Uniti
fino alla morte. Il destino delle falange.
Combattere nelle fila
di un esercito falangitico era coraggio anche degli uomini più abili e
risoluti. Erano richieste doti come disciplina e spirito di corpo. Ma più di
ogni altra cosa bisognava saper dominare la paura.
La falange è un'antica formazione di combattimento composta da fanteria pesante i cui soldati sono armati di lance o picche, scudi e spada.
Tipica del mondo greco ed ellenistico, venne adottata anche da altri popoli che ne modificarono le caratteristiche e le funzioni fino all'epoca rinascimentale, dove con l'avvento delle armi da fuoco perse di importanza.
La più antica raffigurazione di una formazione a falange si trova in una stele sumera, dove le truppe di Lagash sembrano armate con lance, elmi e larghi scudi che coprivano tutto il corpo; anche la fanteria egizia utilizzò questo tipo di tattica militare. Tuttavia, gli storici non sono riusciti ad accordarsi sul fatto se esista o meno una relazione tra la formazione greca e questi esempi precedenti.
Certo è che la compattezza della falange greca venne utilizzata negli eserciti mercenari fin dai tempi del faraone Psammetico I. Successivamente, però, essa subì numerose modifiche, fra cui la più popolare fu quella che generò la falange macedone.
Per
quasi sei secoli la falange oplitica greca (VII-IV) secolo a.C.) e poi macedone
(IV-II secolo a.C.) dominò i campi di battaglia del mondo conosciuto,
rivoluzionando completamente il modo di guerreggiare precedente. Vederla
schierata sui campi di battaglia, pronta ad attaccare, era una visione non
adatta ai deboli di cuore o ai codardi. E la sensazione di panico cheera capace
di generare era paralizzante. La letteratura greca è ricca di riferimenti in
tal senso. Descrivendo una carica di opliti, Plutarco scrive: “Era uno spettacolo grandioso e insieme
terrificante vederli avanzare a passo cadenzato dai flauti senza aprire la
minima frattura nello schieramento o provare turbamento nell’animo, calmi e
allegri, guidati al pericolo della musica”. Ma come si arrivò a
sperimentare una simile tecnica?
In basso: La tattica di Epaminonda a Leuttra. L'ala sinistra rinforzata avanza mentre la destra più debole si ritira o segna il passo. I blocchi in rosso indicano il posizionamento delle truppe di élite nello schieramento.
IL DURO MESTIERE DELLE ARMI. “I
Greci delle città stato furono i primi uomini sulla Terra a impegnarsi tra
loro, in quanto uguali, a combattere il nemico spalla contro spalla senza
temere le ferite e non cedere il terreno su cui combattevano, finché il nemico non
fosse in rotta o essi stessi non fossero morti durante il combattimento”,
ha scritto lo storico John Keegan. Quando e in quale parte della Grecia si sia
imposto questo modo di combattere ancora oggi resta un dilemma. Si può solo
dire con una ragionevole certezza che, a partire dalla fine dell’VIII secolo
a.C., i Greci decisero di rivoluzionare il loro modo di fare la guerra: se in
epoca micinea (1500-1200 a.C.) a scendere in campo in scontri individuali erano
le élite aristocratiche, successivamente si affermarono compagini cittadine in
formazioni chiuse. Un cambiamento epocale simboleggiato dall’oplon, un pesante
scudo rotondo (da cui il termine oplita) ben diverso da quello in cuoio a forma
di otto che aveva caratterizzato i secoli precedenti. Con esso non mancava un
equipaggiamento che prevedeva elmo, corazza, gambali e lancia. Ancora oggi si discute se sia stata
la scelta dell’oplon a determinare l’adozione di una tattica falangista o
viceversa, ma comunque sia andata, a partire da un dato momento tutte le polis
si identificarono con questo modo di combattere. E non fu certo un cambiamento
semplice. Questi uomini, durante le torride estate greche, erano costretti a
indossare un panoplia che poteva pesare di ventidue ai trentacinque chili. Un
fardello che, per forza di cose, gravava sulla loro tenuta fisica. Non va
dimenticato infatti che, spartani a parte (nascevano votati alla guerra e si
addestravano esclusivamente a tale compito), la maggior parte degli opliti
erano contadini o cittadini prestati solo temporaneamente al mestiere delle
armi. A confermare la difficoltà di quei guerrieri sono stati due ricercatori
della Pennsylvania State University (Walter Donlan e James Thompson) che hanno
riprodotto, grazie ad alcuni volonterosi studenti, la carica dei Greci a
Maratona (oltre un chilometro e settecento metri) contro i Persiani (490 a.C.) “è importante rilevare che per coprire la
distanza prescritta con lo scudo all’altezza del torace è stato necessario un
incremento medio del 28% del dispendio energetico per ciascun soggetto.
