Soffocati nel sangue i moti indipendentisti di Genova.
Dopo la fine della guerra tra il Regno di Sardegna e l’Austria,
Genova dà vita a dei moti repubblicani che scatenano la violenta repressione
del governo di Torino; uno scontro fratricida che risulta ancora oggi
incomprensibile. Una delle pagine più oscure del Risorgimento italiano.
Il
17 aprile del 1849, in una misera capanna nei pressi del forte Begato di
Genova, un ufficiale piemontese vide un giovane combattente nemico steso sulla
terra nuda, pallido, con il volto tumefatto, diverse ferite da baionetta.
L’ufficiale a stento riconobbe che quel corpo esamine apparteneva al patriota
Alessandro De Stefanis, insieme al quale aveva combattuto l’anno prima contro
gli austriaci nella Prima guerra d’indipendenza. Il milite aveva ancora davanti
agli occhi il coraggio dimostrato contro lo straniero da De Stefanis, che dopo
la battaglia di Custoza venne insignito della medaglia d’argento al valor
militare. Ma in quella capanna, appena nove mesi dopo, la storia risorgimentale
aveva voluto che i due ex commilitoni si trovassero a combattere l’uno contro
l’altro. L’uno era un graduato delle forze regie mandate dal governo di Torino
per soffocare i moti, mentre il socialista repubblicano De Stefanis, studente
di medicina all’Università di Genova, vestiva i panni del ribelle deciso a
resistere alla repressione messa in atto dalla monarchia dei Savoia. Alessandro
De Stefanis era stato ridotto in quello stato dai soldati sabaudi e, soccorso
dal suo e compagno d’armi, morì dopo un mese di agonia. La sua storia è una
delle tante tragedie che si consumarono nell’aprile del 1849 a Genova, dove era
scoppiata una rivolte che unì motivazioni sociali, repubblicane, patriottiche e
in minima parte separatiste, che non comprendono senza conoscere le tappe del
tormentato Risorgimento italiano.
LA PRIMAVERA DEI POPOLI. Nella prima metà
dell’Ottocento, in Italia, i moti carbonari e le prime rivolte mazziniane non
avevano scalfito quell’ordine restaurato dai trattati di Vienna del 1815, che
aveva permesso il ritorno degli stati assolutisti precedentemente abbattuti
dalle baionette napoleoniche. I tentativi insurrezionali degli elementi più
avanzati della borghesia di una Penisola ancora divisa in otto stati, che
miravano a ottenere un regime costituzionale e l’indipendenza dallo straniero erano
andati contro a cocenti sconfitte. Il 1848 rappresentò una svolta epocale per
il processo di unificazione del Paese, perché nella lotta contro la reazione, a
fianco alla rivoluzione liberale e patriottica d’ispirazione borghese,
comparirono due nuovi attori: il Regno di Sardegna con l’ambizione di
affermarsi come stato guida nella causa nazionale, e il proletariato mosso da
istanze di giustizia sociale. La primavera dei popoli, che come un fuoco vivo
divampava aldilà delle frontiere, arricchita in Italia da motivazioni sociali,
stava spaventando e dividendo quella stessa borghesia che aveva intrapreso la
crociata liberale contro gli anciens regimes restaurati e imposti dai vincitori
di Napoleone dal trattato di Vienna. Da quel momento in poi il fronte della
causa nazionale fu formato dalle forze liberal-moderate, sostenitori del
partito regio sabaudo, decise a dare un’impronta conservatrice al processo
unitario, e da quelle democratico-rivoluzionarie, ispirate alle teorie di
Giuseppe Mazzini, queste ultime partigiane della guerra di popolo, della
Repubblica e, in qualche caso, anche della formazione di un governo di impronta
socialista (è importante questa precisazione perché Mazzini non era socialista,
mentre lo erano invece alcuni repubblicani come De Stefanis e Pisacane). In
un’Italia ancora lontana dall’unità, questa eterogenea coalizione fu
contraddistinta da un rapporto contrastante di collaborazione e antagonismo, che
miravano allo stesso risultato: abbattere la reazione con motivazioni opposte.
