La pace sbagliata.
Il frutto avvelenato.
Le conseguenze della
Grande Guerra.
La guerra del ’15-18
lasciò l’Europa devastata. E preparò il terreno a un nuovo conflitto ancora più
devastante. Infatti nel 1919, i trattati di pace che seguirono la fine della
Grande guerra prepararono il terreno al disordine europeo e a una nuova guerra.
Conferenza di pace di Parigi
I "quattro grandi" alla Conferenza di pace di Parigi (da sinistra a destra: Lloyd George, Vittorio Emanuele Orlando, Georges Clemenceau, Woodrow Wilson)PartecipantiDelegati di 27 nazioniApertura18 gennaio 1919Chiusura21 gennaio 1920Stato FranciaLocalitàParigiEsitoPreparazione dei trattati di pace con gli Imperi Centrali:
- Impero germanico(Trattato di Versailles, 28 giugno 1919),
- Impero austro-ungarico(Trattato di Saint-Germain, 10 settembre 1919),
- Regno di Bulgaria (Trattato di Neuilly, 27 novembre 1919),
- Ungheria (Trattato del Trianon, 4 giugno 1920),
- Palestina (Accordo Faysal-Weizmann, 3 gennaio 1919),
- Impero Ottomano (Trattato di Sèvres, 10 agosto 1920[1]).
La conferenza di pace di Parigi del 1919 fu una conferenza di pace organizzata dai paesi usciti vincitori dalla prima guerra mondiale, impegnati a delineare una nuova situazione geopolitica in Europa e a stilare i trattati di pace con le Potenze Centraliuscite sconfitte dalla guerra. La conferenza si aprì il 18 gennaio 1919 e durò fino al 21 gennaio 1920, con alcuni intervalli.
Da questi trattati la cartina d'Europa uscì completamente ridefinita, in base al principio della autodeterminazione dei popoli, concepito dal presidente degli Stati Uniti d'America Woodrow Wilson, nel tentativo, in seguito rivelatosi fallace, di riorganizzare su base etnica gli equilibri del continente europeo. Nel tentativo di creare stati "etnicamente omogenei" sulle ceneri degli imperi multietnici di Austria-Ungheria e Turchia, furono riconosciuti Stati di recente formazione, quali la Cecoslovacchia (Prima Repubblica cecoslovacca) e la Jugoslavia (Regno dei Serbi, Croati e Sloveni), destinati ad alimentare nuove tensioni ed instabilità, oltre ad esodi e conflitti di popoli e nazioni.
Può
un trattato di pace alimentare un conflitto peggiore di quello a cui pone fine?
Certo: qualsiasi accordo postbellico tende d’altronde a lasciare molti
scontenti. Quel che avvenne nel 1919, però, è una specie di record. Il trattato
di pace che sancì la fine della Grande guerra lasciò infatti amareggiati sia i
vinti sia i vincitori, ponendo addirittura le basi per l’ascesa del nazismo e
lo scoppio della Seconda guerra mondiale. L’errore più grave commesso nella
stesura del documento? Dimenticare l’antico suggerimento di non umiliare mai il
nemico – in questo caso la Germania – che non si è in grado di annientare del
tutto.
I “QUATTRO GRANDI”. Il conflitto si era
chiuso l’11 novembre 1918, con la firma dell’armistizio da parte della
Germania, e il 18 gennaio 1919 si aprì a Parigi la conferenza di pace che
doveva ridisegnare la geografia politica mondiale, regolando i rapporti tra
vincitori e vinti. A tal fine si diedero appuntamento i portavoce di decine di
nazioni con in prima fila i quattro grandi, ossia i delegati delle maggiori
potenze vincitrici: Francia, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti. In rappresentanza dei primi tre Paesi vi
erano i premier Georges Clemenceau, David Looyd George e Vittorio Emanuele Orlando,
mentre per gli statunitensi partecipava il presidente Woodrow Wilson.
I lavori terminarono il
21 gennaio 1920, ma il giorno clou fu il 28 giugno 1919, data della firma del
cosiddetto Trattato di Versailles, composto da 440 articoli divisi in 16 parti
e così chiamato perché siglato nella celebre reggia francese. Prima di vedere
la luce, il documento fu anticipato da aspre discussioni tra i quattro grandi,
che dibatterono a lungo sui confini da assegnare alle varie nazioni e,
soprattutto, sulla punizione da riservare alla Germania, considerata
responsabile assoluta del conflitto. A scontrarsi furono in particolare
Clemenceau, animato da pura sete di vendetta, e Wilson, che sembrava avere
visioni più equilibrate.
Trattato di pace tra gli Alleati e le potenze associate e la Germania
Le delegazioni riunite a Versailles.Tipotrattato plurilateraleContestoPrima guerra mondialeFirma28 giugno 1919LuogoVersailles, FranciaEfficacia10 gennaio 1920CondizioniRatifica della Germania e delle quattro potenzeFirmatari Regno Unito
Francia
Italia
Giappone
Stati Uniti
e le altre potenze vincitrici
GermaniaDepositario FranciaLinguefrancese e inglesevoci di trattati presenti su Wikipedia
«Questa non è una pace, è un armistizio per vent'anni.»
|
(Ferdinand Foch, ufficiale francese al comando degli Alleati nella prima guerra mondiale; 1920.) |
Il trattato di Versailles, anche detto patto di Versailles, è uno dei trattati di pace che pose ufficialmente fine alla prima guerra mondiale. Fu stipulato nell'ambito della Conferenza di pace di Parigi del 1919 e firmato da 44 Stati il 28 giugno 1919 a Versailles, in Francia, nella Galleria degli Specchi del Palazzo di Versailles. È suddiviso in 16 parti e composto da 440 articoli.[1] Germania, Austria ed Ungheria non parteciparono alla "conferenza", ma si limitarono a firmare il trattato finale il 28 giugno, dopo le minacce, da parte dei vincitori, di una ripresa della guerra se non lo avessero fatto.
Gli Stati Uniti d'America non ratificarono mai il trattato. Le elezioni del 1918 avevano visto la vittoria del Partito Repubblicano, che prese il controllo del Senato e bloccò due volte la ratifica (la seconda volta il 19 marzo 1920), alcuni favorivano l'isolazionismo e avversavano la Società delle Nazioni, altri lamentavano l'eccessivo ammontare delle riparazioni. Come risultato, gli USA non si unirono mai alla Società delle Nazioni e in seguito negoziarono una pace separata con la Germania: il trattato di Berlino del 1921, che confermò il pagamento delle riparazioni e altre disposizioni del trattato di Versailles ma escluse esplicitamente tutti gli articoli correlati alla Società delle Nazioni.[2]
PACE SENZA VINCITORI. Il premier francese
avrebbe voluto smembrare l’impero tedesco, quello austro-ungarico e quello
ottomano – l’Impero russo era invece stato abbattuto dalla Rivoluzione
d’Ottobre del 1917 – per spartirsi i territori con la Gran Bretagna. Il
presidente statunitense mirava, invece, a una pace senza vincitori che si basasse
sul principio di autodeterminazione dei popoli. In breve, ogni popolazione
sottomessa a una forza straniera avrebbe dovuto scegliere su base
prevalentemente etnica, la propria identità nazionale e le proprie forme di
governo. Così, si pensava, si sarebbe evaporato ogni motivo di tensione
internazionale.
Queste idee erano state
riassunte da Wilson nei celebri quattordici punti, serie di propositi
snocciolati in un discorso tenuto nel gennaio 1918, a guerra in corso, davanti
al senato statunitense. In proposito, il solito Clemenceau commentò caustico: “Mi dà ai nervi coi suoi 14 punti, quando lo
stesso buon Dio si è accontentato di dieci”. Tra le altre cose, Wilson
proponeva di annullare ogni trattato segreto prebellico (caldeggiando una nuova
diplomazia trasparente), garantire la libertà di navigazione, favorire gli
scambi commerciali, ridurre gli armamenti, liberare ogni territorio occupato
con la forza ratificare le frontiere secondo criteri per l’appunto etnici
anziché politici e, in ultimo, creare una Lega delle Nazioni per promuovere la
cooperazione tra Stati in vista di una pace il più duratura possibile.
I territori della Germania dopo il trattato:
Amministrato dalla Società delle Nazioni
Territori annessi ad altri Stati
erritori coloniali tedeschi (in blu) trasformati in mandati amministrati per conto della Società delle Nazioni
UMILIAZIONE TEDESCA. Alla fine prevalsero
molte delle idee wilsoniane, ma se la pace fu teoricamente senza vincitori, i
vinti ci furono eccome. La Germania subì infatti la temuta vendetta della
Francia, nazione che più di altre aveva patito gli effetti del conflitto.
L’idea era quella di annientare i tedeschi e infliggere loro anche un sonoro
schiaffo morale, intenzione evidente fin dalla scelta del luogo per la firma
del trattato di pace, luogo per la firma del trattato di pace: la Galleria degli
Specchi di Versailles, già sede nel 1871 della proclamazione dell’Impero
tedesco dopo la sconfitta subita dai francesi nella guerra franco-prussiana.
Per completare la rivincita, la Francia si riprese l’Alsazia e la Lorena,
regioni che aveva perso proprio in quel conflitto. Alla Germania, costretta a
sottoscrivere il trattato finale, fu inoltre tolto ogni possedimento coloniale
e furono imposte grosse restrizioni in ambito militare: la leva obbligatoria fu
sospesa, l’esercito fu ridotto a 100mila unità (altre limitazioni riguardarono
la marina, mentre l’aviazione fu eliminata) e furono messi al bando gli
armamenti pesanti. Non solo: la Germania dovette demilitarizzare la Renanai,
territorio al confine con la Francia, e concedere a quest’ultima l’occupazione
della Ruhr, regione ricca di miniere di carbone. I tedeschi furono obbligati a
lasciare alla Polonia il territorio della città di Danzica, con relativo sbocco
sul Mar Baltico (il corridoio polacco). Il capitolo più pesante fu, tuttavia,
quello delle riparazioni di guerra: lo Stato tedesco fu obbligato al pagamento
di ben 132 miliardi di marchi in oro, cifra smodata la cui entità gettò il
Paese in uno stato di angoscia e inquietudine, alimentando una profonda crisi
economica e i peggiori propositi di vendetta.
TUTTI SCONTENTI. La colpa della guerra,
oltre che sui tedeschi, ricadde naturalmente sui loro alleati, in primis
l’Austria-Ungheria e l’Impero ottomano, con i quali i trattati di pace furono
firmati rispettivamente nel settembre 1919 e nell’agosto 1920. A rappresentare
la realtà ottomana, già moribonda, rimase solo la Turchia, che dal 1923 sarà
peraltro guidata e de-ottomanizzata dal leader nazionalista Mustafa Kemal. Il
resto dei territori passò invece sotto l’amministrazione di francesi e inglesi.
Allo stesso modo, la pace firmata con gli austriaci portò allo smembramento del
loro impero, alla creazione di nuovi Stati autonomi e alla concessione
all’Italia di molteplici territori. Tra questi non c’era però la Dalmazia, nonostante
fosse stata promessa agli italiani alla vigilia dell’ingresso in guerra nel
1915. Il motivo? Gli Stati Uniti di Wilson non ritennero valido il trattato
segreto che aveva sancito tale accordo (Patto di Londra), proprio in virtù
della sua segretezza. Caddero inoltre nel vuoto le rivendicazioni italiane
sulla città di Fiume (oggi in Croazia), e così il malcontento investì anche il
Belpaese, pur uscito vincitore del conflitto.
