sabato 5 gennaio 2019

Soffocati nel sangue i moti indipendentisti di Genova.


Soffocati nel sangue i moti indipendentisti di Genova.
Dopo la fine della guerra tra il Regno di Sardegna e l’Austria, Genova dà vita a dei moti repubblicani che scatenano la violenta repressione del governo di Torino; uno scontro fratricida che risulta ancora oggi incomprensibile. Una delle pagine più oscure del Risorgimento italiano.

bersaglieri reprimono la rivolta 
Il 17 aprile del 1849, in una misera capanna nei pressi del forte Begato di Genova, un ufficiale piemontese vide un giovane combattente nemico steso sulla terra nuda, pallido, con il volto tumefatto, diverse ferite da baionetta. L’ufficiale a stento riconobbe che quel corpo esamine apparteneva al patriota Alessandro De Stefanis, insieme al quale aveva combattuto l’anno prima contro gli austriaci nella Prima guerra d’indipendenza. Il milite aveva ancora davanti agli occhi il coraggio dimostrato contro lo straniero da De Stefanis, che dopo la battaglia di Custoza venne insignito della medaglia d’argento al valor militare. Ma in quella capanna, appena nove mesi dopo, la storia risorgimentale aveva voluto che i due ex commilitoni si trovassero a combattere l’uno contro l’altro. L’uno era un graduato delle forze regie mandate dal governo di Torino per soffocare i moti, mentre il socialista repubblicano De Stefanis, studente di medicina all’Università di Genova, vestiva i panni del ribelle deciso a resistere alla repressione messa in atto dalla monarchia dei Savoia. Alessandro De Stefanis era stato ridotto in quello stato dai soldati sabaudi e, soccorso dal suo e compagno d’armi, morì dopo un mese di agonia. La sua storia è una delle tante tragedie che si consumarono nell’aprile del 1849 a Genova, dove era scoppiata una rivolte che unì motivazioni sociali, repubblicane, patriottiche e in minima parte separatiste, che non comprendono senza conoscere le tappe del tormentato Risorgimento italiano.

Alfonso La Marmora stampa.jpg
il generale La Marmora 

LA PRIMAVERA DEI POPOLI. Nella prima metà dell’Ottocento, in Italia, i moti carbonari e le prime rivolte mazziniane non avevano scalfito quell’ordine restaurato dai trattati di Vienna del 1815, che aveva permesso il ritorno degli stati assolutisti precedentemente abbattuti dalle baionette napoleoniche. I tentativi insurrezionali degli elementi più avanzati della borghesia di una Penisola ancora divisa in otto stati, che miravano a ottenere un regime costituzionale e l’indipendenza dallo straniero erano andati contro a cocenti sconfitte. Il 1848 rappresentò una svolta epocale per il processo di unificazione del Paese, perché nella lotta contro la reazione, a fianco alla rivoluzione liberale e patriottica d’ispirazione borghese, comparirono due nuovi attori: il Regno di Sardegna con l’ambizione di affermarsi come stato guida nella causa nazionale, e il proletariato mosso da istanze di giustizia sociale. La primavera dei popoli, che come un fuoco vivo divampava aldilà delle frontiere, arricchita in Italia da motivazioni sociali, stava spaventando e dividendo quella stessa borghesia che aveva intrapreso la crociata liberale contro gli anciens regimes restaurati e imposti dai vincitori di Napoleone dal trattato di Vienna. Da quel momento in poi il fronte della causa nazionale fu formato dalle forze liberal-moderate, sostenitori del partito regio sabaudo, decise a dare un’impronta conservatrice al processo unitario, e da quelle democratico-rivoluzionarie, ispirate alle teorie di Giuseppe Mazzini, queste ultime partigiane della guerra di popolo, della Repubblica e, in qualche caso, anche della formazione di un governo di impronta socialista (è importante questa precisazione perché Mazzini non era socialista, mentre lo erano invece alcuni repubblicani come De Stefanis e Pisacane). In un’Italia ancora lontana dall’unità, questa eterogenea coalizione fu contraddistinta da un rapporto contrastante di collaborazione e antagonismo, che miravano allo stesso risultato: abbattere la reazione con motivazioni opposte.
Genova, che era stata annessa al Regno di Sardegna con gli accordi e le spartizioni del Congresso di Vienna, ma continuava a serbare il ricordo del glorioso passato di Repubblica marinara, in quegli anni rappresentava un centro importante per l’ala più radicale del movimento unitario. In una città che da sempre soffriva l’egemonia piemontese era un motivo di speranza immaginare di poter divenire un giorno italiani piuttosto che rimanere sudditi sabaudi. Nella città natale di Mazzini, Bixio e Mameli, gli agitatori repubblicani del Circolo Italiano avevano larga influenza sul popolo e organizzavano frequenti dimostrazioni popolari, fonte di preoccupazione per il governo di Torino, capitale del Regno, che si era dimostrato più interessato a sventare un pericolo repubblicano che a combattere gli austriaci. A rappresentare la differenza tra le due città più importanti del regno, il generale piemontese Alfonso La Marmora definiva Genova come “il centro di tutta la demagogia italiana”. Nel marzo del 1849 iniziava la seconda campagna militare piemontese della prima guerra d’indipendenza contro le truppe del feldmaresciallo austriaco Josef  Radetzeky. L’armata sarda andò incontro a un disastro peggiore della prima offensiva del 1848. L’esercito piemontese, demoralizzato, ruppe la disciplina e si abbandonò al saccheggio e a violenze contro la popolazione di Novara, che era stata teatro della battaglia decisiva. Carlo Alberto, abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele che dovette negoziare l’armistizio in una cascina presso Vignale con il maresciallo Radetzsky, il quale decise di non imporre condizioni troppo punitive per non indebolire il nuovo sovrano, che in quel momento rappresentava l’unico argine alle pretese dell’ala liberale e democratica italiana, ostinata propugnatrice della guerra contro l’Austria.
La Battaglia di Novara. I combattimenti presso Villa Visconti, fra la Bicocca e la cascina della Cavallotta.[147]