L’esperimento ha dimostrato inoltre che il peso e le dimensioni dello scudo
erano i fattori critici. Lo scudo dell’oplita, che doveva pesare otto
chilogrammi, poteva essere portato solo isometricamente (il muscolo si contrae
senza modificare la sua lunghezza), e il considerevole stipendio di energia
limita nettamente la distanza per la quale i soldati sono in grado di sostenere
uno solo è riuscito a percorrere la distanza completa, arrivando ancora
abbastanza fresco da poter sostenere un ipotetico combattimento. Due invece non
sono riusciti a coprire tale distanza.
L'oplita (o oplite; in greco antico: Ὁπλίτης, hoplìtes), al plurale opliti, era un soldato della fanteria pesante dell'antica Grecia.
Indice
Descrizione[modifica | modifica wikitesto]
L'armatura completa di un oplita "tipo", definita con il termine panoplia, era costituita da un elmo, in greco kranos (famoso il modello corinzio, preferito dalle popolazioni doriche, ma diffusi anche modelli meno protettivi, e al contempo meno limitanti per la vista e l'udito come il calcidico, l'attico e il beotico), da una corazza in lana o lino e cuoio lavorati (linothorax) che proteggeva efficacemente dalle frecce o da delle corazze più elaborate in bronzo (le thorax in epoca arcaica diffuse erano quelle "a campana", più costosi e, inizialmente più rari, i torax "anatomici"), da schinieri in bronzo (molto scomodi, per questo non sempre usati o utilizzati solo sulla più esposta gamba destra, spesso sostituiti da schinieri in cuoio o da un'ocrea), da una corta spada in ferro (xiphos, anche se in età arcaica pre falangitica erano utilizzati molti tipi di lama, inclusi il kopis e la makhaira, in seguito proprie della cavalleria), da una lancia (dory) ed infine da uno scudo bronzeo rotondo (hoplon) fornito di un passante centrale e di un'impugnatura lungo il bordo (antilabē).
In verità era lo scudo che definiva l'oplita, non tutti gli opliti disponevano di una panoplia completa (specie il thorax era molto costoso), ma se utilizzavano lo scudo rotondo hoplonerano opliti. Il termine però può essere talvolta (specie nella Beozia arcaica) anche associata a delle fanterie pesanti armate di scudi a dipylon, simili per molti versi a degli hoplonalleggeriti e ridotti di dimensione, e che, in beozia ("scudo beota") rimasero popolari nei combattimenti a ranghi più aperti. Questo tipo di scudo, che consentiva una tenuta molto salda in posizione di difesa contro gli assalitori, costituì un'innovazione decisiva e sembra da mettere in relazione con il sorgere della falange, formazione compatta di combattenti che con gli scudi si coprivano a vicenda.
L'innovazione consisteva nelle dimensioni dello scudo, che variavano dai 60 cm ai 90 cm, sufficienti a proteggere le parti del corpo più vulnerabili. Inoltre lo scudo era munito di una correggia di cuoio, per permettere anche alle spalle di sostenerne una parte del peso, di un'altra correggia in lino da fasciare sull'avambraccio e da una manopola sul bordo in cui si saldava la mano. Lo scudo non era solo un'arma difensiva, ma permetteva di generare delle spinte utili nel corpo a corpo e negli scontri tra falangi, oltre a menar fendenti in caso di rottura o perdita del dory e dello xiphos.