A masticare amaro
furono però anche i trionfatori francesi e inglesi: i primi non gradivano di
essersi dovuti in parte piegare ai dettami di Wilson, mentre i secondi si
sentivano messi in disparte dagli stessi francesi. Molti britannici criticarono
inoltre le condizioni imposte ai vinti e l’assenza di un piano di ripresa
economica. Tra le voci di dissenso spicca quella dell’economista John Maynard
Keynes, che nel volume Le conseguenze economiche della pace (1919) parlò di
“pace cartaginese”, rievocando i duri obblighi postbellici imposti dai Romani
ai Cartaginesi al termine della Seconda guerra punica (III secolo a.C.). Se
all’epoca la forza di Roma era bastata a garantire la pace, il timore era che
in questo caso le potenze occidentali stesero invece gettando i semi di nuove
guerre. Su questo punto risultò profetica l’affermazione di tal Ferdinand Foch,
generale francese che nel 1920, commentando il Trattato di Versailles affermò: “Questa non è una pace, è un armistizio per
vent’anni”.
Il mondo in fermento.
Nel 1918 la Grande guerra terminò,
ma già da quell’anno numerosi Paesi si ritrovarono attraversati da
rivoluzioni, guerre civili e altri conflitti, spesso innescati proprio da
quello appena concluso.
Targa commemorativa del primo consiglio dei lavoratori e dei soldati presso la sede del sindacato di Kielnella Legienstraße.
RIVOLUZIONE DI NOVEMBRE.
(1918-1919) iniziata il 3 novembre 1918 con l’ammutinamento dei marinai di
Kiel (stanchi di combattere una guerra ormai persa), appoggiati dalle forze
politiche di sinistra, questa rivolta portò alla caduta della monarchia
tedesca (9 novembre) e alla nascita della repubblica. Il nuovo governo
socialdemocratico, sedata nel gennaio 1919 una sollevazione di stampo
marxista approvò l’11 agosto, a Weimar, la costituzione di una nuova entità
statale, la Repubblica di Weimar (poi annientata da Hitler).
GUERRA CIVILE RUSSA. (1917-1923)
dopo che la rivoluzione d’ottobre (1917) aveva portato i bolscevichi al
potere, decretando l’uscita della Russia dal conflitto, iniziò nel Paese una
cruenta guerra civile tra i rossi e i bianchi, com’erano rispettivamente chiamati
gli stessi bolscevichi e i gruppi controrivoluzionari foraggiati dalle
potenze occidentali. I morti furono milioni, finché, nel 1923 il calvario
terminò con la vittoria dei rivoluzioni i quali, il 30 dicembre 1922, avevano
frattanto costituito l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Da in alto in senso orario:
Soldati dell'Armata del Don nel 1919; una divisione di fanteria Bianca nel marzo 1920; soldati della Prima Armata di cavalleria; Leon Trotsky nel 1918; civili impiccati dall'esercito Austro-Ungarico a Yekaterinoslav, nell'Aprile 1918.
GUERRA D’INDIPENDENZA IRLANDESE
(1919-1921) dal gennaio 1919 il governo britannico dovette affrontare in
Irlanda, una guerra indipendentista coordina dai deputati del Sinn Féin,
movimento nazionalista di matrice socialista, e combattuta dai soldati
dell’Irish Repubblican Army, neonato esercito repubblicano irlandese. Dopo
due anni di scontri, fu firmato il tratto di pace anglo-irlandese, che
decretò la nascita, nei territori meridionali, dello Stato Libero d’Irlanda,
mentre il Nord rimaneva al Regno Unito.
RIVOLUZIONE DELLE ROSE D’AUTUNNO O
DEI CRISANTEMI (1918) tra il 30 e il 31 ottobre 1918, gruppi di soldati e di
civili ungheresi furono protagonisti di questa rivoluzione che prese il nome
dai fiori che i rivoltosi sfoggiavano sui berretti. La loro rivolta, piegate
le forze del moribondo impero austro-ungarico, portò alla proclamazione della
Repubblica Democratica di Ungheria, Stato indipendente dalla vita cortissima:
una seconda sollevazione nel marzo 1918, condusse alla nascita della
Repubblica sovietica ungherese, d’ispirazione comunista. Dopo alcune
sfortunate iniziative belliche contro la Cecoslovacchia e Romania, ad agosto
il poter tornò ai vecchi dirigenti conservatori, che nel 1920 restaurarono la
monarchia.
GUERRA GRECO-TURCA (1919-1922) tra
il maggio 1919 e l’ottobre 1922, in Turchia, cuore dello sgretolato Impero
ottomano, le forze nazionaliste di Mustafa Kemal Ataturk si scontrarono con
quelle greche per riottenere l’Anatolia e la Tracia, territori un tempo
ottomani ma assegnati alla Grecia dai trattati di pace. Dopo quasi 50mila
morti, ad avere la meglio furono i turchi. Le regioni contese passarono alla
Repubblica di Turchia, neonata entità statale la cui proclamazione ufficiale
sarebbe avvenuta il 29 ottobre 1923.
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Combattimenti dell'estate del 1920Data15 maggio 1919 - 11 ottobre 1922LuogoTurchia occidentale (Tracia, Lidia)EsitoVittoria turca, trattato di Losann
GUERRA CIVILE FINLANDESE (1918)
dopo essersi resa indipendente dall’Impero russo il 6 dicembre 1917, la
Finlandia fu teatro di una sanguinosa guerra civile analoga a quella che
travolse la Russia bolscevica, tra le frange dei rossi (comunisti e
socialisti) e quella dei bianchi (i conservatori). Gli scontri iniziarono nel
gennaio 1918, con la Prima guerra mondiale ancora in pieno svolgimento,
proseguirono fino a maggio e videro la vittoria finale della guardia bianca,
ossia delle armate delle forze conservatrici.
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EREDITA’ LETALI. Neanche gli americani,
entrati peraltro in guerra solo nel 1917, ne uscirono soddisfatti, tanto che il
senato pervaso da un desiderio isolazionista, rifiutò l’adesione alla Società
delle Nazioni prevista dai quattordici punti di Wilson. A ogni modo, la nuova
organizzazione intergovernativa, che avviò i lavori già nel 1920, con sede a
Londra e poi a Ginevra, vide l’immediata partecipazione di oltre 40 nazioni e, pur
non riuscendo a garantire la pace (anche perché dotata di limitati poteri di
arbitrato), pose le basi della futura Organizzazione delle Nazioni Unite (che
ne prese il posto nel 1945), oltre a valere al suo ideatore il Nobel per la
Pace nel 1919.
Tra le ambivalenti
eredità del Trattato di Versailles, un notevole impatto ebbe il controverso
principio di autodeterminazione dei popoli, che portò sia un arricchimento del
campo del diritto internazionale, sia alla nascita di pericolosi sentimenti
ultranazionalisti. Oltre a non assicurare la pace (negli anni dopo il conflitto
molti stati europei conobbero guerre e rivoluzioni), il trattato ebbe inoltre
il demerito di nutrire il mostro nazista. Nella sua ascesa al potere, Hitler
cavalcò la voglia di rivalsa popolare per le condizioni inflitte dai vincitori,
invocando dapprima la nascita di una Grande Germania che riunisse ogni popolo
tedesco (in base proprio al principio di autodeterminazione) e scatenando poi,
dal 1939, un nuovo conflitto di portata mondiale. Prima vittima illustre fu la
Francia, alla quale la Germania rese pan per focaccia: i francesi, infatti
dovevano firmare la rese, nel 1940, nello stesso vagone ferroviario in cui i
rappresentanti dell’Impero tedesco si erano arresi nel novembre 1918. Un altro
frutto avvelenato della pace di Versailles.
«God gave him a great vision. / The devil gave him an imperious heart. / The proud heart is still. / The vision lives.[1]»
| (IT)
«Dio gli dette una grande visione. / Il diavolo un cuore imperioso. / L'orgoglioso cuore si è fermato. / La visione gli sopravvive.»
|
(Epitaffio dedicatogli da William Allen White) |
Articolo in gran parte
di Matteo Liberti pubblicato su Focus Storia n. 145. Altri testi e immagini da
Wikipedia.
Un
impero a pezzi.
La Prima guerra mondiale segnò il destino degli Ottomani. E
lasciò il Medio Oriente nel caos.
Il grande malato
d’Oriente. Così era chiamato fin dall’Ottocento l’Impero ottomano. Anche se i
suoi domini andavano ancora dall’Africa Settentrionale ai Balcani passando per
la Penisola araba e il Medio Oriente, la Sublime Porta non era più in grado di
fronteggiare, soprattutto militarmente, le potenze europee che appena potevano
allungavano le mani. Nel 1881 la Francia si era presa la Tunisia e l’Algeria,
la Gran Bretagna controllava l’Egitto e il sultano, tra Ottocento e Novecento,
era stato espulso dai Balcani. Da buona ultima ci si era messa anche l’Italia
che nel 1911-12 aveva occupato la Libia. Insomma, alla vigilia della Grande guerra,
l’Impero ottomano sembrava ai più un moribondo sul quale volteggiavano sempre
più vicini gli avvoltoi. Non che le cose andassero meglio per il sultano sul
fronte interno. Era, infatti, sempre più difficile governare un grande stato
multi-nazionale e multi-religioso in un’epoca di nazionalismi e di ispirazioni
all’indipendenza. Lo conferma Giorgio del Zanna, autore del volume La fine
dell’Impero ottomano (edizioni Il Mulino): “La
civiltà ottomana era la sintesi tra il mondo turco-mussulmano e il mondo
greco-bizantino. La coabitazione tra cristiani e musulmani era la base su cui
poggiava l’impero. Questo sistema, che aveva funzionato per secoli, entrò in
crisi a partire dall’Ottocento e la crisi si accentuò durante la Prima guerra
mondiale”.
la Turchia dopo il trattato di
Sevres.
ALLEANZE SBAGLIATE. Nel
conflitto gli Ottomani si erano schierati contro Francia e Gran Bretagna,
considerate pericolose potenze coloniali, e contro la Russia, potente vicino
che da tempo mirava a controllare il Bosforo e i Dardanelli. Il sultano
Maometto V (1844-1918) probabilmente vagheggiava, grazie all’appoggio militare
tedesco, di riconquistare una parte dei territori perduti nei Balcani. In
effetti, prosegue Del Zanna, “la guerra
andò piuttosto bene fino al 1917 e gli Ottoi subirono solo l’avanzata russa in
Anatolia. Divenne però evidente che gli alleati miravano a spartirsi i
territori dell’impero e non solo a vincere la guerra: già nel 1916 si
accordarono per la spartizione”. La Sublime Porta si trovò così in una
sorta di tenaglia che mirava a frantumarla, con i russi che attaccavano da nord
e gli inglesi che premevano in Mesopotamia e in Palestina. Intanto gli agenti
di Sua Maestà britannica, guidata da Lawrence d’Arabia, fomentavano in tutto il
Medio Oriente la rivolta arava contro il sultano con la promessa di creare una
o più nazioni indipendenti al posto dello Stato ottomano.
Un
po’ di respiro venne dallo scoppio della Rivoluzione in Russia che fermò
l’esercito dello zar, ma in ogni caso anni di guerra su più fronti cominciarono
a pesare. Racconta Del Zanna: “Fame e
malattie colpivano sia la popolazione, sia i soldati, portando a un profondo
logoramento. Poi, nel dicembre 1917 ci fu la presa di Gerusalemme da parte
degli inglesi e fu un evento che ebbe un forte significato simbolico”.
