Termopili combattere
in un corridoio.
Seconda guerra
persiana, 480 a.C. Di fronte alla disarmante supremazia dell’armata achemenide,
per gli elleni l’unica strategia possibile era combattere laddove la
superiorità oplitica fosse più evidente. E l’angusto passaggio delle Termopili
si rivelò il luogo ideale per cercare di arrestare l’esercito di Serse.
Battaglia delle Termopili parte della seconda guerra persiana | |||
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Battaglia delle Termopili e movimenti che portarono alla battaglia di Salamina. | |||
Data | 19-21 agosto[1] o 8-10 settembre[2] 480 a.C. | ||
Luogo | Termopili, Grecia | ||
Esito | Vittoria (pirrica secondo alcuni storici) dei Persiani | ||
Schieramenti | |||
Comandanti | |||
Effettivi | |||
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Perdite | |||
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La battaglia delle Termopili (in greco antico: ἡ ἐν Θερμοπύλαις μάχη, hē en Thermopýlais máchē[5]) fu combattuta da un'alleanza di poleis greche, guidata dal re di Sparta Leonida I contro l'Impero persiano governato da Serse I. Si svolse in tre giorni, durante la seconda invasione persiana della Grecia, nell'agosto o nel settembre del 480 a.C. presso lo stretto passaggio delle Termopili (o, più correttamente, Termopile, "Le porte calde"[6]) contemporaneamente alla battaglia navale di Capo Artemisio.
Ogni
viaggiatore che abbia avuto modo di percorrere ai giorni nostri l’autostrada
Atene-Salonnicco, transitando per il Golfo Maliaco non può non essersi posto
alcune domande cruciali: “Sono queste le
Termopili? Come possono trecento Spartani aver resistito per tre giorni
all’esercito persiano?”. Domande tutto sommato lecite, poiché oggi il
panorama del campo di battaglia di quello che è considerato uno degli scontri
più celebri dell’antichità, talmente famoso da aver ispirato innumerevoli libri
e pellicole, è mutato molto. Fenomeni geologici e il continuo apporto di
sedimenti, trascinati a valle dal fiume Spercheo, hanno fatto avanzare
inesorabilmente la linea della costa di alcuni chilometri.
Ci vuole molta
immaginazione per farsi un’idea precisa di come potesse apparire, in quei
fatidici giorni dell’estate del 480 a.C., quando l’esercito di Serse cercò in tutti
i modi di travolgere le linee greche poste a difesa del passo e infrangere
l’accanita resistenza di trecento spartani guidati da re Leonida. Eppure non ci
sono dubbi a riguardo; le “Porte Calde”, questo era il senso del nome greco,
per la presenza di alcune sorgenti termali che sgorgavano in prossimità di una
muraglia costruita un secolo prima dai Focesi, erano proprio qui. Anticamente
una strada tortuosa, così stretta da permettere il passaggio di un solo carro
alla volta, ricorda Erodoto, si snodava ai piedi della colina a poca distanza
dalla scogliera; ed è probabile che la riva del mare arrivasse a lambire
proprio quella che oggi è la massicciata della strada moderna. Non è difficile
capire, pertanto, perché questa strettoia sia stata scelta dall’esercito
ellenico come cardine della propria strategia di fronte alla disarmante
superiorità della marea persiana che minacciava di dilagare nel cuore della
Grecia.
Guerrieri
fin dalla nascita.
