stavano
cadendo in trappola. Dapprima essi furono attaccati sui fianchi e
successivamente finirono per essere
colpiti alle spalle dalla cavalleria numida, che nel frattempo aveva
sbaragliato quella romana. La battaglia si trasformò in un massacro senza
uguali: nelle legioni completamente circondate morirono il console Emilio
paolo, quasi 45mila legionari, novanta senatori, trenta tra ex-consoli, pretori
ed edili. Sembrava una disfatto irrimediabile, ma gli italici che avrebbero
potuto rivoltarsi contro Roma rimasero invece fedeli. Così, dopo molti anni
passati nel Sud Italia impegnato in combattimenti minori, Annibale fu costretto
a ritornare in Africa per difendere Cartagine da Scipione, che aveva avuto
l’intuizione di portare la guerra sul terreno avversario. Il generale romano,
che aveva studiato le tecniche militare del grande nemico, lo sconfisse nel 202 in una magistrale
battaglia presso Zama.
Schieramenti in campo.
Romani
Cartaginesi
80mila
fanti e 6mila cavalieri 35mila fanti e
10 cavalieri
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La mossa tattica.
Schieramento di una legione romana a Canne: i manipoli di hastati eprincipes erano molto compatti, disposti frontalmente per 5 fila armati, ciascuna composta da 28-30 legionari; la profondità totale della legione poteva raggiungere gli 82 legionari. Battaglia di Canne 216 a.C. - Fase iniziale dell'attacco romano Battaglia di Canne 216 a.C. - Distruzione dell'esercito romano https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Canne
Premessa
indispensabile della tattica dell’accerchiamento è che il proprio centro
tenga impegnato e fermo quello avversario, mentre almeno una parte del
proprio esercito gira intorno a quello avversario per prenderlo sul fianco e
alle spalle. Di solito il ruolo di ala d’urto e agramente è assegnato alla
cavalleria. Lo fece anche Annibale a Canne ma lui aggiunse qualcosa di più:
il primo e più importante aggiramento venne compiuto dalle fanterie, che
arretrando inglobarono il centro nemico. questo gli consentì di tenere il
nemico in una morsa stretta da cui era difficile scappare: per questo Canne
finì con un massacro di gran lunga superiore a quanto accadeva in media nelle
altre battaglie. Annibale organizzò in modo innovativo la sua forza di
blocco: schierò al centro in formazione convessa i guerrieri galli
intervallati dai più solidi combattenti iberici, ponendo al loro fianco le
fanterie pesanti puniche e libiche. Le cose andarono esattamente come aveva
previsto, realizzando un perfetto modello di avvolgimento tattico. I
legionari romani attaccarono frontalmente e costrinsero il centro cartaginese
a ripiegare: esso indietreggiò ordinatamente attirando i fanti romani in una
trappola, avvolgendoli dentro le proprie linee. In questo modo la superiorità numerica
romana fu neutralizzata. Nel frattempo la fanteria pesante africana iniziava
a chiudersi sui fianchi dei legionari, mentre sull’ala sinistra la cavalleria
pesante cartaginese attaccava e distruggeva quella romana. Le cavallerie
numidiche di Annibale chiusero infine la trappola sigillando il retro. Da un
punto di vista tattico un’operazione perfetta.
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Soldati a confronto.
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I romani avevano due
tipi di fanti: gli Hastatus e i Triarius. I primi avevano uno scudo ovale
(scutum) che era molto diffuso tra gli italici ed era quello in uso ai
legionari d’epoca. I secondi, a differenza delle altre linee, portavano
anziché il giavellotto una lancia da urto, perché in teoria aveva ancora uno
stile di combattimento oplitico.
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I fanti cartaginesi
invece erano composta da fante libico e fante italico. I fanti libici
indossavano corazze di lino pressato, che come il resto dell’equipaggiamento
era di ispirazione macedone. Il fante italico era caratterizzato da
un’armatura composta da una corazza pettorale con dischi, il cui il più
bell’esemplare è stato rinvenuto proprio in terra cartaginese.
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L’uso
delle fortificazioni.
ALESIA 52 a .C.