Lawrence d'Arabia
TRACOLLO IMPROVVISO. Si
trattava ora, per Maometto V, di preservare l’Anatolia, il cuore del suo
impero, ma il crollo arrivò improvviso nell’autunno del 1918, come per Austria
e Germania: “Fatale per gli Ottomani fu
l’imprevista resa della Bulgaria nel settembre 1918. Da quel Paese transitavano
i rifornimenti dalla Germania verso la Sublime Porta. L’impero, pur senza aver
subito tracolli militari, era ormai isolato e il sultano fu costretto a firmare
l’armistizio il 30 ottobre 1918”. Spiega l’esperto. Francia e Gran
Bretagna, a cui si aggiunsero Italia e Grecia, antica avversaria della Sublime
Porta, erano pronte al banchetto. L’Anatolia e la stessa Istanbul furono
occupate e il nuovo sultano Maometto VI
(in carica dal 1918 al 1922) dovette accettare le condizioni di pace che
condannavano a morte l’impero. Gran Bretagna e Francia concordarono di dividere
il Medio Oriente in una serie di Stati, attribuendo Libano e Siria alla Francia
mentre all’Inghilterra ottennero la Palestina, la Transgiordania e l’Iraq.
L’Italia ottenne il suo osso, ossi l’Anatolia sudoccidentale, mentre alla
Grecia fu consentito di occupare la Tracia, Smirne e le isole egee. All’Impero
ottomano rimase solo una parte dell’Anatolia. Tutto avvenne con il beneplacito
della neonata Società delle Nazioni (antenata dell’Onu), che riconobbe alle
potenze europee il mandato sui territori che già nei fatti occupavano.
VERSO IL CAOS. Tutto
definito quindi? Assolutamente no, perché le potenze europee, durante la
guerra, avevano garantito l’indipendenza agli arabi in cambio dell’appoggio
contro gli Ottomani. Inoltre gli inglesi avevano promesso la Palestina agli
ebrei che ora arrivavano sempre più numerosi nella Terra promessa. Cosa ancora
più grave, i nuovi stati erano stati creati senza tenere conto delle etnie e
delle comunità religiose che vi abitavano. Spiega Del Zanna: “Erano strutture statali fragili e non
sorrette da una forte identità nazionale. Pensiamo alla Siria, che ancora oggi
conta 17 comunità religiose diverse, oppure all’Iraq, col suo pluralismo “Erano
strutture statali fragili e non sorrette da una forte identità nazionale.
Pensiamo alla Siria, che ancora oggi conta 17 comunità religiose diverse,
oppure all’Iraq, col suo pluralismo “Erano strutture statali fragili e non
sorrette da una forte identità nazionale. Pensiamo alla Siria, che ancora oggi
conta 17 comunità religiose diverse, oppure all’Iraq, col suo pluralismo “Erano
strutture statali fragili e non sorrette da una forte identità nazionale.
Pensiamo alla Siria, che ancora oggi conta 17 comunità religiose diverse,
oppure all’Iraq, col suo pluralismo etnico religioso. Da uno Stato
sovranazionale come l’impero non si passò a stati con una grande omogeneità
interna e questo è alla base di tanti dei problemi odierni del Medio Oriente”.
Infine gli europei non avevano tenuto conto dell’orgoglio dei turchi, il gruppo
etnico maggioritario nell’impero. Mustafà Kemal (1881-1938), leader dei Giovani
Turchi, movimento che mirava a trasformare la Sublime Porta in uno Stato
nazionale turco scatenò una violenta guerra di liberazione che scacciò i nemici
dall’Anatolia: “I Turchi riuscirono a
ribaltare una situazione compromessa e avrebbero anche potuto riprendersi il
Medio Oriente se non ci fosse stato l’ostacolo della Francia e della Gran
Bretagna a impedirlo. Di fronte alle nazionalità che si affermavano, prima fra
tutte quella turca, un impero sovranazionale come quello ottomano non aveva più
senso per nessuno era un relitto della Storia”, conclude Del Zanna. Come
per gli europei, anche per Kemal, detto poi padre dei turchi, l’impero era da
seppellire. Maometto VI fu costretto ad abdicare nel novembre del 1922 ponendo fine a una civiltà, quella ottomana,
che affondava le sue radici nel Medioevo. Le guerre erano costate distruzioni
immense e sei milioni di morti mentre dalle ceneri dell’impero sorgeva un
grande Stato unitario, la Turchia, e il caos ancora oggi indomabile del Medio Oriente.
ritratto di Maometto V
La caduta dei giganti.
La Grande guerra portò alla fine non
solo del grande Stato ottomano, ma anche degli imperi che ancora esistevano
in Europa alla vigilia del conflitto. Fu un’ecatombe di dinastie che
sconvolse la carta politica del Vecchio continente e relegò tra le reliquie
del passato Stati che avevano dominato la storia europea.
I ROMANOV. Il primo in ordine di
tempo a crollare fu l’impero risso degli zar. Nel febbraio 1917 Nicola II
dovette abdicare sull’onda delle gravi sconfitte subite dall’esercito durante
il conflitto mentre oramai la popolazione era stremata da fame e miseria.
L’abdicazione aprì la strada alla Rivoluzione d’ottobre e alla presa del
potere dei bolscevichi. Nel fatidico 1918, Nicola II e tutta la famiglia
imperiale furono trucidati dai rivoluzionari rossi, fu la fine dei Romanov,
la dinastia che guidava la Russia dal 1613.
GLI ASBURGO. Ancora più antico era il
potere degli Asburgo, titolari della corona d’Austria e del titolo imperiale
fin dal Medioevo. L’ultimo sovrano della casata fu Carlo I, che succedette al
decrepito Francesco Giuseppe nel 1916. Decrepito era anche l’impero degli
Asburgo, oramai dilaniato dalle pretese delle varie nazionalità che lo
componevano. Ungheresi, slavi, italiani alimentarono durante il conflitto
continue rivolte e favorirono lo sgretolamento dell’impero all’indomani della
capitolazione avvenuta tra fine ottobre e inizio novembre del 1918. In
Austria venne proclamata la repubblica ma Carlo I rifiutò di firmare
l’abdicazione perché, scrisse, “Dio mi
ha assegnato il trono in sacra fiducia”. Nell’aprile del 1919 fu
costretto a lasciare l’Austria con tutta la famiglia e fece un fallimentare
tentativo di ritornare sul trono nel 1921. Morì nel 1922 ed è stato
beatificato dal papa Giovanni Paolo II nel 2004.
GLI HOHENZOLLERN. Sempre in esilio finì la carriera Guglielmo II, kaiser della Germania e considerato uno dei
maggiori responsabili della Grande guerra. L’Impero tedesco, nato nel 1871,
si dissolse in poche settimane, nell’autunno del 1918, perché esercito e
popolazione erano allo stremo dopo cinque anni di guerra. Guglielmo fuggì in
Olanda alla fine di ottobre e abdicò di fronte all’insurrezione dilagante
degli operai e dei soldati tedeschi. Venne instaurata la repubblica e fu la
fine del potere degli Hohenzollern, il casato che dal Cinquecento aveva fatto
grande la Prussia.
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I numeri della grande
guerra.
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||
La prima guerra mondiale ha avuto costi umani ed economici che i
numeri raccontano in modo efficace. Ecco un bilancio del conflitto
considerato sotto tutti i punti di vista.
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||
I
COSTI ECONOMICI.
È stato calcolato che la Grande guerra sia costata l’equivalente di 2000
miliardi di euro attuali. Per l’Italia il costo fu di 45 miliardi di lire
dell’epoca, pari a 64 miliardi di euro attuali. Alla fine delle ostilità la
Germania fu condannata a ripagare come risarcimento la cifra iperbolica di 64
miliardi di dollari in oro, circa 700 miliardi di euro. L’ultima rata (70
milioni di euro) del risarcimento è stata pagata nel 2010!
|
LE
TRINCEE. Impossibile
calcolare la lunghezza delle trincee scavate durante il conflitto. Sappiamo
che ne vennero realizzate 25mila chilometri sul fronte occidentale dove il
60% dei soldati morì comunque per i colpi d’artiglieria scagliati contro i
ripari. L’aspettativa di vita in trincea era di 6 settimane e ogni soldato
passava circa il 15% dell’anno in trincea, solitamente a turni di due settimane.
A Ypres, in Belgio, le trincee francesi e tedesche distavano solo 50 metri.
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TUTTE
LE VITTIME.
Furono 64 milioni in totale i soldati coinvolti nella Grande Guerra. I caduti
furono circa 9 milioni (6000 al giorno!) 21 milioni furono i feriti di cui 8
milioni con mutilazioni permanenti (80000 i casi accertati di psicosi
traumatica dovuta allo stress da combattimento). Quasi 8 milioni tra
prigionieri e dispersi. La nazione che ebbe più vittime fu la Germania (circa
1milione e 700mila caduti) mentre l’Austria-Ungheria, tra morti feriti e
prigionieri perse il 90% dei quasi 8 milioni di soldati mobilitati. 8 milioni
furono le vittime civili in Europa.
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MORTI
NEUTRALI. Anche
gli Stati neutrali ebbero i loro morti, dovuti alla guerra sottomarina della
Germania. In Danimarca morirono 722 marinai della marina mercantile o
pescatori coinvolti negli affondamenti delle navi da parte dei tedeschi.
Anche Norvegia e Svezia subirono vittime in mare: la prima perse circa 2000
marinai, la seconda 877 marinai.
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ITALIA
FERITA. I
feriti furono 2milioni e 500mila, dei quali 463mila invalidi permanenti e
mutilati di guerra. In particolare 74600 storpi, 21200 rimasti senza un
occhio, 1940 ciechi totali, 120 senza mani, 3250 muti, 6750 sordi, 5440
mutilati al viso. Circa 40mila persone ebbero patologie psichiche gravi.
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LE
CONDANNE. I
militari italiani condannati a morte durante la guerra sono stati 170064, 750
fucilati dopo regolare processo, altri 350 per esecuzioni sommarie accertate.
Nel settembre 1919 vi erano 60mila uomini rinchiusi nelle carceri militari.
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MEDICI
IN GUERRA. La
Croce rossa italiana (CRI) mobilitò 9500 uomini, 8200 crocerossine, 1200
ufficiali medici, 1000 erano le crocerossine negli ospedali da campo al
fronte, 44 morirono, 3 furono fatte prigioniere. Al di fuori della CRI furono
mobilitati 18mila tra ufficiali medici, studenti in medicina e medici civili
tra di essi vi furono anche 48 tra dottoresse e farmaciste.
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ANCORA
ORDIGNI. Ogni
anno nella foresta di Verdun vengono recuperate 900 tonnellate di materiale
pericoloso: bombe, mine, proiettili con gas tossici. In Belgio, unità
specializzate nel recupero di esplosivi trovano tra le 150 e le 200
tonnellate di bombe ogni anno.
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IN
FABBRICA. L’Italia
contò 589mila vittime civili e 345mila orfani alla fine del conflitto. Quando
i soldati tornarono a casa vi fu però un boom delle nascite, aumentate del
45% tra il 1918 e il 1920. Le donne contribuirono in maniera decisiva al
funzionamento del fronte interno. Nell’industria lavoravano 651mila donne
nell’aprile del 1916, a ottobre dello stesso anno erano già 972mila per diventare 1milione e
240mila a metà 1917. Nell’industria bellica furono impiegate 23mila donne a
fine 1915 per arrivare a 198mila tre anni dopo. La paga di un’operaia
dell’industria bellica era di 5 lire al giorno, circa 7 euro di oggi. In
totale gli operai dell’industria bellica furono 902mila, la produzione passò
da 73 cannoni al mese nel 1913 ai 540 del 1918.