Gli
spartiati, la classe guerriera che riuniva gli uomini liberi di Sparta, si definivano
gli unici opliti. La loro educazione militare prevedeva fin dall’infanzia un
rigoroso addestramento e un codice di comportamento sul campo di battaglia
che non lasciava spazio alla paura. Ritirarsi da uno scontro significava la
peggiore delle umiliazioni. Un augurio che veniva fatto ai soldati in
partenza per la guerra era: “Torna
trionfante con lo scudo al braccio o sopra di esso morto”. Il più grande
esempio di dedizione a questa filosofia sono state proprio le Termopili, con
l’estremo sacrificio dei trecento uomini di Leonida. Erodoto racconta, però, come in qualche
modo un certo Aristodemo fosse riuscito a sopravvivere e, una volta tornato a
Sparta, venne accolto con disprezzo e rinnegato dalla sua gente con l’accusa
di codardia. Solo la morte su un campo di battaglia avrebbe potuto
riabilitarlo. E ciò avvenne qualche anno dopo nello scontro di Platea (479
a.C.). L’unità di base dell’esercito spartano era l’enomotia, una formazione
composta da ventitré opliti posti su tre file di otto uomini. Quattro
enomotial formavano una lochoi (400 uomini) una mora. Sei di essi un esercito
vero e proprio. Un’armata lacedemone si muoveva in campo aperto assumendo una
formazione a quadrato con la prima linea disposta a falange, come pure la
retroguardia, mentre ai fianchi marciava in colonna a protezione delle
salmerie. Sparta per secoli rappresentò un modello inarrivabile d’efficienza
militare che presto valicò i confini della Grecia.
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Il re persiano Serse I dal Promptuarii Iconum Insigniorum
«O voi, o abitatori di Sparta dalle larghe piazze:
o la vostra grande gloriosissima città viene distrutta sotto i colpi dei discendenti di Perseo, oppure questo non avverrà; ma il paese di Sparta piangerà la morte d'un re della stirpe di Eracle.» |
(Erodoto, Storie, VII, 220.) |
L’UNICA STRATEGIA
POSSIBILE. In quei giorni del 480 a.C., schierati
uno di fronte all’altro, c’erano due mondi agli antipodi, due modi combattere
completamente differenti. Considerando una simile sproporzioni di mezzi,
l’unica alternativa possibile era un impiego delle forze disponibili in
relazione all’ambiente circostante e alle caratteristiche del nemico. L’idea di
immolarsi in una strenua difesa, cercando di lavare l’onta della profanazione
del suolo greco, non aveva alcun senso. Le Termopoli, quindi, non furono
pianificate come uno scontro definitivo da cui dipendevano le sorti
dell’invasione della Grecia, già ritenuta inevitabile dagli stessi Elleni,
piuttosto una battaglia di lucida intelligenza tattica nel tentativo di
sfruttare tutte le possibilità offerte da quel passaggio obbligato. D’altronde
non c’erano alternative; gli strateghi greci erano coscienti che l’unico modo
di avere la meglio sulle truppe nemiche era quello di affrontarle in spazi
limitati dove il loro numero non avrebbe prevalso. In quel caso, come nella
battaglia di Maratona aveva dimostrato dieci anni prima, era possibile avere la
meglio sulle fanterie persiane in virtù della tattica oplitica. Ma non solo.
Era essenziale affrontare il nemico anche sul mare, e anche in questo caso in
forte inferiorità numerica. Non per nulla in contemporanea allo scontro sulle
Termopili la flotta greca, per impedire un possibile aggiramento del passo,
s’impegnò nel tentativo di ostacolare l’avanzata del naviglio nemico a Capo
Artemisio, e anche qui in uno stretto in cui non potesse prevalere la loro
superiorità. Come dimostrarono i fatti che un mese dopo avrebbero portato alla
clamorosa vittoria di Salamina, i Greci, convinti da Temistocle, ritennero che
la miglior soluzione per fermare l’avanzata di Serse fosse una decisiva
vittoria sul mare; non sarebbe servito a nulla radunare un grande esercito di
terra, concentrandolo in un punto preciso, finché fosse stata attiva quella
minaccia. La sua rapidità di spostamento avrebbe consentito sbarchi alle spalle
del contingente greco con conseguenze facilmente immaginabili. Se invece la
componente navale fosse stata messa fuori combattimento e costretta al ritiro,
qualsiasi ulteriore avanzata persiana sarebbe stata ostacolata dalla mancanza
di rifornimenti. Sia in terra che in mare, pertanto, ogni strettoia, passo o
istmo che fosse, fu brillantemente sfruttata in attesa di una vittoria in grado
di capovolgere i valori sul campo. E in questa logica il passo delle Termopili
era un luogo perfetto per imbrigliare l’esercito nemico e sfruttare la
superiorità tattica e d’armamento degli opliti greci, spartiati in particolare.