La battaglia di Alesia fu in realtà per il mondo antico un
evento dalle conseguenze storiche e politiche assai più importanti di quelle di
un semplice scontro armato. Prima del trionfo di Alesia le sorti della guerra
gallica intrapresa da Cesare apparivano ancora piuttosto incerte, tanto che a
Roma gli avversari politici del proconsole, preoccupati della costante crescita
del suo prestigio, confidavano in una imminente sconfitta. Alla rivolta
antiromana scoppiata nel 53 a .C.
si unirono quasi tutte le tribù galliche sotto il comando di Vercingetorige che
si rinchiusero nella città fortificata di Alesia in attesa dei rinforzi. Cesare
allora ordinò la costruzione di una possente fortificazione attorno alla città
per contenere qualsiasi tentativo di sortita dall’interno. Quindi, ben sapendo
che alle spalle si sarebbe trovato presto un esercito gallico assai più
numeroso, decise di realizzare anche una seconda linea fortificata rivolta
verso l’esterno, e di distribuire le sue legioni nella fascia compresa tra due
linee. La lungimiranza di Cesare fu evidente quando l’esercito gallico di
soccorso, forte di ben 240mila uomini, si avvicinò ad Alesia con l’intento di
stringere i 50mila Romani in una morsa mortale. Il confronto delle forze in
campo in termini numerici appariva, almeno sulla carta, improponibile: ogni
legionario romano avrebbe dovuto fronteggiare più di sei guerrieri nemici. Di
fatto però la posizione fortificata, faticosamente costruita attorno ad Alesia
a colpi di dolabra, il tradizionale piccone romano, permise di riequilibrare la
situazione determinando anche l’esito della battaglia. Non solo i Romani, sotto
la magistrale guida di Cesare, resistettero, ma quando egli, spostando lungo il
perimetro le sue forze di cavalleria, le fece convergere sul punto sotto
attacco, determinando una superiorità locale fu persino in grado di mettere in
rotta l’esercito gallico. Il giorno dopo Vercingetorige decise di arrendersi.
Alesia costituì di fatto l’ultimo conflitto armato tra Galli e Romani, e fu il
chiaro segnale che Roma si espandeva ormai con decisione a nord delle Alpi. Con
la vittoria di Alesia Cesare pose le basi del suo progetto politico,
realizzatosi alcuni anni dopo al prezzo di una lunga e dolorosa guerra
civile contro Pompeo in seguito alla
quale il vincitore dei Galli divenne il governante unico di Roma.
Schieramento in campo.
ROMANI GALLI
50mila
uomini
320mila uomini
|
La mossa tattica.
Fu la lungimiranza di
Cesare nel costruire fortificazioni d’assedio rivolte sia verso la città sia
verso l’esterno a rendere possibile una vittoria numericamente impensabile. A
questo va aggiunto il genio tattico del generale romano che seppe individuare
il punto decisivo della battaglia. Si trattava del monte Rea, un’altura che
non era stato possibile incorporare nelle linee difensive e che offriva ai
Galli l’opportunità di attaccare il campo romano in discesa. Costituiva
dunque il punto debole delle fortificazioni romane e non si può escludere che
Cesare avesse deciso di usarlo come trappola per attirare il nemico e
batterlo. Dopo numerosi e infruttuosi tentativi di penetrare nella linea
fortificata romana, i Galli dell’esercito giunto in aiuto a Vercingetorige si
decisero per un ultimo attacco frontale proprio nel tratto in corrispondenza
del monte Rea, coordinandolo con un assalto nello stesso punto da parte
dell’esercito rinchiuso ad Alesia. Mentre i fanti romani resistevano, Cesare
spostò lungo il perimetro le sue forze di cavalleria, facendole convergere
sul punto sotto attacco così da creare una superiorità militare in gradi
mettere in fuga il nemico. le strutture difensive hanno sempre giocato un
ruolo fondamentale nella battaglie, specie prima dell’introduzione
dell’artiglieria. Ma di solito sono
state le strutture difensive fisse – come le mura urbane – a consentire la
vittoria. L’abilità romana fu quella di saper costruire notevoli opere
difensive direttamente sul campo: celebri sono i loro accampamenti militari
fortificati.
|
Le fortificazioni romane.
