domenica 20 gennaio 2019

L’irriducibile nemica di Roma.


L’irriducibile nemica di Roma.
L’idea che la forza di Cartagine sia dipesa dalla potenza della sua flotta è contraddetta dalla natura di un impero che abbracciava vasti territori del Mediterraneo occidentale. Da qui l’esigenza di dotarsi di un esercito capace di affrontare tutte le sfide imposte dai nemici.

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Nell’immaginario collettivo Cartagine sembra un’entità apparsa dal nulla esclusivamente per ingaggiare quella lotta mortale contro Roma che l’avrebbe resa famosa per sempre. I tre lunghi e sanguinosi conflitti, passati alla storia come Guerre puniche, si protrassero per più di un secolo (264-146 a.C.), prima che venisse emesso quel verdetto auspicato da Catone nella famosa orazione “Cetero censeo Carthaginem esse delendam” (infine credo che Cartagine debba essere distrutta).
In realtà Kartago (com’era chiamata dai suoi abitanti) vantava una storia secolare, ancora più antica della Città Eterna, essendo stata fondata nell’814 a.C. da coloni provenienti dalla remota località fenicia di Tiro. Divenne presto una delle più ricche e popolose città del Mediterraneo, ma la vera svolta si materializzò nella prima metà del VI secolo a.C. quando la distruzione della madrepatria, per opera babilonese, le spalancò le porte di un’egemonia incontrastata. Non sappiamo con quale animo sia stata accolta questa notizia ma dalla pronta reazione del Senato cittadino si comprende che l’occasione fu colta al volo. Con cinica determinazione Cartagine rilevò l’eredità di Tiro, costituita da numerosi possedimenti marittimi, costringendo le altre colonie fenice (come Leptis Major, Adrumentum, Hippo Zartus) a sottostare al suo volere: abbattimento delle mura, pagamento di tributi e forniture di truppe. Dopodiché grazie un’aggressiva politica espansionistica, garantita da una potente flotta da guerra, riuscì a costruire un impero che nel III secolo a.C. avrebbe finito con l’abbracciare buona parte della Penisola iberica centro-meridionale, le Baleari, la Sardegna, la Sicilia (parzialmente) e il litorale dell’odierna Libia.

ricostruzione di Cartagine al tempo delle Guerre puniche 


Gli elefanti da guerra.

Raffigurazione degli Elefanti di Annibale Barca che attraversano il Rodano, di Henri Motte. nel 1878.

L’impiego di pachidermi in guerra ebbe inizio nel Subcontinente  indiano, per poi diffondersi, con la conquista macedone della regione del Vicino Oriente. In particolare tra i regni dei diadochi, i successori di Alessandro Magno. Dopodiché trovò impiego anche in Occidente. Se ne conoscevano due specie, quelle che oggi chiamiamo l’Elephant  maximus, di origine asiatica, e Loxodonta di origine africana. I Cartaginesi, che potevano disporre della seconda specie, catturata ai piedi dell’Atlante nell’attuale Marocco, cominciarono a impiegarli con una certa frequenza grazie agli insegnamenti di Santippo, ottimo conoscitore delle tecniche di combattimento ellenistiche. Nella battaglia di Tunisi contro le legioni di Attilio Regolo per esempio vennero disposti in prima linea di fronte alla fanteria e si rivelarono efficaci per mettere in crisi la formazione romana. Sappiamo dalle fonti che potevano alloggiare sul dorso una sorta di torretta (in realtà una cesta di vimini), in cui prendevano posto fino a quattro uomini tra arcieri e lancieri, e in talune occasioni erano protetti da corazzatura frontale più o meno pesante in funzione della stazza e delle necessità. Se ben addestrati e guidati potevano rivelarsi armi letali in grado di spezzare una formazione di fanteria  con incredibile facilità. Ma non mancavano certo le controindicazioni: erano animali imprevedibili, che se fatti innervosire o impauriti, potevano rivoltarsi contro i padroni. I Romani impararono presto a non temerli, sviluppando apposite tattiche che prevedevano l’impiego di armati alla leggera (velites) per bersagliarli da lontano o fali passare tra le linee per poi assalirli una volta isolati, come accade a Zama.




Oplita del Battaglione Sacro cartaginese (IV secolo a.C.)

