mercoledì 16 gennaio 2019

Attacco a Saint-Nazaire Scacco alla Tirpitz.


Attacco a Saint-. Nazaire: Scacco alla Tirpitz.
Il rischio che la più potente nave da battaglia tedesca potesse operare in Atlantico era una minaccia troppo grande per l’ammiragliato inglese. E per impedire che il porto di Saint-Nazaire potesse fungere da base d’appoggio, nel marzo del 1942 prese il via una delle più incredibili operazioni militari della Seconda guerra mondiale.

Quanto la Royal Navy temesse la minacci della flotta di superficie tedesca era stato chiaro fin dal 23 maggio del 1941 con l’improvvisa apparizione della potente corazzata Bismarck e l’incrociatore pesante Prinz Eugen nello Stretto di Danimarca. Dopo pochi minuti d’intenso cannoneggiamento, alle sei del mattino, l’incrociatore da battaglia Hood, orgoglio della flotta di Sua Maestà, venne colpito da una salva ed esplose affondando in poco meno di cinque minuti. Degli oltre 1400 uomini di equipaggio solo tre si salvarono. Anche la nave di battaglia Prince of Wales fu raggiunta da numerosi colpi che provocarono estesi danni sia sul ponte sia sotto la linea di galleggiamento; tuttavia, piuttosto malconcia, riuscì a battere in ritirata grazie a una cortina fumogena. Chi ebbe modo d’assistere di persona agli eventi, ufficiali o semplici marinai che fossero, non poté che rimanere pietrificato di fronte a una simile potenza di fuoco e precisione di tiro. Sarebbero stati necessari quattro lunghi e drammatici giorni, e una delle più massicce operazioni navale che si ricordi, per avere la meglio sulla potente nave da battaglia della Kriegsmarine. Quando orma sembrava essere in salvo, per uno strano gioco del destino, fu individuata da un ricognitore isolato e sottoposta a una caccia serrata; centrata da un siluro di uno Swordfish, decollato dalla portaerei Ark Royal, che mise fuori gioco il timone, fu affondata dopo tre ore di agonia, incapace di manovrare, mentre era in rotta per il porto francese di Saint-Nazaire. Non avrebbe potuto dirigersi in alcun altro luogo. Lo scalo bretone era infatti l’unico in tutta la Francia occupata a disporre di un bacino di carenaggio in grado di ospitare, per le opportune riparazioni del caso, un simile gigante  dei mari da oltre 52mila tonnellate di stazza a pieno carico. (articolo completo sulla fine della Bismark lo trovate qui.

Il capitano Stephen Beattie.

Stephen Halden Beattie
Stephen Halden Beattie.jpgNato29 marzo 1908 
Leighton, MontgomeryshireMorto20 aprile 1975 (età 67) 
Mullion, CornwallSepolto
Ruan Minor Churchyard
Fedeltà Regno UnitoServizio / filiale Marina RealeAnni di servizio1927-1960RangoCapitanoComandi tenutiHMS CampbeltownBattaglie / guerreseconda guerra mondialePremi
Altro lavoroConsigliere navale del governo etiopico (1965)
Il capitano Stephen Halden Beattie VC (29 marzo 1908 - 20 aprile 1975) è stato un gallese destinatario della Victoria Cross , il più alto e prestigioso premio per la galanteria di fronte al nemico che può essere assegnato alle forze britanniche e del Commonwealth .
'Sam' Beattie è nato a Leighton, Montgomeryshire , dal Reverendo Prebendary Ernest Halden Beattie, MC e Ethel Knowles. È stato educato alla Abberley Hall School di Worcester . È entrato a far parte della Royal Navy nel 1925 come Cadetto di entrata speciale.

A comandare il cacciatorpediniere Campbeltown durante l’Operazione Charlot fu Sthephen Halden Beattle (1908-1975). Nella Royal Navy dal 1925, Beattle fu premiato con la prestigiosa Victoria Cross proprio per il raid di Saint-Nazaire.




