L’arte di braccare.
Lungi dall’essere una
semplice attività di sussistenza, la caccia divenne il mezzo con cui i nobili
si esercitavano alla guerra mantenevano il potere e dominavano il paesaggio. Un
miscuglio di amore e di violenza che rispecchiava quello tra l’uomo e la
foresta.
Per caccia medievale s'intende quell'insieme di pratiche, rituali e simbolismo che, sommati l'uno all'altro, concorsero a fare, nel corso del Medioevo, della pratica venatoria non più una semplice ricerca di cibo ma un hobby, uno status symbol delle più alte classi sociali che persistette nell'immaginario collettivo europeo sino alla Rivoluzione francese. La caccia divenne un evento d'interazione sociale esclusivo della nobiltà, garante di fruttifiche relazioni tra singoli e consorterie, nonché esercizio propedeutico alla pratica marziale fondamentale per la formazione della castaguerriera dominante, i milites. Come tale, essa diede origine a una considerevole produzione letteraria, sia tramite poemi che attraverso una vera e propria trattatistica, ed artistica
L’alba
del Medioevo fu un’epoca piena di insidie, dominata da preoccupazioni costanti:
prima fa tutte, la lotta per la sopravvivenza. Dal 568 d.C., l’arrivo dei
Longobardi (uno dei più feroci tra i popoli barbarici, calato in Italia dalle
Alpi nordorientali) si presentò agli italici come quello di tribù animate da
un’etica fondata sul coraggio e su un’esaltazione della forza quasi ferina. Se
nell’Italia costiera, occupata dai Bizantini dediti all’allevamento intensivo e
alla pesca, l’interesse per la caccia era pressoché inesistente,
nell’entroterra germanizzato l’attività venatoria divenne parte integrante di
una quotidianità fondata su riti tribali volti a esaltare gli anti dèi della
guerra: la sua centralità nella formazione dei giovani nobili (arimanni),
affonda le radici nei primordi della tradizione indoeuropea.
Lo spazio consacrato
alla caccia era la foresta: luogo di tenebra materiale e simbolica, rifugio di
belve e paure inconsce, riservato all’avventura e al superamento dei riti
iniziatici di passaggio. Chi ne usciva trionfante diventava guerriero, oppure
riacquistava l’onore che per qualche motivo aveva perduto. Chi, invece, pur
sopravvivendo ai tranelli del bosco, vi soggiornava troppo a lungo, rischiava
di perdere la sua umanità. L’anonimo autore del Beowulf, famoso poema sassone
del VII secolo, riferendosi al destino dell’eroe, narrava: “Ora lotta con i draghi e con i lupi, ora con gli orchi che stan tra le
rocce, ora con gli orsi, cinghiali e giganti che dagli alti dirupi lo
inseguono”. Tutto ciò significava che, a forza di inseguire belve, prima o
poi il guerriero avrebbe rischiato di tramutarsi a propria volta in “orso della
sera o lupo mannaro”, ossia in qualcosa di incontrollabile e animalesco. Il
rapporto complesso e ambivalente, quando non addirittura simbolico, con la
bestia selvaggia è descritto in maniera efficace nella Volsunga Saga, dove il
rito iniziatico consisteva nell’impadronirsi di pellicce che, una volta
indossate, permettevano agli ero di trasformarsi in lupi mannari. Anche lo
storico longobardo Paolo Diacono narrò dei cinocefali, guerrieri dalla testa di
lupo che bevevano sangue umano, invincibili quanto temuti, e perciò emarginati
dalla società civile. La stima nutrita dai barbi verso il lupo e l’orso era
tale da farli comparire spessissimo nei nomi di persona: l’appellativo totemico
di ‘Beowulf’, per esempio, era destinato ad attirare sul nascituro le qualità
delle due belve (Beo, orso e Wulf, lupo) nonché il favore dei loro spiriti
tutelari.
Scena di idillio e falconeria di ambiente normanno-svevo: Bianca Lancia e Federico II - Codex Manesse(copia 1304).
Le
armi della caccia.
à
Caccia al cinghiale con lancia e cani da caccia - Miniatura medievale, Tacuinum sanitatis casanatensis (XIV secolo).
Dagli albori
dell’età del Ferro, l’arma da duello per eccellenza è stata la spada, che
rifletteva le virtù tipiche del guerriero: coraggio, nobiltà, virilità.
Tuttavia, altre armi da mischia e da getto, come zagaglie, asce e lance, garantivano
maggior successo nella caccia. Il rapporto con l’arco, invece, rimase ambiguo
per secoli.
