La guerra nel deserto.
Fu una lotta spietata tra i disagi provocati dal caldo infernale
e dalla sabbia che si insinuava ovunque, danneggiando i mezzi meccanici
britannici, tedeschi e italiani combatterono per mesi in nord Africa.
Arretrati tecnologicamente e impreparati a uno scontro di tale
portata, i nostri soldati riuscirono comunque dimostrare una grande tenacia.
Panzer III dell'Afrikakorps durante la campagna del desertoData10 giugno 1940 - 13 maggio 1943LuogoAfrica SettentrionaleEsitoVittoria Alleata
Nel
febbraio 1941 la guerra parallela immaginata da Benito Mussolini poteva già
dirsi conclusa: l’Italia perdeva la propria libertà di azione e la facoltà di
perseguire obiettivi strategici propri per divenire, suo malgrado, poco più di
una pedina sulla scacchiera di Adolf Hitler.
Il 12 del mese,
infatti, il generale Erwin Rommel era sbarcato a Tripoli, assumendo il comando
delle truppe che l’alleato tedesco aveva inviato sul suolo africano e,
contemporaneamente, anche la guida di fatto delle operazioni militari in quel
teatro. Era l’inevitabile conseguenza di un processo iniziato molti anni prima.
L’Italia fascista aveva raccolto e interpretato un diffuso quanto nebuloso
sentimento di affermazione nazionale. Ambizioni di potenza che indussero il
nostro Paese a un crescente protagonismo in politica estera, spesso tradottosi
in conflitti intensi e prolungati. Gli anni Trenta furono per l’Italia anni dii
guerra: a partire dalla “pacificazione” della Libia (conclusasi nel gennaio
1932), seguita dalla guerra di Abissinia
(ottobre 1934-maggio 1936) e, infine, dal coinvolgimento nella Guerra
civile spagnola (luglio 1936-febbraio 1939), l’apparato militare italiano
arrivò alla vigilia della Seconda guerra mondiale esausto e arenato su mezzi e
dottrine arretrate. Avrebbe avuto bisogno di anni per prepararsi a un conflitto
tra nazioni europee.
Il neoacquisto impero
coloniale e le ambizioni italiane di accrescerlo avevano però ampliato le
faglie del conflitto con Francia e Gran Bretagna. La prima occupava la Tunisia,
territorio da sempre mira dell’espansionismo italiano. La seconda non solo
controllava l’Egitto – chiudendo la Libia a est come a ovest tra due potenziali
nemici – ma soprattutto contendeva all’Italia il dominio del Mediterraneo,
presidiandone gli sbocchi oceanici a Gibilterra e a Suez, in particolare
passava il collegamento tra l’Italia e le sue colonie dell’Africa Orientale: la
chiusura del canale avrebbe inevitabilmente portato alla loro perdita. La
difesa dell’Impero e l’ambizione di accrescerlo ulteriormente furono forse il
fattore decisivo che spinse l’Italia all’alleanza con la Germania e di
conseguenza, all’entrata in guerra contro la Gran Bretagna e la Francia.
- Il maresciallo Rodolfo Graziani, successore del maresciallo Balbo
Combattere tra le dune.
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Prigionieri italiani catturati dai britannici durante la prima offensiva in Nordafrica del 1940-41.
LA GUERRA PARALLELA, ATTO PRIMO. L’attacco
tedesco alla Francia il 10 maggio del 1940 colse l’Italia di sorpresa:
Mussolini fu avvistato dell’inizio delle operazioni militari tedesche alle 5 di
mattina di quello stesso giorno. Tuttavia, il dittatore ingoiò il rospo: era
deciso a parteciparvi ugualmente, anche perché convinto che sarebbe stata una
guerra breve. I fatti sembrarono dargli ragione. In sei settimane di
blitzkrieg, le armate tedesche sconfissero quelle francesi e costrinsero
all’evacuazione di Dunquerk quelle britanniche. La fine della Seconda guerra
mondiale sembrava imminente, perché Hitler programmava di invadere la Gran
Bretagna con l’operazione Seelowe (Leone marino). Per l’Italia si prospettava
un’occasione strategica irripetibile per invadere l’Egitto, in quello che nelle
intenzioni di Mussolini sarebbe stato il primo atto della guerra parallela,
ovvero condotta in piena indipendenza dall’alleato germanico, seppure contro un
nemico comune. La Tunisia non rappresentava più una minaccia, visto che il
Paese era in mano al governo francese collaborazionista di Vichy, mentre la
Gran Bretagna sarebbe stata impegnata a difendere la propria isola con ogni
risorsa disponibile.