L'oplita (o oplite; in greco antico: Ὁπλίτης, hoplìtes), al plurale opliti, era un soldato della fanteria pesante dell'antica Grecia.
Indice
Descrizione[modifica | modifica wikitesto]
L'armatura completa di un oplita "tipo", definita con il termine panoplia, era costituita da un elmo, in greco kranos (famoso il modello corinzio, preferito dalle popolazioni doriche, ma diffusi anche modelli meno protettivi, e al contempo meno limitanti per la vista e l'udito come il calcidico, l'attico e il beotico), da una corazza in lana o lino e cuoio lavorati (linothorax) che proteggeva efficacemente dalle frecce o da delle corazze più elaborate in bronzo (le thorax in epoca arcaica diffuse erano quelle "a campana", più costosi e, inizialmente più rari, i torax "anatomici"), da schinieri in bronzo (molto scomodi, per questo non sempre usati o utilizzati solo sulla più esposta gamba destra, spesso sostituiti da schinieri in cuoio o da un'ocrea), da una corta spada in ferro (xiphos, anche se in età arcaica pre falangitica erano utilizzati molti tipi di lama, inclusi il kopis e la makhaira, in seguito proprie della cavalleria), da una lancia (dory) ed infine da uno scudo bronzeo rotondo (hoplon) fornito di un passante centrale e di un'impugnatura lungo il bordo (antilabē).
In verità era lo scudo che definiva l'oplita, non tutti gli opliti disponevano di una panoplia completa (specie il thorax era molto costoso), ma se utilizzavano lo scudo rotondo hoplonerano opliti. Il termine però può essere talvolta (specie nella Beozia arcaica) anche associata a delle fanterie pesanti armate di scudi a dipylon, simili per molti versi a degli hoplonalleggeriti e ridotti di dimensione, e che, in beozia ("scudo beota") rimasero popolari nei combattimenti a ranghi più aperti. Questo tipo di scudo, che consentiva una tenuta molto salda in posizione di difesa contro gli assalitori, costituì un'innovazione decisiva e sembra da mettere in relazione con il sorgere della falange, formazione compatta di combattenti che con gli scudi si coprivano a vicenda.
L'innovazione consisteva nelle dimensioni dello scudo, che variavano dai 60 cm ai 90 cm, sufficienti a proteggere le parti del corpo più vulnerabili. Inoltre lo scudo era munito di una correggia di cuoio, per permettere anche alle spalle di sostenerne una parte del peso, di un'altra correggia in lino da fasciare sull'avambraccio e da una manopola sul bordo in cui si saldava la mano. Lo scudo non era solo un'arma difensiva, ma permetteva di generare delle spinte utili nel corpo a corpo e negli scontri tra falangi, oltre a menar fendenti in caso di rottura o perdita del dory e dello xiphos.
UNICITA’ GRECA. Allora perché gli eserciti ellenici
scelsero di trasformarsi in fanteria pesante? Come sintetizzato da Victor
Hanson in L’arte occidentale della guerra: “Data
la natura delle fonti di cui disponiamo, non conosciamo né potremmo conoscere
la reale successione degli eventi sociali e politici che al volgere dell’età
arcaica greca portò a questo tipo di armamento e alla successiva tattica
oplitica. Ma sicuramente all’inizio del VII secolo a.C. la cosiddetta riforma
oplitica attirò in maniera crescente un numero crescente di contadini”. Il
processo socio-politico che aveva condotto alla formazione delle città-stato
con il loro ordinamento democratico, favorì l’emergere di una tecnica di
combattimento che permetteva a tutti gli uomini liberi, indipendentemente
dall’età (dai diciotto ai sessant’anni) e dalla condizione sociale, di
combattere fianco a fianco con la massima efficacia. La tattica oplitica in un
certo senso si dimostrò la strada più semplice per amalgamare una forza così
eterogenea senza dover sottostare a un feroce addestramento. Era in qualche
modo più naturale imbracciare lancia e scudo che diventare arcieri, frombolieri
o cavalieri.