Se
presso i popoli orientali e delle steppe rappresentava l’arma della caccia
eroica, in Europa l’arco ottenne tale riconoscimento molto tardi e in misura
solo parziale: i barbari, ritenendolo un’arma da vigliacchi, preferivano
delegarne l’uso ai seguaci. Solo nel basso Medioevo fu finalmente rivalutato:
tanto nella pratica, quanto dal punto di vista simbolico. Esso divenne
l’embelma dell’astuzia, a discapito della forza bruta.
|
ESERCITARSI ALLA GUERRA. Il rapporto tra caccia
e guerra nel Medioevo risulta chiaro: l’una è sorella dell’altra. Soprattutto
in tempo di pace, la caccia funge da palestra in attesa di battaglie imminenti:
il suo esercizio costante è finalizzato al farsi trovare preparati nel giorno
in cui i corni da guerra richiameranno le schiere in rassegna davanti al
sovrano. Cavalieri uniti in consorterie armate stringevano sodalizi rinsaldati
da imprese condivise, cacce e banchetti, scalpitando in attesa di un buon
destriero per ripartire al più presto al galoppo verso l’ignoto. La necessità
di ostentare il proprio valore li spingeva talvolta a disdegnare la caccia
estiva, quando la selvaggina è stanca e più facile da abbattere, preferendo quella
invernale. Con il favore di un terreno reso insidioso dalle nevi e dal fango,
le bestie, feroci e affamate, avrebbero opposto una resistenza più tenace, tale
da consentire ai più temerari di identificarsi con gli eroi dei temi antichi,
capaci di forgiare il proprio destino attraverso le prove della “caccia
eroica”. La ricerca esasperata dello scontro fisico in circostanze proibitive
coinvolgeva perfino i re, desiderosi di confermare periodicamente, sotto lo
guardo dei sudditi, la loro leadership: documenti del IX secolo testimoniano
l’abitudine dell’imperatore Carlo Magno di ingaggiare scontri “extracta spada”
ossia corpo a corpo, nientemeno con i bisonti. Sulla scorta di questa e di
altre testimonianze del tempo, è facile intuire perché la percentuale di
decessi durante le battute di caccia fosse tanto elevata. In genere si trattava
di caccia a cavallo. Il più fidato compagno dei barbari era stato il destriero:
la cultura del guerriero a cavallo, poco sviluppata in età romana, si era
consolidata con l’irruzione nell’Europa del V secolo, di implacabili predoni
nomadi, originari delle steppe centroasiatiche, ricordati dai posteri con il
temuto nome di Unni. Cosiddetta orda era costituita da guerrieri instancabili e
arcieri infallibili: esperti allevatori che vivevano a stretto contatto con i
loro cavalli per tutta la vita. Ogni uomo libero, proprietario di almeno sette
animali, raggiungeva una simbiosi tale con le sue bestie da non scendere quasi
mai di sella e da farsi addirittura seppellire in loro compagnia. Durante la
cerimonia dell’ultimo addio ai guerrieri, quando i loro tesori più prestigiosi erano
stati gettati sulle pire infuocate e i membri del clan bollivano le carni del
banchetto nei calderoni, si brindava ai morti: si svuotavano coppe ricolme di
latte di giumenta fermentato, pregando che i fidati destrieri, sacrificati
insieme ai defunti, li portassero sani e salvi nell’aldilà. Fu così che, al
tramonto dell’impero Romano, mentre i purosangue nati dall’incrocio di razze
selezionate si estinguevano proprio come i loro raffinati padroni, i tenaci
Unni, seguiti dagli Avari (VII.X secolo), si erano lanciati a più riprese alla
conquista dell’Europa in sella ad agili cavalli semiselvaggi, portando con sé
tecniche di equitazione ed equipaggiamenti sempre più sofisticati. Le prime
preziose novità introdotte dai popoli delle steppe, ossia la staffa e vari tipi
di briglie avevano trovato i più grandi estimatori nei popoli germanici. Ben
presto, perfino i capiclan goti, franchi, gepidi e si sarebbero fatti
seppellire in compagnia dei propri destrieri.
Caccia al cervo con cani e cavalli - miniatura medievale da Le Livre de chasse de Gaston Phébus (XV secolo).
Il falcone, signore del cielo.