In realtà, l’operazione
Seelowe era un progetto irrealizzabile, e l’Italia commise un grave errore strategico
a farvi affidamento. Le contraddizioni della guerra parallela, indipendente in
teoria, ma in pratica già vincolata alle decisioni strategiche di un alleato
che si stava rivelando poco affidabile, potevano essere risolte solo passando
all’offensiva in Africa settentrionale.
Il 28 giugno 1940,
Italo Balbo, governatore della Libia, venne abbattuto per errore dalla
contraerea italiana mentre era in volo su Tobruch. Il suo incarico fu assunto
dal maresciallo Rodolfo Graziani, militare di carriera con precedenti
esperienze di alto comando sia in Libia sia nella guerra di Etiopia. A sua
disposizione circa 220mila uomini divisi in due armate: la V, schierata con 8
divisioni al confine tunisino, e la X, con 6 divisioni, fronteggiava l’Egitto.
Graziani era a dir poco scettico sull’eventualità di passare all’offensiva,
come prima di lui era stato Balbo. L’imponente numero di truppe non poteva
nascondere la loro impreparazione alla guerra moderna e tanto meno in un teatro
desertico. La carenza maggiore riguardava i mezzi corazzati e i veicoli per la
logistica, che avrebbe dovuto alimentare lo sforzo bellico in ogni sua esigenza
e rendere mobili le fanterie. Ma anche l’addestramento delle truppe lasciava
desiderare, il loro equipaggiamento era incompleto e datato, e, nonostante
numeri roboanti, le unità erano persino gravemente sotto organico. La Libia,
inoltre, non produceva praticamente nulla e ogni esigenza degli uomini sul
terreno doveva essere soddisfatta con le importazioni via nave dalla
madrepatria, esposte dunque al rischio della potenza aeronavale nemica.
Le forze britanniche in
tutta l’area mediorientale assommavano a 100mila uomini, al comando del generale
Archibald Wavell, ma alla difesa dell’Egitto era destinata solo la Western
Desert Force: due divisioni, una delle quali corazzata, per complessivi 35mila
uomini. Poche truppe ma perfettamente addestrate alla guerra nel deserto, ben
equipaggiate, meglio comandate. Al contrario degli italiani, potevano contare
su un apparato logistico efficiente, su mezzi di trasporti in abbondanza, e
persino su una produzione industriale e agricola locale in grado di soddisfare
alcune esigenze primarie. In queste condizioni, un’invasione era, se non
compromessa in partenza, almeno molto svantaggiata, ma Mussolini era deciso:
per ragioni eminentemente di opportunità politica, l’attacco doveva avvenire.
Le forze armate del nostro
Paese.
Il Regio esercito italiano non
era pronto nel 1940 ad affrontare una guerra moderna, tanto meno in un
ambiente ostile come il deserto nordafricano. Molte carenze strutturali
pesarono per tutta la durata del conflitto. Il sistema industriale italiano
era nel complesso troppo arretrato rispetto alle maggiori nazioni europee. I
materiali forniti al REI erano sempre quantitativamente inferiori alle
necessità e spesso anche tecnologicamente un passo indietro rispetto a quelli
prodotti dagli avversari e dall’alleato tedesco. Questo ritardo
socioeconomico si traduceva anche nella scarsità di specialisti, come
autisti, meccanici e personale medico. A ciò si potrebbero aggiungere gli
errori, spiegando così i rovesci subiti nei primi mesi di guerra. Quello che
sorprende oggi, come ieri sorprese i britannici, fu la rapida reazione
all’onta di 9 divisioni distrutte in poche settimane. Il senso di abbandono,
l’avvilimento per l’inferiorità materiale e una certa sicumera degli alleati
tedeschi si tradussero nella convinzione che ogni minimo successo fosse
dovuto, come in effetti lo era, alla qualità umana del soldato italiano, alla
sua capacità di sacrificio, alla sua voglia di farcela comunque. Le unità
superstiti vennero riorganizzate e ripresero la lotta con tenacia e orgoglio.