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GLI
ANIMALI. Molti
furono gli animali coinvolti nel conflitto. Furono usati 11 milioni tra
cavalli, muli e asini, 100mila cani, 200mila piccioni viaggiatori. Ogni mulo
poteva trasportare fino a 150 chili di peso. Gli animali furono anche alla
base dell’alimentazione dei soldati: gli stabilimenti militari italiani
confezionarono 173milioni di scatolette di carne suina e bovina, altri 62
milioni ne confezionò l’industria privata.
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GLI
ITALIANI AL FRONTE. La chiamata alle armi riguardò nel nostro Paese
circa 6 milioni di uomini, 2 milioni e 200 mila sotto i 25 anni, 300 mila
furono i rimpatriati dall’estero per l’arruolamento e 370mila furono i
giovani emigrati che non risposero alla chiamata. 100 circa i renitenti che
si nascosero sul territorio italiano, 650mila soldati morirono: tra questi
100mila perirono nei campi di prigionia del nemico. A questa cifra vanno
aggiunti gli italiani caduti combattendo in eserciti stranieri. 24366
italiani morirono nelle file dell’esercito austro-ungarico (11318 dei quali
trentini); i circa 300 volontari garibaldini finirono morti e dispersi in
Francia con la Legione Straniera francese prima del 24 maggio 1915; 100
cittadini italiani sono morti combattendo negli eserciti alleati di Francia,
Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e anche Sudafrica. Nel 1926 le pensioni di
guerra versate ai familiari dei caduti erano 655705.
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LA
POSTA. Tra
l’agosto del 1914 e il novembre del 1918 vennero inviati 28,7 miliardi di
lettere, cartoline e pacchi tra il fronte e la patria. Gli invii aumentarono
vertiginosamente durante il conflitto: nell’ottobre del 1914 il servizio
postale britannico smistò 650mila lettere e 85mila pacchi alla settimana. Nel
1916 furono spediti al fronte quasi 11 milioni di lettere e 875mila pacchi
alla settimana. In Francia furono inviati durante il conflitto circa 10
miliardi di missive, in Germania mediamente vennero smistati durante la
guerra ogni giorno 16,7 milioni di cartoline militari, lettere e pacchi dal
fronte in patria e viceversa. In Italia furono scambiati tra il fronte ed il
resto del Paese circa 4 miliardi tra lettere e cartoline, una cifra enorme
tenendo conto che più del 46% degli italiani era analfabeta.
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Articolo
in gran parte di Roberto Roveda pubblicato su Focus Storia n. 145. Altri testi
e immagini da Wikipedia.
Un’amara vittoria.
Per l’Italia il conflitto si concluse con un bilancio di
650mila morti, 450mila mutilati e un bottino di guerra decisamente al di sotto
delle aspettative.
Nel novembre 1918, l’Italia fu travolta da una
ventata di entusiasmo: dopo più di tre anni di aspri combattimenti e immani
sacrifici, la lunga guerra contro l’Austria-Ungheria era finalmente vinta. Ma
il fervore patriottico lasciò presto spazio alla dura realtà. Il bilancio della
vittoria era stato infatti tragico: circa 650mila morti, 450mila mutilati e tre
milioni di reduci. Sul fronte economico il Paese era letteralmente in
ginocchio, dissanguato dalle spese belliche, con interi territori devastata e
un’industria che stentava a riprendere il suo corso in tempo di pace.
ISOLATI. Amare
delusioni vennero poi dagli accordi di pace di Versailles. Prima dell’entrata
nel conflitto, nell’aprile del 1915, l’Italia aveva siglato a Londra un patto
segreto con gli Alleati che, in caso di vittoria, le garantiva un lauto bottino
territoriale a scapito dell’Austria. Oltre al Trentino, all’Alto Adige, al
Friuli, alla Venezia Giulia e all’Istria, l’accordo prevedeva l’occupazione
della Dalmazia (la cui popolazione era prevalentemente croata), ma a opporsi
furono gli Stati Uniti, entrati in guerra nel 1917 e dunque estranei al Patto.
Nei
suoi 14 punti il presidente Woodrow Wilson affermava che la rettifica delle
frontiere italiane doveva avvenire secondo le linee di nazionalità chiaramente
riconoscibili, considerando nullo qualsiasi patto segreto. Non bastasse, Wilson
si oppose alla richiesta di Roma di ottenere Fiume (odierna Rijeka, in
Croazia), che intendeva cedere al neonato regno dei Serbi, Croati e Sloveni
(futura Iugoslavia) nonostante le richieste di annessione dei numerosi fiumani
italiani, maggioranza in città. Di fronte a questi ostacoli, i rappresentanti
dell’Italia a Versailles aggravarono ancor più le cose. Se il presidente del
consiglio Vittorio Emanuele Orlando appariva incline alla trattativa, questa fu
bloccata in modo intransigente dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino. Alla
fine entrambi decisero di abbandonare la conferenza per protesta, ma furono
costretti a tornare al tavolo con la coda tra le gambe quando si accorsero che
gli Alleati stavano procedendo per conto loro, ignorandone l’assenza.
ARDITA IMPRESA. Gli
insuccessi e le gaffe diplomatiche causarono nel Paese un clima di disagio
sfruttato ad arte dai nazionalisti. Tra questi spiccavano Benito Mussolini,
all’epoca giovane direttore del Popolo d’Italia, e Gabriele d’Annunzio, il
poeta soldato, che per l’occasione coniò la celebre espressione vittoria
mutilata, accusando le potenze riunite a Versailles di negare il giusto
compenso “a una nazione vittoriosa, anzi
alla più vittoriosa di tutte le nazioni, anzi alla salvatrice di tutte le
nazioni”. Il vate non si limitò alla retorica: chiamato in causa dagli
stessi fiumani, decise di risolvere la questione con uno spettacolare colpo di
mano, simile a quelli che l’avevano reso famoso durante la guerra. Nel
settembre 1919 occupò Fiume insieme a una milizia di volontari, i cosiddetti
legionari fiumani, e a più di 2500 soldati del Regio Esercito passati dalla sua
parte. Dopodiché, tuonando contro il nuovo capo del governo Francesco Saverio
Nitti, definito con sprezzo Cagoia, creò sotto la sua eccentrica guida la
cosiddetta Reggenza del Carnaro, un mini Stato che mescolava elementi
nazionalisti ai principi del sindacalismo rivoluzionario. Tra saluti romani e
camicie nere, a Fiume D’Annunzio inaugurò un mix di rituali poi ripresi dal
regime fascista, ma la sua impresa, pur suscitando entusiasmo, non fece che
rimandare la soluzione del problema.
NUOVI EQUILIBRI. Nel
frattempo Nitti aveva altri grattacapi. L’inflazione galoppava, il costo della
vita era quadruplicato e folle esasperate saccheggiavano negozi di generi
alimentari. A farne le spese erano, fra gli altri, i reduci, spesso relegati ai
margini della vita civile. La democrazia liberale si stava lentamente sfaldando
sull’onda del malcontento popolare.
Nelle
elezioni del novembre del 1919 i nuovi partiti di massa fecero il pieno di
consensi: con il 32% i socialisti guadagnarono ben 156 parlamentari, seguiti
dai cattolici del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo (con il 20% e
100 seggi) e dal blocco costituito da liberali, democratici e radicali, mentre
fuori dal parlamento rimasero i neonati Fasci di combattimento. I socialisti
non furono in grado di sfruttare il trionfo e al loro interno prevalse la
corrente massimalista, contraria a qualsiasi alleanza. Così, dopo la parentesi
di un esecutivo Nitti, il 15 giugno 1920 fu varato un governo di coalizione
presieduto dal liberale Giovanni Giolitti. Questi aveva tirato le fila della
politica italiana nei vent’anni precedenti e ritornava ora in scena alla
veneranda età di 78 anni: non proprio il nuovo che avanza.
Francesco Saverio Nitti
BIENNIO ROSSO. La
situazione continuava a essere esplosiva, tra violenti scioperi e rivolte
contadine. Per natura incline al compromesso, Giolitti provò invano a mediare
varando riforme in favore dei lavoratori, tuttavia a prendere sempre più piede
furono i fascisti, che si presentarono come i veri tutori dell’ordine. “Le fortune del fascismo cominciarono verso
la fine del 1920, dopo l’occupazione delle fabbriche e le elezioni
amministrative dell’autunno, che assegnarono il declino del Partito Socialista.
La borghesia e i ceti medi, convinti di non essere più tutelati dal governo,
organizzarono forme di autodifesa per riaffermare i diritti della proprietà e
il primato nazionale contro il pericolo bolscevico.”, scrive lo storico
Emilio Gentile nel libro il fascismo in tre capitoli (edizioni Laterza). In
questo contesto incendiario, un episodio emblematico ebbe luogo a Bologna il 21
novembre 1920, in occasione dell’insediamento della nuova giunta socialista a
Palazzo d’Accursio (sede del comune) quando una bomba lanciata dalle Guardie
Rosse fece dieci vittime e alcune pistolettate uccisero il consigliere comunale
liberale Giulio Giordani. Nonostante avessero fatto proprio dell’intimidazione
un elemento chiave della loro politica, i fascisti riuscirono con abilità a volgere l’opinione pubblica a
loro favore e la cosiddetta “strage di Palazzo Accursio” entrerà poi nell’immaginario
collettivo del futuro regime. L’assassino non fu mai identificato, ma Giulio
Giordani, pur essendo un membro liberale del consiglio comunale, divenne il
primo martire fascista. “Con squadre armate organizzate
militarmente, nel giro di pochi mesi le camicie nere distrussero gran parte
delle organizzazioni proletarie nelle provincie della Val Padana, dove il
Partito Socialista e le leghe rosse erano arrivate a esercitare un controllo
quasi totale sulla vita politica ed economica”. Continua Gentile. Nel
frattempo, sullo sfondo, la questione della vittoria mutilata restava aperta.
Trattato di Rapallo
Giovanni Giolitti (seduto) firma il trattato di Rapallo. Al centro in primo piano il ministro degli esteri del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni Ante Trumbić.ContestoPrima guerra mondialeFirma12 novembre 1920LuogoRapallo, ItaliaCondizioniSistemazione del confine in Venezia Giulia e dello Stato libero di FiumeParti Italia
Regno dei Serbi, Croati e SloveniFirmatariGiovanni Giolitti
Milenko Vesnićvoci di trattati presenti su Wikipedia
Il trattato di Rapallo, firmato il 12 novembre 1920, fu un accordo con il quale l'Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni stabilirono consensualmente i confini dei due Regni e le rispettive sovranità, nel rispetto reciproco dei principi di nazionalità e di autodeterminazione dei popoli. Esso rappresentò la conclusione del processo risorgimentale di unificazione italiana sino al confine orientale alpino e l'annessione al Regno d'Italia di Gorizia, Trieste, Pola e Zara.