Il Balilla, simbolo della lotta contro lo straniero.
Statua a Balilla in Portoria
Simile al sanguinoso episodio dei moti di Genova ce ne fu uno analogo accaduto un scolo prima, nel 1746. A innescare quei moti indipendentisti fu il gesto leggendario del giovanissimo Giovan Battista (o Giambattista) Perasso, detto Balilla. La gloriosa Repubblica di Genova era già avviata verso un inesorabile declino, quando dovette subire l’onte dell’occupazione austro-piemontese sotto il comando del marche Antoniotto Botta Adarono, un patrizio genovese la cui famiglia era stata rinnegata ed esiliata dalla Repubblica. Fu dal quartiere popolare di Portoria (teatro anche delle successive rivoluzioni del 1797) che partì l’insurrezione contro le truppe austriache e piemontesi che divampò poi in tutta la città. A far scoccare la scintilla fu un ufficiale asburgico che intimò alla popolazione di tirare fuori dal fango un pesante cannone: a rispondere fu il Balilla, che scagliò un sasso contro i soldati e gridando: “Che l’inse?”, cioè “La comincio?”. Dopo cinque giornate di combattimenti, e grazie al supporto di truppe franco-spagnole, gli occupanti furono costretti ad abbandonare la città. nonostante le numerose ricerche storiche, la vera identità del Balilla è ancora avvolta nel mistero. è nel Risorgimento che il suo mito conquistò una grande notorietà diventando simbolo di tutti gli italiani in lotta per l’unità nazionale dalle occupazioni straniere. Successivamente, il fascismo utilizzò la figura del Balilla con l’Opera Nazionale Balilla, mentre la Fiat, nel 1932 presentava la prima utilitaria italiana con il nome Fiat 508 Balilla.