Ma anche altri fattori
ebbero un ruolo determinante. Considerando che la stagione deputata alla guerra
era il periodo estivo (dopodiché riprendevano le normali mansioni nei campi) i
Greci scelsero di risolvere i loro contrasti affrontandosi in scontri decisivi
per stabilire subito vincitori e almeno nell’epoca più antica (VII-V secolo
a.C) non erano contemplate lunghe e sfiancanti campagne militari. Inoltre, per
quanto l’oplon fosse abbastanza grande da riparare buona parte del corpo, non
garantiva a protezione totale: in caso di una battaglia tradizionale, a
formazione aperta, lo scudo non avrebbe permesso al soldato di difendersi in
maniera adeguata da assalti ai fianchi o alle spalle, mentre usato dentro la
falange era molto più sicuro ed efficace.
SUPERIORITA’, MA A QUALE PREZZO? Se la concezione
di una formazione serrata si dimostrò rivoluzionaria, lo studioso Anthony
Gnodgrass, ricordando gli eventi che determinarono il successo ateniese a
Maratona, si sofferma anche sulla netta superiorità del loro equipaggiamento: “Non sapremo mai n certezza come andarono le
cose ma possiamo star certi che il solo valore non sarebbe bastato a vincere.
La superiorità dell’armamento greco dev’essere stata un fattore importante in
quello”. E negli altri casi? Per assurdo si può affermare che schieramento
a falange, sperimentato fino al V secolo a.C. nella sola penisola ellenica, si
dimostrò pressoché imbattibile quando i Greci si misurarono contro popoli ed
eserciti non abituati, né attrezzati, a combattere in quel modo. La musica
cambiava nettamente quando a confrontarsi erano due formazioni composte
esclusivamente da opliti (come nella quasi totalità delle battaglie combattute
su suolo ellenico) schierate sul campo in maniera speculare: entrambi i
contendenti erano armati allo stesso modo e conoscevano perfettamente la
tattica da adottare. A fare la differenza in tal caso erano l’addestramento, la
coesione e il valore dei comandanti.
Per capire come si
comportassero due formazioni oplitiche arrivate a contatto, Hanson scrive: “Quando due eserciti si scontravano, in
genere si scatenava una gara di spinta, e possiamo immaginare che un oplita
appoggiasse naturalmente l’intero peso dello scudo sula spalla sinistra mentre
faceva forza sugli uomini che aveva davanti. Forse la vera rivoluzione
nell’armamento fu la forma concava, di concezione così radicale, una forma che
permetteva a un individuo che pesava poco, sui settanta chili, di reggere
un’arma sproporzionalmente grande e gli offriva la superficie ideale per
scaricare la propria forza sulle spalle di coloro che gli stavano davanti”.
Se dall’esterno una falange sembrava un blocco monolitico, chi militava all’interno era ben conscio degli sforzi,
dei sacrifici e delle sofferenze a cui sarebbe andato in contro per raggiungere
un simile risultato. Innanzitutto era bandita ogni iniziativa personale a
scapito di una rigorosa disciplina, finalizzata a mantenere la coesione con i
compagni verso cui la fiducia doveva essere massima. Anche l’equipaggiamento in
molti casi era una fonte di problemi: con l’elmo calato sugli occhi, per
esempio, la visuale era limitata e i suoni quasi attutiti. In questo la
possibilità di individuare il nemico, soprattutto nelle file più arretrate, era
nulla. L’elmo, oltre a gravare sul collo per il peso (almeno due chili), sotto
il sole estivo poteva diventare soffocante per uomini abituati a portare barba
folta e capelli lunghi. Stesso discorso per un altro elemento della panoplia: i
gambali. Se erano in grado di fornire un’ottima protezione agli arti inferiori,
soprattutto agli uomini impiegati in prima linea, la lamina di bronzo sagomata
poteva rivelarsi scomoda nelle fasi di spostamento. Sebbene fosse dotata di
un’imbottitura interna, il continuo movimento dell’arto poteva generare
irritazioni e piaghe.