Genova, che era stata
annessa al Regno di Sardegna con gli accordi e le spartizioni del Congresso di
Vienna, ma continuava a serbare il ricordo del glorioso passato di Repubblica
marinara, in quegli anni rappresentava un centro importante per l’ala più radicale
del movimento unitario. In una città che da sempre soffriva l’egemonia
piemontese era un motivo di speranza immaginare di poter divenire un giorno
italiani piuttosto che rimanere sudditi sabaudi. Nella città natale di Mazzini,
Bixio e Mameli, gli agitatori repubblicani del Circolo Italiano avevano larga
influenza sul popolo e organizzavano frequenti dimostrazioni popolari, fonte di
preoccupazione per il governo di Torino, capitale del Regno, che si era
dimostrato più interessato a sventare un pericolo repubblicano che a combattere
gli austriaci. A rappresentare la differenza tra le due città più importanti
del regno, il generale piemontese Alfonso La Marmora definiva Genova come “il centro di tutta la demagogia italiana”.
Nel marzo del 1849 iniziava la seconda campagna militare piemontese della prima
guerra d’indipendenza contro le truppe del feldmaresciallo austriaco Josef Radetzeky. L’armata sarda andò incontro a un
disastro peggiore della prima offensiva del 1848. L’esercito piemontese,
demoralizzato, ruppe la disciplina e si abbandonò al saccheggio e a violenze
contro la popolazione di Novara, che era stata teatro della battaglia decisiva.
Carlo Alberto, abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele che dovette
negoziare l’armistizio in una cascina presso Vignale con il maresciallo
Radetzsky, il quale decise di non imporre condizioni troppo punitive per non
indebolire il nuovo sovrano, che in quel momento rappresentava l’unico argine
alle pretese dell’ala liberale e democratica italiana, ostinata propugnatrice
della guerra contro l’Austria.
La Battaglia di Novara. I combattimenti presso Villa Visconti, fra la Bicocca e la cascina della Cavallotta.[147]
Il
Balilla, simbolo della lotta contro lo straniero.
Statua a Balilla in Portoria
Simile
al sanguinoso episodio dei moti di Genova ce ne fu uno analogo accaduto un
scolo prima, nel 1746. A innescare quei moti indipendentisti fu il gesto
leggendario del giovanissimo Giovan Battista (o Giambattista) Perasso, detto
Balilla. La gloriosa Repubblica di Genova era già avviata verso un
inesorabile declino, quando dovette subire l’onte dell’occupazione
austro-piemontese sotto il comando del marche Antoniotto Botta Adarono, un
patrizio genovese la cui famiglia era stata rinnegata ed esiliata dalla
Repubblica. Fu dal quartiere popolare di Portoria (teatro anche delle
successive rivoluzioni del 1797) che partì l’insurrezione contro le truppe
austriache e piemontesi che divampò poi in tutta la città. A far scoccare la
scintilla fu un ufficiale asburgico che intimò alla popolazione di tirare
fuori dal fango un pesante cannone: a rispondere fu il Balilla, che scagliò
un sasso contro i soldati e gridando: “Che l’inse?”, cioè “La comincio?”.
Dopo cinque giornate di combattimenti, e grazie al supporto di truppe
franco-spagnole, gli occupanti furono costretti ad abbandonare la città.
nonostante le numerose ricerche storiche, la vera identità del Balilla è
ancora avvolta nel mistero. è nel Risorgimento che il suo mito conquistò una
grande notorietà diventando simbolo di tutti gli italiani in lotta per
l’unità nazionale dalle occupazioni straniere. Successivamente, il fascismo
utilizzò la figura del Balilla con l’Opera Nazionale Balilla, mentre la Fiat,
nel 1932 presentava la prima utilitaria italiana con il nome Fiat 508
Balilla.
