domenica 27 gennaio 2019

Termopoli combattere in un corridoio.

Termopili combattere in un corridoio.
Seconda guerra persiana, 480 a.C. Di fronte alla disarmante supremazia dell’armata achemenide, per gli elleni l’unica strategia possibile era combattere laddove la superiorità oplitica fosse più evidente. E l’angusto passaggio delle Termopili si rivelò il luogo ideale per cercare di arrestare l’esercito di Serse.



Battaglia delle Termopili
parte della seconda guerra persiana
Battle of Thermopylae and movements to Salamis and Plataea map-it.svg
Battaglia delle Termopili e movimenti che portarono alla battaglia di Salamina.
Data19-21 agosto[1] o 8-10 settembre[2] 480 a.C.
LuogoTermopiliGrecia
EsitoVittoria (pirrica secondo alcuni storici) dei Persiani
Schieramenti
Comandanti
Effettivi
300 Spartani
700 Tespiesi
6 000 alleati greci
(5 200 secondo Erodoto)
(7 400 secondo Diodoro Siculo)
(11 200 secondo Pausania il Periegeta)
Dai 70 000 ai 300 000
(1 800 000 secondo Erodoto)
Perdite
298 Spartani
700 Tespiesi
1 400 alleati greci
(4 000 secondo Erodoto)[3]
20 000 secondo Erodoto[4]
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La battaglia delle Termopili (in greco anticoἡ ἐν Θερμοπύλαις μάχηhē en Thermopýlais máchē[5]) fu combattuta da un'alleanza di poleis greche, guidata dal re di Sparta Leonida I contro l'Impero persiano governato da Serse I. Si svolse in tre giorni, durante la seconda invasione persiana della Grecia, nell'agosto o nel settembre del 480 a.C. presso lo stretto passaggio delle Termopili (o, più correttamente, Termopile, "Le porte calde"[6]) contemporaneamente alla battaglia navale di Capo Artemisio.
Ogni viaggiatore che abbia avuto modo di percorrere ai giorni nostri l’autostrada Atene-Salonnicco, transitando per il Golfo Maliaco non può non essersi posto alcune domande cruciali: “Sono queste le Termopili? Come possono trecento Spartani aver resistito per tre giorni all’esercito persiano?”. Domande tutto sommato lecite, poiché oggi il panorama del campo di battaglia di quello che è considerato uno degli scontri più celebri dell’antichità, talmente famoso da aver ispirato innumerevoli libri e pellicole, è mutato molto. Fenomeni geologici e il continuo apporto di sedimenti, trascinati a valle dal fiume Spercheo, hanno fatto avanzare inesorabilmente la linea della costa di alcuni chilometri.
Ci vuole molta immaginazione per farsi un’idea precisa di come potesse apparire, in quei fatidici giorni dell’estate del 480 a.C., quando l’esercito di Serse cercò in tutti i modi di travolgere le linee greche poste a difesa del passo e infrangere l’accanita resistenza di trecento spartani guidati da re Leonida. Eppure non ci sono dubbi a riguardo; le “Porte Calde”, questo era il senso del nome greco, per la presenza di alcune sorgenti termali che sgorgavano in prossimità di una muraglia costruita un secolo prima dai Focesi, erano proprio qui. Anticamente una strada tortuosa, così stretta da permettere il passaggio di un solo carro alla volta, ricorda Erodoto, si snodava ai piedi della colina a poca distanza dalla scogliera; ed è probabile che la riva del mare arrivasse a lambire proprio quella che oggi è la massicciata della strada moderna. Non è difficile capire, pertanto, perché questa strettoia sia stata scelta dall’esercito ellenico come cardine della propria strategia di fronte alla disarmante superiorità della marea persiana che minacciava di dilagare nel cuore della Grecia.
Guerrieri fin dalla nascita.
Gli spartiati, la classe guerriera che riuniva gli uomini liberi di Sparta, si definivano gli unici opliti. La loro educazione militare prevedeva fin dall’infanzia un rigoroso addestramento e un codice di comportamento sul campo di battaglia che non lasciava spazio alla paura. Ritirarsi da uno scontro significava la peggiore delle umiliazioni. Un augurio che veniva fatto ai soldati in partenza per la guerra era: “Torna trionfante con lo scudo al braccio o sopra di esso morto”. Il più grande esempio di dedizione a questa filosofia sono state proprio le Termopili, con l’estremo sacrificio dei trecento uomini di Leonida.  Erodoto racconta, però, come in qualche modo un certo Aristodemo fosse riuscito a sopravvivere e, una volta tornato a Sparta, venne accolto con disprezzo e rinnegato dalla sua gente con l’accusa di codardia. Solo la morte su un campo di battaglia avrebbe potuto riabilitarlo. E ciò avvenne qualche anno dopo nello scontro di Platea (479 a.C.). L’unità di base dell’esercito spartano era l’enomotia, una formazione composta da ventitré opliti posti su tre file di otto uomini. Quattro enomotial formavano una lochoi (400 uomini) una mora. Sei di essi un esercito vero e proprio. Un’armata lacedemone si muoveva in campo aperto assumendo una formazione a quadrato con la prima linea disposta a falange, come pure la retroguardia, mentre ai fianchi marciava in colonna a protezione delle salmerie. Sparta per secoli rappresentò un modello inarrivabile d’efficienza militare che presto valicò i confini della Grecia.    

