Scacco matto a Napoleone.
Alle porte di Mosca
l’imperatore francese colse l’ennesimo successo della sua formidabile carriera,
ma non fu il trionfo che cercava. Non servì a piegare la tenacia dello Zar e fu
l’inizio della rovinosa conclusione della campagna di Russia.
Battaglia di Borodino parte della Campagna di Russia | |
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La battaglia di Borodino (o della Moscova) | |
Data | 7 settembre 1812 |
Luogo | Borodino, Russia |
Esito | Vittoria francese non decisiva |
Schieramenti | |
Comandanti | |
Effettivi | |
Perdite | |
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La battaglia di Borodino, conosciuta nella storiografia francese come battaglia della Moscova (7 settembre 1812[5]), fu combattuta durante la campagna di Russia e fu una delle più grandi e sanguinose battaglie delle guerre napoleoniche; coinvolse oltre 250.000 soldati delle due parti, con la perdita, tra morti e feriti, di circa 80.000 uomini. Napoleone la definì "la più terribile delle mie battaglie"[3].
Il 7 settembre
del 1812, nei pressi del villaggio russo di Borodino, a 125 chilometri da
Mosca, si combatté, secondo la definizione che ne avrebbe dato lo stesso
imperatore francese la più terribile delle battaglie napoleoniche. In effetti,
fu uno dei più sanguinosi scontri della Storia: coinvolse oltre 250mila soldati
e le perdite nei due fronti contrapposti, russo e francese, ammontarono a oltre
80mila uomini tra morti e feriti. Tecnicamente a vincerla furono i transalpini,
ma la loro incapacità di sbaragliare completamente l’esercito avversario,
soprattutto di fiaccarne la resistenza e lo spirito combattivo, la
trasformarono in una vittoria mutilata, inutile al fine di sottomettere la
Russia, obiettivo per raggiungere il quale Napoleone Bonaparte aveva mobilitato
oltre 600mila uomini, una delle più grandi armate che si fossero mai viste sui
campi di battaglia.
Francia
e Russia erano ufficialmente alleate dal luglio del 1807, da quando le firme in
calce agli accordi di Tilsit avevano chiuso la guerra della Quarta coalizione.
Ma l’intesa tra Napoleone e lo zar Alessandro I risultò subito fragile, esposta
com’era alle frequenti frizioni figlie degli opposti interessi politici ed
economici dei due Paesi. Durante la guerra della Quinta coalizione (1809) lo
zar non collaborò, come Napoleone si sarebbe atteso, per arginare il nemico
austriaco, mentre contemporaneamente mieteva successi sul Danubio nel conflitto
contro i turchi e sottraeva la Finlandia alla Svezia. E il successivo rifiuto
di Alessandro di concedere all’imperatore francese la mano della sorella Anna
suggellò, unitamente al fallimento delle trattative diplomatiche sul destino
della Polonia, la definitiva frattura tra i due monarchi. Il conflitto fu reso
inevitabile anche dal disimpegno russo dal Blocco Continentale, l’isolamento
commerciale dell’Inghilterra imposto da Napoleone per fiaccare la resistenza di
Londra: un embargo che si era dimostrato un salasso per le finanze russe e che
lo zar decise infine di aggirare su pressione di aristocrazia e imprenditori.
Napoleone
sperava di portare l’ex alleato a più miti consigli concentrando ai confini
russi il più colossale esercito che si fosse mai visto prima di allora: la
pressione psicologica della Grande armata avrebbe dovuto indurre lo zar a un
gesto distensivo, in alternativa l’imperatore francese contava su una guerra
lampo da risolversi con uno scontro risolutivo nell’arco di un mese. Ma
Alessandro I coltivava altri progetti. In un primo tempo accarezzò l’idea di
muovere lui stesso, e per primo, contro i francesi; per questo tentò
segretamente di conquistare l’alleanza di Prussia e Austria, ma i due Paesi,
apertamente minacciati da Napoleone, finirono per piegarsi al giogo francese e
contribuire alla formazione dell’esercito d’invasione con alcuni contingenti. Informato
dallo straordinario concentramento di truppe nemiche in Germania e Polonia, lo
zar finì per ritagliarsi il ruolo che più gli si confaceva, quello di difensore
dell’Europa dal dispotismo napoleonico; escluse quindi di muovere il primo
passo e preparò l’esercito e il Paese all’imminente invasione, pronto ad
applicare la strategia della terra bruciata e del ripiegamento strategico verso
l’interno, così da attirare il nemico in trappola.