Lo spirito di corpo e la solidarietà tra gli uomini divennero molto alte, in
particolare nelle unità con addestramento più accurato, carristi,
bersaglieri, paracadutisti, artiglieri, le più preparate al combattimento. Le
divisioni corazzate e meccanizzate e le unità di fanteria aggregate
all’Afrika Korps, dovendo agire in stretta collaborazione con l’alleato, ne
avevano assimilato le tattiche più moderne ed efficaci di quelle britanniche.
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OPERAZIONE COMPASS. Dopo aver tergiversato
a lungo, un Graziani a dir poco riluttante attraversò il confine con l’Egitto
il 13 settembre 1940, interrompendo la sua avanzata dopo 80 chilometri a Sidi
el Barrani, che distava circa 130 da Marsa Matrub, dove le forze britanniche
erano attestate. In quei giorni la battaglia d’Inghilterra stava raggiungendo
il suo apice e il pericolo di un’invasione tedesca era ancora incombente.
Appena un mese dopo, la minaccia dell’operazione Seelowe era però evaporata e
il governo britannico guidato da Winston Churchill iniziò a inviare rinforzi a
Wavell. In dicembre, 126mila uomini del Commonwealth arrivarono in Egitto:
britannici, australiani, neozelandesi e indiani. Anche il bilancio dei numeri
si stava equilibrando e Wavell decise che era il momento di passare al contrattacco
con l’Operazione Compass.
Le truppe italiane
erano ferme da più di tre mesi a Sidi el Barrani. Graziani attendeva altri rinforzi
per riprendere l’offensiva, in particolare i tanto necessari carri armati e
autocarri. Nel frattempo aveva schierato le sue divisioni sulla fascia costiera
in campi trincerati. Per un comandante della sua esperienza non era certo una
decisione brillante, perché in questo modo, oltre ad annullare completamente la
mobilità già scarsa delle sue unità consegnava al nemico il proprio indirizzo
di casa. Wavell ne approfittò per studiare a fondo il dispositivo italiano, ne
individuò i punti deboli, primo fra tutti l’eccessiva distanza fra i campi che
impediva agli italiani di supportarsi vicendevolmente e lasciava aperti ampi corridoi
nei quali si poteva avanzare in profondità. Il 9 dicembre la Western Desert
Force attaccò Sidi el Barrani: una divisione di fanteria indiana (poi sostituita da una divisione australiana)
e la 7a divisione corazzata, i Desert Rats, comandata dal generale Richard
O’Connor. Uno dopo l’altro i campi italiani vennero travolti con una specie di
effetto domino. la loro resistenza iniziale fu accanita, ma i britannici,
grazie alla loro mobilità, potevano concentrare le proprie forze su un
obiettivo alla volta. La fanteria della divisione indiana contava sul potente
sostegno dei lenti ma inarrestabili carri Matilda I e II, mostri
rispettivamente da 11 e 27 tonnellate, la cui corazzatura resisteva ai colpi di
artiglieria controcarro italiana, ma si sarebbe rivelata difficile da penetrare
anche per i tedeschi Panzer III e IV. Nel frattempo i Desert Rats potevano
spingersi in veloci manovre di aggiramento.
Era solo l’inizio.
Graziani fu costretto a ripiegare disordinatamente in territorio libico,
inseguito dai britannici che il 3 gennaio 1941 ottennero una nuova vittoria a
Bardia e il 22 conquistarono l’importante porto di Tobruch. La guerra in nord
Africa si era trasformata in una corsa impari: gli italiani si ritiravano
marciando lungo la via costiera, O’Connor e suoi mezzi meccanizzati procedevano
direttamente all’interno della Cirenaica per tagliare loro la strada. La
trappola si chiuse a Beda Fomm il 7 febbraio: in appena tre mesi la Western
Desert Force era avanzata 800 chilometri, avevano distrutto 10 divisioni
italiane e catturato 130mila prigionieri, al costo di 555 morti e circa 1400
feriti.
