Quando c’era Napoleone.
Tempo libero, lavoro e moda in Francia negli anni del primo
impero, fra il 1804 e il 1814. Un decennio che ribaltò gerarchie sociali e modo
di pensare.
Il
quattro maggio 1914 la nave inglese Undaunted approdò nella rada di
Portoferraio. Il generale Dalesme, governatore generale dell’isola d’Elba,
sapeva che a bordo un illustre personaggio stava per sbarcare. Finì così
l’impero di Napoleone (anche se ci sarà la parabola dei 100 giorni e l’esilio
definitivo), conquistato a una velocità inconcepibile, ma segnato da uno stato
di guerra permanente. Lo scrittore Francois René Chateubriand, accanito
oppositore di Bonaparte, stimava che nelle battaglie combattute dal Grande
Corso fossero morti cinque milioni di soldati, anche se valutazioni più
obbiettivi fanno oscillare la cifra fra i due e i tre milioni. Eppure questa
carneficina, che spopolò le campagne, non provocò una flessione significativa
della popolazione francese, che restò stabile a 30 milioni di abitanti. Perché?
Era calata la mortalità: le condizioni di vita, nonostante tutto, erano e migliorate.
VITA DI CAMPAGNA. In effetti, l’emorragia
di forza lavoro dovuta alla guerra cambiò la vita quotidiana dierano diventati
pr un Paese legato ad un’economia agricola, ma che viveva anche la transizione
dalla Rivoluzione a una nuova organizzazione della società. I contadini avevano
dalla loro i vantaggi acquisiti alla Rivoluzione del 1789: molti, grazie alla
spartizione dei beni comunali e del clero e alle vendite di terre dei nobili
ridotti in rovina, erano divenuti proprietari dei terreni che lavoravano. Si
trovavano poi favoriti dall’alleggerimento delle tasse rispetto all’ancien
regime e dall’aumento del prezzo del grano. I braccianti, che erano la massa
della forza lavoro della campagna, furono quelli che trassero maggior vantaggio
dal vuoto prodotto dalla Grand Armée: la forte richiesta e la scarsa offerta
fecero lievitare i loro salari. Così la vita in campagna si ingentilì di
piaceri prima sconosciuti: per esempio un’alimentazione più ricca e abiti meno
dozzinali.
PIATTO RICCO. Anche se il pasto rimaneva frugale
e il pane continuava a essere fatto di grano, segale e orzo mescolati insieme
(la mouture), nella zuppa di verdura comparvero lardo, formaggio, più raramente
carne di pollame, nelle zone costiere pesce. Scriveva nel 1805 lo statistico
Jacques Peucher: “Oggi in Francia il
campagnolo che conosceva solo un’alimentazione grossolana e bevande poco sane,
dispone di carne, pane, grano, vino, buon sidro e birra”. Sopravvivevano
però le vecchie, cattive, abitudini: il sale da cucina era mescolato con gesso,
terra, salnitro ossido d’arsenico; c’era inoltre chi aggiungeva vetriolo
all’aceto di vino e sali arsenicali alla birra. Anche gli spazi dove si
consumavano i pasti migliorarono: nella stanza comune dove si viveva e si
dormiva, fece la sua comparsa il tavolo. Un semplice oggetto grazie al quale i
contadini smisero di mangiare davanti all’ingresso con la scodella sulle ginocchia.
Poi arrivò anche l’armadio, a soppiantare la cassapanca (ma era ancora un bene
di lusso) e la credenza. Quanto all’abbigliamento, gli uomini indossavano
semplici abiti di tela, che portavano tutto il giorno (dormivano vestiti),
mentre le donne gonne e corsetti di ruvido cotone. Tuttavia il dress code delle
feste prevedeva capi più ricercati: giacche, gilet, vestiti e persino scarpe.
Come scrisse nelle sue memorie l’abate Marchand, vicario parrocchiale di Rahay
e Valennes (nella Sarthe) “I giovanotti
che un tempo portavano scarpe piene di chiodi, ora non uscirebbero più la
domenica senza le scarpe a una sola suola... e oggi la mussola più fine ricopre
il capo delle nostre ragazze di campagna”.