Le fortificazioni costruite da Cesare ad Alesia, nell'ipotesi della locazione della battaglia presso Alise-sainte-Reine (52 a.C.) https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Alesia
L’esercito romano era
attrezzato per compiere grandi opere di ingegneria. I Romani costruivano
campi fortificati a ogni sosta e i tecnici di Cesare realizzarono in pochi
giorni un ponte sul Reno per passare in Germania. Contando su queste capacità
Cesare decise di creare attorno ad Alesia incredibili opere di assedio, che
avevano la caratteristiche di essere double face, rivolte sia verso gli
assedianti nella città di Alesia sia a proteggersi dall’atteso esercito
gallico che stava arrivando il loro soccorso. Ci volle un mese di lavoro per
terminare le fortificazioni e alla fine realizzarono un vallo lungo
|
L’utilizzo
della riserva.
FARSALO 48 a .C.
Entrato in rotta di collisione con il senato, Cesare, tra
l’11 e il 12 gennaio del 49 a .C.,
varcò con il suo esercito il fiume Rubicone, che segnava il confine politico
dell’Italia. A quel punto il senato chiese a Pompeo di difendere le istituzioni
repubblicane. Iniziò così una guerra civile che sarebbe durata quattro anni.
Dopo alterne vicende, il 9 agosto del 48 a .C., i due più grandi generali dell’epoca
si trovarono faccia a faccia a Farsalo per decidere una volta per tutte chi
avrebbe governato Roma e il suo impero. Prima alleati, poi rivali, infine
nemici, Gneo Pompeo e Caio Giulio Cesare erano pronti a darsi battaglia nel
nord della Grecia dopo due lunghe carriere cariche di trionfi, vitt0rie
militari e conquiste di immensi territori. Cesare, dopo aver marciato su Roma e
consolidato il suo potere nell’Urbe era partito all’inseguimento di Pompeo nei
Balcani, e l’aveva raggiunto in Grecia. Il pronostico della battaglia appariva
favorevole a Pompeo, che aveva circa il doppio dei soldati. La situazione era
tale che, come Cesare narra nei suoi scritti, alla vigilia dello scontro i
pompeiani già sicuri della vittoria, non si dedicarono ai preparativi ma a
litigare sulla spartizione del futuro bottino e soprattutto sulle cariche da
occupare nelle istituzioni romane. Cesare invece si concentrò per dare il
massimo del suo genio tattico. E la soluzione che trovò fu effettivamente
decisiva. Egli temeva soprattutto la cavalleria di Pompeo, che oltre tutta era
guidata da Tito Labieno, che egli conosceva bene perché era stato un suo
luogotenente durante la conquista della Gallia. Cesare sfruttò il massimo
vantaggio di conoscere personalità e modo di agire degli avversari. Previde
quindi le azioni di Labieno. Era certo che avrebbe caricato sull’ala destra per
tentare di aggirare le sue legioni. Cesare capì che lì si sarebbe deciso lo
scontro e adottò le necessarie misure di riserva, in una linea alle spalle
della propria debole cavalleria. Come previsto, mentre le fanterie dei due
eserciti erano bloccate in un corpo a corpo, Labieno attaccò e travolse la
fanteria di Cesare. A quel punto quest’ultimo fece intervenire la sua riserva
che colse di sorpresa i nemici sul fianco e li mise in fuga. Cesare aveva anche
dato ordine ai suoi legionari di tentare di colpire con le lance i volti dei
cavalieri nemici, per accrescere in quei giovani il timore delle ferite. Anche
questo espediente funzionò e il nemico sbandò. Così l’esercito di Cesare, pur
inferiore di numero, riuscì a circondare quello di Pompeo infliggendogli una
pesante sconfitta. Pompeo si diede alla fuga e tentò di rifugiarsi presso il
giovane faraone Tolomeo d’Egitto, ad Alessandria. Qui erano presenti anche
alcuni Romani. Proprio uno di loro, Lucio Settimio, che aveva servito sotto
Pompeo, fu mandato a uccidere il generale. Settimio si accanì sul cadavere. Lo
decapitò e portò la testa al faraone, che la offrì in dono a Cesare. Egli però
rimase a tal punto sdegnato da questo gesto che per punirlo decise di aiutare
la bella Cleopatra, sorella di Tolomeo, a prendere il trono a suo discapito. Ma
questa è un’altra storia da raccontare in questo blog.
Schieramenti in campo.