Dal IX secolo in poi si diffuse la
caccia con il falco, importata dall’Oriente dove era largamente praticata
dalle popolazioni nomadi delle steppe euroasiatiche. La falconeria ebbe un
ulteriore momento di sviluppo nel Mezzogiorno conquistato dai mussulmani, che
a loro volta avevano appreso quest’arte dagli Arabi della Persia sassanide, e
si diffuse ancora di più con le Crociate, raggiungendo l’eccellenza con
l’ordine monastico-militare degli Ospitalieri. A praticare la falconeria
erano perlopiù principi e regnanti, come Enrico I di Germania (876-936) detto
proprio per questo l’Uccellatore. Il campione assoluto fu però l’imperatore
Federico II, autore di un trattato sul tema che per secoli fece testo in
materia. La falconeria era un divertimento per ricchi: addestrare e allevare
i rapaci, infatti, era un procedimento molto lungo e costoso. La falconeria è
ancor oggi particolarmente diffusa tra i milionari della penisola arabica.
|
SELVE DELLA PERDIZIONE. Lo stesso Carlo Magno,
imperatore dei Franchi, issavi i figli in sella con le armi in pugno e, così
facendo, trasmetteva ai posteri un legame antico con il cavallo, così
tramandato da un proverbio carolingio: “Chi sena montare a cavallo è restato a
scuola fino a dodici anni, non è più buono ad altro che a fare il prete”.
Eppure, con l’avvento dei sovrani carolingi, qualcosa cambiò radicalmente.
All’alba della conquista dei regni barbarici, le necessità di riordino
amministrativo portò alla creazione di grandi riserve curtensi e parchi recintati
e provocarono una mutazione profonda: sia nella gestione fondiaria, sia nel
modo di vivere e di intendere l’attività venatoria. Se nell’alto Medioevo la
caccia grossa non era ancora preclusa alle popolazioni rurali, ora a cacciare
nel bosco di un feudatario non era considerato come un semplice furto, ma
addirittura un gesto di sfida nei confronti di un’autorità superiore e della
sua proprietà.
Se è vero che la
caccia, in quanto prodotto culturale, si è sempre resa portatrice degli aspetti
militari, rituali, didattici e agonistici della sua epoca, è altrettanto
fondato sostenere che, al sopraggiungere del basso Medioevo, una società più
laica e meno legata ai riti pagani del passato, fece emergere aspetti prima
trascurati: ludici, aristocratici, profani. Fu così che le scenografiche cacce
regali presero l’aspetto di lussuose escursioni cortesi nel cuore di grandi
riserve, accompagnate da superbe mute di cani di razza e da cacciatori esperti,
pronti a compiacere e impressionare ospiti di alto rango. Esiste anche un
rapporto tra attività venatoria e Chiesa. Nella caccia, il clero scorgeva
l’esercizio di una violenza fine a se stessa, priva di ogni nesso con la morale
cristiana. Ma la regola di san Benedetto, che vietò addirittura ai suoi monaci
di mangiare carni di quadrupede, non ebbe fortuna al di fuori dai monasteri. Per
di più, quando il cavalier cortese entrava nella foresta, si gettava alle
spalle la morale cristiana per riavvicinarsi più o meno inconsciamente, a
quella dimensione precristiana che la Chiesa aveva combattuto per secoli. Il
morboso appagamento degli istinti sanguinari compiuta nel segreto della foresta
poteva perfino accompagnarsi ad altre forme di piacere nascoste, sospese tra
magia ed erotismo. Ecco perché il bosco, pur avendo perduto la sacralità di un
tempo, si era tramutato in una specie di territorio fuori dalla legge, perfetto
per i signori feudali più violenti e libertini. Ciò si manifesta anche
attraverso i personaggi letterari dei poemi del ciclo arturiano: i nobili
Lancillotto e Yvan, vittime di amori proibiti e distruttivi, che li avevano
portati sull’orlo della follia, scelsero proprio il bosco come luogo di
espiazione. Nel suo sonetto Sonar Bracchetti, scritto a fine Duecento, Dante
Alighieri rivela di non apprezzare l’eccessivo entusiasmo per la caccia, da
sempre appannaggio della nobiltà del contado, in quanto la “selvaggia
dilettanza”, incompatibile con la “leggiadra di gentil core”.
In Italia, un ruolo
rivoluzionario nella pratica della caccia interessò prima i Normanni del Sud e
poi gli Svevi. Nella prima metà del Duecento, durante la permanenza siciliana
dell’imperatore Federico II di Svevia, massimo fautore dell’evoluzione ludica
dell’attività venatoria, si affermò la tendenza a contrapporre alla guerra la
nuova moda del plausir, o piacere della caccia, intesa come svago mondano
riservato esclusivamente alle élite regali e aristocratiche.
Si inaugurò così, la
grande stagione dei manuali e dei trattati venatori, spesso riccamente
illustrati. Giordano Ruffo, uomo della corte di Federico II e patrocinatore di
scuderie costosissime, compilò l’opera intitolata De cura equorum dietro
suggerimento del sovrano.