UN AVVERSARIO SFUGGENTE. La
Grande armata napoleonica, che tra il 23 e il 25 giugno 1812 varcò il fiume
Niemen, contava oltre 600mila effettivi, metà dei quali di nazionalità
francese, corroborati da 180mila tedeschi, 90mila polacchi e lituani, e infine
32mila soldati provenienti dal Regno d’Italia e di Napoli. Uno spiegamento di
forze senza precedenti, che tuttavia rivelò bene presto il suo punto debole
nella inadeguatezza dei comandanti: Napoleone aveva dovuto infatti rinunciare
ai suoi veterani, impegnati nella penisola iberica in una guerra di logoramento
imposta da spagnoli e portoghesi con il sostegno dell’odiata Inghilterra.
Di
contro, l’esercito russo che affrontava l’avanzata napoleonica era affidato a
due comandanti molto diversi tra loro: Michael Andreas Barklay de Tolly figlio
dell’alta nobiltà prussiana seppur di origine scozzese, colto ed esperto
stratega, era però inviso alla ristretta cerchia di corte perché non russo;
viceversa il georgiano Peter Ivanovic Bagration, meno raffinato del collega,
era l’alfiere dello spirito nazionale russo. I due generali potevano contare su
un esercito superiore ai 400mila uomini, di cui oltre 200mila disponibili per
la prima linea, 45mila schierati in seconda e 150mila dislocati nelle
guarnigioni e nelle formazioni di riserva. Dopo la sconfitta del 1807, lo zar
aveva promosso un profondo ammodernamento del suo esercito, sia dal punto di
vista logistico e amministrativo sia da quello dell’equipaggiamento, ma la
scarsa cultura e preparazione dei quadri intermedi, la pesante burocrazia che
zavorrava lo Stato Maggiore e una certa confusione strategica dei comandante in
capo – a cui contribuiva non poco la presenza intorno allo zar di uno stuolo di
consiglieri militari stranieri – lo rendevano ancora incapace di reggere il
confronto con l’armata francese.
Entrato
in Russia, Napoleone vide materializzarsi proprio quello scenario che aveva
inteso scongiurare. Di fronte alle sue armate in avanzamento si muoveva un
nemico invisibile, sfuggente, impegnato soltanto a indietreggiare e per nulla
disposto - più per paura che per scelta
– allo scontro in campo aperto. Cercando disperatamente la battaglia decisiva,
ai napoleonici non restò che addentrarsi nella steppa infinita, costellata di
villaggi distrutti e depositi di grano dati alle fiamme dagli stessi russi.
L’inseguimento sfiancò l’armata che, giorno dopo giorno, vide assottigliarsi i
rifornimenti e lasciò per strada uomini e cavalli, sfiniti dalla fatica e dalla
fame, stremati dal caldo torrido alternato agli improvvisi acquazzoni. E quando
finalmente l’avanguardia intravide la retroguardia nemica, l’insipienza dei
comandanti rese vano ogni tentativo di attacco. Lo stesso fratello
dell’imperatore, Girolamo, fu pesantemente redarguito da Napoleone e preferì
lasciare l’impresa. Dopo scaramucce e scontri di poco conto, il 17 agosto
l’imperatore vide a portata di mano la possibilità di bloccare i russi
nell’antico villaggio di Smolensk. La manovra di aggiramento progettata
dall’Aquila corsa riuscì però soltanto inizialmente, perché l’inadeguatezza
tattica dei suoi subordinati e la strenua resistenza russa gli impedirono di
cogliere il successo totale. Quando, il giorno dopo la battaglia, i primi
napoleonici entrarono nella città distrutta dall’artiglieria e dal fuoco
appiccato dai russi in fuga, trovarono solo cadaveri; del nemico, che era
ripiegato per tempo evitando la disfatta, nemmeno l’ombra.