VITTORIA DI PIRRO. Sul
fronte diplomatico Giolitti fu più efficace e finalmente arrivò l’intesa sulle
zone contese: con il Trattato di Rapallo (novembre 1920), Roma rinunciava alla
Dalmazia (tranne Zara e le isole di Cherso) e Fiume assumeva lo status di città
libera, a cui fu garantito un collegamento territoriale con l’Italia. Si
trattava di un buon compromesso, tanto da essere accolto positivamente persino
da Mussolini, ma D’Annunzio lo respinse sdegnosamente. Nel Natale successivo,
ormai isolato dopo 16 mesi di occupazione, il Vate fu costretto a sloggiare
dalla Regia Marina a suon di cannonate. A conti fatti, in termini territoriali
l’Italia aveva guadagnato dalla guerra poco più di quanto era stato offerto nel
1915 dall’Austria-Ungheria per rimanere neutrale.
Nel
1921 il biennio rosso svolgeva al termine, e stretti tra repressione esterna e
lotte intestine, i socialisti non trovarono di meglio da fare che scindersi,
dando vita al Partito Comunista d’Italia. In parallelo, le elezioni segnarono
l’ingresso dei fascisti in Parlamento, sotto l’ombrello dei Blocchi Nazionali
voluti da Giolitti iper fermare le sinistri. Poco più di un anno dopo
marceranno su Roma.
La
Grande guerra, con nazionalisti e fascisti che avevano ormai fatto della
vittoria mutilata un tema propagandistico di grande presa, face così la sua
ultima vittima: la democrazia.
I
fasci di combattimento.
Il
23 marzo 1919, a Milano, nella sede del Circolo dell’alleanza industriale di
P.zza San Sepolcro, l’ex socialista rivoluzionario Benito Mussolini, già
autorevole direttore del quotidiano Il Popolo d’Italia, riunì un centinaio di
reduci, ex interventisti e futuristi dando vita a un antipartito ferocemente
avverso alla politica tradizionale: il movimento dei fasci di combattimento.
AL
POTERE. Nel programma, infarcito di toni nazionalistici e antiborghesi, si
rinnegava l’imperialismo e ci si richiamava al sindacalismo rivoluzionario.
I Fasci non ebbero tuttavia successo, tanto da subire una sonora sconfitta
alle elezioni politiche del 1919. Appena due anni dopo, però, nacque il
Partito Nazionale Fascista, che rinnegò gran parte del programma originario
dei Fasci riuscendo a scalare in fretta la vetta del potere.
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Articolo
in gran parte di Massimo Manzo pubblicato su Focus Storia n. 145. Altri testi e
immagini da Wikipedia.
Il fattore morale.
Quanto contò per le sorti
dell’Italia il cambio ai vertici tra l’intransigente Cadorna e il malleabile
Diaz?
Luigi Cadorna
“Sarah mia, dai giornali
avrai appreso la mia improvvisa nomina a Capo di Stato Maggiore (…) notizia
che mi giunse come un fulmine (…). Mi par di sognare”. Così scriveva il generale Armando
Diaz (1861-1928) alla moglie il 9 novembre 1917, dopo essere stato
catapultato al comando supremo del Regio Esercito. Non era il solo a essere
sorpreso: fino ad allora, nelle forze armante, pochi avevano sentito il suo
nome, e molti dubitarono della scelta. Ma si dovettero ricredere: in un anno,
risollevò le sorti dell’Italia nella Grande guerra.
MOMENTO CRITICO. La nomina di Diaz giunse all’indomani della
più disastrosa sconfitta mai subita dall’esercito italiano, piegato
dall’offensiva austro-tedesca del 24 ottobre 1917 a Caporetto. Quasi un terzo
delle forze italiane era fuori uso: oltre 280mila prigionieri e 40mila tra
morti e feriti. La linea del fronte arretrata sul Piave. Il Paese era
piombato nello sconforto, e il terremoto politico che ne derivò portò alla
caduta del governo liberale di Paolo Boselli e alla nascita di un esecutivo
guidato da Vittorio Emanuele Orlando. Fu poi decisa la sostituzione del Capo
di Stato Maggiore, il generalissimo Luigi Cadorna (1850-1928). “La sua destituzione fu richiesta a gran
voce da Francia e Inghilterra, che subordinarono a ciò ogni aiuto finanziario
e militare all’Italia. Grazie all’interessamento al ministro della Guerra
Vittorio Luigi Alfieri, la scelta cadde su Diaz, più malleabile del
predecessore. Quest’ultimo la prese malissimo, denunciando l’inadeguatezza
del sostituto, ritenuto incapace di le numerose e intricate fila del Comando.
I due provenivano da famiglie con tradizioni militare, ma non potevano essere
più diversi: duro e accentratore il primo, misurato e incline al dialogo il
secondo. Inoltre concepivano la guerra all’opposto: Cadorna come un vecchio
generale dell’Ottocento, trattava con sprezzo le autorità politiche, mentre
Diaz, dopo aver frequentato la scuola Allievi Ufficiali di Torino, si era
distinto nella Campagna di Libia (1911-1912), e infine aveva comandato un
corpo d’armata guadagnandosi una medaglia d’argento nella Grande Guerra. Non
era uno stratega ma impiegò i suoi uomini secondo criteri più razionali,
riuscendo a risparmiare così molte vite umane”, spiega lo storico Claudio
Rosso, autore del volume Armando Diaz (Rizzoli).
Armando Diaz
SU CON LA VITA. Anche il rapporto con le truppe era di segno
opposto: a differenza del generalissimo, che incolpò i soldati della disfatta
di Caporetto, secondo lui vilmente ritiratisi, Diaz ebbe sempre a cuore il
morale delle truppe. Concesse licenze più lunghe e con più facilità, promosse
attività sportive e ricreative, in ultimo, distribuì onorificenze al valore,
prima appannaggio dei gradi superiori, anche a sottoufficiali e soldati. “Diaz curò anche il rancio, che portò a
una razione giornaliera di 3600 calorie mentre nell’esercito nemico, a causa
della carestia, si attestava sulle 2000”, precisa Ross. Con l’aiuto del
ministro dell’Economia, Francesco Saverio Nitti, l’Italia fu la prima nazione
europea a istituire un’assicurazione sulla vita chiamata polizza combattenti,
che riservava un premio ai familiari dei militari in caso di morte. Ed in
ultimo creò istituzioni ad hoc come l’Opera Nazionale Combattenti.
SI VINCE. Cadorna aveva rivolto poca attenzione alla propaganda, affidandosi a conferenzieri dal linguaggio aulico e spesso incomprensibile, Diaz la ritenne indispensabile, tanto da istituire un’apposita commissione detta “Servizio P”, “Fu incoraggiata la pubblicazione e la lettura dei giornali (La Tradotta, La Ghirba, Signor Sì) ai qual collaborarono famosi scrittori” aggiunge l’esperto. Tutto questo, unito a un’efficiente organizzazione dell’esercito, diede i suoi frutti sul campo di battaglia: fra il novembre 1917 e l’ottobre 1918, vennero lanciate due grandi controffensive (una sul Grappa e una sul Piave), in cui vennero respinti gli ultimi disperati tentativi dell’esercito austro-ungarico di sfondare il fronte. Infine, il 24 ottobre, partì la dilagante offensiva di Vittorio Veneto, che portò gli italiani fino a Trento e Trieste. La guerra era ormai vinta, e il 4 novembre Diaz poteva stilare l’ormai celebre bollettino della vittoria. Ma la sua carriera politica fu breve: senatore nel 1921, ministro della Guerra nel 1922, si ritirò due anni dopo a vita privata per motivi di salute. Morì il 29 febbraio 1928. Nonostante gli onori non si era mai montato la testa: “ Posso dire in tutta sincerità di aver avuto un merito: quello di equilibrare tutte le forze e tutti gli ingegni altrui, quello di far regnare la calma fra i miei generali e la fiducia nelle truppe” dichiarò a guerra conclusa. Alle sue esequie a Roma, intervennero tutte le autorità del Paese- tranne una: Luigi Cadorna, ufficialmente per motivi di salute.
Articolo in gran parte di Massimo Manzo pubblicato su Focus
Storia n. 145. Altri testi e foto da Wikipedia.
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Saranno famosi.
Confusi tra milioni
di combattenti che presero parte alla Grande guerra vi furono anche artisti,
poeti, e sportivi non ancora noti. Ma anche futuri papi, presidenti e
dittatori, destinati in seguito a scrivere importanti (e talvolta tragiche)
pagine di guerra.
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Papa
Giovanni XXIII.
Nel
corso del conflitto il futuro Giovanni XXIII, svolse il ruolo di sergente di
sanità e di cappellano militare, dapprima nell’Ospedale militare di Milano e
poi a Bergamo. Chiamato alle armi nel 1915, don Angelo Roncalli, prestò servizio fino al 1918, mostrando un’indole
ottimista e gentile e dando prova di grande umanità nei confortare i soldati.
Decenni dopo, nel 1959, ricorderà l’importanza di quei avvenimenti che “fece
raccogliere nel gemito dei feriti e dei malati l’universale aspirazione alla
pace, sommo bene dell’umanità”. Giovanni XXIII dal 2017 è anche patrono
dell’Esercito italiano.
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Benito
Mussolini.
Dopo
essere approdato dal neutralismo all’interventismo più acceso, il futuro
duce, all’epoca direttore del quotidiano Il Popolo d’Italia, si arruolò
nell’11 bersaglieri, combattendo sull’Isonzo, in Carnia e sul Carso. Rimase
al fronte dal 1915 per quasi due anni, raggiungendo il grado di caporal
maggiore. In quel periodo compilò un diario, pubblicato a puntate sul suo
giornale, dallo stile asciutto, lontanissimo dalla retorica bellicista del
futuro Mussolini dittatore, raccontando “la
vita monotona ed emozionante, semplice e intensa” della trincea.
Un’esperienza che durò fino all’inizio del 1917, quando lo scoppio di un
lanciabombe lo ferì gravemente, allontanandolo definitivamente dal fronte.
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ADOLF
HITLER. Quando giunse al potere, nel 1933, il Fuhrer esaltò la sua passata
partecipazione alla Grande Guerra, che in realtà fu ben poco gloriosa. Allo
scoppio del conflitto si arruolò nell’esercito tedesco raggiungendo il grado
di caporale ma restando lontano dalla prima linea, fatta eccezione solo per
alcune sporadiche incursioni come portaordini: il capo del suo reggimento, il
colonnello Julius List, gli negherà sempre la promozione a sergente
ritenendolo privo di adeguate doti di comando. Tuttavia nel 1916 fu decorato
con la Croce di ferro per il ferimento a una gamba ricevuto durante il
servizio di portaordini. Nel 1918 a Marcoing, in Francia, durante un assalto
nemico alla sua trincea, gli fu risparmiata la vita. Il britannico Henry
Tandey, infatti, vedendolo ferito, non gli sparò: un gesto di umanità che
cambiò il corso della storia.
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SANDRO
PERTINI. Il futuro presidente partigiano, nonostante le posizioni
neutraliste, prese parte in prima linea ai combattimenti sull’Isonzo e sul
Pasubio nei ranghi dell’artiglieria, con il grado di sottotenente. Nell’agosto
1917, durante l’11 battaglia dell’Isonzo, guidò con successo un assalto alle
postazioni nemiche sul Monte Jelenik. Per l’eroismo dimostrato in
quell’azione fu proposto per la medaglia d’argento al valore, che tuttavia
non gli fu consegnata (è ancora incerto se a causa delle sue simpatie
socialiste o per la confusione che subentrò nell’esercito dopo la disfatta di
Caporetto. La decorazione gli fu in ogni caso conferita ufficialmente nel
1985, al termine del suo mandato da Presidente della Repubblica. Per il suo
impegno antifascista fu condannato nel 1926 al confino.