USS Buchanan
HMS Campbeltown
USS Buchanan 1936.JPG
La nave nel 1936, quando portava ancora il nome di USS Buchanan.Descrizione generale
Flag of the United States (1912-1959).svg
Naval Ensign of the United Kingdom.svg
TipoCacciatorpediniereClasseClasse Wickes / Classe TownProprietàFlag of the United States (1912-1959).svg U.S. Navy
Naval Ensign of the United Kingdom.svg Royal NavyCantiereBath Iron Works di BathStati Uniti d'AmericaImpostazione29 giugno 1918Varo2 gennaio 1919Entrata in servizio20 gennaio 1919Destino finaleEsplosa il 28 marzo 1942nel porto di Saint-Nazaire, a seguito degli eventi dell'Operazione Chariot.Caratteristiche generaliDislocamentostandard 1.260Lunghezza95,81 mLarghezza9,3 mPescaggio3,7 mPropulsionequattro motori Normand a ritorno di fiamma, con turbine Brown-Curtis e due alberi motore; 30.000 shpVelocità35,5 nodi (66 km/h)Equipaggio158ArmamentoArmamentoartiglieria alla costruzione:
  • 4 cannoni da 102/50 mm
  • 1 cannone da 76/23 mm
  • 6 tubi lanciasiluri da 533 mm
dati tratti da [1]
voci di cacciatorpediniere presenti su Wikipedia
L'HMS Campbeltown era un cacciatorpediniere di classe Town attivo durante la seconda guerra mondiale; costruita originariamente per la United States Navy ed entrata in servizio il 20 gennaio 1919 con il nome di USS Buchanan della classe 4 pipes (nome familiare per indicare la classe Wickes), passò poi alla Royal Navy nel settembre del 1940 e venne da questa impiegata nel conflitto. La nave è particolarmente famosa per il ruolo giocato nell'Operazione Chariot il 28 marzo 1942, durante la quale andò perduta esplodendo all'interno del bacino di carenaggio di Saint-Nazaire, impedendone l'accesso per tutta la durata della guerra[1].



L’INCUBO TIRPITZ. Ma per la flotta di Sua Maestà il pericolo non era ancora stato debellato del tutto. La Bismark non era la sola nave da battaglia della sua classe. Il 25 febbraio del 1941 la gemella Tirpitz infatti aveva preso il mare al comando del capitano Friedrich Topp; assegnata inizialmente alla flotta del Mar Baltico, era stata in seguito dirottata nei fiordi norvegesi per contrastare una possibile invasione inglese e attaccare i convogli alleati che risalivano il Mare del Nord con destinazione Unione Sovietica. Eppure per l’ammiragliato inglese la sua presenza rimaneva una costante minaccia alla sicurezza; la possibilità che forzasse il blocco navale, come la Bismark era stata in grado di fare, e la possibilità di una sua scorreria in Atlantico erano un rischio che non poteva essere sottovalutato. In ballo c’era il controllo delle rotte che garantivano i rifornimenti essenziali per la sopravvivenza della stessa Gran Bretagna. Pertanto la Tirpitz non solo diventava un obiettivo di primaria importanza, ma ogni elemento in grado di garantire la sua operatività doveva essere eliminato con tutti i mezzi a disposizione. È per questa ragione che si sarebbe materializzata una delle più audaci e incredibili missioni della Seconda guerra mondiale, denominata in codice Operazione Chariot. E il bersaglio era proprio il porto di Saint-Nazaire con il suo spazioso bacino di carenaggio. Anche se la Tirpitz fosse stata in grado di operare in pieno oceano si sarebbe trovata senza alcuna struttura adeguata in grado di assisterla in caso di danni. Gli analisti militari inglesi arrivarono così alla conclusione che senza Saint-Nazaire i nazisti non si sarebbero mai azzardati a rischiare la loro preziosa nave da battaglia sull’Atlantico. Fu dunque proposta una serie di opzioni per distruggere definitivamente le infrastrutture del porto, scartando fin dall’inizio, in una fase del conflitto in cui il governo inglese era ancora riluttante a coinvolgere la popolazione civile, la possibilità di massicci bombardamenti della Royal Air Force (Raf). È probabile inoltre che l’effetto delle bombe non avrebbe potuto danneggiare seriamente il complesso. E una di seguito all’altra naufragarono le ipotesi di impiegare agenti segreti, per l’impossibilità di trasportare una tale quantità di esplosivo, e un’operazione in grande stile della marina con truppe da sbarco. Sarebbe stata individuata con largo anticipo e con conseguenze facilmente immaginabili.