L’AFRICA KORPS E LA VOLPE DEL DESERTO. Gli
italiani avevano virtualmente perso la Libia: quando Wavell fosse riuscito a
riorganizzare le sue forze e sistemare qualche problema logistico, poco o nulla
si poteva fare per impedirgli di arrivare a Tripoli. Se gli italiani, ormai,
sembravano destinati alla sconfitta, due cruciali decisioni vennero in loro
soccorso: Mussolini aveva infatti accettato l’offerta di aiuto tedesco e i
primi contingenti di quello che sarà l’Africa Korps iniziavano a sbarcare in
Libia. Forse, però, questo aiuto sarebbe stato tardivo e insufficiente se
Churchill non avesse deciso di trasferire molte delle truppe di Wafell in
Grecia, contro la quale l’Italia aveva
aperto, in modo decisamente sventato, un secondo fronte della sua guerra
parallela. In Libia rimasero solo 5 brigate e i britannici furono costretti ad
interrompere l’offensiva. Erwin Rommel era un generale di grande intuito
tattico e di abilità di manovra fuori dal comune. Aveva dimostrato a
sufficienza queste sue qualità già durante la Prima guerra mondiale
partecipando all’offensiva austro-tedesca a Caporetto. Come comandante,
nonostante lo scetticismo degli altri alti ufficiali tedeschi che ne
sottolineavano la provenienza dalla fanteria di montagna. Non era un uomo con
il quale fosse difficile collaborare e gli alti comandi italiani se ne
accorsero ben presto, ma, a differenza dei suoi superiori, al quartier generale
di Hitler, aveva compreso l’importanza di vincere in Africa settentrionale, se
si voleva assestare un colo al valore strategico della Gran Bretagna. Arrivare
ad Alessandria d’Egitto e al Canale di Suez divenne la sua ossessione, il
motivo delle sue vittorie e allo stesso tempo delle sue sconfitte.
In poco più di un mese, quando l’Africa Korps
era costituito ancora da una sola divisione, Rommel ritenne di essere pronto
per passare all’offensiva. Il 24 marzo saggiò le difese di El Agheila,
prendendo subito le misure del nemico e puntando decisamente, nonostante le
raccomandazioni di Hitler di mantenere un atteggiamento difensivo. Il 10 aprile
le armate italo-tedesche erano già a Tobruch. Neppure in questa situazione
Rommel ritenne fosse il caso di fermarsi, divise le sue forze destinandone una
parte all’assedio della città e proseguendo con l’altra ad esercitare pressione
sui britannici. Rommel era ansioso di riportare la guerra in Egitto e il 14
aprile raggiunse Sollum occupando l’importante posizione strategica del passo
di Halfaya. Era uno scacco difficile da sopportare e i britannici passarono al
contrattacco: il 15 maggio lanciarono l’operazione Brevity; il passo di Halfaya
fu ripreso, ma i cannoni antiaerei tedeschi da 88 mm usati in funzione
anticarro, in combinazione con l’abile gestione tattica dei carri armati di
Rommel, fecero pagare un prezzo altissimo agli assalitori e un contrattacco
tedesco ben programmato riuscì a riconquistare la posizione. Esattamente un
mese dopo, il 15 giugno, i britannici ci riprovarono con l’operazione
Battleaxe, ma la sorte della battaglia fu identica alla precedente. Surclassato
dall’abilità tattica di Rommel, Wavell venne destituito e rimpiazzato dal
generale Claude Auchinleck.
Il generale Alan Gordon Cunningham, comandante dell'8ª Armata britannica.
OPERAZIONE CRUSADER, LA VITTORIA DI PIRRO. Vittoriose
ma esauste, le forze italo-tedesche non poterono sfruttare il successo: negli stessi giorni di Battleaxe era infatti
scattata l’operazione Barbarossa, l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica.