Napoleone
valutò anche l’ipotesi di fermarsi per l’inverno e rinunciare al progetto di
guerra lampo, ma lo sgomentava l’eventualità di una prolungata assenza
dall’Europa e da Parigi, dove i suoi nemici avrebbero potuto rialzare la testa,
soprattutto perché non era stato ancora in grado di cogliere quel trionfo che
li avrebbe zittiti. Considerando l’insieme delle circostanze e delle
possibilità e convinto che una marcia sulla città santa di Mosca, con
conseguente conquista dell’antica capitale, avrebbe inferto un colpo decisivo
alla capacità di resistenza dei russi e alla tenacia dello zar, dopo una
settimana di sosta Bonaparte decise di lasciare Smolensk e il 25 agosto riprese
l’avanzata verso
(Reindirizzamento da Michail Kutuzov)
Michail Illarionovič Goleniščev-Kutuzov Михаил Илларионович Голенищев-Кутузов | |
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16 settembre 1745 – 28 aprile 1813 (67 anni) | |
Nato a | San Pietroburgo |
Morto a | Bolesławiec |
Dati militari | |
Paese servito | Impero russo |
Forza armata | Esercito imperiale russo |
Anni di servizio | 1759 - 1813 |
Grado | Maresciallo di campo |
Guerre | Guerra russo-turca (1768-1774) Guerra russo-turca (1787-1792) Guerra russo-turca (1806-1812) Guerre napoleoniche |
Battaglie | Battaglia di Austerlitz Battaglia di Borodino Battaglia di Beresina |
Nemici storici | Napoleone Bonaparte |
Comandante di | Forze Austo-Russe nella Terza coalizione Esercito imperiale russo |
fonti nel corpo del testo
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Michail Illarionovič Goleniščev-Kutuzov, in russo: Михаил Илларионович Голенищев-Кутузов?,[1] principe di Smolensk (San Pietroburgo, 16 settembre 1745 – Bolesławiec, 28 aprile1813), è stato un generale russ
Le fasi della battaglia.
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Fase
1: attacco francese e risposta russa.
Alle sei del mattino del 7 settembre
1812 un forte bombardamento delle artiglierie francesi sulle posizioni russe
segna l’inizio della battaglia. Gli uomini del principe Eugenio penetrano nel
paese di Borodino. Al centro del fronte, i contingenti affidati al
maresciallo Davout, lasciando molte vittime sul campo, prendono le
fortificazioni in cui è attestato il generale russo Andrej Borozdin. A sud il
generale Poniatowski ha la meglio sui contingenti russi schierati presso il
villaggio di Utitsa. La reazione russa non si fa attendere: Kutuzov utilizza
le riserve per rinforzare i settori più minacciati: Eugenio viene ricacciato
da Borodino dopo aver provato ad
attaccare le posizioni nemiche di Gorkij; anche Davout è costretto a tornare
indietro e l’avanzata a sud di Poniatowski viene arrestata da un fitto fuoco
di sbarramento delle artiglierie.
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Fase
2: Murat e il mancato impiego della guardia imperiale.
L’epicentro della battaglia si sposta
intorno alla Grande ridotta, fortificazione russa armata di venti cannoni
pesanti, e nei pressi della ridotta delle Tre frecce; qui Napoleone spedisce
anche la cavalleria per provare la spallata decisiva. Alle 8,30 del mattino
con l’imperatore è rimasta soltanto la Guardia imperiale. Alle dieci parte un
largo attacco francese alle posizioni rette dal generale russo Bagration, sul
centro-sud della linea del fronte. I francesi hanno la meglio, il generale
russo viene ucciso durante l’azione e i suoi soldati arretrano abbandonando
le posizioni. La cavalleria di Murat prova a dare il colpo di grazia al
nemico, ma i russi resistono e si ricompattano. Servirebbe l’impiego dei
veterani della Guardia imperiale francese che però Napoleone si rifiuta di
gettare in campo.