IL VOLTO DELLA PAURA. Ancora oggi, pensando a
un oplita greco o a un falangista macedone, ci si immagina un guerriero
indomito e senza paura, un’idealizzazione che la tradizione moderna ha ricamato
ad hoc. Consultando per le fonti antiche, questa percezione cambia, Spartani a
parte, che per natura, educazione e addestramento sembra siano stati immuni da
questo sentimento, gli altri opliti greci vivevano la vigilia di una battaglia
nel terrore. Senofonte, rievocando gli istanti che precedettero lo scontro di
Corone (394 a.C.), sottolinea il silenzio irreale calato sul campo di
battaglia. Altri autori invece descrivano la spasmodica tensione che
attanagliava tutti gli uomini, sia i soldati semplici sia gli ufficiali. E
poteva essere l’apparato gastrointestinale a subirne le conseguente immediate.
Plutarco non si fa scrupolo di sviscerare i frequenti disturbi che affliggevano
il generale Arato (III secolo a.C) prima di ogni scontro: “Subito prima della battaglia, era afflitto da crampi agli intestini,
mentre paralisi e vertigini si impadronivano di lui non appena il corno dava il
segnale di tenersi pronti”. Ma questi inconvenienti erano solo l’effetto
più spiacevole della tensione; poca cosa se paragonati al sopraggiungere di
attacchi di panico che potevano mettere in crisi la tenuta psicologica. Ci
volevano nervi saldi per resistere a queste pressioni e non cedere al raptus di
gettare le armi e fuggire. Il generale spartano Brasidia (V secolo a.C.), per
esempio, non ha alcuna pietà nel descrivere la viltà dei barbari al cospetto di
un esercito greco: “Costoro sono
spaventosi per massa d’uomini che presentano e irresistibili per l’altezza
delle grida, ma non sono in battaglia altrettanto spaventosi perché non hanno
vergogna ad abbandonare la posizione”. Se è indubbio che pochi popoli siano
stati in grado di prendere le misure al modo di combattere ellenico, è
altrettanto vero che anche tra i Greci la tecnica della falange era una prova
che presupponeva doti di resistenza fuori dal comune. Non stupisce pertanto che
si facesse uso di vino nei momenti precedenti l’inizio di ogni scontro.
FALANGE OPLITICA CLASSICA .
Una
battaglia tra due falangi oplitiche nei secoli VII-V a.C. era di norma
dettata da regole non scritte che prevedevano la disposizione sul campo di
battaglia di due eserciti disposti in maniera pressoché speculare. In cui la
componente di fanteria pesante era predominante. L’impiego di armati alla
leggera, arcieri, frombolieri e cavalleria era piuttosto limitato, se non
assente. Indipendentemente dagli effettivi messi in campo, in genere le
truppe più valorose ed efficienti (nel caso degli Spartani, il re e la sua
guardia del corpo) erano dispiegati nell’estrema destra, che pertanto era
considerata la posizione più ambita. Al momento del contatto tra i due
schieramenti si accendeva un furioso combattimento corpo a corpo finalizzato
a spezzare la formazione nemica e metterne la coesione. In questo erano
maestri i lacedemoni grazie al loro proverbiale addestramento: dopo aver
messo in fuga la sinistra avversaria, che avevano di fronte, la loro avanzata
metteva in crisi anche il resto dello schieramento nemico che, per non essere
preso alle spalle, era costretto a cedere su tutta la linea e a ritirarsi.
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FALANGE
OBLIQUA TEBANA.