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CHARLES
DE GAULLE. Il generale e politico francese, presidente del Comitato francese
di Liberazione nazionale durante la Seconda guerra mondiale e Presidente
della Repubblica dal 1959 al 1969, a 24 anni, partecipò al conflitto con il
grado di sottotenente, al comando di una compagnia del 33° reggimento di
fanteria. Venne ferito nel corso della offensiva tedesca a Verdun in Francia,
(nel 1916), e fatto prigioniero dalle truppe del Kaiser nella cittadina di
Douaumont. Rimase in mano nemica fino alla fine del conflitto. Nei tre anni
di detenzione tentò di evadere cinque volte senza successo. Approfittò della
lunga prigionia per riflettere sugli errori commessi dagli alti comandi
francesi sviluppando una serie di argute riflessioni di strategia militare
che metterà a frutto successivamente.
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WINSTON
CHURCHILL. Durante la guerra, era Primo Lord dell’Ammiragliato (Ministro
della Marina), aveva 40 anni ed era già un politico in vista della Gran
Bretagna. La sua leadership fu però segnata da un grande flop: quello della
campagna di Gallipoli, in Turchia, condotta dalle forze della Royal Navy
sullo stretto dei Dardanelli contro gli ottomani. Da lui fortemente voluta.
Costretto alle dimissioni dopo la fine disastrosa dell’impresa, nel 1915,
Churchill servì sul fronte francese come tenente colonnello, e tornò al
governo nel 1917 come ministro delle Munizioni. Fino alla seconda guerra
mondiale però il disastro di Gallipoli rimase una macchia indelebile sulla
sua reputazione.
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ERWIN
ROMMEL. Il generale tedesco al comando della Panzer division in Francia nel
1940 e dell’Afrikakorps in Nordafrica durante la Seconda guerra mondiale,
passato alla storia come la volpe del deserto, dimostrò, fin dal primo
conflitto mondiale, straordinarie abilità militari e strategiche. In quegli
anni, con il grado di tenente, prestò servizio in Francia e in Romania per
poi finire in Italia, dove prese parte alla terribile offensiva di Caporetto.
La brillante operazione gli valse la più alta decorazione al valore
imperiale, la Pour le Mérite. E fu sempre in Italia che, al comando di due
compagnie del battaglione di montagna del Wurttemberg, applicò con successo
la nuova tattica dell’infiltrazione nelle linee nemiche, resa possibile
dall’invenzione delle mitragliatrici leggere.
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TAZIO
NUVOLARI. Terminato il servizio di leva tra il 1912 e il 1913, il futuro asso
dell’automobilismo
noto come mantovano volante, fu
richiamato alle armi nel 1915. Il suo ruolo fu di autiere, ovviamente.
Durante il conflitto sfrecciò guidando le ambulanze della Croce Rossa e
trasportando ufficiali da una parte all’altra del fronte. Si racconta che una
volta uscì fuori strada e il colonnello che era con lui gli avrebbe
consigliato di lasciar perdere le auto. Fortunatamente non seguì il
consiglio.
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ENZO
FERRARI. La Prima guerra mondiale colpì molto duramente la famiglia di Enzo
Ferrari. Suo fratello maggiore, Dino, infatti, arruolatosi volontario, morì
durante il conflitto, nel 1916. Enzo invece trascorse la sua esperienza al
fronte tra le file degli alpini, prendendo servizio nel 1917, e fu congedato
poco dopo a causa di una gravissima pleurite. Dopodiché, nel 1923, in
occasione di una corsa sportiva, conobbe la madre del grande aviatore
Francesco Baracca, che gli donò l’emblema del figlio come portafortuna. Era
il celebre cavallino rampante, poi divenuto il simbolo della casa
automobilistica da lui fondata, la Ferrari.
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NEDO
NADI. Prima di entrare in guerra, colui che diventerà uno fra i più grandi
schermitori italiani, aveva già vinto un oro nel fioretto alle Olimpiadi di
Stoccolma nel 1912. Durante il conflitto il livornese continuò a fare man
bassa di decorazioni, questa volta al valor militare: due medaglie come
ufficiale del reggimento di cavalleria Alessandria. Rischiò la corte marziale
per aver fraternizzato con un altro schermitore arruolato tra gli austriaci.
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CURZIO
MALAPARTE. Quando scoppiò la guerra il celebre giornalista e scrittore
toscano, all’anagrafe Curzio Suckert, aveva appena sedici anni, ma decise di
arruolarsi, inizialmente nella Legione Straniera Francese. Nel 1915, si unì
alle forze italiane, appena entrate in guerra, in qualità di fante,
guadagnandosi il grado di tenente e una medaglia di bronzo al valore. Il suo
primo libro, pubblicato nel 1921, lo dedicò proprio alla guerra e lo intitolò
provocatoriamente Viva Caporetto. In esso i politici e i generali venivano
additati come i principali responsabili del disastro. Dopo essere stata
sequestrata a causa proprio del
titolo, nello stesso anno l’opera fu ripubblicata con un nuova titolazione:
la rivolta dei santi maledetti.
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GIUSEPPE
UNGARETTI. Arruolatosi volontario nel 1915 e assegnata alla Brigata Brescia
il famoso poeta combatté fino al 1918, prima sul fronte italiano e poi su
quello francese. Oltre a collaborare con un giornale di trincea, il Sempre
Avanti, durante l’esperienza al fronte raccolse le idee che ispirarono la sua
prima raccolta di poesie, intitolata il Porto sepolto e pubblicata nel 1916
grazie a un ufficiale suo amico, di nome Ettore Serra. Tre anni più tardi
questi versi confluirono nell’opera Allegria di naufragi, primo grande
successo della sua lunga carriera letteraria.
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TOTO’.
Insofferente alla vita militare, nel 1915 il grande attore partenopeo,
all’anagrafe Antonio De Curtis, fu assegnato al 182° battaglione di fanteria,
destinato a combattere sul fronte francese. Non lo raggiungerà mai: durante
il tragitto in treno, spaventato (così si racconta) dalle strane abitudini
sessuali dei soldati marocchini che viaggiavano con lui, finse alla
perfezione un attacco epilettico riuscendo a evitare i combattimenti.
Trascorse l’ultimo periodo da militare stanziato a Livorno. Probabilmente
proprio l’esperienza sotto le armi gli ispirò l’interrogativo Siamo uomini o
caporali?, che è il titolo di un suo celebre film del 1935
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HERNEST
HEMINGWAY. Come molti suoi coetanei Hemingway si arruolò volontario
nell’esercito statunitense, ma per un difetto alla vista fu relegato ai
servizi di autoambulanza nell’American Red Cross e inviato sul Piave. Qui,
nel giugno 1918, mentre stava portando cioccolata e sigarette per i soldati, fu
colpito da alcune schegge di mortaio e, pur ferito, riuscì a mettere in salvo
un militare italiano. Per l’eroismo dimostrato, il governo di Roma gli
conferì la medaglia d’argento al valore. Nel corso della sua permanenza in
Italia collaborò per un quotidiano chiamato Ciao, e la sua esperienza al
fronte fu indispensabile per la stesura di uno dei suoi romanzi più noti:
Addio alle armi del 1929.
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WALT
DISNEY. Seguendo le orme dei due fratelli maggiori, già sotto le armi, nel
1917 Disney tentò di arruolarsi sotto le armi, ma la sua domanda fu respinta
perché troppo giovane (aveva 16 anni). Ciò nonostante, l’anno seguente riuscì
a entrare nell’American Red Cross falsificando la data di nascita. Arrivò
però in Francia quando la Germania aveva siglato l’armistizio. Vi rimase
quasi un anno e in questo periodo, che in futuro considerò essenziale per la
crescita della sua autostia, continuò a disegnare fumetti, ispirato proprio
dalla vita militare.
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CARLO
EMILIO GADDA. Fervente patriota e acceso interventista, si arruolò volontario
negli Alpini nel 1915 e visse in prima persona, da ufficiale, il dramma di
Caporetto. A seguito della disfatta fu fatto prigioniero e incarcerato in
Germania, nei pressi di Hannover, dove rimase fino alla fine del conflitto.
Alcune parti del suo diario, pubblicate nel secondo dopoguerra, contengono
una spietata denuncia delle condizioni di vita dei prigionieri, oltre a una
feroce critica all’incompetenza di molti generali. Tornò in Italia nel 1918,
appena in tempo per apprendere la tragica morte in combattimento del
fratello, all’epoca pilota.
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L’amaro ritorno dei
reduci.
Finita la Grande
guerra, nel 1918 l’Europa si ritrovò
sommersa da un numero enorme di reduci. Solo in Italia erano quasi tre
milioni, mentre la Germania sconfitta ne ebbe il doppio. Il loro fu un
ritorno difficile: dopo anni passati tra sanguinosi combattimenti e in
condizioni igieniche precarie (o peggio in prigionia) una volta tornati a
casa gli ex combattenti, molto spesso operai o contadini, si aspettavano di
godere di condizioni di vita agevolate. Ma per molti di loro il reinserimento
nella vita civile fu impossibile per via della grave crisi economica e
industriale che attanagliò i Paesi europei (sia vinti che vincitori), nel
dopoguerra,
MALCONTENTO. La frustrazione dei reduci, abbandonati dalle istituzioni, li portò a infoltire le file dei nuovi partiti di massa, come quello socialista, o a divenire protagonisti di numerose proteste, spesso violente, contro la classe politica dominante. Ad approfittarne furono le nascenti forze nazionaliste, il fascismo in Italia e i più tardi il nazismo in Germania, che fecero leva sul loro risentimento, per mettere in crisi la tenuta di precari regimi democratici. |
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Articoli
in gran parte a cura di Massimo Manzo
pubblicato su Focus storia n. 145 del mese di ottobre 2018.
Il vero killer del XX
secolo.
L’influenza spagnola era
in realtà americana. Fece più vittime della Grande Guerra e si diffuse proprio
a causa del conflitto.
“Eppur
si muore”. Parafrasando Galileo ecco una frase che avrebbe potuto esprimere lo
sconcerto di qualsiasi medico di fronte al divampare planetario dell’influenza
spagnola, vera piaga biblica del XX secolo, annunciatasi sotto le mentite
spoglie di un banale malessere di stagione. Definita il più grande olocausto
sanitario della Storia, la pandemia nel 1918 si sovrappose alle fasi finali
della Grande Guerra, addirittura surclassandone il triste primato in vite
umane: se infatti i morti del primo conflitto mondiale furono circa 10 milioni,
quelle della spagnola, secondo stime aggiornate oscillerebbero tra i 50 e i 100
milioni di persone – di cui circa 600mila solo in Italia – cioè da 3 al 5%
della popolazione mondiale dell’epoca. Numeri superiori anche a quelli della
famigerata Peste Nera che a metà del Trecento devastò l’Europa: allora morì
circa un terzo degli abitanti del continente, ma a conti fatti solamente 20
milioni di individui.