UN ESERCITO “ANOMALO”. Per capire il segreto della potenza cartaginese bisogna andare al di là della sua potente componente navale e considerare la natura anomala delle forze armate, nelle quali l’apporto di truppe straniere fu sempre molto elevato e spesso predominante. A partire dal VI secolo, infatti, in coincidenza con l’espansione sul suolo africano, si assistette sempre più spesso all’impiego di contingenti forniti da popolazioni sottomesse o regni alleati, ma soprattutto di mercenari di provenienza libica e maura (fanteria), e numidica (cavalleria leggera). Un fenomeno che nei secoli successivi assunse caratteri sempre più marcati, quando Cartagine ebbe accesso, a seguito di ulteriori conquiste, ad altri centri di reclutamento sparsi nel Mediterraneo. Non stupisce pertanto trovare, a fianco dei soldati di origine africana, anche iberici, sardi, siculi, celti, liguri e celti. Le ragioni di una simile scelta sono da individuare nel costante deficit demografico che minava l’equilibrio della metropoli: interrotti i rapporti con la terra d’origine, infatti, Cartagine, per non mettere a rischio la sua stessa sopravvivenza, dovette limitare l’impiego bellico di truppe cittadine in maniera significativa. Sappiamo comunque che, in caso di bisogno, la popolazione poteva essere popolazione poteva essere chiamata alle armi. Se nei primi secoli (VIII-VII a.C.) era in voga la pratica di reclutare una milizia cittadina, a partire dalla fine del VI secolo a.C. fu istituito un corpo regolare il cui numero poteva variare a seconda delle necessità ed era armato alla maniera oplitica greca (scudo rotondo, corazza e schinieri, elmo, spada e lancia). Tra questi spiccava il Battaglione Sacro, un corpo d’élite quantificabile in 2500 giovani, arruolati nelle famiglie più abbienti, dalle cui file venivano scelti ufficiali di alto rango per guidare gli eserciti impegnati sia sul territorio metropolitano sia nei possedimenti d’oltremare. Le loro qualità dovevano essere eccelse perché l’incarico richiedeva doti tattiche e strategiche fuori dal comune. A loro spettava l’arduo compito di tenere uniti corpi del tutto eterogenei sia nel modo di combattere sia nell’equipaggiamento.
Basti pensare che quando Cartagine nel V e VI secolo a.C., dovette intervenire in Sicilia per cercare di limitare l’espansionismo greco fu costretta a mettere assieme eserciti in cui gli stranieri erano sempre più numerosi. Nella battaglia di Crimiso (341 a.C.) combattuta contro i siracusani e conclusasi con una clamorosa sconfitta, era presente una truppa quantificabile in 70mila uomini, ma il numero di punici a stento raggiungeva un settimo degli effettivi. Gli eserciti che presero parte all’esperienza siciliana videro per la prima volta, a partire dal V secolo a.C., forti contingenti iberici, in particolar modo frombolieri delle Baleari. Lo dimostrano alcuni eventi come l’assedio di Selinunte (409 a.C.), la conquista di Imera nello stesso anno, Agrigento (406 a.C.) e Siracusa (397-5 a.C.). Ma non sempre il loro apporto si rivelò determinante. Proprio a Siracusa, infatti, quando l’armata cartaginese, guidata da Imilcone II, fu costretta per una grave pestilenza e per la tenace resistenza di Dionisio I (tiranno della città) a ritirarsi in fretta e furia, gli unici che evitarono la prigionia furono proprio gli Iberici. E la ragione ce la spiega Diodoro Siculo “Gli Iberi si raggrupparono con le loro armi, e inviarono un messo per negoziare con il tiranno per entrare nelle file del suo esercito. Dionisio fece la pace con loro e li prese in servizio come mercenari”. Un esempio, tra i tanti, che dimostra come l’impiego delle truppe “al soldo” potesse riservare problemi: non si trattava infatti solo di dover insieme una massa eterogenea di combattenti, ma anche di correre il rischio che di fronte alla prime difficoltà questi reparti si sfilassero dai combattimenti.
Troupes carthaginoises Arverniales 2012.JPG

Ricostruzione storica delle truppe che composero l'esercito cartaginese

L’esercito di Annibale.
Quando Annibale attraversò le Alpi per invadere l’Italia nel 218 a.C. disponeva di un esercito che le fonti antiche quantificano in 50mila uomini, ben addestrati e motivati. Tra loro non mancavano un nucleo di fanti punico-libici, provenienti dall’Africa, iberici, celtiberi e celti, frombolieri delle Baleari e una forte componente montata tra cui spiccavano celtiberi e numidi. Insieme a questi uomini c’erano ben trentasette elefanti da guerra.