CESARE
POMPEO
22mila fanti e mille
cavalieri 50mila fanti, 7000
cavalieri
|
La mossa tattica.
schema della battaglia
Cesare a Farsalo
modificò lo schema classico dello schieramento romano. Esso consisteva nel
disporre i fanti su tre linee (che corrispondevano agli antichi hastati,
principes e triarii), e nel porre la cavalleria alle ali. Il combattimento
decisivo di solito era quello sui fianchi, dove la cavalleria più forte
poteva fare breccia determinando l’esito della battaglia. Cesare invece
stabilì di costituire una quarta linea di riserva, prendendo sei o forse otto
coorti dei veterani più esperti e mettendosi personalmente al loro comando.
Esse erano separate sia dal centro sia dall’ala e, come unità mobile, erano
pronte ad accorrere dove fosse stato necessario. Cesare immaginava che le
avrebbe usate contro i cavalli guidati dal generale Labieno, e infatti ebbe
ragione: quando i nemici travolsero la cavalleria cesariana, Cesare impedì
che questo evento determinasse come sempre la vittoria. Contrattaccando con
la riserva rovesciò l’esito scontato della battaglia. Applicare la tattica
della riserva non era facile nell’antichità perché spesso era il numero dei
soldati utilizzati nell’impatto frontale a essere decisivo. Per scelte più
raffinate servivano uomini ben addestrate e generali geniali e coraggiosi.
Il primo ad applicarla
su un campo di battaglia fu probabilmente Lucio Cornelio Silla, a Cheronea.
Cesare l’aveva già usata contro i Germani di Ariovisto e contro gli Elvezi.
Anche Annibale fece ricorso a questa tattica a Zama, dove provò a superare
Scipione proprio grazie alla costituzione di una riserva e per poco non ci
riuscì.
|
L’imboscata.
SELVA DI TEUTOBURGO 9
d.C.
Ricostruzione del luogo della battaglia, con il terrapieno costruito dai barbari per imbottigliare le legioni di Varo.
La conquista della Germania settentrionale tra il Reno e
l’Elba nel 4-6 d.C. a opera di Tiberio, figlio adottivo di Augusto – durata
oltre un ventennio – fu vanificata in tre soli giorni da una delle più gravi
disfatte della storia militare romana. Per ironia della sorte a capo
dell’esercito non c’era un generale ma il governatore dei territori appena
conquistati, Publio Varo. Nel settembre del 9 d.C., sotto la sua guida, le
legioni romane in marcia per rientrare nelle basi sul fiume Reno, dove
avrebbero dovuto svernare, finirono per cadere in un’imboscata tesa da Arminio,
principe dei Cherusci, a capo di una colazione di tribù germaniche. La totale
impreparazione del governatore romano si materializzerà in una serie di errori
tattici e militari dai risvolti drammatici durante l’attraversamento della
foresta di Teutoburgo. Varo disponeva di tre legioni a ranghi completi: la XVII , la XVIII e la XIX , oltre ad alcune unità
ausiliare (da 3 a
6 coorti), pari a circa 15mila legionari e 5mila ausiliari. Sul fronte opposto
Arminio poteva contare su 20-25mila guerrieri di varie tribù alleate della
coalizione, principalmente Cherusci, Bructeri, oltre probabilmente a Sigambri,
Camavi, Marsi, Angrivari, Usipeti e Catti. Erano uomini determinati e avvezzi
al combattimento e conoscevano benissimo anche le tattiche romane, avendo
militato come truppe ausiliarie dell’esercito durante la rivolta
dalmato-pannonica del 6-9 d.C. Varo, senza dar credito alle voci che
circolavano su un possibile agguato lungo il percorso, in un territorio
inesplorato e all’interno di una foresta circondata da acquitrini, non adottò
alcuna precauzione per evitare probabili insidie, agevolando incredibilmente i
piani di Arminio. La marcia romana attraverso boschi impenetrabili,
accompagnata da un tempo inclemente, si rivelò fin da subito un’impresa
impossibile. Per tre lunghissimi giorni le legioni furono attaccate
ripetutamente, subendo improvvise imboscate, da guerrieri che conoscevano il
territorio alla perfezione e non davano tregua. La fila di legionari, in
sentieri poco battuti, si allungava per chilometri, e non c’era alcuna
possibilità di schierarsi in assetto di combattimento. Fu ben presto chiaro che
la strategia o il migliore addestramento non li avrebbero salvati. Nei primi
due giorni le perdite furono altissime, ma l’esercito continuò ad avanzare
senza altre alternative. Furono provate delle sortite, ma senza successo.