 
Il re persiano Serse I dal Promptuarii Iconum Insigniorum
«O voi, o abitatori di Sparta dalle larghe piazze:
o la vostra grande gloriosissima città viene distrutta sotto i colpi dei discendenti di Perseo,
oppure questo non avverrà; ma il paese di Sparta piangerà
la morte d'un re della stirpe di Eracle.»
(Erodoto, Storie, VII, 220.)

L’UNICA STRATEGIA POSSIBILE. In quei giorni del 480 a.C., schierati uno di fronte all’altro, c’erano due mondi agli antipodi, due modi combattere completamente differenti. Considerando una simile sproporzioni di mezzi, l’unica alternativa possibile era un impiego delle forze disponibili in relazione all’ambiente circostante e alle caratteristiche del nemico. L’idea di immolarsi in una strenua difesa, cercando di lavare l’onta della profanazione del suolo greco, non aveva alcun senso. Le Termopoli, quindi, non furono pianificate come uno scontro definitivo da cui dipendevano le sorti dell’invasione della Grecia, già ritenuta inevitabile dagli stessi Elleni, piuttosto una battaglia di lucida intelligenza tattica nel tentativo di sfruttare tutte le possibilità offerte da quel passaggio obbligato. D’altronde non c’erano alternative; gli strateghi greci erano coscienti che l’unico modo di avere la meglio sulle truppe nemiche era quello di affrontarle in spazi limitati dove il loro numero non avrebbe prevalso. In quel caso, come nella battaglia di Maratona aveva dimostrato dieci anni prima, era possibile avere la meglio sulle fanterie persiane in virtù della tattica oplitica. Ma non solo. Era essenziale affrontare il nemico anche sul mare, e anche in questo caso in forte inferiorità numerica. Non per nulla in contemporanea allo scontro sulle Termopili la flotta greca, per impedire un possibile aggiramento del passo, s’impegnò nel tentativo di ostacolare l’avanzata del naviglio nemico a Capo Artemisio, e anche qui in uno stretto in cui non potesse prevalere la loro superiorità. Come dimostrarono i fatti che un mese dopo avrebbero portato alla clamorosa vittoria di Salamina, i Greci, convinti da Temistocle, ritennero che la miglior soluzione per fermare l’avanzata di Serse fosse una decisiva vittoria sul mare; non sarebbe servito a nulla radunare un grande esercito di terra, concentrandolo in un punto preciso, finché fosse stata attiva quella minaccia. La sua rapidità di spostamento avrebbe consentito sbarchi alle spalle del contingente greco con conseguenze facilmente immaginabili. Se invece la componente navale fosse stata messa fuori combattimento e costretta al ritiro, qualsiasi ulteriore avanzata persiana sarebbe stata ostacolata dalla mancanza di rifornimenti. Sia in terra che in mare, pertanto, ogni strettoia, passo o istmo che fosse, fu brillantemente sfruttata in attesa di una vittoria in grado di capovolgere i valori sul campo. E in questa logica il passo delle Termopili era un luogo perfetto per imbrigliare l’esercito nemico e sfruttare la superiorità tattica e d’armamento degli opliti greci, spartiati in particolare. Tecnica per cui erano maestri e non avevano rivali.