VOGLIONO VENDERCI ALL’AUSTRIA! Le prime notizie dell’esito della battaglia di Novara giunsero a Genova la sera del 26 marzo 1849. Il giorno dopo, l’agitazione generale regnava in città perché si diffuse la voce che tra i capitoli stipulati nell’armistizio vi fosse quello di occupare le fortezze di Alessandria e Genova con un presidio austriaco e di abolire lo Statuto albertino. La protesta faceva leva sui sentimenti di orgoglio nazionale nutriti dai genovesi che non volevano piegarsi all’umiliazione della sconfitta, ma continuare una guerra di popolo contro l’Austria. Comandava il presidio di Genova il tenente generali Giacomo De Asarta, veterano delle guerre napoleoniche, che all’esplodere dei primi tumulti chiese aiuto a Torino, invocando l’intervento delle truppe del generale Alfonso La Marmora per ristabilire l’ordine in città. La richiesta non fece che esasperare gli animi perché il corriere da lui inviato venne intercettato e arrestato dai cittadini genovesi, che si resero subito conto della volontà da parte delle autorità sabaude di mettere a ferro e fuoco la città. il consiglio comunale di Genova, l’unico interlocutore della città ritenuto accettabile da Torino, era composto in larga maggioranza da moderati, preoccupati per l’ordine pubblico e per i propri interessi, e quindi desiderosi di non esasperare il conflitto con l’autorità sabauda. L’anima rivoluzionaria di Genova era composta, invece, da molti reduci dai campi di battaglia della Lombardia, da esponenti democratici, radicali e mazziniani, e da numerosi popolani che attribuivano alla rivolta un carattere di rivendicazione sociale. La paventata repressione militare da parte del generale De Asarta consegnò l’egemonia di quelle proteste ai radicali e repubblicani. Il popolo chiedeva a gran voce di poter difendere la città in caso di occupazione austriaca: vennero distribuiti 600 fucili ai camali (facchini del porto) e la Guardia Nazionale cercò di prendere possesso delle fortificazioni, sloggiando le truppe piemontesi. Nel frattempo, la notizia della formazione a Torino del ministero De Launay-Pinelli, uomini di idee notoriamente reazionarie, aumentava i fermenti antimoderati e antipiemontesi. Il popolo proclamò un triumvirato con al vertice il generale patriota Giuseppe Avezzana, reduce delle guerre napoleoniche  e dei moti del 1821, già a capo della guardia civile di Genova.

LA DOMENICA DELLE SALME. Il 1° aprile, giorno della domenica delle palme (che sarà ribattezzata domenica delle salme), il popolo si recò alla ricerca di armi, prima all’arsenale della Darsena e poi a quello del Santo Spirito, dove i carabinieri e il reggimento Guardie aprirono per primi il fuoco sui cittadini. Dopo tre ore di combattimento si contarono 23 civili uccisi e 19 feriti: questo episodio di sangue aumentò a dismisura la collera popolare. Nel frattempo, il generale La Marmora, a capo della sesta divisione piemontese con 7670 uomini (il 10 aprile il corpo di spedizione raggiunse la cifra di 26mila effettivi), ricevuto l’ordine da parte di Vittorio Emanuele II di reprimere l’insurrezione anarchica a Genova, si portava a marce forzate verso il capoluogo ligure. In quest’occasione i vertici militari di Torino agirono con una prontezza e una determinazione ben diversa di quella mostrata nella guerra contro l’Austria.
Il 4 aprile La Marmora, grazie ad uno stratagemma e al tradimento di alcuni difensori, riuscì a conquistare le prime fortificazioni della città quasi senza sparare, mentre il suo tentativo di imprre una resa incondizionata alla città venne fieramente respinto da Avezzana. Il commodoro lord Hardwicke, al comando del vascello inglese Vengeance attraccato nel porto, intervenne a favore dei piemontesi e fu ricompensato nel 1855 da una medaglia d’oro al valore. I difensori genovesi, minacciati da terra e da mare, erano furibondi ma male armati e inesperti.
A nulla valse lo sbarco di 160 volontari polacchi decisi a dare manforte ai rivoltosi. Si scelse erroneamente di costruire barricate nel centro abitato e scarsa attenzione venne dedicata al presidio dei forti della città. Le speranze dei genovesi erano rivolte ad un soccorso da parte dei volontari della Divisione Lombardia, considerati politicamente vicini agli ideali mazziniani. Nonostante la volontà dei soldati di questa divisione di intervenire a fianco dei genovesi insorti contro il re, il loro comandante Manfredo Fanti riuscì a ritardare la marcia verso Genova, venendo ricompensato anni dopo da una brillante carriera nell’Armata sarda (diventando, nel 1861, il ministro della Guerra incaricato della nascita del regio esercito italiano). Per domare l’ostinata resistenza dei genovesi, La Marmora ordinò un bombardamento del centro abitato che durò 36 ore; fu particolarmente colpito il quartiere popolare di Portoria e 16 palle di cannone caddero sullo storico ospedale di Pammatone. Molti anni dopo, in uno scritto autobiografico sui moti di Genva (Un episodio del Risorgimento italiano, Firenze 1875), il generale giustificò quella decisione sproporzionata spiegando che l’utilizzo dell’artiglieria contro la popolazione aveva lo scopo di produrre spavento con l’intento di “staccare i buoni dai cattivi, e di liberare i primi dai secondi”. La resistenza dei genovesi durò fino all’11 aprile, nonostante l’emergere di spaccature nel fronte cittadino, ma già dal 5 aprile le truppe regolare, e in particolare modo i bersaglieri, al grido di “morte ai balilla”, perpetrarono una serie sistematica di saccheggi, violenze e stupri contro i civili genovesi. Lo stesso La Marmora dovette ammettere, in merito alle razzie dei suoi soldati che nonostante ogni “misura fu pertanto presa per arrestare il male ma quest’era, convien confessarlo, in parte fatto” attribuendo la colpa delle violenza alle stesse vittime genovesi che con “gli oltraggi e i mali trattamenti generarono in cuore del nostro soldato la sete della vendetta”. Si era voluto imporre una dura lezione a quella che Vittorio Emanuele II aveva definito “una vile e infetta razza di canaglie”. Mentre Ferdinando II di Borbone si guadagnava l’appellativo di Re Bomba per la repressione dei moti indipendentisti siciliani del 1848 (vedi articolo qui), il suo collega Vittorio Emanuele mantenne il titolo di re galantuomo, data la necessità da parte della storiografia ufficiale di salvaguardare l’immagine di colui che divenne il primo re d’Italia.