Tecnica per cui erano maestri e non avevano rivali.
Mappa degli spostamenti greci e persiani presso le Termopili e l'Artemisio
Il segreto dell’invincibilità greca.
L’oplita è stato il
fulcro della fanteria pesante dell’Antica Grecia, la cui fama ha travalicato
i confini della Penisola ellenica, capace di influenzare le tecniche di
combattimento per secoli. E il terrore che era in grado d’incutere al nemico
non poteva prescindere dall’equipaggiamento. La sua armatura, la panoplia,
era costituita da un elmo (kranos), schinieri di bronzo, corazza, spada corta
(xiphos), lancia (dory) e scudo rotondo in bronzo. Questo strumento di difesa
chiamato in greco oplon, che risultava molto maneggevole e garantiva
un’ottima protezione, fu alla base della nascita della falange, una tecnica di
combattimento che prevedeva una formazione serrata di fanti in grado di
avanzare e combattere come fossero un tutt’uno. Ogni soldato, proprio con
l’oplon, aveva il compito di proteggere il suo compagno. La loro filosofia
pertanto si basava sull’aiuto reciproco e non sulle gesta dei singoli. In uno
scontro tra due eserciti di questo tipo era preferibile affidarsi a un terreno piatto e libero da ostacoli,
ideale per mantenere una formazione unita e compatta. I due schieramenti si
avvicinavano al passo, cantando l’inno di guerra (peana) e, a poco meno di
200 metri caricavano. Ne scaturiva uno scontro d’attrito in cui le due
schiere si affidavano sulla forza di spinta, facendo perno sui loro scudi e
sulla compattezza. E ciascun fante era subordinato al gruppo, proprio per
mantenere una formazione. In condizioni ideali, in cui i fianchi erano
protetti e il fronte compatto, la falange si rivelava micidiale. Lo
sperimentarono a più riprese proprio gli eserciti persiani.
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UN’AVANZATA INNNARESTABILE. Nell’aprile del 480
a.C., il poderoso esercito allestito da Serse fin dalla primavera dell’anno
prima, dopo aver attraversato l’Ellesponto su un monumentale ponte
galleggiante, dilagò prima in Tracia, poi in Macedonia e infine in Tessaglia.
Resistergli o tentare uno scontro campale in campo aperto sarebbe stata una
follia. I sovrani locali optarono, pertanto, per una logica sottomissione.