Mappa degli spostamenti greci e persiani presso le Termopili e l'Artemisio

Il segreto dell’invincibilità greca.
La falange greca come appare nella ricostruzione basata sugli studi del Perseus Project

L’oplita è stato il fulcro della fanteria pesante dell’Antica Grecia, la cui fama ha travalicato i confini della Penisola ellenica, capace di influenzare le tecniche di combattimento per secoli. E il terrore che era in grado d’incutere al nemico non poteva prescindere dall’equipaggiamento. La sua armatura, la panoplia, era costituita da un elmo (kranos), schinieri di bronzo, corazza, spada corta (xiphos), lancia (dory) e scudo rotondo in bronzo. Questo strumento di difesa chiamato in greco oplon, che risultava molto maneggevole e garantiva un’ottima protezione, fu alla base della nascita della falange, una tecnica di combattimento che prevedeva una formazione serrata di fanti in grado di avanzare e combattere come fossero un tutt’uno. Ogni soldato, proprio con l’oplon, aveva il compito di proteggere il suo compagno. La loro filosofia pertanto si basava sull’aiuto reciproco e non sulle gesta dei singoli. In uno scontro tra due eserciti di questo tipo era preferibile affidarsi a  un terreno piatto e libero da ostacoli, ideale per mantenere una formazione unita e compatta. I due schieramenti si avvicinavano al passo, cantando l’inno di guerra (peana) e, a poco meno di 200 metri caricavano. Ne scaturiva uno scontro d’attrito in cui le due schiere si affidavano sulla forza di spinta, facendo perno sui loro scudi e sulla compattezza. E ciascun fante era subordinato al gruppo, proprio per mantenere una formazione. In condizioni ideali, in cui i fianchi erano protetti e il fronte compatto, la falange si rivelava micidiale. Lo sperimentarono a più riprese proprio gli eserciti persiani.   