Nei piani strategici dell’alto comando tedesco, l’Africa settentrionale era
diventato uno scenario più che secondario, addirittura residuale: non c’erano e
non ci sarebbero stati i mezzi e le risorse per sostenerlo con gli adeguati
rinforzi. Ancora una volta l’Italia doveva rimarcare l’inaffidabilità
dell’alleato tedesco.
L’estate e l’inizio
dell’autunno del 1941 trascorsero così senza attività militari di rilievo,
dando il tempo ai britannici di preparare una nuova offensiva, che sarebbe
stata denominata operazione Crusader. Il generale Alan Cunnigham fu posto al
comando di quella che prese il nome di 8a Armata: una forza di 700 carri
armati, 1000 aerei e 8 divisioni rinforzate, contro le quali gli italo-tedeschi
potevano opporre 414 carri, 320 aerei e 9 divisioni, di cui 6 italiane.
L’attacco britannico
scattò il 18 novembre con una direttrice contro il passo di Halfaya e una
seconda puntata offensiva che intendeva aggirare a sud lo schieramento
italo-tedesco per liberare Tobruch. La prima parte del piano ebbe successi e i
difensori di Halfaya si trovarono circondati. Non così la seconda parte che
incontrò la resistenza della divisione corazzata Ariete, al suo primo vero
appuntamento con la battaglia e la vittoria. Dopo giorni di intensi
combattimenti, Cunnigham, sfiduciato, chiese di interrompere l’offensiva.
Auchinleck era però di opinione contraria, sostituì Cunningham con un nuovo
comandante, il generale Neil Ritchie, contando sul fatto che in quella
disperata battaglia di attrito, i numero preponderanti delle truppe al suo
comando avrebbero avuto finalmente ragione. Così fu, e Rommel dovette ripiegare
in Cirenaica. La Volpe del Deserto aveva corso un rischio troppo alto, ma il
successo di Crusader si rivelò per i britannici una vittoria di Pirro.
Strategia in Africa
settentrionale.
Come si svolsero tre scontri
fondamentali.
L’operazione Compass 8 dicembre
1940-9 febbraio 1941
La X armata attraversò il confine
il 13 settembre 1940 e tre giorni dopo raggiunse Sidi el Barrani,
attestandosi in cinque campi fortificati. Il 9 dicembre la Western Desert
Force guidata dal generale Archibald Wavell contrattaccò con l’Operazione
Compass. Il successo fu rapido e ottenuto approfittando del pessimo
schieramento della X Armata, e causò un disordinato ripiegamento delle forze
italiane che venne sfruttato nelle battaglie di Sidi el Barrani e di Tobruch
e si concluse con la morsa di Beda Fomm il 5 febbraio 1941.
In dicembre 126mila uomini del
Commonwealth arrivarono in Egitto: britannici, australiani e indiani. Anche
il bilancio dei numeri si stava equilibrando e Wavell decise che era il
momento di passare al contrattacco con l’operazione Compass.
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Battaglia di Ain El Gazala 4 febbraio – 13 giugno 1942
Questa lunga
battaglia fu il più eclatante successo di Rommel. I britannici avevano
allestito una potente linea difensiva da Gazala a Bir Hacheim. Le armate
italiane la investirono frontalmente, mentre le divisioni corazzate
italo-tedesche si lanciarono in una temeraria manovra di aggiramento. Dopo
aver resistito ai furiosi contrattacchi britannici, Rommel riconquistò
Tobruch e si lanciò poi all’inseguimento degli avversari, attestatasi a Marsa
Matruh. Anche quell’ostacolo fu superato e i britannici dovetto ripiegare
fino a El Alamein.
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El Alamein 1 luglio - 3 novembre
1942
El Alamein fu il teatro di lunghi
mesi di combattimenti, duranti i quali le forze dell’asse di logorarono nel
vano tentativo di sfondare le linee difensive nemiche.
L’ultima e decisiva battaglia si
svolse tra il 23 ottobre e il 3 novembre 1942. Con un rapporto di forze a proprio favore
di 2 a 1, il generale Bernard Montgomery passò decisamente all’offensiva,
travolgendo le difese nemiche. Le poco
mobili unità italiane furono sacrificate in una disperata difesa statica per
consentire il ripiegamento delle truppe meccanizzate.