Normandie Dock.
Il cacciatorpediniere inglese HMS Campbeltown dopo l'impatto con la chiusa del bacino di carenaggio del porto francese di Saint-Nazaire
Nel 1940, con la caduta della Francia sotto il giogo nazista, la Royal Navy capì fin da subito che il bacino di carenaggio di Saint-Nazaire sarebbe diventato l’unico in grado di ospitare le potenti navi da battaglia della Kriegmarine. Dal punto di vista strategico la sua presenza era estremamente pericolosa perché avrebbe consentito alle forze navali tedesche di disporre di un pericoloso accesso sull’Atlantico in grado di evitare il blocco navale della Royal Navy nel Mare del Nord e diventare un pericoloso spauracchio contro i convogli che rifornivano la Gran Bretagna. Pertanto era un obiettivo primario. I lavori del bacino di carenaggio Normandie Dock, ideato dall’ingegnere Albert Caquot, erano inizianti nel 1929 per essere terminati cinque anni più tardi. Quando divenne operativo poteva vantare dimensioni ragguardevoli per l’epoca: 350 metri di lunghezza, 50 di larghezza, 15 di altezza e un volume d’acqua pari a circa 260mila metri cubi. Il bacino era stato pensato per garantire l’accesso alla Loira, e quindi all’oceano atlantico, alle navi di grande tonnellaggio da Saint-Nazaire. Il porto manteneva un costante livello d’acqua con il bacino e permetteva ai vascelli di grandi dimensioni un facile accesso. Per operazioni di riparazione o costruzione l’invaso poteva essere svuotato, tramite complessi sistemi di pompaggio, e reso asciutto, permettendo di intervenire sulle parti della nave normalmente irraggiungibili perché sotto la linea di galleggiamento. Il bacino sarebbe divenuto famoso per i progetti realizzati dai Chantiers de l’Atlantique, tra i quali non si può dimenticare il noto transatlantico SS Normandie, capace di vincere il Nastro Azzurro nel 1935 e ripetersi nel 1937.



Immagine del porto di Saint-Nazairecon, sulla destra, il bacino di carenaggio Normandie Dock

L’ALTA MAREA DI MARZO. Fu invece un curioso fenomeno astronomico a cambiare completamente le carte in tavola. Per quel mese di marzo del 1942 era prevista una delle più ampie manifestazioni di marea in quel tratto d’Atlantico. E agli specialisti della Royal Navy non passò inosservato. Secondo lo loro previsioni una nave leggera avrebbe potuto superare i banchi di sabbia che si trovavano alla foce della Loira e avvicinarsi alle banchine portuali, aggirando il canale dragato, pesantemente difeso. Se il piano sembrava non adatto per una nave trasporto truppe era quasi certo che un cacciatorpediniere, opportunamente modificato e imbottito di grandi quantità di esplosivo, avrebbe potuto riuscire nell’impresa di penetrare la corazzatura delle porte del bacino di carenaggio per poi esplodere all’interno e renderlo inutilizzabile. Era pensabile inoltre che una nutrita componente di commando, sbarcando dal naviglio leggero, avrebbe potuto violare la munita base navale tedesca per mettere fuori gioco installazioni logistiche e di rifornimento; non ultime alcune infrastrutture impiegate per l’assistenza dei temibili U-Boot. La Raf, inoltre, avrebbe dovuto garantire un prezioso supporto aereo, da realizzare la sera prima, per impegnare le difese nemiche e consentire ai mezzi d’attacco di risalire il fiume indisturbati. Il primo ministro Winston Churchill approvò il raid ma fu perentorio su una cosa: il bombardamento avrebbe preso il via solo dopo aver individuato chiaramente i bersagli da attaccare. L’operazione pertanto, con opportune modifiche, fu approvata per il 28 marzo. Nessun dettaglio fu lasciato al caso. Un prezioso lavoro d’intelligence fu predisposto dalla NID (Naval Intelligence Division) mettendo insieme dati provenienti da fonti diverse: una dettagliata planimetria della città, informazioni sul posizionamento delle artiglierie tedesche e localizzazione dei campi minati. Fu calcolato che il tempo necessario a completare la missione avrebbe dovuto essere di circa due ore. L’aspetto più delicato dell’operazione era comunque la scelta dei mezzi da impiegare. L’ipotesi di mettere a disposizione due preziose unità, una per l’attacco, l’altra per il rientro della forza di spedizione, provocò un netto rifiuto dell’ammiragliato. L’idea di impiegare una vecchia unità francese, inizialmente ritenuta valida, fu poi scartata per ragioni di sicurezza, il fatto di dover utilizzare un equipaggio non inglese avrebbe potuto causare pericolose fughe di notizie e far perdere il prezioso effetto sorpresa. Si arrivò così a definire una strategia piuttosto elaborata: le squadre di commando sarebbero arrivate con siluranti o motovedette e l’operazione di sfondamento del porto sarebbe spettata all’HMS Campbeltown, comandato dal capitano di corvetta Stephen Beattie, un cacciatorpediniere fornito dalla marina statunitense in base ad accordi di cooperazione in tempo di guerra. Pertanto l’unità fu sottoposta a radicali trasformazioni, prima tra tutte un sostanziale alleggerimento (rimozione dei compartimenti interni e dell’armamento principale) per superare le secche alla foce della Loira; dopodiché fu aumentata la corazzatura della timoneria. Inoltre per camuffarlo, in modo che apparisse un vascello tedesco, due dei quattro fumaioli furono asportati. E infine a prua furono nascoste quattro tonnelate e mezzo di esplosivo ad alto potenziale fissate allo scafo con calcestruzzo. Il timer sarebbe stato programmato nell’immediatezza della fine del raid.