Diverso il discorso per la Grecia peninsulare. Raggiunto un faticoso accordo
nell’autunno dell’anno precedente, si era riunito a Corinto il primo congresso
che sanciva la nascita di un’alleanza tra le polis a cui facevano parte Atene e
Sparta. L’obiettivo era cercare di fermare in ogni modo possibile l’invasione
nemica. Un primo tentativo fu abbozzato in Tessaglia, inviando un distaccamento
di 10mila opliti con il compito di sbarrare la strada al nemico nella stretta
di Tempe, idea poi abortita quando, su consiglio del re macedone Alessandro I,
fu chiaro che la posizione era facilmente aggirabile. Fu ordinato pertanto un
precipitoso sganciamento. L’unico ostacolo in grado di impedire che l’esercito
achemenide dilagasse anche in Attica, e quindi avesse mano libera con Atene,
erano a questo punto proprio le “Porte Calde”. Il Congresso affidò il comando
delle operazioni militari a Sparta, nonostante in città si stessero celebrando
le feste Carnee, periodo in cui per legge era vietata qualsiasi attività
militare. La gravità dei fatti, tuttavia, non consentiva tentennamenti. Dopo una
lunga marcia di avvicinamento, durante la quale le file dell’esercito andarono
ingrossandosi grazie all’apporto di altre polis, lo schieramento greco agli
ordini di Leonida si accampò poco più a sud delle Termopili. Sugli effettivi in
campo, nelle prime fasi dello scontro, le fonti antiche hanno fornite cifre
piuttosto variabili: 5200 uomini secondo Erodoto, 7mila Diodoro Siculo,
addirittura 11mila Pausania. Di certo, se la preferenza per gli storici moderni
sembra propendere per Erodoto, va sottolineato come i numeri di armati sia
cambiato nel corso della battaglia, quando parte dell’esercito si sganciò, lasciarono
a difendere il corridoio meno di 3mila uomini così ripartiti: 300 spartiati,
700 tespiesi, 400 tebani e mille focesi. Cifre che dovrebbero tenere conto
anche delle perdite già avvenute nei primi due giorni di scontri. Di certo va
sfatato il mito che a difesa del passo ci fossero solo gli spartani.
Spartani.
ARMI
E ARMATURE.
L’addestramento
militare degli spartiati era lungo e assai duro. Aveva inizio fin dall’infanzia
e produceva guerrieri impavidi e pronti all’estremo sacrificio. Il loro
equipaggiamento prevedeva lancia, elmo, scudo, spada, una corazza in bronzo a
forma di corpetto, con imbottiture di stoffa e cuoio, e schinieri, ovvero
gambali in lamina leggera di bronzo, per proteggere polpaccio e stinchi.
La
lancia era lunga circa due metri e mezzo e prodotta in legno di frassino con
una punta di ferro.
L’elmo
più diffuso era quello corinzio con paraguance e paranaso. In genere era
sormontato da un pennacchio fatto con crini di cavallo.
Lo
scudo era l’essena dell’oplita a cui dava il nome. Era rotondo, un metro di
diametro, con un’anima lignea e un rivestimento sottile in bronzo su cui
erano disegnati simboli.
La
spada, infine, veniva usata per il combattimento ravvicinato ed era impiegata
una spada corta.
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VERSO LO SCONTRO. Sarebbero passati
diversi giorni prima che le avanguardie di Serse si materializzassero a nord
della strettoia; dopodiché si palesò il
grosso dell’armata. E lo spettacolo, come narra Erodoto, gelò letteralmente il
sangue dei difensori. Se accettiamo la testimonianza dello storico greco non
pochi proposero, nell’impossibilità di concepire una benché minima resistenza
di fronte a tanta superiorità, una veloce ritirata e la fortificazione
dell’istmo di Corinto per tentare un’ultima e decisiva battaglia. Fu necessario
un consiglio di guerra e lo sdegno di chi era intenzionato a non arretrare per
riportare la calma. Di certo lo schieramento persiano difficilmente avrebbe
potuto anche lentamente avvicinarsi alle iperboliche cifre fornite da Erodoto
(più di due milioni di uomini), ma gli storici moderni riducendo drasticamente
gli effetti hanno comunque sottolineato l’enorme disparità numerica: da un
minimo di 70mila a un massimo di 300mila uomini. Non sappiamo se Leonida
ritenesse il passo inespugnabile. di certo sapeva, perché gli abitanti della
vicina città di Trachis l’avevano avvertito, che esisteva un sentiero a monte
che attraverso le montagne permetteva l’aggiramento della strettoia. Per tale
ragione destinò i mille focesi alla sua difesa, confidando tuttavia che il
nemico non ne sarebbe venuto a conoscenza. Solo su una cosa non aveva dubbi; in
quello spazio angusto la falange oplitica, senza correre il rischio di essere
presa d’infilata o aggirata dalla cavalleria nemica, avrebbe potuto respingere
ogni attacco con facilità. Come sottolineato dallo stesso Diodoro Siculo anche
l’armamento avrebbe fatto la differenza. Con i loro pesanti scudi di circa un
metro di diametro e le lunghe lance i
Greci avrebbero potuto sopraffare facilmente i fanti persiani, armato in
maniera più leggera, in un combattimento ravvicinato. Pertanto il re lacedemone
non ebbe esitazioni nello scegliere come baluardo difensivo il punto più
stretto del passaggio, detto “Porta di mezzo”, in prossimità della muraglia
edificato un secolo prima dai focesi. Avrebbe garantito anche un’eccellente
protezione contro i temibili arcieri persiani.