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Fase
3: la presa della grande ridotta.
Un contrattacco russo su Borodino
viene rintuzzato, quindi alle due parte l’attacco decisivo contro la Grande
ridotta condotto dal principe Eugenio, sostenuto nel suo sforzo da 400
cannoni e tre divisioni. Risulta decisivo l’aggiramento del nemico da parte
della cavalleria francese che prende i russi alle spalle. A costo di gravi
perdite la ridotta cade e tutti i resistenti russi vengono massacrati. Nel
fronte nemico si è aperta una falla nella quale si infila Eugenio che,
tuttavia, deve arrestare la penetrazione a circa un chilometro a est della
postazione fortificata quando la cavalleria russa, più fresca e numerosa, gli
impedisce il passo.
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Fase
4: il riposizionamento russo e la ritirata.
dopo ulteriori scaramucce non decisive, alle cinque del pomeriggio il generale Kutuzov fa arretrare i suoi su posizioni più a est, meno difese di quelle precedenti ma pur sempre difficili da conquistare per gli esausti francesi. Il ripiegamento è il preludio al disimpegno russo. Nessuno sul fronte francese – a parte Murat ha più intenzione di inseguire il nemico, nemmeno Napoleone che si accontenta di una vittoria tecnica. Kutozov, che ha salvato il suo esercito dalla disfatta, comincia la ritirata all’alba dell’8 settembre. |
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STRATEGIE SUL CAMPO. Il
destino sembrò finalmente arridergli quando, sul fronte russo, le proteste
degli aristocratici e il malcontento popolare per quella tattica rinunciataria
che aveva portato il nemico alle porte di Mosca convinsero lo zar ad affidare
l’esercito all’esperto generale Michail Kutuzov. Consapevole della superiorità
francese, il vecchio e autorevole uomo d’armi fece leva sul nazionalismo
chiamando i russi alla resistenza contro l’esercito invasore, da lui descritto
come ateo e diabolico, quindi, seppure a malincuore, si convinse ad accettare
la battaglia: avrebbe preferito attendere un ulteriore logoramento del nemico,
ma era impensabile perdere Mosca senza nemmeno combattere.
Kutuzov
si prese il vantaggio di scegliere il terreno dello scontro e fece attestare il
grosso dell’esercito nei dintorni del villaggio di Borodino, dove le truppe
avrebbero goduto del doppio vantaggio di avere le estremità coperte, a destra
dal fiume Koloka, a sinistra da un bosco dove difficilmente il nemico avrebbe
potuto far manovrare grandi contingenti di uomini. Il settore centrale venne
munito di nuove fortificazioni per agevolare la difesa in un terreno già ricco
di ostacoli naturali (avvallamenti, ruscelli e boschi): la strada per Mosca fu
così presidiata da due fortificazioni, quella di Shevardino e la Grande
Ridotta; più a sud, tre terrapieni a forma triangolare, le cosiddette Tre
Frecce, erano stati completati solo parzialmente e non offrivano una grande
protezione a truppe e artiglieria. Il 5 settembre i francesi arrivarono a
Borodino e già dal pomeriggio si scatenarono i primi combattimenti intorno alla
ridotta di Shevardino. In serata la tenace resistenza russa dovette arrendersi
all’impeto del nemico e la ridotta fu conquistata dai francesi, che poterono
così attestarsi a sud del fiume Koloka. Nonostante la prima parziale sconfitta,
i russi consolidarono le loro posizioni: potevano contare su 120mila unità, di
cui 17mila di cavalleria regolare e 7mila cosacchi, 10mila combattenti della
milizia, 640 cannoni con 14500 artiglieri e 72mila fanti, tutti schierati su un
ampio fronte di otto chilometri al fine di scongiurare il pericolo di un
aggiramento, tra il punto di confluenza della Koloka con la Moscova a nord e il
villaggio di Utitsa a sud. Borodino funzionava da punto di congiunzione tra
l’armata di Barclay, l’ala destra, e quella di Bagration, a sinistra. Il
quartier generale di Kutuzov era in posizione appena arretrata rispetto alla
prima linea, sulle alture di Gorkij. La lunga linea russa era disposta a
semicerchio con fronte a nord-ovest; l’armata di Napoleone era posta di fronte
a loro e poteva contare su cinque corpi d’armata di fanteria e la guardia, in
tutto 103mila fanti, 28mila cavalieri e 587 cannoni. La sostanziale equivalenza
delle forze convinse l’imperatore a scartare la tattica dell’aggiramento sul
fianco del nemico – quello russo a sud risultava palesemente più fragile e
poteva essere attaccato – per concentrarsi invece sulla posizione centrale e in
particolare sulla Grande ridotta. Per questo motivo il 6 settembre, la vigilia
della battaglia, l’imperatore fece approntare tre ponti sulla Koloka attraverso
i quali passarono i 120 cannoni che avrebbero dovuto tambureggiare proprio la
più importante delle fortificazioni nemiche. Tuttavia l’inadeguatezza di alcuni
suoi subordinati, che posizionarono le artiglierie troppo lontano
dall’obiettivo, la mattina del 7 settembre, all’inizio dello scontro, fece
perdere ai francesi tempo prezioso per il riposizionamento delle bocche da
fuoco.