Per
secoli i combattimenti tra formazioni oplitiche si erano limitati a dare vita
a schieramenti speculari in cui le truppe più forti erano posizionate
sull’ala destra, favorendo in questo modo la superiorità spartana. All’inizio
del IV secolo a.C. però, lo stratega tebano Epaminonda riuscì a concepire una
tattica innovativa chiamata falange obliqua, capace di mettere in crisi
l’avversario nella battaglia di Leuttra (vedi articolo su questo blog) nel
371 a.C. Di che cosa si trattava? Alla vigilia dello scontro, scelse di
assottigliare il centro e la destra del suo esercito al fine di concentrare
le sue forze migliori in uno schieramento profondo sulla sinistra, laddove
nessuno si sarebbe mai aspettato. All’inizio della battaglia inoltre, mentre
la sinistra attaccava la prima linea di fronte, il centro e la destra
avanzarono più lentamente in modo da ritardare il più possibile il contatto con
il nemico (dando vita a una disposizione obliqua). La strategia si rivelò
azzeccata: con i suoi opliti più capaci, disposte su linee molto profonde, e
quindi in grado di esercitare maggiore pressione, affrontò le truppe nemiche
più agguerrite, mettendole fuori combattimento. Dopodiché il resto dello
schieramento avversario fu costretto a ritirarsi per non correre il rischio
di essere aggirato.
|
FALANGE
MACEDONE.
Ricostruzione: carica di fanti contro i pezeteri schierati nella falange
Sul
finire del IV secolo a.C., la Grecia assistette impotente all’affermazione
del Regno di Macedonia capace di trasformarsi nella potenza egemone della
Penisola Ellenica in virtù di una superiorità militare disarmante. I Macedoni
non abbandonarono il classico schema a
falange ma lo portarono a un livello di efficienza maggiore, introducendo una
serie di cambiamenti che facevano perno sull’impiego di una lunga picca da
impugnare a due mani (la sarissa) l’alleggerimento dell’equipaggiamento e
l’introduzione di una potente cavalleria. La disposizione in campo di
battaglia pertanto rimaneva simile a quella oplitica, se non fosse stato per
la presenza, ai lati dello schieramento, della cavalleria superiore alla
controparte greca sia in termini di effettivi sia in di addestramento. Ciò
che cambiava in maniera sostanziale era pertanto la tattica di combattimento.
I fanti macedoni, con le loro lunghe picche, impegnarono la controporte
oplitica, mentre la cavalleria attaccava alle loro spalle dopo aver messo in
fuga le truppe montate avversarie.
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COLLISIONE E CAOS. Nei primi secoli (VII-V
secolo a.C.) le battaglie tra i Greci erano dettate dalle regole fissate dalla
tradizione che favorivano, di comune accordo tra i contendenti, una
disposizione sul campo pressoché simultanea e speculare. Scaramucce di
cavalleria o di soldati armati alla leggera erano rarissime, se non assenti. Al
segnale prestabilito la falange si muoveva in avanti al passo, percorrendo la
distanza che la divideva dalla formazione nemica, e tutti gli opliti dovevano
avanzare all’unisono con lo scudo all’altezza del petto e la lancia sottomano.
Secondo la compagni più valorosi
potessero teneri sotto controllo e dargli coraggio. La marcia di avvicinamento
era una fase molto delicata per il rischio che la formazione si disunisse, un
pericolo dovuto alla presenza di diverse classi di età non sempre in grado di
mantenere la setta velocità e la giusta direzione; non va dimenticato infatti
che solo le prime file (non per nulla vi trovavano posto i soldati più esperti)
erano in grado di individuare il punto di impatto.