UN’AVANZATA INNNARESTABILE. Nell’aprile del 480 a.C., il poderoso esercito allestito da Serse fin dalla primavera dell’anno prima, dopo aver attraversato l’Ellesponto su un monumentale ponte galleggiante, dilagò prima in Tracia, poi in Macedonia e infine in Tessaglia. Resistergli o tentare uno scontro campale in campo aperto sarebbe stata una follia. I sovrani locali optarono, pertanto, per una logica sottomissione. Diverso il discorso per la Grecia peninsulare. Raggiunto un faticoso accordo nell’autunno dell’anno precedente, si era riunito a Corinto il primo congresso che sanciva la nascita di un’alleanza tra le polis a cui facevano parte Atene e Sparta. L’obiettivo era cercare di fermare in ogni modo possibile l’invasione nemica. Un primo tentativo fu abbozzato in Tessaglia, inviando un distaccamento di 10mila opliti con il compito di sbarrare la strada al nemico nella stretta di Tempe, idea poi abortita quando, su consiglio del re macedone Alessandro I, fu chiaro che la posizione era facilmente aggirabile. Fu ordinato pertanto un precipitoso sganciamento. L’unico ostacolo in grado di impedire che l’esercito achemenide dilagasse anche in Attica, e quindi avesse mano libera con Atene, erano a questo punto proprio le “Porte Calde”. Il Congresso affidò il comando delle operazioni militari a Sparta, nonostante in città si stessero celebrando le feste Carnee, periodo in cui per legge era vietata qualsiasi attività militare. La gravità dei fatti, tuttavia, non consentiva tentennamenti. Dopo una lunga marcia di avvicinamento, durante la quale le file dell’esercito andarono ingrossandosi grazie all’apporto di altre polis, lo schieramento greco agli ordini di Leonida si accampò poco più a sud delle Termopili. Sugli effettivi in campo, nelle prime fasi dello scontro, le fonti antiche hanno fornite cifre piuttosto variabili: 5200 uomini secondo Erodoto, 7mila Diodoro Siculo, addirittura 11mila Pausania. Di certo, se la preferenza per gli storici moderni sembra propendere per Erodoto, va sottolineato come i numeri di armati sia cambiato nel corso della battaglia, quando parte dell’esercito si sganciò, lasciarono a difendere il corridoio meno di 3mila uomini così ripartiti: 300 spartiati, 700 tespiesi, 400 tebani e mille focesi. Cifre che dovrebbero tenere conto anche delle perdite già avvenute nei primi due giorni di scontri. Di certo va sfatato il mito che a difesa del passo ci fossero solo gli spartani.
Mappa di: Termopili

Spartani.
ARMI E ARMATURE.

L’addestramento militare degli spartiati era lungo e assai duro. Aveva inizio fin dall’infanzia e produceva guerrieri impavidi e pronti all’estremo sacrificio. Il loro equipaggiamento prevedeva lancia, elmo, scudo, spada, una corazza in bronzo a forma di corpetto, con imbottiture di stoffa e cuoio, e schinieri, ovvero gambali in lamina leggera di bronzo, per proteggere polpaccio e stinchi.
Capital Lambda.svg

La lettera Lambda era il simbolo degli Spartani sui loro scudi.

La lancia era lunga circa due metri e mezzo e prodotta in legno di frassino con una punta di ferro.
L’elmo più diffuso era quello corinzio con paraguance e paranaso. In genere era sormontato da un pennacchio fatto con crini di cavallo.
Lo scudo era l’essena dell’oplita a cui dava il nome. Era rotondo, un metro di diametro, con un’anima lignea e un rivestimento sottile in bronzo su cui erano disegnati simboli.
La spada, infine, veniva usata per il combattimento ravvicinato ed era impiegata una spada corta.

VERSO LO SCONTRO. Sarebbero passati diversi giorni prima che le avanguardie di Serse si materializzassero a nord della strettoia;  dopodiché si palesò il grosso dell’armata. E lo spettacolo, come narra Erodoto, gelò letteralmente il sangue dei difensori. Se accettiamo la testimonianza dello storico greco non pochi proposero, nell’impossibilità di concepire una benché minima resistenza di fronte a tanta superiorità, una veloce ritirata e la fortificazione dell’istmo di Corinto per tentare un’ultima e decisiva battaglia. Fu necessario un consiglio di guerra e lo sdegno di chi era intenzionato a non arretrare per riportare la calma. Di certo lo schieramento persiano difficilmente avrebbe potuto anche lentamente avvicinarsi alle iperboliche cifre fornite da Erodoto (più di due milioni di uomini), ma gli storici moderni riducendo drasticamente gli effetti hanno comunque sottolineato l’enorme disparità numerica: da un minimo di 70mila a un massimo di 300mila uomini. Non sappiamo se Leonida ritenesse il passo inespugnabile. di certo sapeva, perché gli abitanti della vicina città di Trachis l’avevano avvertito, che esisteva un sentiero a monte che attraverso le montagne permetteva l’aggiramento della strettoia. Per tale ragione destinò i mille focesi alla sua difesa, confidando tuttavia che il nemico non ne sarebbe venuto a conoscenza. Solo su una cosa non aveva dubbi; in quello spazio angusto la falange oplitica, senza correre il rischio di essere presa d’infilata o aggirata dalla cavalleria nemica, avrebbe potuto respingere ogni attacco con facilità. Come sottolineato dallo stesso Diodoro Siculo anche l’armamento avrebbe fatto la differenza. Con i loro pesanti scudi di circa un metro di diametro e  le lunghe lance i Greci avrebbero potuto sopraffare facilmente i fanti persiani, armato in maniera più leggera, in un combattimento ravvicinato. Pertanto il re lacedemone non ebbe esitazioni nello scegliere come baluardo difensivo il punto più stretto del passaggio, detto “Porta di mezzo”, in prossimità della muraglia edificato un secolo prima dai focesi. Avrebbe garantito anche un’eccellente protezione contro i temibili arcieri persiani.