Amilcare
Amilcare e Annibale.JPG
Amilcare e Annibale. Cammeo in agata calcedonio di età romana. Conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli.
circa 290 a.C. – 229 a.C.
SoprannomeBarca
Morto aHelike
Cause della morteMorte in battaglia (annegamento)
Dati militari
Paese servitoCartagine
Forza armataEsercito cartaginese
Anni di servizio247 a.C. - 229 a.C.
GradoGenerale
GuerrePrima guerra punicaGuerra dei mercenari
Campagnedi Sicilia 247 a.C.-241 a.C., d'Iberia 237 a.C.-229 a.C.
Comandante diAnnibale Giscone
Altre carichePolitico, possidente terriero
voci di militari presenti su Wikipedia
Amilcare, soprannominato "Barak" (in punico "fulmine" o "saetta"; tale soprannome fu latinizzato poi in Barca290 a.C. circa[1] – 229 a.C.), è stato un generale e politico cartaginese.

I figli AnnibaleAsdrubale e Magone mantennero il soprannome del padre sotto forma di patronimico: vennero chiamati infatti "Barcidi"; in seguito, “Barca” finì per essere il cognome col quale la famiglia intera viene ricordata.

DA SANTIPPO AD AMILCARE. Per tutto il resto del IV secolo a.C. e nei primi tre decenni del successivo, il modo di combattere degli eserciti punici non andò incontro a significativi cambiamenti. Un drastico cambio di rotta invece avvenne con l’inizio della Prima guerra punica (264 a.C.) quando per Cartagine si profilò lo scontro mortale con Roma che era diventata la nuova potenza emergente nel Mediterraneo occidentale. La grave sconfitta di Adys (256 a.C.), patita in campo aperto e per di più su territorio africano, lasciò la città alla mercé del console Attilio Regolo. Per continuare la guerra c’era bisogno di un miracolo. Questo si materializzò nella comparsa di uno stratega spartano, Santippo, arrivato a Cartagine con un contingente di mercenari arruolato nell’Ellade. Egli fu capace di convincere il senato della città a lasciargli carta bianca per riorganizzare l’esercito. Il risultato fu l’adozione delle più moderne tattiche ellenistiche (di deviazione macedone) che prevedevano una linea compatta di fanteria (disposta a falange) al centro, con elefanti schierati di fronte, e cospicue forze di cavalleria sulle ali. Il fine era chiaro: sfruttare la mobilità della cavalleria per sorprendere il nemico sui fianchi e nella retroguardia. Un accorgimento nasceva proprio dalla consapevolezza di quanto ridotta e inefficiente fosse la cavalleria romana.
Dopo una intensa fase di addestramento, il responso sul campo non lasciò dubbi sulla bontà dell’intuizione. Nella battaglia di Tunisi (255 a.C.) l’esercito romano fu sconfitto con incredibile facilità. Come ricorda Polibio: “Un solo uomo, una sola mente, infatti, annientarono truppe che sembravano efficaci e imbattibili e riportarono in condizioni migliori uno stato visibilmente a terra e il morale abbattuto delle truppe”. La vittoria punica cambiò le carte in tavola e ridiede vigore al conflitto che sarebbe durato più di un decennio e si spostò in Sicilia, dove i  Romani furono messi in gravi difficoltà. Il merito va attribuito a uno dei più importanti uomini d’arme del tempo. Amilcare Barca (290-228 a.C.), padre del grande Annibale, capace di assimilare le nuove tattiche adattandole alle specifiche dinamiche dell’esercito punico. Ma non solo, fino all’inaspettata vittoria romana nella battaglia delle isole Egadi (241 a.C.) che mise fine alla Prima guerra punica riuscì a sorprendere il nemico con tattiche basate sulla mobilità e la sorpresa. I suoi eserciti non numerosi, ma bene addestrati sapevano manovrare alla perfezione e l’affiatamento tra i reparti era notevole. Gli insegnamenti di Santippo avevano dato i loro frutti, compresa l’enorme importanza della cavalleria e degli elefanti nell’economia della battaglia, una tecnica che fu portata a un livello di efficienza invidiabile. Un elemento che si dimostrerà fondamentale quando il conflitto riesplose nel 218 a.C.


I mercenari di Cartagine.