Mappa delle Termopili col litorale odierno e la ricostruzione di quello del 480 a.C.
Gli effettivi
a confronto.
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Elleni.
Sull’esercito
greco che si accampò a sud delle Termpoli, in attesa dell’armata di Serse, le
fonti antiche hanno fornito cifre piuttosto variabili: 5200 uomini Erodoto, 7mila
Diodoro Siculo, addirittura 11mila Pausania. Sebbene gli storici moderni
propendano per il primo, sappiamo comunque che il terzo giorno di scontri,
ricevuta notizia dell’inevitabile agganciamento, Leonida ordinò lo sganciamento
della maggior parte delle forze greche, rimanendo a difesa del passo con meno
di 2500 uomini: 300 spartiati, 700 tespliesi, 400 tebani e 1000 focesi
(questi ultimi a guardia della montagna).
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Persiani.
Le iperboliche
cifre proposte dagli autori antichi (oltre due milioni per Eorodoto) sono
ritenute inverosimili. Per gli storici moderni è più probabile che possano
assestarsi da un minimo di 70mila a 300mila uomini. E tra questi figuravano
almeno 10mila immortali, la guardia d’élite imperiale. Di certo comunque la
differenza tra i due eserciti era disarmante.
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Una tattica in
tre mosse.
PRIMO GIORNO. Leonida
posiziona i suoi opliti nel punto più stretto del passo delle Termopili,
presso le Porte di Mezzo, conscio che solo così potrà evitare l’aggiramento
del nemico e garantire ai suoi uomini di sfruttare la superiorità della
tattica oplitica in un corpo a corpo. Serse, dopo aver bersagliato
inutilmente i Greci con i suoi arcieri, manda all’attacco 10mila uomini tra
medi e cissani. L’assalto si infrange però contro la falange oplitica
schierata in maniera granitica spalla contro spalla; le lance oplitiche più
lunghe di quelle nemiche impediscono il combattimento ravvicinato. Nello
stretto il primo assalto persiano viene decimato. Incapace di leggere l’andamento
dello scontro, Serse per nulla atterrito dalle perdite subite, ordina alla
sua guardia imperiale, gli Immortali, un secondo assalto. Anche questo ha un esito
disastroso; gli opliti in formazione riescono a fermare i nemici alternando
truppe stanche a quelle fresche grazie all’esiguità dello spazio. A tarda
sera Serse non può far altro che rendersi conto dell’impossibilità di
sloggiare il nemico da un simile strettoia con semplici assalti frontali. Le perdite
sono altissime.
SECONDO
GIORNO. Confidando nel possibile indebolimento dello schieramento nemico il
re persiano decide un secondo assalto frontale con le stesse modalità
tattiche del giorno precedente. Ma si sbaglia, i Greci sono motivati e ben
guidati, e l’esito dell’attacco è identico: un massacro tra le file dell’esercito
achemenide. Serse sconfortato capisce l’inutilità di una simile strategia, ma
proprio in quel momento il tradimento di un abitante locale rivelerà la
presenza di un sentiero di montagna in grado di aggirare le posizioni greche
e colpire alle spalle. È la svolta. A Idarne,
uno dei migliori ufficiali persiani, viene ordinato di prendere con sé un
reparto di 20mila uomini e mettersi in marcia fin da subito per aggirare la
strettoia.