Mappa delle Termopili col litorale odierno e la ricostruzione di quello del 480 a.C.

Gli effettivi a confronto.
Elleni.
Sull’esercito greco che si accampò a sud delle Termpoli, in attesa dell’armata di Serse, le fonti antiche hanno fornito cifre piuttosto variabili: 5200 uomini Erodoto, 7mila Diodoro Siculo, addirittura 11mila Pausania. Sebbene gli storici moderni propendano per il primo, sappiamo comunque che il terzo giorno di scontri, ricevuta notizia dell’inevitabile agganciamento, Leonida ordinò lo sganciamento della maggior parte delle forze greche, rimanendo a difesa del passo con meno di 2500 uomini: 300 spartiati, 700 tespliesi, 400 tebani e 1000 focesi (questi ultimi a guardia della montagna).
Persiani.
Le iperboliche cifre proposte dagli autori antichi (oltre due milioni per Eorodoto) sono ritenute inverosimili. Per gli storici moderni è più probabile che possano assestarsi da un minimo di 70mila a 300mila uomini. E tra questi figuravano almeno 10mila immortali, la guardia d’élite imperiale. Di certo comunque la differenza tra i due eserciti era disarmante.
Una tattica in tre mosse.
PRIMO GIORNO. Leonida posiziona i suoi opliti nel punto più stretto del passo delle Termopili, presso le Porte di Mezzo, conscio che solo così potrà evitare l’aggiramento del nemico e garantire ai suoi uomini di sfruttare la superiorità della tattica oplitica in un corpo a corpo. Serse, dopo aver bersagliato inutilmente i Greci con i suoi arcieri, manda all’attacco 10mila uomini tra medi e cissani. L’assalto si infrange però contro la falange oplitica schierata in maniera granitica spalla contro spalla; le lance oplitiche più lunghe di quelle nemiche impediscono il combattimento ravvicinato. Nello stretto il primo assalto persiano viene decimato. Incapace di leggere l’andamento dello scontro, Serse per nulla atterrito dalle perdite subite, ordina alla sua guardia imperiale, gli Immortali, un secondo assalto. Anche questo ha un esito disastroso; gli opliti in formazione riescono a fermare i nemici alternando truppe stanche a quelle fresche grazie all’esiguità dello spazio. A tarda sera Serse non può far altro che rendersi conto dell’impossibilità di sloggiare il nemico da un simile strettoia con semplici assalti frontali. Le perdite sono altissime.

SECONDO GIORNO. Confidando nel possibile indebolimento dello schieramento nemico il re persiano decide un secondo assalto frontale con le stesse modalità tattiche del giorno precedente. Ma si sbaglia, i Greci sono motivati e ben guidati, e l’esito dell’attacco è identico: un massacro tra le file dell’esercito achemenide. Serse sconfortato capisce l’inutilità di una simile strategia, ma proprio in quel momento il tradimento di un abitante locale rivelerà la presenza di un sentiero di montagna in grado di aggirare le posizioni greche e colpire alle spalle. È la svolta.  A Idarne, uno dei migliori ufficiali persiani, viene ordinato di prendere con sé un reparto di 20mila uomini e mettersi in marcia fin da subito per aggirare la strettoia.