29 maggio 1919, Massachusetts. Come in tutti i paesi, anche qui, in seguito al riempirsi degli ospedali, si fecero costruire ospedali da campo per sopperire alle esigenze dei malati
COLPA DEL CONFLITTO. Sull’origine
geografica dell’apocalisse virale che un secolo fa portò la morte in ogni
angolo del mondo non esistono prove certe. Una delle ipotesi più accreditate è
quella dello storico americano John. Barry, autore del volume The Great
influenza (Penguin), secondo cui il primo focolaio della malattia si sviluppò
nella contea di Haskell, in Kansas (Usa), dove il medico di campagna Loring
Miner descrisse per la prima volta la patologia con sintomi simili a una comune
influenza, ma di intensità insolita e talora letale. Tuttavi “Isolata e spopolata com’era Haskell, il
virus che infettava la contea avrebbe potuto facilmente rimanere dov’era, sena
riuscire a diffondersi nel resto del mondo. Ma quello era tempo di guerra”, racconta
Barry. Accade dunque che numerose
reclute si mossero da Haskell verso Camp Funston, all’epoca uno dei più grandi
acquartieramenti del Paese per addestrare le truppe americane da inviare in
Europa. Fu cos’ che un virus pericolosissimo ma a dimensione provinciale fu
catapultato nel vasto mondo. Una tesi confermata anche dalla giornalista
scientifica inglese Laura Spinney nel suo recente 1918. L’influenza spagnola.
La pandemia che cambiò il mondo (edizioni Marsilio). La mattina del 4 marzo
1918, scrive Spinney, un cuoco di Camp Funston, tale Albert Gitchell, andò in
infermeria lamentando mal di gola, febbre e mal di testa. “All’ora di pranzo l’infermeria si trovò a gestire più di cento casi
simili, e nelle settimane successive il numero dei malati crebbe a tal punto
che il capo ufficiale medico del campo fu costretto a requisire un hangar per
sistemarli tutti”. Nel frattempo, complici i trasferimenti di soldati,
l’epidemia si era diffusa in due terzi dei centri di reclutamento degli USA.
Spostandosi con i militari, “a metà
aprile l’influenza aveva già raggiunto il Fronte occidentale” sottolinea la
studiosa. E ben presto anche le truppe
tedesche dovettero vedersela con quello che all’inizio chiamarono blitzkatarrh,
il catarro fulmineo. Dalle prime linee l’epidemia si propagò velocemente in
tutta Francia e da lì in Gran Bretagna, Italia, Germania, Spagna, Polonia.
Prima della fine di maggio aveva attraversato l’Africa alla volta dell’India e
quindi della Cina, lasciandosi dietro legioni di malati e anche molti cadaveri.
Non così tanti, però: “Era infatti la
prima ondata della pandemia, relativamente leggera”.
Differenza tra la mortalità influenzale secondo le varie età tra l'epidemia del 1918 e le precedenti epidemie. Decessi per 100.000 persone in ogni fascia di età, Stati Uniti, per gli anni interpandemici 1911-1917 (linea tratteggiata) e l'anno pandemico 1918 (linea continua)[43]
EFFETTO DOMINO. In
agosto, l’influenza tornò: trasformata e ben più letale. Tre i focolai
accertati: Brest in Francia, Freetown in Sierra Leone e Boston negli Stati
Uniti. Da lì, con un devastante effetto domino, il virus si sparse ovunque
attraverso uomini e navi, ma soprattutto come conseguenza delle logiche di
guerra per cui i malati in forma leggera restavano al loro posto in trincea,
mentre quelli più gravi e contagiosi tornavano a casa, o comunque in ospedali
da campo affollati e promiscui, contribuendo a diffondere la malattia. Il
quadro può dirsi completo se aggiungiamo anche l’assenza di antibionici
(saranno scoperti solo un decennio dopo, e avrebbero potuto rivelarsi decisivi
contro polmoniti e infezioni batteriche, i veri killer degli organismi
debilitati dalla spagnola), le precarie condizioni igenico-sanitarie e le
terapie grossolane come le dosi da cavallo di aspirina, somministrata in
quantità dieci volte superiori a quelle attuali. La pandemia non risparmiò
quasi nessun angolo del globo, nemmeno l’Alaska o i più isolati atolli del
Pacifico. Oltre alla guerra degli eserciti infuriava quelle delle etichette: “I medici militari francesi la chiamavano
cripticamente maladie onze, ovvero malattia undici; in Senegal era l’influenza
brasiliana, in Brasile l’influenza tedesca, in Danimarca la malattia che viene
dal sud, in Polonia la malattia bolscevica, i persiani incolpavano gli inglesi
e i giapponesi i loro celebri lottatori: diagnosticata per la prima volta
durante un torneo, divenne l’influenza del sumo” scrive Laura Spinney.
Perché allora la malattia del secolo passò alla storia con il nome
convenzionale di Spagnola? Semplicemente perché in tutti i Paesi in guerra la
censura militare nascondeva le notizie sulla malattia per non demoralizzare la
popolazione già provata dal conflitto. La Spagna invece era rimasta neutrale e
permetteva ai giornali di scrivere diffusamente della mortale influenza
chiamata in quel Paese soldato napoletano, dal nome di un motivetto in voga, e
che aveva contagiato anche il re Alfonso XIII e il primo ministro. Altra
singolarità della spagnola era quella di colpire giovani adulti in buona salute
anziché vecchi e bambini, tradizionali vittime designate di ogni epidemia.
Questo perché erano proprio gli organismi
più forti a sviluppare la cosiddetta tempesta di citochine, una reazione
immunitaria fuori controllo e dagli esiti potenzialmente fatali. Con la
spagnola essere giovane diventava dunque uno svantaggio; in particolare per le
donne incinte. In più, secondo recenti studi, i giovani tra i 18 e i 30 anni
nel 1918 si trovavano in una sorta di finestra di vulnerabilità: non avevano
infatti sviluppato le difese immunitarie legate all’insorgenza di due virus
simili a quelli della spagnola, rispettivamente nel 1889 (la cosiddetta
influenza russa) e nel 1900.
Un grafico che mostra il numero di decessi nelle principali città, con un picco tra ottobre e novembre 1918.
VIRUS IN RITIRATA. La
spagnola scemò nella primavera del 1919 repentinamente come era comparsa. La
malattia di cui non si parlava mai – e di cui a lungo si continuò a tacere, per
non guastare il clima euforico del dopoguerra – aveva cambiato il volto del
pianeta, almeno quanto il massacro globale appena concluso. Tra i decessi
eccellenti il poeta Guillame Apollinaire, il pittore Egon Schiele (non prima di
aver ritratto su tela la moglie Edith, in agonia dello stesso male), l’autore
del Cyrano di Bergerac Edmond Rostand, l’ex presidente brasiliano Francisco de
Paul Rodriguez Alves. Ben più vasto invece
l’elenco delle celebrità che guarirono: da Ernest Hemingway a Theodore
Roosevelt a Ezra Pound, fino al futuro imperatore d’Etiopia Hailé Selassié e al
padre della Turchia moderna, Mustafà Kemal Ataturk.
A LUNGO TERMINE. Ma
gli effetti a lungo termine, ribadisce Laura Spinney, sono ancora tutti da
investigare. Anzitutto la pandemia potrebbe averne propiziata un’altra, quella
di encefalite letargica del 1919-1920. Inoltre è molto probabile che la
spagnola fosse una malattia cronica, con un impatto negativo sulla salute di
alcuni individui per mesi o anche anni successivi. Tra gli ex ammalati di
spagnola gli esempi non mancano: il musicista ungherese Béla Bartok sviluppò
un’infezione all’orecchio che lo rese sordo a vita. Amelia Earhat, pioniera
dell’aviazione femminile, ebbe una sinusite che secondo alcuni ne compromise la
capacità di volare, contribuendo forse alla tragedia in cui perse la vita
durate la trasvolata del Pacifico (vedi articolo su questo blog dedicato
all’episodio e all’aviatrice). Quanto al presidente americano Woodrow Wilson,
convalescente della terza e ultima ondata di spagnola, agli incontri di Parigi
nel 1919 era l’ombra di se stesso; fu così che nella Conferenza di pace passò
la linea dura del primo ministro francese Clemenceau, che umiliava la Germania
con pesantissime riparazioni, ponendo le basi di quel malcontento popolare che
sarebbe stato un formidabile alleato per l’ascesa al potere di Hitler. Fuori
dal coro e decisamente meno nota la vicenda del fisico ungherese Leo Szilard, a
cui la spagnola salvò la vita: soldato con la divisa austrica, fu rispedito
febbricitante a Budapest evitando così la sorte del suo reggimento, spazzato
via dagli italiani a Vittorio Veneto. “In
seguito Szilard si trasferì in America e lavorò alla fissione nucleare. Fece
parte del gruppo impegnato nella produzione della prima bomba atomica…”
ricorda Spinney. Bizzarie di una storia che nelle parole del celebre
batteriologo Hans Zissner – attivo sui fronti europei della Grande Guerra come
ufficiale medico – è spesso scritta più dai microbi che dagli uomini.
Un
altro articolo sulla pandemia della spagnola è stato pubblicato su questo blog
da questo link https://articolistoria.blogspot.com/2018/07/la-spagnola-la-grande-epidemia-del-1918.html
Articolo
in gran parte di Adriano Monti Buzzetti Colella pubblicato su Focus storia n.
145. Altri testi e immagini da Wikipedia.
Patria ingrata.
La guerra del 15-18 fu per gli ebrei italiani l’occasione
di sentirsi finalmente cittadini le Belpaese. Vennero ripagati nel peggiore dei
modi.
Il 4 novembre
1918 sui fronti italiani della Grande guerra le artigliere tacquero e per molti
soldati incominciò il tanto atteso ritorno a casa. Quel giorno fu particolare
per tantissimi, ma fu ancora più speciale per gli ebrei d’Italia. Avevano
partecipato alla guerra e avevano condiviso le sofferenze del Paese: erano
partiti per il fronte 5mila soldati, su una popolazione ebraica totale di
35mila individui.
In
quel giorno si sentirono non più solo ebrei ma italiani al fianco di altri
italiani. Era l’ultimo atto di un percorso di emancipazione iniziato quanto
diventarono a pieno titolo cittadini del Piemonte nel 1848 e poi, tra il 1859 e
il 1861, cittadini italiani. Nel Regno d’Italia trovarono una patria di cui
furono fieri, come racconta Gadi Luzzato Voghera, presidente della Fondazione
Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec): “Da quando era stata attribuita loro la cittadinanza gli ebrei ebbero
una partecipazione molto attiva nella società italiana e nelle vicende
politiche del Paese. Erano ebrei molti parlamentari, intellettuali, professori
universitari, professionisti. E gli ebrei contribuirono attivamente alla
discussione sulla partecipazione italiana
UGUALI TRA UGUALI. Anche
i membri della comunità ebraica si divisero, infatti, tra interventisti e
neutralisti. Tutti furono però uniti da una comune concezione riguardo al loro
status all’interno della nazione. Spiega Luzzati: “parteciparono al dibattito sulla guerra e poi al conflitto non
sentendosi membri di una componente religiosa, ma come italiani. Volevano prima
di tutto rivendicare il proprio diritto-dovere di essere uguali fra uguali”.
Fu questo a spingere molti ebrei a offrirsi come volontari. Così fece per
esempio Riccardo Luzzato, che era stato tra i mille di Garibaldi e che venne
decorato con medaglia d’argento a 73 anni. Tra gli ebrei ci furono ragazzi del Novantanove come
Alberto Segre, padre di Liliana, oggi senatrice a vita; tanti ufficiali medici:
molti graduati, dato che la metà dei soldati di origine ebraica combatté come
ufficiale e sottoufficiale; numerose crocerossine. Fu un’adesione totale alla
causa patriottica con tanto di album d’epoca colmo di foto di caduti, parenti
al fronte e bimbi vestiti da militari come i papà e i nonni. “Dare il proprio contributo nella guerra
voleva dire sancire definitivamente la propria cittadinanza italiana,
l’appartenenza alla compagine nazionale, e completare il processo di
integrazione che era costato non poca fatica e sofferenze”, precisa Luzzato
Voghera. L’unica specifica presenza ebraica fu l’istituzione del rabbinato
militare, fortemente voluto dal rabbino capo di Roma Angelo Sacerdoti per dare
conforto religioso, proprio come accadeva già con i cappellani militari
cattolici.