Commando britannici, fatti prigionieri dopo il raid, scortati da soldati tedeschi

La Tirpitz.

La politica di riarmo tedesca negli anni ’30, dopo la denuncia di Hitler che gli accordi sulla limitazione degli armamenti, fu portata avanti anche in campo navale. La Kriegsmarine, conscia di non poter competere con la Royal Navy in termini numerici, optò quindi per la realizzazione di corazzate che fossero tecnicamente all’avanguardia. E così nel ’36 fu impostata quella che sarebbe diventata il fiore all’occhiello della marina del Terzo Reich, la Bismark, seguito subito dopo dalla gemella Tirpitz. Potentemente armata, ben protetta e veloce era un vero gioiello della tecnologia. Ma il vero punto di forza di queste unità era un sistema di tiro estremamente efficiente, come avrebbe confermato l’unico combattimento navale contro le unità nemiche. Nello stretto di Danimarca l’incredibile precisione, fin dalle prime bordate, si rivelò micidiale, provocando l’affondamento del pur potente incrociatore da battaglia Hood e il danneggiamento della corazzata Prince of Wales. Proprio per questa ragione la presenza della Tirpitz in teatri operativi era per la Royal Navy una minaccia di primaria importanza. Sebbene la corazzata tedesca non venisse mai impiegata in combattimento rappresentò per gli inglesi una vera spina nel fianco. Ciò che in termini anglosassoni viene definito “fleet in being”, cioè tenere occupate una grande quantità di forze nemiche a causa della potenziale pericolosità.
Tipo: corazzata
Classe: Bismark
Lunghezza fuoritutto: 251 metri
Larghezza: 36 metri
Dislocamento a vuoto: 42.900 tonnellate
Velocità: 30 nodi
Autonomia: 8870 miglia nautiche a 19 nodi
Equipaggio: 2608 uomini tra cui 103 ufficiali
Sistema di scoperta Radar modello Fumo 23
Armamento:  8 x 380 mm SK C/34 (4 torri binate)
                      12 x 150 mm SK C/28 (6 torri binate)
                      16 x 105 mm SK C/33-37 (8 torri binate)
                      16 x   37 mm SK C/30 (8 affusti binati)
                      46 x   20 mm SK C/30-38

Difesa antinave: 8 tubi lanciasiluri da 533 mm

Aviazione imbarcata: due catapulte con quattro idrovolanti Arado Ar 196
Protezione: corazzatura verticale di 320 mm
                                         Orizzontale tra i 50 e gli 80 mm
Varata il 1° aprile ’39 prese il nome dal famoso ammiraglio Alfred von Tirpitz della marina imperiale tedesca (Kaiserliche Marine).
Prima ancora di essere realmente operativa la nave da battaglia divenne bersaglio di continui attacchi della Raf (Royal Air Force), subendo tra il luglio del ’40 e il febbraio dell’anno successivo, ben 16 bombardamenti aerei, senza comunque subire mai danni seri.
La nave divenne operativa il 25 febbraio del ’41 e il comando fu affidato al capitano Friedrich Karl Topp.
La Tirpitz fu definitivamente colata a picco il 14 novembre del ’44 in un fiordo in prossimità della città norvegese di Tromso. Dei 1700 uomini d’equipaggio ben 1058 perirono nell’attacco.
Venne soprannominata “Den ensomme Nordens Dronning”, ovvero la Regina solitaria del Nord, datole dai Norvegesi. 