Fante del battaglione sacro.[47]

Una delle caratteristiche più interessanti dell’esercito cartaginese è che per tutta la sua esistenza dovette affidarsi a truppe di origine straniera, contingenti alleati, clientelari, ma perlopiù mercenari. Sappiamo della presenza di truppe cittadine ma nel complesso il loro impiego fu limitato. Pertanto, a fianco dei reparti di fanteria (in origine armata alal maniera oplitica greca e poi dal III secolo a.C. ellenistica) e alla cavalleria punica si potevano incontrare unità di origine e natura differente, provenienti da quasi tutte le regioni del Mediterraneo in cui era possibile arruolarle. Un compito che come ricorda Livio, relativamente a un episodio accaduto a Sagunto sul finire della Seconda guerra punica, era svolto da figure preposte: “In quello stesso periodo vennero catturati a Sagunto alcuni Cartaginesi che avevano una certa quantità di denaro e che erano passati in Spagna per reclutare truppe mercenarie. 250 libbre d’oro e 80 d’argento”. Saranno proprio queste truppe di fanteria o cavalleria, a fornire il maggior numero di effettivi per gli eserciti impiegati sia sul territorio metropolitano che d’oltremare, in particolare nel corso delle tre guerre puniche. Tra i reparti di fanteria più conosciuti ricordiamo i caetrati e gli scutari (fanteria leggera iberica  armata con un piccolo scudo rotondo, giavellotto e la famosa falcata iberica), celtiberi (fanteria pesante proveniente dalla Spagna settentrionale, fornita di cotta a maglia, lancia, scudo, giavellotto e spada celtica), celti (fanteria da urto con scudi ovali e spade lunghe), frombolieri delle Baleari (fanti leggeri armati di tre tipologie di frombola, a seconda delle distante da raggiungere che erano considerati i tiratori più abili in circolazione). Tra i reparti di cavalleria spiccavano la cavalleria leggera numida (equipaggiata con scudo rotondo in pelle, giavellotto e un piccolo pugnale) abile nelle azioni di schermaglia, quella iberica (medio pesante equipaggiata come gli scutari) e infine quella celtibera (pesante da urto).


Busto di Annibale (Museo archeologico nazionale di Napoli), uno dei maggiori strateghi della storia antica

IL GENIO DI ANNIBALE. Allo scoppio della Seconda guerra punica (218-202 a.C.) Amilcare era riuscito a raggiungere due obiettivi di grande rilevanza: mettere le basi per la formazione di un efficiente esercito costituito presumibilmente dai migliori reparti dell’epoca (cavalleria numidica e fanteria celtica e iberica) e preparare suo figlio, che lo aveva seguito in Spagna (a partire dal 240 a.C. Cartagine si assicurò il controllo di buona parte della Penisola iberica centro meridionale), a succedergli al comando, Annibale, infatti, non solo si dimostrò un ottimo allievo, capace di far sue le più moderne tattiche di combattimento, ma un condottiero fuori dal comune le cui dote strategiche e tattiche erano pari alla capacità di essere rispettato dai suoi uomini. Lo riconosce anche Livio quando scrive: “Molti videro spesso Annibale che giaceva a terra avvolto dal mantello militare, tra le sentinelle nei posti di guardia dei soldati. Era vestito in modo per nulla differente dai suoi simili. Attirava l’attenzione per le armi e il cavallo. Egli era il primo tra i fanti e i cavalieri, si recava in battaglia per primo, ultimo tornava …”. Una virtù che si dimostrò essenziale quando, dopo l’acclamazione a comandante in capo dell’esercito, decise di portare guerra a Roma invadendo l’Italia proprio dai possedimenti spagnoli. I suoi reparti erano costituiti in buona parte da mercenari – i migliori a cui potesse aspirare – ma allo stesso modo difficili da gestire. Solo le sue qualità di comando glielo avrebbero permesso. Dopodiché la cronaca delle sue imprese è entrata prepotentemente nella storia militare, diventato a suo modo una leggenda. Il terribile attraversamento delle Alpi, alla testa di un’armata quantificabile in 50mila uomini e 37 elefanti, fu solo il prologo, a cui fecero seguito i trionfi sul fiume Ticino e Trebbia (218 a.C.) e sul lago Trasimeno (217 a.C.). Ed è in occasione del primo scontro che seppe preparare i suoi al terribile compito che li attendeva: “Esiste una sola alternativa: vincere, o morire e degli uomini. Se  sotto il giogo romano. La vittoria non ci darà solo cavalli e vestiti, ma tutte le ricchezze di Roma, trasformandoci nei più felici. Se non riuscirete a combattere fino all’ultimo a combattere fino all’ultimo respiro, darete la vostra vita per un glorioso compito … è necessario combattere per vincere, e qualora ciò non sia possibile, meglio morire, poiché la vita non avrebbe alcuna speranza una volta sconfitti”. Queste parole non furono gettate al vento: lo dimostrano le vittorie puniche conseguite in rapida successione, culminando il 2 agosto del 216 a.C. a Canne dove si materializzò una delle pagine più buie della storia di Roma. Quel giorno in cui ben sedici legioni furono annientate, Annibale comprese di aver assimilato alla perfezione gli insegnamenti paterne, superandole: un sapientone impiego della cavalleria aveva permesso di far cadere il nemico in una trappola mortale. Polibio non ha dubbi: “Anche questa volta, come in passato, il numero dei cavalieri diede un contributo fondamentale alla vittoria dei cartaginesi, dimostrando che in guerra è meglio avere la metà della fanteria rispetto al nemico, ma essere più forti nella cavalleria”. Tra i fanti, truppe libiche a parte, figuravano Celti e Iberi che lo storico riferisce combattessero a torso nudo i primi e con corte tuniche di lino i secondi. Mentre sull’armamento aggiunge: “Quello dei libici era romano, poiché Annibale aveva equipaggiato tutti i suoi soldati con le spoglie raccolte nella battaglia precedente. Gli scudi degli Iberi e dei Celti erano molto simili tra loro, le spade erano invece diverse, in quanto quella degli Iberi colpiva sia di punta sia di taglio in modo devastante, mentre quella gallica si poteva usare solo di taglio, richiedendo perciò un ampio spazio per colpire”.