SUI FRONTI OPPOSTI. La
guerra del 15-18 fu epocale per gli ebrei per un’altra ragione. Per la prima
volta essi militarono nei vari eserciti e combatterono su fronti opposti. Ben
320mila erano infatti, nell’esercito austriaco, 100mila in quello tedesco,
50mila tra le file inglesi, 55mila quelli francesi, 650mila quelli russi. “In quel primo Novecento, l’ideale di
nazione fu più forte di tutti, e gli ebrei lo abbracciarono con convinzione, al
pari di tantissimi loro contemporanei. Così ci furono ebrei triestini che
scelsero di rimanere con l’Austria e molti ebrei di Trieste che parteggiarono
per l’Italia. Alcuni furono arrestati,
altri giustiziati, altri ancora si arruolarono nell’esercito italiano”
spiega Luzzato Voghera. La Grande Guerra rimescolò completamente le carte
dell’Europa, tanto che tra i rappresentanti italiani alla conferenza di pace di
Parigi un ruolo di primo piano lo ebbe proprio un ebreo irredentista, Salvatore
Barzilai, l’uomo cui si deve la richiesta italiana di ricevere come bottino di
guerra, l’Alto Adige, l’Istria e la Dalmazia. Il caso di Salvatore Barzilai fa
capire quanto fosse ampio e di alto livello la presenza ebraica nel nostro
paese negli anni di guerra.
“Molti considerarono il conflitto
come il coronamento del Risorgimento e aderirono poi al progetto nazionalista
rappresentato dal fascismo”, racconta Luzzato
Voghera.
PUGNALATI ALLE SPALLE. Lapidi
in onore dei caduti spuntarono sulle mura delle sinagoghe e nelle
commemorazioni non mancava mai una presenza ebraica, quasi a lasciare intendere
che l’antisemitismo era morto e sepolto. Addirittura il monumento commemorativo
a Roberto Sarfatti venne inaugurato da Vittorio Emanuele III nel 1938. Pochi
giorni dopo lo stesso sovrano firmò le leggi razziali. “Per il patriottismo ebraico fu un tradimento inaspettato e
inspiegabile. Ancora nel 1940 molti ebrei fecero richiesta di arruolamento ma
fu tutto inutile.” conclude Luzzato.
Per
gli ebrei italiani il destino fu comune agli ebrei tedeschi, morti in diecimila
per il kaiser e poi umiliati e uccisi da Hitler. Delle migliaia di vittime
della Shoa in Italia, circa 250 furono i combattenti ebrei che vennero
deportati e uccisi nei campi di sterminio nazisti. L’odio che infiammò l’Europa
non risparmiò nessuno, nemmeno gli eroi.
Articolo
in gran parte di Roberto Roveda pubblicato su Focus Storia n. 145. Altri testi
e foto da Wikipedia.
Dal mito alla propaganda.
Come gli eroi e i caduti vennero strumentalizzati dal
fascismo.
Consolidare
il mito della Grande guerra e idealizzare la memoria dei caduti. A questo
servirono i monumenti e i parchi della rimembranza che furono realizzati in
tutta Italia dopo la fine del conflitto. Fu però il fascismo a usare tale mito
a fini politici e di propaganda, per rafforzare il consenso intorno al nascente
regime. Appena giunto al potere Mussolini volle standardizzare l’iconografia
della memoria accentuando il tono nazionalistico e militaristico dei monumenti.
A partire dagli anni ’30 si procedette allo smantellamento di moti piccoli
cimiteri e si iniziarono a costruire decine di sacrari e ossari monumentali nei
territori che erano stati teatro di guerra. E al loro interno vennero traslati
i resti di migliaia di soldati. Furono realizzate opere architettoniche
imponenti – a cominciare dalla principale, il Sacrario di Redipuglia – usando
uno stile ispirati ai fasti dell’antico impero romano. Attraverso questi
monumenti e realizzando una sorta di fascistizzazione postuma dei caduti, il regime
cercò di porsi come l’ere degli eroi della Grande Guerra.
ENRICO TOTI. (1882-1916)
prima di diventare un eroe della Grande guerra, Toti era stato il primo atleta
paraolimpico della storia d’Italia. Nato a Roma, a 26 anni un gravissimo
incidente sul lavoro gli costò l’amputazione dell’intera gamba sinistra. Tre
anni dopo intraprese il giro del mondo con una bicicletta dotata di un solo
pedale, da lui stesso modificata. Allo scoppio del conflitto cercò in tutti i
modi di partecipare allo sforzo bellico dell’Italia, ma le sue domande di
arruolamento vennero respinte a causa della grave menomazione. Partì lo stesso
per il fronte e riuscì infine a farsi destinare al Comando di Cervignano del
Friuli come volontario civile. Affrontò la vita di trincea come tutti gli altri
e prese parte ai combattimenti sul Carso. Il 6 agosto 1916, durante la sesta
battaglia dell’Isonzo, fu colpito a morte. Una famosa copertina della Domenica
del Corriere lo ritrae mentre scaglia la sua stampella contro il nemico, poco
prima di essere ucciso.
FRANCESCO BARACCA (1888-1918)
Nato a Lugo (Ra) da una famiglia benestante, fu un asso dell’aviazione
italiana, fiore all’occhiello della 91° Squadriglia di aerei da caccia che si
rese protagonista di decine di epici combattimenti. Le circostante della sua
morte sono ancora avvolte nel mistero: il 19 giugno 1918 cadde con il suo
biplano sulle pendici del Montello nell’Alto Trevigiano, con ogni probabilità
colpito da terra dalle postazioni austro-ungariche. A lungo gli storici si sono
divisi sulla sua fine, arrivando a ipotizzare un suicidio e contribuendo così
ad alimentare il mito.
NAZARIO SAURO (1880-1916) Nato
in Istria da genitori italiani, fu fin da giovane un convinto sostenitore degli
ideali mazziniani di indipendenza dei popoli. Su arruolò come volontario nella
Marina italiana e guidò decine di incursioni sulle coste dell’Istria e del
Quarnero a bordo dei sommergibili, prima di essere catturato dalle autorità
austro-ungariche durante una missione al largo di Fiume. Condannato a morte per
alto tradimento e impiccato a Pola il 10 agosto del 1916, è da allora
considerato il principale martire dell’irredentismo istriano. Dopo la guerra il
suo corpo fu persino riesumato per conservarne le reliquie. Dal ’47 la salma è
al Tempio votivo (famedio) del Lido di Venezia, dedicato ai Caduti della Grande
Guerra.
CESARE BATTISTI (1875-1916)
DAMIANIO CHIESA (1894-1916) FABIO FILZI (1884-1916).
Nel
1916 questi tre irredentisti furono condannati a morte per alto tradimento e
giustiziati nel Castello del Buoncosiglio (Tn). Nato a Trento già prima della
guerra, Battisti, deputato socialista al parlamento di Vienna, si convinse che
solo con le armi sarebbe stato possibile staccare il Trentino dall’Austria, e
si arruolò come volontario nell’esercito italiano. Combatté contro le forze
austro-ungariche e fu catturato sui fronti di guerra insieme ai suoi due
compagni di lotta irredentista. Damiano Chiesa, nato a Rovereto, e Fabio Filzi,
nato a Pisino in Istria. Le sue ultime parole prima di salire sul patibolo che
Battisti pronunciò furono: Viva Trento italiana, viva l’Italia. Da allora i tre
martiri sono considerati eroi nazionali dallo stato italiano.
I monumenti alla memoria.
1. SACRARIO
MILITARE DI ASIAGO, 1936
Voluto
dal fascismo nel 1932 e ultimato quattro anni dopo, raccoglie le salme di
54.000 caduti.
2. OSSARIO
DEL MONTE CIMONE. (1929)
Tonezza
del Cimone. Custodisce i resti di 1210 caduti (ignoti) ed è uno dei simboli
della provincia di Vicenza.
3. SACRARIO
MILITARE DI OSLAVIA.
Gorizia
1938. Custodisce le spoglie di 57741 soldati di cui 36000 morti nelle battaglie
di Gorizia.
4. TEMPIO
DELLA VITTORIA
Milano
1928. Complesso monumentale eretto in occasione del decennale della Vittoria
contro gli austriaci.
5. OSSARIO
DELLA CHIESA DELLA GRAN MADRE.
Torino
(1932) Nella cripta della chiesa (uno degli edifici più famosi della città)
sono ospitate
Le
spoglie di oltre 3000 soldati.
6. TEMPIO
DEL BASSANO DEL GRAPPA (1934). Sono tumulati in ordine alfabetico 5405 soldati
italiani
7. SACRARIO
MILITARE DEL MONTE GRAPPA.
Cresparo
del Grappa 1935 Contiene 12615 salme di soldati italiani e 10295 di caduti
austro-ungarici.
8. OSSARIO
DEL MONTE PASUBIO.
Valli
del Pasubio 1926. Sorge sul Colle di Bellavista a 1265 metri, e contiene le
ossa di oltre 5146 soldati italiani e 40 austro-ungarici caduti durante i
combattimenti sul monte Pasubio.
9. MONUMENTO
ALLA VITTORIA.
Bolzano
1928. Progettato dall’architetto Marcello Piacentini e inaugurato il 12 luglio
1928 nell’anniversario della morte dell’irredentista trentino Cesare Battisti,
è al tempo stesso un sacrario dedicato ai caduti e un concentrato di retorica
fascista usata per italianizzare l’Alto Adige.
10 . TOMBA
DEL MILITE IGNOTO.
Roma,
P.zza Venezia 1921. La cerimonia di tumulazione dell’eroe senza nome, simbolo
di tutti i soldati italiani caduti durante la Prima guerra mondiale, si tenne
il 4 novembre 1921. Fu la più grande manifestazione patriottica dell’Italia
unita.
11. SACRARIO DI REDIPUGLIA. Detto anche Sacrario dei Centomila, si trova
nel comune di Fogliano Redipuglia (vicino a Gorizia), ed è il principale
monumento italiano dedicato ai caduti della Grande guerra. Voluto dal regime
fascista, venne realizzato su progetto dell’architetto Giovanni Greppi e dello
scultore Giannino Castiglioni e inaugurato il 19 settembre 1938 nell’ambito
delle celebrazioni del ventennale della vittoria nel conflitto. Contiene le
salme di oltre centomila soldati italiani ed è suddiviso in tre parti
principali: una grande piazza con le targhe che ricordano i diversi luoghi di
combattimento sull’Isonzo uno spazio con la tomba di Emanuele Filiberto duca
d’Aosta e dei comandanti della Terza Armata e infine una gigantesca scalinata
che raccoglie in ordine alfabetico le salme di circa quarantamila caduti
identificati, il cui nome è inciso su una lastra di bronzo. In due grandi tombe
comuni sono stati poi collocati i resti di quasi sessantamila caduti ignoti.
Ogni loculo è sormontato dalla scritta PRESENTE ripetuta all’infinito, che
richiama il rito dellappello caro al fascismo.
Articolo
in gran parte di Riccardo Michelucci pubblicato su Focus Storia n. 145 altri
testi e immagini da Wikipedia
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