TERZO GIORNO. Alle
prime luci dell’alba i mille Greci di origine focese posti da Leoni a guardia
del sentiero di montagna avvistano l’avanguardia nemica e, temendo di essere
attaccati, si rifugiano sulla cima sovrastante. Idarno, però evita qualsiasi
confronto e punta direttamente a completare l’aggirmanto. Avvisato da un
messaggero, Leonida capisce che per l’esercito greco è questioni di ore. Ordina
pertanto che la gran parte delle truppe si ritiri e rimane a capo di poche
centinaia di opliti a presidiare le Porte di mezzo. Dopo aver lasciato il
tempo di eseguire la manovra, Serse lancia all’attacco fanteria e cavalleria
leggera contro i difensori nella strettoia, dove si accende subito una
mischia furibonda. Gli opliti ellenici aprono lo schieramento e si lanciano
contro il nemico con perdite da ambo le parti. Lo stesso Leonida viene
ucciso. Con l’arrivo di Idarne alle loro spalle, i superstiti greci si rifugiano
sulla collina sovrastante e saranno massacrati fino all’ultimo. Il loro
sacrificio però non sarà vano e permetterà al resto dell’esercito di
ritirarsi.
|
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Alle origini
dell’odio in 7 punti.
1. 499 a.C. Aristagora di Mileto inizia la sollevazione
che mette a ferro e fuoco la satrapia più occidentale dell’impero persiano,
coinvolgendo le polis greche in Asia Minore.
2. Attacco all’isola di Nasso. Insieme con il
satrapo di Sardi, che si conclude con un insuccesso. Temendo la reazione del
re persiano Dario (550-486 a.C.), Aristagora finisce con il progettare una
ribellione in grande stile, instaurando un regime democratico su gran parte delle
città ioniche e chiedendo l’aiuto ai Greci.
3. Atene ed Eretria rispondono all’appello
inviando alcune navi.
4.
498 a.C. al culmine
degli scontri, i rivoltosi radono al suolo Sardi (la capitale della satrapia
di Lidia), provocando una rabbiosa reazione del Grande Re persiano.
5. L’esercito di Dario sottomette la
quasi totalità delle città ribelli nel 397-496 a.C., conquista Mileto (sede
della rivolta) nel 491 a.C. e l’isola di Chio l’anno successivo.
6. Ora solo Atene ed Eretria mancano all’appello
e la vendetta non tarda ad abbattersi su di loro con un’invasione in grande
stile della Penisola ellenica. Inizia la Prima guerra persiana, che sarebbe
terminata con l’impensabile vittoria greca nella piane di Maratona
(probabilmente 12 settembre 490 a.C.).
7. Dario giuria di vendicarsi, ma sarà il suo
successore, Serse (che governerà dal 485 al 465 a.C.), a raccogliere la sfida
e portare una nuova minaccia contro gli Elleni, allestendo una delle più
grandi armate a memoria d’uomo. Inizia la Seconda guerra persiana (480-479
a.C.)
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||
La stessa tattica nella storia.
I Greci adottarono con successo
questa tattica nel prosieguo della Seconda guerra persiana, trionfando nello
scontro navale di Salamina (480 a.C.) dove la superiorità persiana venne
annullata. Lo fecero poi anche i sanniti nella battaglia delle Forche Caudine
(321 a.C.) e Annibale sul lago di Trasimeno (217 a.C.) a cospetto delle legioni
romane. In entrambi i casi gli eserciti di Roma furono costretti a combattere
in luoghi angusti e vennero fatti a pezzi. Anche Alessandro Magno nella
battaglia di Isso (333 a.C.) era riuscito ad avere la meglio sull’armata
persiana, più numerosa, schierando il suo esercito in una strettoia tra il
mare e le montagne del Tauro in Turchia. Ma non sempre fu una tattica
vincente. Nella Seconda guerra mondiale, ancora una volta alle Termopili
(1941), gli inglesi tentarono di bloccare l’avanzata tedesca in quello spazio
angusto, ma senza successo. Le armate naziste aggirarono il passo dalle
montagne, vanificando lo sforzo.