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La prima vittoria dell’Ariete: la
battaglia di Bir El Gubi 19 novembre 1941.
Nel novembre del 1941 Rommel
progettava una nuova offensiva per Tobruch e quindi permettere un più agevole
proseguimento della sua corsa verso Alessandria. Il generale tedesco era
convinto di aver talmente intimidito i britannici da averne spento ogni
velleità aggressiva. Meno ottimista, o forse più realista, il comandante in
capo delle forze italiane in Nord Africa, generale Ettore Bastico, e
soprattutto il comandante del XX corpo d’armata italiano, generale Gastone
Gambara, che aveva notato l’intensificarsi dell’attività nemica sul fianco
sud italo-tedesco. Rommel rassicurò Gambara che un attacco britannico non era
imminente e si limitò ad invitarlo a vigilare. Gambara seguì però il suo
istinto e mise in stato di massima allerta le truppe al suo comando.
L’operazione britannica Crusader scattò il 18 novembre: il XIII Corpo
d’Armata avrebbe attaccato lungo la costa
per attirare Rommel in una trappola, che sarebbe stata chiusa da una
manovra di aggiramento del XXX corpo d’Armata. Di quest’ultimo, la 22a
brigata corazzata costituiva l’elemento di manovra più esterno, con
l’importante compito di proteggere il fianco all’attacco principale diretto
contro l’Afrika Korps, e quindi di colpirlo sul fianco. Sul suo cammino, a
Bir el Gubi, c’era solo l’ostacolo della divisione corazzata italiana Ariete
e, visti i precedenti, i britannici lo ritennero un dettaglio trascurabile. Il
19 novembre i 150 carri della brigata britannica avanzarono in formazione
ordinata contro Bir el Gubi. Intorno al villaggio, i tre battaglioni di
bersaglieri della divisione Ariete stavano modificando il proprio
schieramento difensivo: sul fianco destro i carri britannici riuscirono a
passare, ma vennero respinti dall’artiglieria italiana. Su quello sinistro la
penetrazione ebbe maggiore successo e i britanni proseguirono la loro
avanzata. I 130 carri della divisione italiana, però, li contrattaccarono con
decisione e li respinsero con gravi perdite. Il valore dell’Ariete non fu mai
più messo in dubbio.
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Fanti della 9ª Divisione australiana, Libia, 1941
LA RESA DI TOBRUCH. Il 21 gennaio 1942 Rommel lanciò una controffensiva: sorpresi i
britannici si ritirarono di quasi 500 chilometri in pochi giorni, fermandosi il
4 febbraio su una linea difensiva tra Gazala e Bir Hacheim. Ancora una volta la
battaglia finì per esaurimento delle forze. Sarebbe ripresa il 26 maggio quando
Rommel diede avvio all’Operazione Venezia. Le armate contrapposte erano di
entità comparabile, ma Ritchie aveva disperso le sue unità su un’aerea troppo
ampia e Rommel seppe approfittarne, lanciandosi in un’ampia manovra di
aggiramento a sud, mentre a nord un secondo elemento di manovra impegnava
frontalmente il nemico. A decidere la vittoria sarebbero stati l’abilità
tattica delle unità in combattimento, la qualità e la quantità dei mezzi, lo
spirito di sacrificio degli uomini. Questa volta i protagonisti furono gli
italiani della divisone Trieste. Rommel aveva spinto i suoi panzer alle spalle
delle linee britanniche e il 28 maggio iniziò a trovarsi in gravi difficoltà.