TERZO GIORNO. Alle prime luci dell’alba i mille Greci di origine focese posti da Leoni a guardia del sentiero di montagna avvistano l’avanguardia nemica e, temendo di essere attaccati, si rifugiano sulla cima sovrastante. Idarno, però evita qualsiasi confronto e punta direttamente a completare l’aggirmanto. Avvisato da un messaggero, Leonida capisce che per l’esercito greco è questioni di ore. Ordina pertanto che la gran parte delle truppe si ritiri e rimane a capo di poche centinaia di opliti a presidiare le Porte di mezzo. Dopo aver lasciato il tempo di eseguire la manovra, Serse lancia all’attacco fanteria e cavalleria leggera contro i difensori nella strettoia, dove si accende subito una mischia furibonda. Gli opliti ellenici aprono lo schieramento e si lanciano contro il nemico con perdite da ambo le parti. Lo stesso Leonida viene ucciso. Con l’arrivo di Idarne alle loro spalle, i superstiti greci si rifugiano sulla collina sovrastante e saranno massacrati fino all’ultimo. Il loro sacrificio però non sarà vano e permetterà al resto dell’esercito di ritirarsi.
Alle origini dell’odio in 7 punti.

1.      499 a.C.  Aristagora di Mileto inizia la sollevazione che mette a ferro e fuoco la satrapia più occidentale dell’impero persiano, coinvolgendo le polis greche in Asia Minore.
2.      Attacco all’isola di Nasso. Insieme con il satrapo di Sardi, che si conclude con un insuccesso. Temendo la reazione del re persiano Dario (550-486 a.C.), Aristagora finisce con il progettare una ribellione in grande stile, instaurando un regime democratico su gran parte delle città ioniche e chiedendo l’aiuto ai Greci.
3.      Atene ed Eretria rispondono all’appello inviando alcune navi.
4.      498 a.C. al culmine degli scontri, i rivoltosi radono al suolo Sardi (la capitale della satrapia di Lidia), provocando una rabbiosa reazione del Grande Re persiano.
5.      L’esercito di Dario sottomette la quasi totalità delle città ribelli nel 397-496 a.C., conquista Mileto (sede della rivolta) nel 491 a.C. e l’isola di Chio l’anno successivo.
6.      Ora solo Atene ed Eretria mancano all’appello e la vendetta non tarda ad abbattersi su di loro con un’invasione in grande stile della Penisola ellenica. Inizia la Prima guerra persiana, che sarebbe terminata con l’impensabile vittoria greca nella piane di Maratona (probabilmente 12 settembre 490 a.C.).
7.      Dario giuria di vendicarsi, ma sarà il suo successore, Serse (che governerà dal 485 al 465 a.C.), a raccogliere la sfida e portare una nuova minaccia contro gli Elleni, allestendo una delle più grandi armate a memoria d’uomo. Inizia la Seconda guerra persiana (480-479 a.C.)  

La stessa tattica nella storia.
I Greci adottarono con successo questa tattica nel prosieguo della Seconda guerra persiana, trionfando nello scontro navale di Salamina (480 a.C.) dove la superiorità persiana venne annullata. Lo fecero poi anche i sanniti nella battaglia delle Forche Caudine (321 a.C.) e Annibale sul lago di Trasimeno (217 a.C.) a cospetto delle legioni romane. In entrambi i casi gli eserciti di Roma furono costretti a combattere in luoghi angusti e vennero fatti a pezzi. Anche Alessandro Magno nella battaglia di Isso (333 a.C.) era riuscito ad avere la meglio sull’armata persiana, più numerosa, schierando il suo esercito in una strettoia tra il mare e le montagne del Tauro in Turchia. Ma non sempre fu una tattica vincente. Nella Seconda guerra mondiale, ancora una volta alle Termopili (1941), gli inglesi tentarono di bloccare l’avanzata tedesca in quello spazio angusto, ma senza successo. Le armate naziste aggirarono il passo dalle montagne, vanificando lo sforzo.  