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VOGLIONO VENDERCI ALL’AUSTRIA! Le prime notizie
dell’esito della battaglia di Novara giunsero a Genova la sera del 26 marzo
1849. Il giorno dopo, l’agitazione generale regnava in città perché si diffuse
la voce che tra i capitoli stipulati nell’armistizio vi fosse quello di
occupare le fortezze di Alessandria e Genova con un presidio austriaco e di
abolire lo Statuto albertino. La protesta faceva leva sui sentimenti di
orgoglio nazionale nutriti dai genovesi che non volevano piegarsi
all’umiliazione della sconfitta, ma continuare una guerra di popolo contro
l’Austria. Comandava il presidio di Genova il tenente generali Giacomo De
Asarta, veterano delle guerre napoleoniche, che all’esplodere dei primi tumulti
chiese aiuto a Torino, invocando l’intervento delle truppe del generale Alfonso
La Marmora per ristabilire l’ordine in città. La richiesta non fece che
esasperare gli animi perché il corriere da lui inviato venne intercettato e
arrestato dai cittadini genovesi, che si resero subito conto della volontà da
parte delle autorità sabaude di mettere a ferro e fuoco la città. il consiglio
comunale di Genova, l’unico interlocutore della città ritenuto accettabile da
Torino, era composto in larga maggioranza da moderati, preoccupati per l’ordine
pubblico e per i propri interessi, e quindi desiderosi di non esasperare il
conflitto con l’autorità sabauda. L’anima rivoluzionaria di Genova era
composta, invece, da molti reduci dai campi di battaglia della Lombardia, da
esponenti democratici, radicali e mazziniani, e da numerosi popolani che
attribuivano alla rivolta un carattere di rivendicazione sociale. La paventata
repressione militare da parte del generale De Asarta consegnò l’egemonia di
quelle proteste ai radicali e repubblicani. Il popolo chiedeva a gran voce di
poter difendere la città in caso di occupazione austriaca: vennero distribuiti
600 fucili ai camali (facchini del porto) e la Guardia Nazionale cercò di
prendere possesso delle fortificazioni, sloggiando le truppe piemontesi. Nel
frattempo, la notizia della formazione a Torino del ministero De
Launay-Pinelli, uomini di idee notoriamente reazionarie, aumentava i fermenti
antimoderati e antipiemontesi. Il popolo proclamò un triumvirato con al vertice
il generale patriota Giuseppe Avezzana, reduce delle guerre napoleoniche e dei moti del 1821, già a capo della guardia
civile di Genova.
LA DOMENICA DELLE SALME. Il 1° aprile, giorno
della domenica delle palme (che sarà ribattezzata domenica delle salme), il
popolo si recò alla ricerca di armi, prima all’arsenale della Darsena e poi a
quello del Santo Spirito, dove i carabinieri e il reggimento Guardie aprirono per
primi il fuoco sui cittadini. Dopo tre ore di combattimento si contarono 23
civili uccisi e 19 feriti: questo episodio di sangue aumentò a dismisura la
collera popolare. Nel frattempo, il generale La Marmora, a capo della sesta
divisione piemontese con 7670 uomini (il 10 aprile il corpo di spedizione
raggiunse la cifra di 26mila effettivi), ricevuto l’ordine da parte di Vittorio
Emanuele II di reprimere l’insurrezione anarchica a Genova, si portava a marce
forzate verso il capoluogo ligure. In quest’occasione i vertici militari di
Torino agirono con una prontezza e una determinazione ben diversa di quella
mostrata nella guerra contro l’Austria.
Il 4 aprile La Marmora,
grazie ad uno stratagemma e al tradimento di alcuni difensori, riuscì a
conquistare le prime fortificazioni della città quasi senza sparare, mentre il
suo tentativo di imprre una resa incondizionata alla città venne fieramente
respinto da Avezzana. Il commodoro lord Hardwicke, al comando del vascello
inglese Vengeance attraccato nel porto, intervenne a favore dei piemontesi e fu
ricompensato nel 1855 da una medaglia d’oro al valore. I difensori genovesi,
minacciati da terra e da mare, erano furibondi ma male armati e inesperti.