UN ATTACCO “ALTAMENTE IMPROBABILE”. L’ufficiale a capo della forza di incursori, quantificabile in 265 uomini, era il tenente colonnello Charles Newman. A lui fu affidato il compito dell’organizzazione della missione e la costituzione di tre Gruppi operativi così suddivisi: due (gruppo 1 e 2) avrebbero viaggiato su naviglio leggero, mentre il terzo (gruppo 3) sarebbe stato imbarcato sul ponte della Campbeltown. Compito del primo gruppo era quello di neutralizzare i cannoni antiaerei posizionati in difesa del molo vecchio, uno dei principali obiettivi per assicurare il controllo dell’area durante le operazioni, mentre il secondo avrebbe dovuto attaccare il vecchio accesso al complesso e, una volta eliminate le difese, garantire protezione da eventuali contrattacchi. La squadra imbarcata sul cacciatorpediniere invece, dopo aver reso sicura l’area intorno alla nave una volta attraccata, si sarebbe dovuto occupare di distruggere il sistema di pompaggio e i congegni dell’apertura delle paratie stagne del bacino. Una volta portata a termine la missione prefissata, le squadre dei commando avrebbero dovuto rientrare alla base con i mezzi veloci rimasti ad attenderli. Un compito ben pianificato fin nei minimi particolari, ma non di facile realizzazione; il benché minimo errore avrebbe potuto rivelarsi fatale, con il rischio di trasformare l’operazione in un bagno di sangue. E le truppe tedesche non erano certo sprovvedute. La guarnigione di stanza nei dintorni di Saint-Nazaire era costituita da almeno 5mila uomini, mentre la difesa del complesso portuale era affidata al 280° Battaglione d’artiglieria navale, forte di 28 cannoni di vario calibro con compiti antinave. A completare lo spiegamento c’era anche la 22° Brigata d’artiglieria antiaerea dotata di temibili pezzi da 22 e 40 mm. Nel porto stazionavano inoltre anche alcune unità di Kriegsmarine (motovedette, posamine e almeno un cacciatorpediniere) e due flottiglie di U-Boot  (6 e 7 Unterseebootsflottile). E per ironia della sorte, proprio il giorno prima dell’attacco il comandate in capo della flotta subacquea, Karl Donitz, in visita alla base, rivolgendosi al comandante Herbert Sohler chiese come si sarebbe comportato in caso d’attacco di commando nemici. E questi sembra avesse replicato: “Un attacco alla base sarebbe un vero azzardo e pertanto altamente improbabile”.


nel raid vennero impiegati tre cacciatorpediniere, una cannoniera e 16 unità veloci (motovedette e siluranti immagini sopra) 

Royal Navy commando.

Commando britannici 

Per la marina britannica, man mano che il Secondo conflitto mondiale entrava nelle fasi più drammatiche, la creazione di squadre speciali d’assalto divenne una vera e propria necessità. Se i primi reparti furono formati solo all’inizio del 1942, alla fine della guerra se ne potevano contare ben 22. I loro compiti, dopo un severissimo addestramento (per rendere le operazioni ancora più realistiche venivano impiegate munizioni ed esplosivi veri) furono fin dall’inizio ben delineati: dallo sbarco in territorio nemico alla creazione di teste di ponte, fino a veri e propri raid con compiti di sabotaggio. Operativi pressoché su tutti i fronti di guerra (dall’Europa al Pacifico) si resero protagonisti di celebri missioni, cui Saint-Nazaire è senza dubbio una delle più eclatanti. Ma non mancarono anche terribili fallimenti, come il sanguinoso sbarco sulle spiagge di Dieppe in Normandia nell’agosto del ’42. In genere ogni unità poteva vantare grosso modo gli effettivi di una compagnia, alla cui guida era posto un ufficiale con il grado di capitano di corvetta, con 10 graduati e 65 specialisti, divisi in tre squadre. Le esercitazioni sia diurne che notturne prevedevano anche l’attraversamento di fiumi in assetto da combattimento, usando piccoli canotti gonfiabili.