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Mappa della battaglia
TRE INTERMINABILI GIORNI. Pare che Serse
inizialmente abbia cercato di negoziare offrendo la libertà ai Greci. Vanamente.
E Plutarco racconta come di fronte all’ennesimo rifiuto l’ambasciatore persiano
intimasse ai difensori di arrendersi e gettare le armi, ricevendo come risposta
“Vengano loro a prenderle”. Che questo aneddoto sia vero o no, rimane il fatto
che dopo quattro lunghi giorni d’attesa il re achemenide ordinò alle sue truppe
di iniziare i combattimenti. L’avrebbe fatto per tre giorni di seguito, andando
incontro a perdite terribili. Il primo assalto fu disastroso. Dopo un fitto
lancio di frecce che provocarono pochi danni allo schieramento greco, fu
mandato all’attacco un contingente di medi e cissani, circa 10mila uomini, che
pare avessero avuto ordine, come narra Erodoto “di farli prigionieri e condurli
al suo cospetto”. Non ci riuscirono perché, come accadde in più di un’occasione,
il loro impeto andò a schiantarsi contro le lance della formazione oplitica
serrata spalla contro spalla. È possibile che non siano neppure arrivati a
contatto degli scudi nemici, per un agognato corpo a corpo, a causa dell’inefficacia
delle loro corte lance e della compattezza della formazione nemica. Gli Elleni
dimostrarono un’efficienza disarmante; divisi per polis di provenienza, una
volta compiuto il loro dovere, lasciavano la prima linea per farsi dare il
cambio da forze più fresche. Serse rimase scioccato dall’entità delle perdite e
da quanto irrisorie fossero quelle avversarie; tra gli spartiati di Leonida si
registrarono solo due o tre caduti. Dopodiché toccò ai diecimila Immortali, la
guardia d’élite imperiale, farsi massacrare. Ogni attacco fu fermato provocando
altissime perdite, e anche questa volta la ritirata fu la cosa più sensata che
il si potesse fare.
Lo stesso andamento
dello scontro si ripropose anche il giorno successivo. Confidando nell’indebolimento
dello schieramento avversario, Serse optò per un nuovo assalto frontale,
rimanendo poi perplesso, come racconta Erodoto, dalla compattezza e dall’efficacia
nemica.
Ma fu proprio in quei
momenti che si palesò la svolta nella battaglia. un abitante della vicina città
di Trachis si offrì, dietro ricompensa, di svelare un passaggio in grado di
aggirare le posizione nemiche. La sera stessa il Re dei Re chiamò a sé uno
degli ufficiali più capaci, Idarne, ordinando gli di guidare un contingente di
20mila uomini su per il monte Eta, avvalendosi dei consigli della guida, e
attaccare il nemico alle spalle. Fu la svolta. Alle prime luci del terzo giorno
i focesi a guardia del sentieri avvistarono il contingente nemico, ma ritenendo
di essere attaccati, si rifugiarono sulle alture. Idarne, non se ne curò,
limitandosi a scagliare contro di loro un nugolo di frecce; il suo obiettivo
era un altro. non ebbe infatti alcuna difficoltà a inoltrarsi nella boscaglia e
intraprendere la discesa che conduceva alle spalle degli Elleni.
Leonida fu avvisto del
pericolo incombente da un messaggero e capì di non avere alternative. Durante un
drammatico consiglio di guerra ordinò, anche se le stesse fonti antiche non
sono chiare a riguardo, a buona parte del contingente alleato di ritirarsi. Non
tutti lo fecero. Per l’ultima battaglia sarebbero rimasti al fianco dei 300
persiani, 700 tespiesi guidati da Demofilo e 400 tebani. Il loro sacrificio
permise al resto dell’esercito di salvarsi.