Mappa della battaglia

TRE INTERMINABILI GIORNI. Pare che Serse inizialmente abbia cercato di negoziare offrendo la libertà ai Greci. Vanamente. E Plutarco racconta come di fronte all’ennesimo rifiuto l’ambasciatore persiano intimasse ai difensori di arrendersi e gettare le armi, ricevendo come risposta “Vengano loro a prenderle”. Che questo aneddoto sia vero o no, rimane il fatto che dopo quattro lunghi giorni d’attesa il re achemenide ordinò alle sue truppe di iniziare i combattimenti. L’avrebbe fatto per tre giorni di seguito, andando incontro a perdite terribili. Il primo assalto fu disastroso. Dopo un fitto lancio di frecce che provocarono pochi danni allo schieramento greco, fu mandato all’attacco un contingente di medi e cissani, circa 10mila uomini, che pare avessero avuto ordine, come narra Erodoto “di farli prigionieri e condurli al suo cospetto”. Non ci riuscirono perché, come accadde in più di un’occasione, il loro impeto andò a schiantarsi contro le lance della formazione oplitica serrata spalla contro spalla. È possibile che non siano neppure arrivati a contatto degli scudi nemici, per un agognato corpo a corpo, a causa dell’inefficacia delle loro corte lance e della compattezza della formazione nemica. Gli Elleni dimostrarono un’efficienza disarmante; divisi per polis di provenienza, una volta compiuto il loro dovere, lasciavano la prima linea per farsi dare il cambio da forze più fresche. Serse rimase scioccato dall’entità delle perdite e da quanto irrisorie fossero quelle avversarie; tra gli spartiati di Leonida si registrarono solo due o tre caduti. Dopodiché toccò ai diecimila Immortali, la guardia d’élite imperiale, farsi massacrare. Ogni attacco fu fermato provocando altissime perdite, e anche questa volta la ritirata fu la cosa più sensata che il si potesse fare.
Lo stesso andamento dello scontro si ripropose anche il giorno successivo. Confidando nell’indebolimento dello schieramento avversario, Serse optò per un nuovo assalto frontale, rimanendo poi perplesso, come racconta Erodoto, dalla compattezza e dall’efficacia nemica.
Ma fu proprio in quei momenti che si palesò la svolta nella battaglia. un abitante della vicina città di Trachis si offrì, dietro ricompensa, di svelare un passaggio in grado di aggirare le posizione nemiche. La sera stessa il Re dei Re chiamò a sé uno degli ufficiali più capaci, Idarne, ordinando gli di guidare un contingente di 20mila uomini su per il monte Eta, avvalendosi dei consigli della guida, e attaccare il nemico alle spalle. Fu la svolta. Alle prime luci del terzo giorno i focesi a guardia del sentieri avvistarono il contingente nemico, ma ritenendo di essere attaccati, si rifugiarono sulle alture. Idarne, non se ne curò, limitandosi a scagliare contro di loro un nugolo di frecce; il suo obiettivo era un altro. non ebbe infatti alcuna difficoltà a inoltrarsi nella boscaglia e intraprendere la discesa che conduceva alle spalle degli Elleni.
Leonida fu avvisto del pericolo incombente da un messaggero e capì di non avere alternative. Durante un drammatico consiglio di guerra ordinò, anche se le stesse fonti antiche non sono chiare a riguardo, a buona parte del contingente alleato di ritirarsi. Non tutti lo fecero. Per l’ultima battaglia sarebbero rimasti al fianco dei 300 persiani, 700 tespiesi guidati da Demofilo e 400 tebani. Il loro sacrificio permise al resto dell’esercito di salvarsi.
Appena ritenne che Idarne fosse prossimo a completare il percorso, Serse lanciò all’attacco una formazione di fanti e cavalieri armati alla leggera, circa 10mila uomini, che affrontarono la falange greca ormai non più in formazione, bensì aperta nei ranghi. Due fratelli di Serse furono uccisi dalle lance greche, dopodiché lo stesso Leonida fu trafitto a morte. L’arrivo di Idarne alle loro spalle fu il segnale della fine. Mentre i tebani si arrendevano, il resto dei Greci si trincerò sulla collina vicina e venne annientato dopo diverse ore di combattimenti. Nessun racconto è in grado di riassumere gli ultimi istanti della lotta quanto quello di Erodoto: “Qui si difesero fino all’ultimo, chi aveva ancora le spade combatté con esse, e gli altri resistettero con le mani e con i denti”. Nessuno si salvàò, ma i Persiani pagarono cara la vittoria: oltre 20mila morti. Tra i Greci le perdite complessive furono valutate da Erodoto in 4mila uomini, anche se gli storici moderni hanno ridimensionato la cifra, ipotizzando poco più della metà.