L'artiglieria e la fanteria francesi si schierano per la battaglia.
COMINCIA LA CARNEFICINA. All’alba
del 7 settembre il fitto cannoneggiamento francese sulle posizioni russe diede
il via alla battaglia. le divisioni a cui era stato affidato il primo assalto,
complice la nebbia che gravava sulla zona, poterono avvicinarsi al nemico
e sferrare un attacco di forza: gli
uomini del principe Eugenio de Beauharnais si impadronirono del villaggio di
Borodino, quelli al comando di Lous Nicolas Davout conquistarono le Tre frecce
e, più a sud, il generale polacco Josepf Antoni Poniatowski spazzò via
l’estremo fianco nemico presso il villaggio di Utitsa. La reazione russa non si
fece attendere. Kutuzov scontò subito gli errori tattici commessi nella
composizione della sua linea del fronte: troppo presidiato il fianco nord, dove
l’anziano militare si attendeva l’attacco francese, e pericolosamente sguarniti
il centro e il lato sud per rinforzare i quali dovettero scendere in campo le
riserve. I soldati russi chiamati a quella che era a tutti gli effetti una
guerra di liberazione dall’invasore, profusero nel combattimento uno sforzo
tale da colmare le lacune dello stato maggiore e i francesi si trovarono di
fronte a un muro invalicabile di uomini disposti a morire piuttosto che ad
arretrare. Le posizioni conquistate dagli imperiali furono presto perdute.
L’epicentro della battaglia si spostò dai fianchi alla Grande ridotta,
inutilmente attaccata a più riprese da
Eugenio, e sulle Tre frecce, dove Napoleone spedì anche contingenti di
cavalleria. A ogni spallata, i corpi francesi dovevano essere rinforzati da nuovi
continenti, cosicché alle otto e mezzo del mattino con l’imperatore rimase
soltanto la Guardia imperiale, l’élite dell’esercito transalpino. Alle dieci i
francesi tentarono un nuovo assalto generale contro le posizioni difese da
Bragation e questa volta, sostenuti da un intenso fuoco d’artiglieria, ruppero
la linea nemica. Lo stesso generale georgiano cadde vittima dell’azione e lo
scoramento che la sua morte indusse nella truppa obbligò i russi al
ripiegamento. A quel punto la cavalleria di Gioacchino Murat si gettò nella
bolgia per assestare il colpo di grazia, ma la fanteria nemica riuscì a
retrocedere con ordine e resistere alla spallata, formando dei quadrati contro
i quali i cavalleggeri francesi nulla poterono. Al re di Napoli mancavano
infatti gli uomini necessari a coronare con successo l’attacco e gli unici
rimasti
ancora fuori dalla mischia erano quelli della Guardia, ai quali
storicamente Napoleone era sempre stato restio a ricorrere. L’appello di Murat
non smosse l’imperatore e quel copione dovette ripetersi altre volte lungo il corso
della giornata, con Napoleone sempre sordo all’invocazione dei suoi
marescialli.