L’ultimo giorno fu il più tragico. La gran parte dei legionari fu trucidata. I
pochi prigionieri furono torturati e sacrificati agli déi. Varo e gli ufficiali
di alto rango, nel timore di essere catturati vivi, compirono un suicido
collettivo. Solo alcuni reparti di cavalleria riuscirono a mettersi in salvo.
Si consumò in questo modo il massacro di Teutoburgo, che tra le file romane
fece contare più di 15mila caduti. Una ferita nell’orgoglio imperiale che non
rimarginò fino al 16 d.C quando, nella battaglia di Idistaviso, Arminio fu
battuto dall’esercito romano guidato da Germanico. La vendetta era stata
consumata.
Schieramenti in campo.
ROMANI
GERMANI
15000
UOMINI 20-50MILA UOMINI
|
|
La mossa tattica.
Il possibile percorso di Varo, dalla porta Westfalicasul Weser, fino a Kalkriese dove lo attendeva Arminioper tendergli l'agguato. La mappa della disfatta di Varo, nella Selva di Teutoburgo https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_della_foresta_di_Teutoburgo
Arminio preparò la
battaglia alla perfezione e la trappola scattò in modo impeccabile. L’aspetto
tattico decisivo fu la capacità dei Germani di combattere attaccando di
sorpresa i Romani, sorpresi in una lunga colonna, dai boschi. Ai Romani fu
impedito di organizzarsi in campo aperto, e ciascun distaccamento fu
attaccato essendo preso di fianco e ridotto all’impossibilità di avanzare o
arretrare. Il grande attacco di massa lungo tutta la fila di legionari è
forse la trappola meglio riuscita della storia. La tattica dell’imboscata è
decisiva soprattutto nelle situazioni in cui la disparità di potenza fra le
due parti è altrimenti incolmabile. I guerrieri delle variegate tribù
germaniche non potevano certo competere con i legionari romani in quanto a
equipaggiamento, addestramento e coesione. L’unica speranza era vincere prima
ancora di combattere, impedendo al nemico di mettere in campo le sue qualità.
E questo è esattamente quello che l’imboscata preparata da Arminio permise di
fare..
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Soldati a confronto.
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GUERRIERO GERMANICO.
Il guerriero germanico
era armato di spada lunga, tipica dell’Europa settentrionale. Lo scudo invece
era esagonale; l’umbone metallico veniva usato anche per il combattimento
offensivo-.
|
LEGIONARIO ROMANO.
Il legionario era
armato di gladio, spada corta fondamentale per i Romani, la corazza era di
tipo segmentata ed era un’armatura composta di lamine di metallo. Avevano
degli elmi, che nel primo impero i più diffusi erano di tipo gallico.
|
La
testuggine romana.
ASSEDIO DI GERUSALEMME 70
d.C.
Il popolo ebraico è sempre stato molto refrattario al
dominio romano e le rivolte si sono susseguite con ritmo costante. La più
importante fu senz’altro la Guerra Giudaica
combattuta fra il 66 e il 73 d.C.
L’episodio decisivo fu l’assedio e la conquista romana di Gerusalemme da
parte di Tito, figlio ed erede dell’imperatore Vespasiano. I ribelli ebrei
avevano occupato fin dall’inizio della rivolta la città, ma poi si erano
dilaniati in conflitti fratricidi tra le diverse fazioni. Nel 70 d.C,
Vespasiano, appena nominato imperatore, mandò il figlio Tito a tentare di
riconquistare Gerusalemme per porre fine alla guerra. Ispezionato il perimetro
della città, Tito decise di assediarla nella speranza che la popolazione
estenuata da anni di guerra scegliesse la resa anche perché il conflitto
interno fra le fazioni ebraiche non si placava nemmeno con le truppe romane
accampate alle porte della città. Il primo scontro però fu favorevole ai
ribelli: essi lanciarono una sortita e sorpresero i romani mettendoli in fuga.