PREMI E ONORIFICENZE PER CHI COMPI’ IL MASSACRO. A La Marmora venne conferita la medaglia d’oro al valor militare per aver ristabilito l’ordine nella città ligure, mentre 450 persone fra le più compromesse nella rivolta furono costrette ad abbandonare la città a bordo di una nave americana. Nell’attacco alla città si distinsero anche il capitano Giuseppe Govone e il genovese Pallavici, luogotenente dei bersaglieri, che in seguito sarebbero stati protagonisti di un’altre repressione interna, quella del brigantaggio postunitario (vedere qui l’articolo).
La commissione per l’accertamento dei danni, nominata dal Municipio di Genova, denunciò ogni sorta di atrocità commessa dall’esercito e stabilì che erano state violate le case di almeno 350 famiglie. Terminavano così, tra sangue e rancori, i moti di Genova; quello che rimase fu sordo risentimento dei genovesi per tutto quello che era piemontese. Quei giorni lasciarono il segno: se i balilla avessero avuto successo, il processo unitario avrebbe intrapreso un cammino più condiviso e meno travagliato.

Articolo in gran parte di Dario Marino studioso e ricercatore di Storia e politica, pubblicato su BBC History del mese di settembre 2018. Altri testi e immagini da wikipedia.

1 commento:

  1. Indipendentisti bisogna vedere che significa. Che ci fosse sotto anche un residuo campanilismo contro l'annessione al regno sabaudo è innegabile, ma non è che i ribelli di Genova volessero l'indipendenza dal Regno di Sardegna. Era ufficialmente una rivolta contro la pace con l'Austria e per continuare la guerra, e infatti il generale Avezzana andò poi a Roma dove fu ministro della Guerra della Repubblica Romana. Poi fu con i Mille, decorato al Volturno, ammesso nel Regio Esercito, combattente a Mentana, deputato. Di fronte a un certo tipo di pubblicistica che cerca di presentare i moti di Genova in chiave antirisorgimentale, quasi un omologo ligure del brigantaggio, forse la biografia del generale Avezzana andrebbe spiegata un po' meglio, proprio per evitare equivoci.

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