L’INIZIO DEL RAID. La sera del 27 marzo, intorno alle 22, una curioso flottiglia guidata dal comandante Robert Ryder e salpata da Falmouth il giorno prima incrociava circa 60 miglia ala largo del porto di Saint-Nazaire. Era composta da tre cacciatorpediniere (l’HMS Campbeltown e due unità di scorta), una cannoniera e ben 16 unità veloci (motovedette e motosiluranti) su cui era imbarcata la maggior parte dei commando. Queste unità avrebbero dovuto neutralizzare le difese portuali e reimbarcare gli assaltatori una volta portata a termine la missione. Le unità, poco prima di dare inizio all’operazione, issarono la bandiera tedesca per cercare di trarre in inganno le difese nemiche. Poco prima della mezzanotte, come da programma, cinque squadroni della Raf cominciarono il bombardamento della città nella speranza di fornire un diversivo di un’ora e distrarre le difese tedesche. Le pessime condizioni metereologi che ebbero, però, l’effetto di disperdere i velivoli, tanto che solo quattro di loro riuscirono a centrare gli obiettivi prefissati. L’idea di impegnare il nemico si dimostrò esatta ma ebbe anche l’effetto d’insospettire il comandante della base. Fu pertanto diramato l’ordine di massima allerta. Tutto questo mentre, alle prime ore del 28 marzo, i mezzi inglesi, separatisi dalle unità di scorta, incominciarono a risalire la Loira. Tutto andò liscio fino all’una e 22, quando un potente fascio di luce illuminò il ponte di una delle motovedette, la cannoniera 314, dopodiché tramite segnali luminosi fu richiesta l’identificazione.
L’equipaggio dell’imbarcazione provò a replicare con un messaggio in base a un codice che era stato cattura in un peschereccio tedesco sull’isola di Vagsoy durante l’invasione in Norvegia del dicembre del 1941. Fu richiesto l’immediato ingresso al porto per i danni subiti dalle imbarcazioni nel precedente bombardamento inglese. Ma a quanto pare non ebbe effetto. Furono momenti infiniti, dopodiché una serie di detonazioni provenienti da una batteria costiera fecero capire che era questione di tempo prima che tutte le difese nemiche aprissero il fuoco. Pertanto all’una e 28 il comandante Beattie diede ordine di ammainare la bandiera tedesca e issare la White Ensign della Royal Nav: un razzo di segnalazione rosso trasmise l’ordine d’attacco. Lo scontro entrò subito nel vivo e l’intensità del fuoco tedesco iniziò ad aumentare. Il Campbeltown fu colpito ripetutamente e si verificarono le prime perdite in coperta. Beattie sapeva però di essere in prossimità dell’obiettivo, pertanto diede ordine di aumentare la velocità a 19 nodi per lanciarsi contro il bacino. All’una e 34 avvenne il terribile impatto. A quel punto i primi commando del Gruppo 3, divisi in cinque squadre, scesero a terra con il preciso obiettivo di mettere fuori uso parte delle installazioni: stazioni di pompaggio del bacino, meccanismi di apertura delle paratie e depositi. Nel complesso gli obiettivi furono raggiunti senza grosse perdite. Non altrettanto fortunati furono invece gli altri due Gruppi. Le loro motovedette furono quasi tutte colpite o messe fuori uso in fase di avvicinamento agli obiettivi prefissati: la 457 fu l’unica a poter raggiungere il molo vecchio, mentre la 177 riuscì ad attraccare in prossimità del vecchio accesso del porto. Per le altre il compito non poté essere portato a termine. A quel punto l’equipaggio del Campbeltown, dopo aver azionato le cariche di autoaffondamenti, si portò a poppa della nave per essere recuperato dall’unità 177; trenta uomini per lo più feriti furono fatti salire a bordo. Per gli altri fu però subito chiaro che non c’era possibilità di evacuazione in assenza di altre imbarcazioni disponibili. Anche il comandante delle squadre d’assalto, Newman, sbarcato dalla sua cannoniera, si attivò subito per contrastare il sempre maggior afflusso delle truppe nemiche, ma dopo un’accanita resistenza, a capo di almeno cento incursori, si rese conto che la possibilità di ritirarsi via mare era ormai tramontata. Dopo aver riunito i sopravissuti diramò tre ordini moto stringati: “Fate il vostro meglio per rientrare in Inghilterra”, “Non arrendersi finché le munizioni non saranno esaurite”, “Non arrendersi per niente, se in grado di farne a meno”. Si sarebbero fatti strada dalla città vecchia attraverso un ponte, sotto il fuoco delle mitragliatrici, per poi avanzare nella città moderna. Intenzionati a disperdersi in aperta campagna furono ben presto circondati e, una volta terminate le munizioni, costretti ad arrendersi.
Ma non tutti gli uomini furono catturati, cinque di  loro riuscirono nell’impresa di raggiungere la Spagna neutrale ed essere rimpatriati in Inghilterra. Per le imbarcazioni superstiti la via del ritorno fu un autentico calvario. La 177 per esempio, aveva caricato con successo alcuni membri del cacciatorpediniere, ma fu colpita mentre cercava di raggiungere l’estuario. Anche la 269, una motosilurante con il compito di attirare il fuoco nemico muovendosi a grande velocità sul fiume fu raggiunta da diversi colpi e il suo meccanismo di guida risultò danneggiato. Furono necessari diversi minuto per poterlo riparare, dopodiché dovette affrontare un peschereccio armato apparso all’improvviso; colpita più volte fu messa fuorigioco da un violento incendio all’apparato motore. Anche la 306 fu sorpresa dal fuoco nemico; il sergente Thomas Durrant, addetto alla mitragliatrice, sebbene ferito, rifiutò di abbandonare il suo posto per farsi medicare. Quando l’unità riuscì a raggiungere il mare aperto fu attaccata da una silurante tedesca; ferito nuovamente Durrant si rifiutò di arrendersi, nonostante le reiterate offerte del comandante nemico. Sarebbe morto dopo poco senza distaccarsi dalla sua arma. Anche il comandante Ryder, sbarcato dalla sua cannoniera e assicuratosi che la Campbeltown fosse bene penetrata nel bacino di carenaggio, dopo aver fatto salire a bordo alcuni componenti del suo equipaggio decise di lanciare alcuni siluri contro le paratie del bacino per provocare ulteriori danni alla struttura. Dopodiché posizionò la sua motosilurante in prossimità del molo a mezzo fiume per contrastare il fuoco dei pezzi tedeschi. ma la situazione stava orma precipitando; non poté che constatare che le altre unità intorno a lui erano in fiamme (ne contò almeno otto) e che i luoghi in cui erano avvenuti gli sbarchi erano stati riconquistati dal nemico.
Non c’era altro che si potesse fare per i restanti commando. Sulla via del ritorno il mezzo fu continuamente illuminato dai riflettori e colpito almeno sei volte, mai in maniera grave. Quando la motocannoniera entrò in mare aperto le artiglierie costiere continuarono a bersagliarla, provocando alcune perdite tra i membri dell’equipaggio.
All’appuntamento con i cacciatorpediniere HMS Alberston e Tynedale, rimasti in attesa al largo di Saint-Nazaire, si sarebbero presentate solo tre imbarcazioni (la 160, 307 e 443). Per le altre non c’era più nulla da fare. Giunsero al punto di raccolta e aspettarono l’arrivo delle navi. Ma i pericoli erano ancora in agguato. L’attacco di due bombardieri tedeschi, uno Junkers 88 e un idrovolante Blohm and Voss, fu sventato solo dalla prontezza degli addetti ai pezzi antiaerei. I sopravvissuti sarebbero arrivati in Inghilterra solo il giorno successivo.