MISERIA E NOBILTA’. E la vecchia aristocrazia
come se la passava? Durante l’impero buona parte delle proprietà confiscate
vennero piano piano restituite, ma l’abbandono successivo alla rivoluzione e il
vandalismo le avevano ridotte in ben misere condizioni. Una parte della vecchia
nobiltà di campagna cominciò ad occuparsi dei lavori dei campi, si diede al
commercio delle pecore o creò vivai, ma la maggioranza dei signori dell’ancien
regime si limitò a vivacchiare mediocremente, assistendo all’ascesa della
borghesia entrata in possesso di gran parte dei possedimenti, tanto da essere proprietario
del 50% dei castelli. Napoleone, intanto, alla vecchia aristocrazia del sangue
sostituiva quella del merito (nel 1808 venne istituita la nobiltà imperiale):
l’ultimo degli stallieri poteva diventare duca, il valore sui campi di
battaglia portava ad alti ranghi: Gioacchino Murat, generale e fedelissimo di
Napoleone, sposò Carolina, sorella di Napoleone, e fu re di Napoli. Eppure, era
figlio di albergatori. Se la carriera militare sotto Bonaparte divenne il
principale ascensore sociale (il 67% dei nuovi nobili veniva da lì), anche i
funzionari e i prefetti ai quali era stato affidato il governo dei 130
dipartimenti dell’impero potevano aspirare a un titolo (rappresentavano il 22%
dell’aristocrazia creata da Napoleone). Esecutori zelanti delle indicazioni che
venivano da Parigi grazie ai corrieri ufficiali, i prefetti però non se la
passavano poi così bene perché veniva loro richiesto un tenore di vita e spese
di rappresentanza che non potevano permettersi con la loro modesta
retribuzione. L’alloggio, per esempio, spesso lasciava a desiderare, come si
evince dalle lamentele di un prefetto di Bordeaux che andò ad abitare nel
palazzo dell’arcivescovado: “Mi sono
sistemato da solo; c’erano, come unico mobilio qualche tavolo e delle sedie da
ufficio... il governo forniva solo 2400 franchi per le spese di impianto,
mentre ho speso, pur procedendo con la massima parsimonia, quattro volte di
più”. A Tarbes, nei Pirenei, il senatore Péré commentava: “E’ tale il risparmio, che nella sala delle
assemblee non c’è più né penna né inchiostro, e nel caminetto ci sono due sassi
al posto degli alari”. A compensare queste ristrettezze nascevano nuovi
divertimenti, come annotava Dartonne, sottoprefetto di Gien, nella regione della
Loira: “Maestri di biliardi si sono
stabiliti in quasi tutti i comuni; hanno abituato le classi contadine all’uso
dei liquori e ai vari giochi inventati
dalla gente oziosa delle grandi città”.
Tuniche e preferenze.
Napoleone capì perfettamente
l’importanza del lusso per dare un’impronta al suo tempo, e pur non essendo
personalmente interrelato all’eleganza, finanziò il Journal des Dame et des
Modes, un periodico con numerose tavole illustrate che contribuì alla diffusione
della moda. Eliminati panier (impalcature che ampliavano il volume delle
gonne), parrucche, damaschi, merletti, orpelli, il nuovo stile, denominato
Impero, prevedeva la totale assenza di colore dagli abiti femminili, scelta
che conferiva alle donne l’aspetto marmoree delle statue dell’antichità.
TRASPARENZE. Il capo per
eccellenza era la tunica lunga fino alle caviglie, in tessuti impalpabili e
leggeri, segnata da una cintura sotto il seno (e non più in vita). Nei
salotti parigini le mogli e le amanti degli ufficiali e dei nuovi ricchi
posavano languide in queste vesti bianche di mussola indiana trasparente,
spesso ricamata. Unica copertura era un morbido scialle di cachemire
proveniente dall’India, costosissimo, che diventò l’oggetto del desiderio di tutte
le donne.
COSE TURCHE. Anche le conquiste
napoleoniche influenzarono il gusto: la campagna d’Egitto, per esempio,
contribuì a lanciare le turcherie, attraverso la diffusione di disegni e
incisioni. Nacquero così abiti alla mamelucca, o alla sultana; mentre il
turbante entrò a far parte dei copricapi femminili e, a volte, quelli
maschili. La mode del nude look imperversò fino a quando Napoleone vietò
l’importazione della mussola che proveniva dalle colonie inglesi cercando di
far decollare, senza riuscirci, la produzione francese. Si diffusero allora
tessuti spessi in raso o lana cui furono aggiunte guarnizioni ricamate. Le
scollature si ridussero e fu abbinata una camicetta trasparente che terminava
con un piccolo collo a gorgiera. Comparvero redingote e soprabiti foderati in
pelliccia, soprannominati Douilettes, e lo Spencer, giacchettino in tessuto
scuro.