L’8a armata aveva ricevuto i primi carri Grant americani che sorpresero i
tedeschi per la loro potenza e corazzatura. Solo i semoventi italiani da 75/18
erano in grado di contrastarli e i tedeschi si salvarono per l’intervento della
Trieste, il giorno 29, che aprì un varco nelle difese britanniche. Rommel radunò
le truppe superstiti in una posizione difensiva a semicerchio, che per la sua
forma prese il nome di calderone, e respinse uno dietro l’altro i tentativi di
sfondamento di Ritchie. Logorati da giorni e giorni di combattimenti
infruttuosi, i britannici non resistettero al contrattacco di Rommel dell’11
giugno e, ancora una volta, furono respinti in Egitto A Marsa Matruh. Dieci
giorni dopo anche Tobruch fu costretta alla resa, consegnando agli
italo-tedeschi, tra i tanti materiali, anche duemila tonnellate di preziosismo
carburante, che Rommel impegnò immediatamente. Con gli ultimi 60 carri che
aveva a disposizione avanzò su Marsa Matruh e in tre giorni di combattimenti
mise in rotta i resti di quattro divisioni britanniche, seminando il panico al
Cairo dove si iniziò addirittura a preparare l’evacuazione degli uffici
bruciando i documenti sensibili per evitare che cadessero in mano nemica. In
realtà Auchinleck aveva già individuato un altro tatto di deserto, 200 chilometri
ancora più indietro, per fermare definitivamente Rommel: El Alamein.
Equipaggi britannici salgono a bordo dei nuovi carri armati M4 Sherman.
IL DESERTO CHE INGHIOTTI’ L’ASSE. Un villaggio di
poche anime, sede di una stazione ferroviaria, senza alcuna importanza se non
quella di sorgere là dove la Depressione di Qattara giungeva più vicina alla
costa, formando un corridoio largo appena 60 chilometri: questo era El Alamein:
qualunque mezzo meccanico avesse provato ad attraversarlo, era invalicabile.
Tra esse e il mare, una serie di rilievi rocciosi di poche decine di metri
dominavano per ampio raggio il piatto territorio circostante: due in
particolare, le creste di Ruweisat e Alam el Halfa, sarebbero state al centro
della battaglia che avrebbe deciso le sorti del conflitto. Nell’insieme El
Alamein era una fortezza naturale, che i britannici avevano avuto il tempo di
rinsaldare ulteriormente con solide opere difensive e campi minati. Rommel
raggiunse la posizione il 1° luglio 1942. Seguirono tre settimane di intensi
combattimenti, ma l’apparato difensivo disposto da Auchinleck, dinamico e
sempre pronto al contrattacco, alla fine resse. Decisivo fu l’apporto della
Royal Air Force che disponeva di oltre 1500 veicoli contro gli scari 500
dell’avversario. Ma era solo il primo atto di un confronto che sarebbe durato
mesi.
Auchinleck aveva
assestato un colpo durissimo ai piani di Rommel, ma comunque qualcuno doveva
pagare per il rischio corso e Churchill lo sollevò dal comando, rimpiazzandolo
con il generale Harold Alexander. La guida dell’ottava Armata fu assegnata al
generale William Gott. Questi, però, mentre volava verso il suo incarico, fu
abbattuto e ucciso dai caccia tedeschi, e il suo posto venne assegnato al
generale Bernard Montgomery, che assunse il comando il 13 agosto. Uomo dal
carattere spigoloso e accentratore, Montgomery era però carismatico, energico e
organizzatore meticoloso: le truppe britanniche furono rivitalizzate dal suo
arrivo. I lavori di rafforzamento della posizione, secondo i piani già
predisposti da Auchinleck, ripresero con alacrità, e nuovi rinforzi vennero a
sostituire le gravi perdite del mese precedente.
Il 31 agosto Rommel
lanciò l’offensiva che nelle sue intenzioni avrebbe portato le sue truppe sul
Nilo. Ancora una volta i rapporti di forze erano a deciso vantaggio del suo
avversario: la metà degli uomini (100mila contro 200mila), la metà dei carri
(550 contro 1000). Preoccupante soprattutto la disponibilità di carburante,
dalla quale dipendevano le manovre ad ampio raggio che costituivano la
peculiarità tattica del comandante tedesco: le cifre sono discordanti, ma è
certo che i britannici ne avevano in abbondanza e che la loro linea logistica
non era mai stata così breve, mentre quella italo-tedesca si allungava per 900
chilometri fino a Bengasi e doveva essere percorsa di notte per limitare i
danni dei bombardamenti aerei. Rommel era vittima ancora una volta della sua
irruenza, ma sempre determinato a tentare il tutto per tutto per sfondare il
dispositivo nemico. Ruweisar e Alam el Halfa furono al centro di feroci
combattimenti: in particolare questo secondo sperone roccioso fu oggetto di un
ultimo disperato attacco frontale da parte degli unici carri tedeschi con
sufficiente carburante nei serbatoi per essere operativi. La superiorità
numerica e la qualità dei mezzi ebbero la meglio, ma Montgomery non seppe
approfittare del successo, contrattaccando con solo due brigate di fanteria
neozelandese, che vennero respinte con gravi perdite.