Charles Newman.jpg
tenente colonnello Augustus Charles Newmann ufficiale a capo della forza di incursori durante l'operazione Charlot

Caccia serrata alla Tirpitz.
Tirpitz altafjord.jpg
corazzata Tirpitz 

il comandante Friedrich Karl Topp ispezione i marinai della Tirpiz


L’ammiragliato inglese cercò in tutti i modi e con tutti i mezzi di eliminare lo spauracchio della Tirpitz. Per quanto relegata nei fiordi norvegesi, era pur sempre una minaccia troppo grande per i convogli nel Mare del Nord. I primi tentativi di attacco furono però infruttuosi. Questo almeno fino al settembre del 1943, quando fu organizzata un’ambiziosa missione, chiamata in codice Operazione Source con minisommergibili della classe X. Si trattava di trainare sei di questi mezzi all’imboccatura del fiordo di Arta, dov’era nascosta l’unità tedesca, tramite sommergibili standard, per poi penetrare le difese nemiche e rilasciare le cariche ad alto potenziale sotto lo scafo della corazzata. Sebbene per problemi tecnici solo tre di essi riuscissero a prendere parte al forzamento del porto, l’X6 riuscì ad avvicinarsi alla Tirpitz quanto bastava per rilasciare le cariche che sarebbero esplose poco dopo. La corazzata rimase a galla ma riportò danni gravissimi: le quattro torri binate da 380 si staccarono dai basamenti, uno dei pezzi da 150 rimase bloccato e il sistema di puntamento fu messo fuori gioco. Inoltre l’asse delle eliche di babordo subì torsioni così accentuate da impedirne il funzionamento. Eppure la pesante corazzatura e le porte stagne impedirono alla nave di affondare. L’entità dei danni rimase però sconosciuta agli inglesi. Fu decisa pertanto una serie di missioni aeree. Nell’aprile del 1944 una grossa squadra navale lanciò 42 bombardieri su due ondate. Alcune bombe da mezza tonnellata esplosero sulle torrette e penetrarono nei compartimenti sottostanti provocando molte perdite dell’equipaggio. Nel complesso però la nave non subì che danni superficiali. Tre ulteriori missioni, programmate tra aprile e maggio, furono annullate per le pessime condizioni atmosferiche, mentre il 17 luglio l’operazione Mascot mancò il bersaglio per la presenza di una cortina fumogena. Vista la difficoltà di impiegare velivoli leggeri si ricorse a bombardieri pesanti. Il 27 ottobre 27 Lancaster della Raf, che impiegavano potenti le potenti bombe Tallboy da oltre cinque tonnellate, riuscirono a colpire la nave con un ordigno che trapassò il ponte ed esplose in mare, provocando gravi deformazioni allo scafo. Vista l’impossibilità di portare la nave in Germania per riparazioni, l’ammiraglio Donitz ordinò che fosse rimorchiata in acque poco profonde in un fiordo in prossimità di Tromso. Ma ormai il destino della Tirpitz era segnato. Il 12 novembre 31 Lancaster riuscirono a mandare a segno tre Tallboy che perforarono il ponte corazzato al centro della nave ed esplosero nella sala caldaie, aprendo un pauroso squarcio nella chiglia.  Dopo alcuni minuti d’agonia la nave si capovolse completamente portando con sé oltre mille uomini. Il mito della Regina solitaria del Nord, com’era chiamata dai locali dopo l’affondamento della Bismarck, s’era concluso nel modo più drammatico. Ciò che restava della possente nave da battaglia, orgoglio della Kriegsmarine, fu demolito dal governo norvegese tra il 1948 e il 1957.  
La Tirpitz capovolta nel fiordo di Tromsø