Alla fine degli anni trenta del Novecento Emile Maurice Hermès iniziò a personalizzare le sciarpe stampate da donna con soggetti inediti e singolari
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acconciature stile impero
VINO E NOTIZIE. Stando ai rapporti dei prefetti,
l’alcolismo era un problema. Le autorità davano la colpa alla grande diffusione
delle bettole, tanto che il prefetto del Mont-Blanc, con un decreto del 16
dicembre 1802, arrivò a proibire l’apertura di alberghi e caffè senza
autorizzazione. Ma ci pensava l’esercito a tenere a bada gli alcolici: al
Dipartimento della Gironda nel 1813 arrivò la richiesta di ben 866000 litri di
acquavite per risollevare il morale dei soldati, un quantitativo enorme. Senza
parlare della voragine delle derrate alimentari per le truppe, indennizzate
spesso con notevole ritardo. Scriveva Féaz, sottoprefetto della Maurienne, in
Savoia, dove nel 1806 sfilarono oltre 30000 soldati. “E’ una cosa abominevole vedere come tutta quella gente ha fatto
raddoppiare il prezzo dei viveri. Si vende un bicchiere di vino per 24 soldi
francesi d’argento, e a 6 soldi una libbra di pane”. La propaganda
napoleonica cercava di risollevare l’umore del popolo francese; in tutte le
città, villaggi e borghi arrivava il bollettino della Grande Armée che veniva
letto dal sindaco o dal cancelliere del comune nelle piazze principali. La
gente, chiamata dal suono delle campane e dal rullo dei tamburi, accorreva e
ascoltava le gesta dell’imperatore. D’altro canto la circolazione delle notizie
era inesistente, bloccata dal decreto del 17 gennaio 1800 che soppresse la
maggior parte dei giornali (solo a Parigi ce n’erano un’ottantina), lasciandone
in vita solo tredici, tutti sotto stretto controllo.
ALL’ULTIMO GRADINO: GLI OPERAI. Nelle città chi
viveva meglio? Senz’altro la casta militare: ai generali spettavano titoli
nobiliari e compensi pecuniari, molto variabili, però: si andava dai cinquemila
al milione di franchi. Stava bene anche la borghesia composta, oltre che dai
notai, dai proprietari di case arricchitisi grazie all’aumento degli affitti,
dagli impiegati dello Stato (lo stipendio in media era di 3000 franchi, quando
un operaio ne prendeva 90) e dai commercianti (nella sola Parigi in quegli anni
furono rilasciate 30000 licenze). Su dieci botteghe, quattro erano pasticcerie
e confetterie e tre negozi di modiste (la moda sotto Napoleone ebbe un grande
impulso). Dolci e buona tavola andavano alla grande grazie ai cuochi che
avevano lavoravano per le casate nobiliari ed erano rimasti disoccupati, in
parte vennero ingaggiati dalla nuova borghesia, ma molti aprirono pasticcerie
ristoranti, a cominciare dalla capitale e per tutte le tasche. Scendendo nella
scala sociale, vista la scarsità di manodopera conseguente alla chiamata alle
armi, i salari erano discreti, per gli artigiani, i portatori d’acqua, i
tosatori di cani, i lustrascarpe, i facchini e per i domestici (solo per gli
uomini, però: di donne c’era abbondanza!).
Ben diversa la
situazione degli operai, per esempio quelli delle manifatture d’armi di Liegi o
i setaioli di Lione: orari estenuanti, rischi, nessuna tutela erano le
condizioni di lavoro standard. A Parigi gli operai meglio pagati guadagnavano
dai 3 ai 4 franchi al giorno (in provincia la metà), con un potere d’acquisto
molto modesto: una libbra (circa 500 grammi) di carne costa 0,55 franchi e un litro di vino quasi un franco.
Una condizione ben triste che sarebbe rimasta immutata per molto tempo anche
dopo la caduta di Napoleone in Francia come nel resto d’Europa.
Articolo in gran parte
di Franca Porciana pubblicato su Focus Storia n. 143. Altri testi e immagini da
wikipedia.
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