Una fase dei violenti scontri di cavalleria a Borodino.
La tragica ritirata.
Padrone di una città
fantasma, Napoleone attese inutilmente
a Mosca che lo zar avanzasse proposte di pace – cosa che Alessandro I
non fece perché aveva orma l’inerzia della guerra a proprio favore –
sprecando così le ultime settimane disponibili prima dell’inverno. L’armata
si mosse dall’antica capitale russa soltanto il 19 ottobre e subito cominciò
a essere tormentata dalla guerriglia dei partigiani e dei reparti cosacchi.
Decimato durante la lunghissima marcia, fiaccato dal freddo, dalla fame e in
balia degli zaristi, l’esercito francese venne infine attaccato mentre
tentava di attraversare il fiume Beresina, quando poteva ormai contare
soltanto siu 50mila effettivi pronti al combattimento e 40mila uomini di
retroguardia. La battaglia si svolse tra il 26 il 29 novembre del 1812 e si
risolse in una vittoria strategica di Napoleone che, in condizioni al limite
dell’impossibile, riuscì a forzare la linea russa, dovendo però pagare un
prezzo altissimo: le perdite dei francesi furono superiori alle 20mila unità.
Più del doppio di quelle russe. Lo scontro sulla Beresina non cambiò comunque
l’esito e il giudizio storico sulla Campagna di Russia dell’imperatore
francese, risoltasi in una disfatta militare e politica: i superstiti furono
appena 100mila, a fronte degli oltre 600mila partiti a giugno.
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Mappa della battaglia.
UN COSTO MOLTO ALTO.
Alle due del pomeriggio partì l’ennesimo assalto del principe Eugenio contro la
Grande ridotta, azione sostenuta dal fuoco di 400 cannoni e dall’impiego della
cavalleria, che aggirò la roccaforte e prese i resistenti alle spalle. Il blitz
valse ai francesi la rottura del fronte russo ed Eugenio si precipitò nella
falla aperta ma dovette presto arrestare l’impeto dei suoi al sopraggiungere
della cavalleria nemica, più fresca e numerosa. Anche in questo caso il mancato
impiego della Guardia imperiale permise ai russi di evitare la disfatta.
Alle
cinque del pomeriggio Borodino si era ormai trasformata in una battaglia di
posizione, con cui i russi fatti ripiegare da Kutuzov su nuove linee di difesa,
meno protette di quelle precedente, ma comunque non meno dure da espugnare per
gli stremati francesi. L’ultimo a smettere di crederci fu Murat, che continuò
inutilmente fino alle dieci di sera a pregare Napoleone di far intervenire
l’unità dei suoi veterani così da cogliere la vittoria piena. La maggior parte
dei comandanti su entrambi i fronti, tuttavia, non se la sentiva più di
proseguire con quell’inutile massacro. Nonostante il dissenso di qualche
generale, Kutuzov decise a quel punto per la ritirata, che cominciò all’alba
dell’8 settembre. Napoleone, dal canto suo, parve accontentarsi di essersi
aperto la strada per Mosca, un obiettivo minimo raggiunto a un costo
sproporzionato: almeno 30mila uomini erano morti o feriti, tra cui 14 generali di corpo d’armata, e i
100mila sopravvissuti erano stanchi e malati, con uniformi sporche e lacere,
sperduti a 2mila chilometri dalla frontiera
in un paese ostile alle porte dell’inverno. A raggiungere Mosca ci
misero una settimana. Alla mezzanotte del 14 settembre un Murat in alta uniforme
entrò per primo nell’antica capitale senza colpo ferire, grazie a un accordo
con i russi che l’avevano evacuata per tempo. Trovò una città spettrale,
abbandonata non solo dalle truppe ma anche dalla popolazione. I pochi russi
rimaste, la notte successivi appiccarono il fuoco al quartiere commerciale,
rendendo ancora più lugubre il panorama che uno sfinito e deluso Napoleone
poteva scrutare dalle finestre del Cremlino. Da lì a poco sarebbe cominciata
per i resti dell’Armata francese la lunga ritirata di Russia.
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