Lo stesso Tito scampò alla morte per un pelo. Appresa la lezione, il generale
romano iniziò la costruzione di campi fortificati per le sue quattro legioni,
posti in modo da controllare gli accessi alla città. Con mossa abile, Tito
permise ai pellegrini di entrare nella Città Santa per festeggiare la Pasqua , ma poi impedì loro
di uscire, in modo da ridurre le riserve di cibo nemiche. Nuove sortite ebraiche
furono respinte e Tito cominciò ad attaccare con sempre maggior frequenza.
Nonostante l’imponenza delle fortificazioni gerosolimitane, le tecniche di
assedio romane erano potenti e sperimentate. I Romani disponevano di numerose
macchine ossidionali e bene sapevano applicare le tecniche di assalto alle
mura. Fra queste l’impiego della testuggine, una formazione di legionari che
con i loro scudi proteggevano tutti i lati del loro schieramento, compreso lo
spazio sopra le teste. In questo modo si difendevano dai proiettili scagliati
dall’alto delle mura e potevano avvicinarsi a esse in sicurezza. A volte
l’approssimarsi serviva a portare un assalto con le scale, più spesso invece si
trattava di proteggere il lavoro condotto dai loro commilitoni, con picconi e
altri attrezzi, per minare la base delle
mura. La testuggine poteva anche condurre con sé un’ariete per forzare le
porte, anche se nella maggior parte dei casi questi strumenti di sfondamento
erano già dotati di una struttura protettiva. Con metodicità e grazie alle
opere di assedio i Romani riuscirono a espugnare la prima cinta di mura nel
settore occidentale di Gerusalemme, e dopo cinque giorni cadde anche la seconda
cerchia. A quel punto Tito divise le sue truppe, mandando due legioni contro le
mura interne, e altrettante contro le fortificazioni del monte del tempio. La
difesa ebraica fu strenua, ma alla fine la superiorità romana ebbe la meglio e
Gerusalemme espugnata non si riprese per secoli.
La mossa tattica.
Legionari del I secolo in formazione schierata, muniti di scutum, lorica segmentata e cassis. La città di Gerusalemme e l'inizio dell'assedio: i primi accampamenti romani delle quattro legioni La seconda fase dell'assedio di Tito: gli accampamenti romani di tre delle quattro legioni vengono spostati lungo la parte nord-occidentale della città. Inizia l'attacco alla "città nuova" I Romani assaltarono la terza cerchia con due legioni nei pressi della fortezza Antonia ed altre due più ad occidente (non lontano dalla porta di Jaffa). I Giudei riuscirono però a distruggere i loro terrapieni e molte delle macchine d'assedio, ottenendo un breve successo, fin nei pressi degli accampamenti romani. Alla fine però vennero respinti, grazie all'arrivo di Tito La terza fase del lungo assedio vide i Romani sfondare la prima cinta muraria e penetrare nella "città nuova", grazie all'elepoli chiamato "vittorioso" https://it.wikipedia.org/wiki/Assedio_di_Gerusalemme_(70)
Le antiche macchine da
guerra da sole non potevano conquistare le città. Gerusalemme fu un esempio
di questa situazione. Infatti i difensori ebrei tentarono continuamente
sortite contro i Romani assedianti, e in questo modo minacciarono
costantemente di distruzione le macchine ossidionali avversare, a volte
riuscendo nell’impresa. Per proteggerle quindi durante gli assalti era
necessario un consistente schieramento di fanteria. Ma i fanti erano a loro
volta esposti al continuo tiro degli arcieri e delle catapulte dall’alto
delle mura di Gerusalemme. Fu per questo che la formazione a testuggine
tipica dei romani riuscì determinante. E lo fu anche nelle fasi successive
della battaglia, quando i Romani irruppero in città attraverso una breccia. A
quel punto i combattimenti si svolgevano nelle strade strette, con la
possibilità per i difensori di bersagliere gli invasori da ogni edificio. Per
questo molte unità romane si disposero a testuggine. Questa formazione
richiedeva molto addestramento e grandi capacità.
Secondo lo storico
Tito Livio i Romani iniziarono a usarla già in età repubblicana, e le prime
volte lo fecero durante le esercitazioni solo per dimostrare l’abilità dei
legionari. In seguitò iniziò a essere usata anche in battaglia. Negli assedi,
come detto, ma anche in campo aperto, specialmente nelle guerre partiche, per
contrastare il tiro degli arcieri asiatici. Una chiara rappresentazione di
questa tattica compare anche sulla Colonna Traiana, che narra le vicende
militari legate alle guerre daciche.
|
Schieramenti in campo
ROMANI EBREI
4
LEGIONI CON
23000 SOLDATI
20MILA
UOMINI
Più
AUSILIARI.
|
Il
territorio come alleato
PONTE MILVIO 312 d.C.