Appena ritenne che
Idarne fosse prossimo a completare il percorso, Serse lanciò all’attacco una
formazione di fanti e cavalieri armati alla leggera, circa 10mila uomini, che
affrontarono la falange greca ormai non più in formazione, bensì aperta nei
ranghi. Due fratelli di Serse furono uccisi dalle lance greche, dopodiché lo
stesso Leonida fu trafitto a morte. L’arrivo di Idarne alle loro spalle fu il
segnale della fine. Mentre i tebani si arrendevano, il resto dei Greci si trincerò
sulla collina vicina e venne annientato dopo diverse ore di combattimenti. Nessun
racconto è in grado di riassumere gli ultimi istanti della lotta quanto quello
di Erodoto: “Qui si difesero fino all’ultimo, chi aveva ancora le spade
combatté con esse, e gli altri resistettero con le mani e con i denti”. Nessuno
si salvàò, ma i Persiani pagarono cara la vittoria: oltre 20mila morti. Tra i
Greci le perdite complessive furono valutate da Erodoto in 4mila uomini, anche
se gli storici moderni hanno ridimensionato la cifra, ipotizzando poco più
della metà.
Equipaggiamento
dei persiani.
Guerrieri persiani, probabilmente gli Immortali, da un dettaglio della Porta di Ishtar a Babilonia, ricostruita al Museo di Pergamo a Berlino
Gli
Immortali erano il corpo militare d’élite della guardia del re persiano. È lo
storico greco Erodoto, nelle sue Storie, a definirli Athanatoi, ovvero
Immortali. Nella loro lingua erano chiamati probabilmente Anusiya, che
significa compagni. Erano dotati di lancia, arco, daga, copricapo e uno scudo
in pelle o vimini, di forma rettangolare o ovale, molto leggero se paragonato
a quello greco.
La lancia
era più corta di quella greca. Aveva una punta di ferro e un contrappeso a
forma di melagrana.
Erano
dotati di un temibile arco e feretra per le frecce, che sapevano scoccare
alla perfezione.
La daga
completava la dotazione. Era una spada moto corta per il combattimento corpo
a corpo.
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La parola agli storici.
Lo storico Douglas Tung ha
scritto: “La battaglia delle Termopoli
fu una vittoria di Pirro, mentre offrì ad Atene tempo prezioso per prepararsi
alla battaglia decisiva”. Pochi studiosi oggi giorno sono ancora convinti
che possa essere interpretata come una mezza vittoria greca, perché le
conseguenze della sconfitta furono pesanti. Una volta annientati gli ultimi
difensori, per Serse si spalancarono le porti dell’Attica e Atene, alla mercé
delle truppe persiane, pagò cara la sua ostinata resistenza con estese
distruzioni. Pertanto un’analisi intesa a sostenere una vittoria di Pirro
persiana, che può sembrare logica solo se si prende in considerazione l’esito
finale della guerra, non tiene conto della reale e tragica situazione vissuta
dalla popolazione greca nell’immediato: il terrore delle rappresaglie, la
paura di un’umiliante sottomissione e la perdita della libertà. Quindi, non
ci sono dubbi che il risultato dello scontro vada letto come una netta
sconfitta, nonostante le pesanti perdite subite dal nemico. Il rischio che la
guerra fosse ormai decisa era piuttosto concreto, a meno di un miracolo
militare, come poi realmente avvenne. Ma di un esito così clamoroso del
conflitto, in quel momento, non c’era la certezza. È tuttavia fuori di dubbio
che la grande fama legata a questo scontro sia da attribuire al significato
che rivestì nel risaldare la determinazione degli Elleni: un esempio infinito
di coraggio e dedizione all’idea di libertà. Un esempio che sarebbe servito
per dare morale nel momento decisivo nella lotta, quando un mese dopo nelle
acque di Salamina la flotta greca annichilì quella persiana.
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