Battaglia di Canne (216 a.C.): distruzione dell'esercito romano

UN DESTINO ANNUNCIATO. Roma, dopo quella drammatica sconfitta, rimase in balia del nemico ma Annibale, cosciente di non potersi impegnare in un assedio senza fine, prese la decisione di non attaccarla, mettendo in atto una tattica di “terra bruciata” per togliere ai Romani l’appoggio degli alleati e costringerla alla resa. Fu una scelta carica di conseguenze, capace di far discutere gli storici ancora oggi, e che avrebbe mutato il corso del conflitto. Di fronte al rischio che la guerra si tramutasse in un disastro, il Senato romano u posto di fronte alla dura realtà: non si trattava più di debellare una minaccia, ma di lottare per la propria sopravvivenza. E in quel momento di massima disperazione fu trovata una coesione insperata. Il conflitto si trasformò in una lotta all’ultimo sangue e le legioni iniziarono la battaglia su più fronti, cercando di consumando Annibale senza mai accettare uno scontro in campo aperto.
Il passo successivo fu portare la guerra sul suolo cartaginese e il compito fu affidato a Cornelio Scipione. Il proconsole, sbarcato in Africa nel 204 a.C., iniziò una campagna di logoramento a C. e Cartagine fu costretta a richiamare il suo condottiero. Nella piana di Zama (202 a.C.), in uno scontro senza appello, andò in onda l’ultimo atto della guerra. La vittoria, sebbene l’esito della battaglia sia rimasto in bilico fino alla fine, arrise a Roma, capace di risorgere imparando da quell’ostinato nemico a mutare il suo modo di combattere per non soccombere. Quel giorno infatti, tra le file legionarie romane figuravano i temibili cavalieri numidi, che ebbero un ruolo essenziale nell’economia della battaglia. Per Cartagine era la fine. Non ci sarebbe stata più un’altra occasione per riprendere la lotta. La Terza guerra punica (149-146 a.C.) fu solo un tentativo disperato per non sottostare ai dettami di un trattato di pace umiliante. Assediata e conquistata, Cartagine fu distrutta fino alle fondamenta e i suoi abitanti venduti come schiavi. Quel destino che proprio Catone aveva previsto anni prima e una tradizione successiva ci ha tramandata in “Chartago delenda est…”

Riporoduzione del XIX secolo dell'assalto finale di Cartagine da parte dei Romani (146 a.C.)

Articolo in gran parte di Antonio Ratti pubblicato su Storie di guerre e guerrieri edizioni Sprea n. 20 altri testi e immagini da Wikipedia

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