A nulla valse lo sbarco
di 160 volontari polacchi decisi a dare manforte ai rivoltosi. Si scelse
erroneamente di costruire barricate nel centro abitato e scarsa attenzione
venne dedicata al presidio dei forti della città. Le speranze dei genovesi
erano rivolte ad un soccorso da parte dei volontari della Divisione Lombardia,
considerati politicamente vicini agli ideali mazziniani. Nonostante la volontà
dei soldati di questa divisione di intervenire a fianco dei genovesi insorti
contro il re, il loro comandante Manfredo Fanti riuscì a ritardare la marcia
verso Genova, venendo ricompensato anni dopo da una brillante carriera
nell’Armata sarda (diventando, nel 1861, il ministro della Guerra incaricato
della nascita del regio esercito italiano). Per domare l’ostinata resistenza
dei genovesi, La Marmora ordinò un bombardamento del centro abitato che durò 36
ore; fu particolarmente colpito il quartiere popolare di Portoria e 16 palle di
cannone caddero sullo storico ospedale di Pammatone. Molti anni dopo, in uno
scritto autobiografico sui moti di Genva (Un episodio del Risorgimento
italiano, Firenze 1875), il generale giustificò quella decisione sproporzionata
spiegando che l’utilizzo dell’artiglieria contro la popolazione aveva lo scopo
di produrre spavento con l’intento di “staccare
i buoni dai cattivi, e di liberare i primi dai secondi”. La resistenza dei
genovesi durò fino all’11 aprile, nonostante l’emergere di spaccature nel
fronte cittadino, ma già dal 5 aprile le truppe regolare, e in particolare modo
i bersaglieri, al grido di “morte ai balilla”, perpetrarono una serie sistematica
di saccheggi, violenze e stupri contro i civili genovesi. Lo stesso La Marmora
dovette ammettere, in merito alle razzie dei suoi soldati che nonostante ogni “misura fu pertanto presa per arrestare il
male ma quest’era, convien confessarlo, in parte fatto” attribuendo la
colpa delle violenza alle stesse vittime genovesi che con “gli oltraggi e i mali trattamenti generarono in cuore del nostro
soldato la sete della vendetta”. Si era voluto imporre una dura lezione a
quella che Vittorio Emanuele II aveva definito “una vile e infetta razza di canaglie”. Mentre Ferdinando II di
Borbone si guadagnava l’appellativo di Re Bomba per la repressione dei moti
indipendentisti siciliani del 1848 (vedi articolo qui), il suo collega Vittorio
Emanuele mantenne il titolo di re galantuomo, data la necessità da parte della
storiografia ufficiale di salvaguardare l’immagine di colui che divenne il
primo re d’Italia.
PREMI E ONORIFICENZE PER CHI COMPI’ IL MASSACRO. A La
Marmora venne conferita la medaglia d’oro al valor militare per aver
ristabilito l’ordine nella città ligure, mentre 450 persone fra le più
compromesse nella rivolta furono costrette ad abbandonare la città a bordo di
una nave americana. Nell’attacco alla città si distinsero anche il capitano
Giuseppe Govone e il genovese Pallavici, luogotenente dei bersaglieri, che in
seguito sarebbero stati protagonisti di un’altre repressione interna, quella
del brigantaggio postunitario (vedere qui l’articolo).
La commissione per
l’accertamento dei danni, nominata dal Municipio di Genova, denunciò ogni sorta
di atrocità commessa dall’esercito e stabilì che erano state violate le case di
almeno 350 famiglie. Terminavano così, tra sangue e rancori, i moti di Genova;
quello che rimase fu sordo risentimento dei genovesi per tutto quello che era
piemontese. Quei giorni lasciarono il segno: se i balilla avessero avuto
successo, il processo unitario avrebbe intrapreso un cammino più condiviso e
meno travagliato.
Articolo in gran parte
di Dario Marino studioso e ricercatore di Storia e politica, pubblicato su BBC
History del mese di settembre 2018. Altri testi e immagini da wikipedia.
Indipendentisti bisogna vedere che significa. Che ci fosse sotto anche un residuo campanilismo contro l'annessione al regno sabaudo è innegabile, ma non è che i ribelli di Genova volessero l'indipendenza dal Regno di Sardegna. Era ufficialmente una rivolta contro la pace con l'Austria e per continuare la guerra, e infatti il generale Avezzana andò poi a Roma dove fu ministro della Guerra della Repubblica Romana. Poi fu con i Mille, decorato al Volturno, ammesso nel Regio Esercito, combattente a Mentana, deputato. Di fronte a un certo tipo di pubblicistica che cerca di presentare i moti di Genova in chiave antirisorgimentale, quasi un omologo ligure del brigantaggio, forse la biografia del generale Avezzana andrebbe spiegata un po' meglio, proprio per evitare equivoci.
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