LA CAMPBELTOWN ESPLODE. Le cariche nascoste a bordo della Campbeltown detonarono a mezzogiorno e provocarono ingenti danni al bacino di carenaggio. L’esplosione fu così potente da generare un vero muro d’acqua che spazzò via anche due petroliere attraccate alle banche del porto. E quando, quasi un mese dopo, i ricognitori della Raf sorvolarono l’area scattando foto del bacino, ciò che restava della nave inglese era ancora ben visibile. Ma cos’era successo veramente? In base alla testimonianza del capitano Robert Montgomery, facente parte della forza d’assalto, la Campbeltwon sarebbe dovuta esplodere alle 4 e 30 del mattino, ma la formazione di acido nei sistemi d’innesco provocò un’esplosione ritardata. Questo mentre nel frattempo sempre più inglesi catturati affluivano al quartier generale tedesco. L’uomo ricorda come “Poco prima che la Campbeltown esplodesse, Beattie era stato interrogato da un ufficiale tedesco, che affermò che non sarebbe voluto molto tempo per riparare i danni causati dalla Campbeltown. Proprio in quel momento andò in pezzi”.
L’esplosione mise fuori gioco il bacino fino al termine della guerra. Il prezzo pagato fu molto pesante. Dei 622 uomini della Royal Navy e delle forze d’assalto che presero parte all’azione solo 228 tornarono in patria. Almeno 169 furono uccisi e altri 215 presi prigionieri. La reazione di Hilter fu furibonda; non era ammissibile che una simile flottiglia fosse riuscita a a forzare uno dei porti più muniti del Terzo Reich risalendo la Loira senza essere avvista in anticipo. E la sua furia si abbatté sul generale Carl Hilpert, comandante in capo della Wehrmacht per il fronte occidentale, che fu sollevato dal comando.
Da quel momento per i tedeschi il Vallo atlantico sarebbe diventato una vera ossessione e molte risorse furono spese per rendere sicuri i porti e impedire che simili raid potessero ripetersi. Dal giugno del 1942 in poi si sarebbero prodigati per la realizzazione di un vasto sistema difensivo, sotto al diretta supervisione del ministro del armamenti Albert Speer, che prevedeva la costruzione di almeno 15mila bunker per difendere la costa atlantica dalla Norvegia alla Spagna. Per contro il raid inglese aveva raggiunto il suo obbiettivo: grazie al coraggio e all’intraprendenza degli inglesi la Tirpitz non sarebbe mai entrata in Atlantico, rimanendo ancorata nei fiordi della Norvegia per tutto il corso della guerra. Questo almeno fino al fatidico 12 novembre 1944 quando le bombe della Raf la affondarono.

Articolo in gran parte di Antonio Ratti pubblicato Storie Collection di guerre e guerrieri, anthology extra n. 1 altri testi e foto da Wikipedia.


Nessun commento:

Posta un commento

I vichinghi, gli eroi delle sagre.

  I   vichinghi gli eroi delle saghe. I popoli nordici vantano un tripudio di saghe che narrano le avventure di eroi reali o di fantasia. ...