Equipaggiamento dei persiani.

Guerrieri persiani, probabilmente gli Immortali, da un dettaglio della Porta di Ishtar a Babilonia, ricostruita al Museo di Pergamo a Berlino

Gli Immortali erano il corpo militare d’élite della guardia del re persiano. È lo storico greco Erodoto, nelle sue Storie, a definirli Athanatoi, ovvero Immortali. Nella loro lingua erano chiamati probabilmente Anusiya, che significa compagni. Erano dotati di lancia, arco, daga, copricapo e uno scudo in pelle o vimini, di forma rettangolare o ovale, molto leggero se paragonato a quello greco.
La lancia era più corta di quella greca. Aveva una punta di ferro e un contrappeso a forma di melagrana.
Erano dotati di un temibile arco e feretra per le frecce, che sapevano scoccare alla perfezione.
La daga completava la dotazione. Era una spada moto corta per il combattimento corpo a corpo.
La parola agli storici.
Lo storico Douglas Tung ha scritto: “La battaglia delle Termopoli fu una vittoria di Pirro, mentre offrì ad Atene tempo prezioso per prepararsi alla battaglia decisiva”. Pochi studiosi oggi giorno sono ancora convinti che possa essere interpretata come una mezza vittoria greca, perché le conseguenze della sconfitta furono pesanti. Una volta annientati gli ultimi difensori, per Serse si spalancarono le porti dell’Attica e Atene, alla mercé delle truppe persiane, pagò cara la sua ostinata resistenza con estese distruzioni. Pertanto un’analisi intesa a sostenere una vittoria di Pirro persiana, che può sembrare logica solo se si prende in considerazione l’esito finale della guerra, non tiene conto della reale e tragica situazione vissuta dalla popolazione greca nell’immediato: il terrore delle rappresaglie, la paura di un’umiliante sottomissione e la perdita della libertà. Quindi, non ci sono dubbi che il risultato dello scontro vada letto come una netta sconfitta, nonostante le pesanti perdite subite dal nemico. Il rischio che la guerra fosse ormai decisa era piuttosto concreto, a meno di un miracolo militare, come poi realmente avvenne. Ma di un esito così clamoroso del conflitto, in quel momento, non c’era la certezza. È tuttavia fuori di dubbio che la grande fama legata a questo scontro sia da attribuire al significato che rivestì nel risaldare la determinazione degli Elleni: un esempio infinito di coraggio e dedizione all’idea di libertà. Un esempio che sarebbe servito per dare morale nel momento decisivo nella lotta, quando un mese dopo nelle acque di Salamina la flotta greca annichilì quella persiana.
  

Articolo in gran parte di Antonio Ratti pubblicato su Storie di guerre e guerrieri collection antologia n. 1 – altri testi e immagini da Wikipedia

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