Era comunque il punto
di svolta della campagna del Nord Africa; dopo 26 mesi di combattimenti le
sorti del conflitto non sarebbero state più messe in discussione. La terza e
ultima battaglia di El Alamein avrebbe definitivamente rimosso il pericolo che
fino ad allora incombeva su Alessandria e sul canale di Suez. Il 23 ottobre del
1942 i rapporti di forza tra le armate contrapposte erano schiaccianti quanto
mai prima: l’8a armata aveva ricevuto i nuovissimi carri americani Sherman, che
conobbero il battesimo del fuoco proprio in questa occasione. A nulla valsero
le prove di valore passate alla storia, come la resistenza offerta dalla
divisione Folgore. Il 4 novembre le armate italo-tedesche iniziarono una
ritirata che non si sarebbe più fermata.
Prigionieri italo-tedeschi catturati a El Alamein.
La battaglia di Kasserine.
L’inizio del 1943 vedeva le forze
italo-tedesche del Nord Africa ridotte in Tunisia, strette in una fascia di
territorio che dalla costa arrivava a ovest fino alla dorsale tunisina
orientale dell’Atlante, mentre a sud giungeva alla linea fortificata di
Mareth, allestita dai francesi al confine con la Libia contro un’eventuale
aggressione italiana. Dall’8 novembre 1942, con gli sbarchi in Marocco e
Algeria dell’operazione Torch, le truppe statunitensi erano al fianco dei
britannici sul teatro nordafricano. Forze fresche e molto ben equipaggiate,
anche se inesperte, con il cui contributo gli alleati si preparavano a
passare all’offensiva. Le loro basi logistiche erano riparate da una catena
montuosa più interna, la dorsale occidentale, attraversabile solo in pochi
stretti passaggi, tra i quali uno era destinato a diventare famoso: il passo
di Kasserine. Qui Rommel tra il 19 e il 25 febbraio 1943 ottenne la sua
ultima vittoria in terra d’Africa: un successo limitato, ma che riuscì a
scompaginare l’avanzata alleata e a rinviare l’invasione dell’Italia. Il
generale tedesco ancora una volta si dimostrò un tattico spregiudicato,
capace di approfittare delle debolezze dell’avversario, in questo caso
dell’inesperienza delle truppe e dei comandanti americani. La loro reazione a
un risoluto attacco di sorpresa, agli occhi di Rommel, era prevedibile:
avrebbero perso il controllo generale della situazione e sarebbero stati
incapaci di controllarla. La piana antistante il passo di Kasserine fu teatro
di scontri durante i quali i veterani italiani e tedeschi poterono mettere a
frutto la loro tattica superiore e il passo di Kasserine fu preso con un
attacco combinato frontale e sulle pendice ai suoi fianchi, al quale parteciparono
distinguendosi i bersaglieri italiani. Lo sfondamento però non ottenne
l’auspicata profondità, arenandosi contro inattesi e tenaci focolai di
resistenza appoggiati da uno schiacciante potere di fuoco d’artiglieria. Gli
americani si erano dimostrati capaci di compensare la loro inesperienza con
una sorprendente rapidità di apprendimento.
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Articolo in gran parte
pubblicato su Storie di guerre e guerrieri extra n. 1 Sprea Editori. Altri
testi e immagini da Wikipedia.
Bello, molto curato. Lo voglio rileggere con calma e lo condivido sul mio profilo.
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