Anche i cani adatti
alla caccia mutarono radicalmente. Dopo secoli di citazioni occasionali di
molossi e mastini impiegati dai barbari per la guardia o per la caccia al lupo,
la trattatistica basso medievale incensò il levriero, o veltro, come il più
nobile e veloce tra i cani. Federuci II si uniformò al parere del domenicano
Vincenzo di Beauvais, che lo considerava indispensabile: non a caso, la società
cavalleresca dedicò a questo leggiadro cane emblemi araldici e ritratti tombali
ai piedi delle statue funebri dei grandi nobili, di cui il levriero incarnava
la virtù cavalleresca dell’assoluta fedeltà feudale.
La caccia selvaggia.
Fra i più paurosi racconti diffusi
tra le Alpi aleggiava la credenza di un possente cacciatore selvaggio e del
suo spaventoso corteo infernale: tra Natale e Capodanno, il dio germanico
Odino si dava ciclicamente ritrovo sulla terra con gli spiriti inquieti di
eroi del passato, come i re Teodorico e Artù, presso tombe profanate dagli
elfi oscuri. In quelle notti, creature risorte dal mito pagano ingrossavano
le file di un esercito di orchi e dannati che, spinto dai soffi del Fohn (il
vento alpino) e dal suono agghiacciante dei corni da caccia, turbinava sotto
la luce della luna sulla scia di una muta di segugi fantasma.
“La corsa e la caccia fanno
impazzire il cuore dell’uomo” ricordava un detto orientale, indicando il
nemico peggiore proprio nelle pulsioni dell’inconscio.
|
IL FALCONE RISERVATO AI RICCHISSIMI. Anche
la caccia con il falcone, attività complessa, che richiedeva grande passione
nell’addestrare i rapaci alla cattura di altri volatili, con il tempo diventò
esclusiva dell’immaginario tardo medievale cortese. Questa pratica era stata
introdotta in Europa dagli Ostrogoti attraverso il loro sodalizio con i popoli
delle steppe. In seguito alla trasformazione della caccia in privilegio, anche
i rapaci, da sempre simbolo sacro e totemico, finirono con l’incarnare nuove
allegorie araldiche: in virtù della raffinata complessità delle tecniche di
allevamento e di caccia che la caratterizzano, la falconeria fu ritenuta la
forma di caccia più idonea a rappresentare la superiorità della classe
nobiliare sopra tutte le altre. Dopo essere stato educato alla falconeria dagli
arabi, l’imperatore Federico II di Svevia se ne entusiasmò tanto da far stilare
il suo capolavoro, De arte venandi cum avibus “Sull’arte di cacciare con gli
uccelli”: il più importante trattato di arte venatoria della Storia, le cui
pagine miniate illustrano la differenza tra falconeria di “alto” e “basso”
volo, a seconda del tipo di rapace impiegato e dell’ambiente di caccia.
L’imperatore, convinto che la falconeria fosse la più nobile tra le venationes,
vi impiegò capitali e studi talmente approfonditi da tramutare tale pratica in
un connubio tra attività venatoria e studio della moderna “etologia” (la
disciplina che si occupa del comportamento animale nel suo ambiente naturale).
Il trattato di Federico II rimase non solo incompleto ma anche incompreso,
perché troppo innovativo. Nel suo insuccesso, qualcuno vuole scorgere il
riflesso dell’intera politica del sovrano, detto Stupor Mundi: talmente geniale
e lungimirante da risultare estraneo ai suoi tempi, perfino nelle questioni
tecniche, come appunto l’arte della caccia.
Particolare del f. 16r del trattato "De arte venandi cum avibus"
e arte venandi cum avibus ("Sull'arte di cacciare con gli uccelli") è un trattato dell'imperatore Federico II di Svevia sull'attività venatoria. Il manoscritto conservato alla Biblioteca Vaticana(codice Pal. Lat. 1071) è la redazione più nota per le illustrazioni, ma contiene solo i primi due libri: si tratta di un codice di 111 fogli di pergamena di dimensioni pari approssimativamente a cm. 24,5x36, commissionata a Napoli dal figlio di Federico, Manfredi re di Sicilia, intorno al 1260. Un altro manoscritto, redatto a cura di un altro figlio dell'imperatore, re Enzio, durante la sua detenzione a Bologna, si conserva nella Biblioteca Universitaria di Bologna (Lat. 717) e contiene sei libri, quindi un'edizione più estesa, ma non necessariamente completa del trattato.
Articolo in gran parte
di Marco Corrias pubblicato su Medioevo misterioso extra n. 7 Sprea editori,
altri testi e immagini da Wikipedia.
Nessun commento:
Posta un commento