Il 28 ottobre 312 presso il Ponte Milvio, all’epoca nella
campagna a nord di Roma, si scontrarono gli eserciti di Costantino e di
Massenzio, due dei quattro augusti spettava il governo dell’impero. La
direzione collegiale stabilita da Diocleziano si stava frantumando per
l’ambizione di ognuno di loro ad avere per sé tutto il potere. La battaglia di
Ponte Milvio fu parte di questa lotta fratricida. Costantino, acclamato a York
imperatore d’Occidente dai suoi soldati, mosse verso Roma dove Massenzio,
sostenuto dai veterani italiani, governava con analogo titolo l’Italia e la
ricca Africa. Costantino voleva prevenire il possibile intervento dell’augusto
Licinio dai Balcani ed era convinto che conquistare Roma avesse anche una forte
valenza politica. Egli doveva la sua carriera agli ambienti militari e non era
mai stato nella Città Eterna che, in quanto sede del Senato e dei templi degli
déi patri, restava l’origine ultima dell’autorità imperiale. Protetto dalle
forti mura della città, l’esercito di Massenzio avrebbe potuto resistere a
lungo. Inspiegabilmente venne invece schierato in campo aperto, dopo aver
attraversato il Tevere su un ponte di barche. La maggioranza dei comandanti di
Costantino, seguendo il responso degli aruspici, temeva il confronto diretto,
ma egli era invece favorevole allo scontro perché diceva di aver avuto in sogno
la visione di un segno cristiano che prometteva la vittoria. Costantino, che
combatteva con i suoi soldati in prima linea, schierò dunque il suo esercito
comprimendo quello rivale in superiorità numerica contro il fiume. In questo
modo i fanti e i cavalieri di Costantino, pur inferiori di numero, riuscirono
ad avere la meglio. La cavalleria riuscì a provocare il tracollo dell’ala
nemica, determinando la fuga scomposta dei soldati di Massenzio verso il fiume.
Questi, schierati con il Tevere alle spalle, non potere arretrare con ordine. E
quando un ponte provvisorio crollò, nella calca morì anche Massenzio.
Schieramenti in campo.
COSTANTINO MASSENZIO
50MILA
UOMIMI 70MILA UOMINI
|
||
La mossa tattica.
Massenzio pagò cara la
scelta di essere uscito ad affrontare il rivale in campo aperto. Costantino
riuscì a schierare le proprie truppe in modo da schiacciare l’esercito nemico
contro il fiume Tevere. In questo modo ne neutralizzava tanto la superiorità numerica
quanto la capacità di manovra. La battaglia è un perfetto esempio di come
risultassero decisive nell’antichità la scelta del terreno su cui combattere
e la capacità di sfruttarne al meglio le caratteristiche. Un altro buon
esempio di questa tattica fu lo scontro fra Attila e i Romani ai Campi
Catalaunici nel 451 d.C. I due contendenti compreso l’importanza strategica
di alcune colline che dominavano il campo di battaglia e cercarono di
occuparle. Il generale Ezio ci mandò i contingenti romani, Attila i gepidi.
Furono i primi a prevalere e a schierarvi anche gli arcieri. Una serie di
cariche contro le postazioni romane furono respinte, costando care agli
assalitori, che alla fine furono sconfitti.
|
||
Soldati a confronto.
|
||
PRETORIANI DI
MASSENZIO.
Avevano una corazza a
scaglie. Sotto indossavano una tunica bianca con delle strisce porpora,
tipiche della guardia pretoriana al servizio dell’imperatore.
|
FANTE DI COSTANTINO.
Nello scudo c’era il
simbolo cristiano, che però non era la croce, ma le lettere greche X (chi) e
P (ro) iniziali di Cristo.
|
|
La
forza della cavalleria.
ADRIANOPOLI 37 d.C.
I fatti del 378 d.C. non sono che l’evento culminante di
una vera e propria crisi umanitaria: alcuni anni prima, intere tribù di Goti,
in fuga dalle regioni transdanubiane perché incalzate da un nuovo terribile
nemico, gli Unni, avevano iniziato a migrare verso il territorio romano. I loro
capi avevano negoziato con le autorità romane il trasferimento delle proprie
genti all’intero dei confini dell’impero in cambio di forza-lavoro per le
campagne e di volontari per l’esercito imperiale. Poi però, probabilmente a
causa dell’incapacità e della corruzione delle autorità romane, impreparate a
gestire un flusso migratorio assai più cospicuo di quanto preventivato, e dei
contrasti tra locali e nuovi arrivati, si giunse a una crisi e allo scoppio
delle ostilità tra i Romani e i nuovi arrivati. I Goti iniziarono a razziare il
territorio romano, respingendo con successo i tentativi di opporvisi compiuti
dalle guarnigioni locali, e vi si stabilirono attirando a sé altre tribù da
oltre confine. Nella primavera del 378 l’imperatore Valente decise di radunare
un’armata di proporzioni notevoli per sbarazzarsi una volta per tutte delle
masnade gotiche ormai fuori controllo. Concentrate le forze ad Adrianopoli
all’inizio di agosto, Valente decise di puntare sull’accampamento nemico senza
attendere l’arrivo ormai dato per imminente delle truppe dell’Augusto
d’Occidente Graziano. Il contingente romano ammontava a 15-40 mila effettivi,
divisi fra unità di fanteria (armate di lancia lunga e spada) e unità di
cavalleria, che comprendevano i reparti della guardia imperiale e diversi
battaglio di cavalieri corazzati (catafratti). La fanteria gotica si era
schierata a protezione del grande cerchio di carri che fungeva al contempo da
accampamento e da riparo nel caso la battaglia dovesse svolgere al peggio, e
all’interno del quale restavano donne, bambini e inabili al combattimento. Le
schiere romane si lanciarono contro i fanti goti. Nel frattempo la cavalleria
imperiale, dopo aver respinto i primi assalti di quella nemica, sopraggiunta
all’improvviso, e forse sottostimata dai generali romani, iniziò lentamente a
perdere terreno, rimanendo schiacciata tra gli avversari e l’accampamento, fino
a soccombere. La fanteria romana, che non era riuscita a sfondare le linee
avversarie, si trovò ben presto circondata da fanti e cavalieri goti. Le
perdite furono ingentissime: caddero due terzi dei veterani e molti ufficiali.
Solo il sopraggiungere della notte consentì ai legionari sopravvissuti di
mettersi in salvo. L’imperatore Valente cadde sul campo di battaglia.
La mossa tattica.
Fu la cavalleria
gotica a rompere gli equilibri della battaglia. Mentre sul fronte infuriava
lo scontro ad alta densità fra le fanterie dei due eserciti, da dietro la
collina su cui sorgeva il cerchio di carri germanici sopraggiunse numerosa e
agguerrita cavalleria dei Goti, che poté prendere sui fianchi quanto rimaneva
della cavalleria romana e poi la schiera di fanti impegnata in combattimento.
In queste condizioni tattiche, ottimali per i Goti, non poteva che finire in
un massacro di Romani. Nell’antichità òe funzioni tattiche della cavalleria
erano soprattutto legate alla mobilità, alla sua capacità di spostarsi
rapidamente sul campo di battaglia e prestare soccorso ai reparti di fanteria
in difficoltà. Goti e Alani erano eredi della tradizione dei popoli asiatici,
superiori ai cavalieri del mondo classico. Con la vittoria di Adrianopoli si
comincia a delineare quell’era della cavalleria, in cui esse diventa il nerbo
dell’esercito, che caratterizzerà il Medioevo.
|
Guerriero Goto.
Le caratteristiche di
questo guerriero erano l’elmo e lo scudo. L’elmo tipico spangelhelm, fatto di
quattro o sei piastre tenute insieme da bande, era molto diffuso lungo il
Danubio. I paraguancie erano di uso comune. Lo scudo invece con il suo
disegno rimandava alle armerie imperiali che erano ad Adrianopoli e che i
Goti in rivolta saccheggiarono prima della battaglia.
|
Articolo pubblicato come dossier su STORIE DI GUERRE E
GUERRIERI edizione Sprea, altri testi e foto da wikipedia.
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