Quando i due schieramenti
erano a poche decine di metri di distanza veniva suonato il segnale di carica,
accompagnato dall’urlo di guerra. Il cozzo tra le due formazioni, che il poeta
Callino definisce la prima zuffa sarebbe venuta a distanza di pochi secondi,
con un fragore assordante per effetto della collisione di migliaia di lance,
elmi e scudi. “ I Greci sapevano che il
rumore particolare di quel cozzo iniziale aveva origini differenti. In primo
luogo, il tonfo sordo del bronzo contro il legno si avvertiva quando la punta
di metallo della lancia si faceva strada attraverso l’anima di legno dello
scudo dell’oplita o quando i soldati sbattevano lo scudo contro le corazze e
gli elmi di bronzo dei nemici, oppure ancora quando scudi di legno urtavano
l’uno contro l’altro”, scrive Hanson. Era il momento chiave della battaglia
mentre gli opliti delle prime file cercavano di colpire l’avversario, i
compagni più arretrati (dalla quarta in poi), resesi conto dell’improvviso
stop, non potevano far altro che esercitare la massima pressione su chi avevano
davanti, spingendo energicamente. Si può solo immaginare quali sensazioni
vivesse chi si trovava in quell’inferno, il terribile tanfo di sudore, l’odore
del sangue e i gemiti di chi era stato colpito. Lo scontro tra falangi era a
tutti gli effetti una collisione, fermo restando che uno dei due contingenti
non si sfaldasse prima di arrivare a contatto (caso non frequente quando gli
avversari erano spartani), il cui obiettivo come ricorda Hanson, era “assestare un primo colpo che costringeva
letteralmente il nemico a rinculare, permettendo ai soldati di penetrare in
massa nelle brecce che si creavano lungo la linea”. Gli opliti più esperti
sapevano come evitare il muro di scudi e lance infilandosi tra i brevi spazi
creatisi tra gli avversi in corsa, per poi avventarsi e colpire gli uomini
della seconda e terza fila. Tucilide infatti scrive chiaramente: “I grandi eserciti scompaginano lo
schieramento quando si scontrano”. L’apertura di una breccia, o più brecce,
impediva al resto dell’esercito di serrare le fila e poteva condurre a un
crollo generale della prima fila. Gli opliti sapevano di poter avere la meglio
sull’avversario maneggiando la lancia con destrezza in modo che non si
spezzasse. Tenendola sottomano, si provava a colpire l’inguine, o la parte
superiore della coscia dell’avversario nel punto immediatamente sotto lo scudo.
Un fendente ben assestato era dolorosissimo e costringeva la vittima ad
abbandonare le armi per coprirsi la ferita. altrettanto efficace era il colpo
diretto sopra i gambali, all’altezza del ginocchio. In casi simili, come
raffigurato spesso sui dipinti nei vasi o nei crateri, c’era la possibilità che
l’oplita colpito crollasse all’indietro, travolgendo i compagni della seconda
fila. All’impatto seguiva una lotta corpo a corpo, in cui tutti i colpi erano
leciti quando le lance si spezzavano e non erano più utilizzabili, si ricorreva
a una spada corta, particolarmente in voga tra gli spartani, per il
combattimento ravvicinato. Spesso i
soldati, pressati da dietro e raccolti in pochi centimetri, dovevano ricorrere
alle mani per sbilanciare il nemico, afferrando la loro lancia o addirittura
barba o capelli, e farlo cadere.
LO SCEMPIO DI MORTI E FERITI. Se uno dei due
contendenti aveva la meglio, spezzando la formazione avversaria, la battaglia
era a una svolta. Ma era un evento raro, perché il più delle volte
i due eserciti rimanevano al proprio posto, massacrandosi a vicenda, prima di
cedere definitivamente o ritirarsi. A prescindere da uno svolgimento dello
scontro la carneficina poteva assumere dimensioni significative. Hanson a tale
proposito scrive: “Sono numerosi i
riferimenti ai soldati calpestati, oppure letteralmente soffocati nel punto in
cui si trovavano. Chiunque inciampasse o cadesse ferito correva il rischio di
essere maciullato pesantemente, accecati dalla polvere e dalla stretta dei
corpi”. Con la rottura di uno
schieramento, per la parte sconfitta si profilava il rischio della disfatta totale,
evitabile solo se gli uomini avevano abbastanza sangue freddo da arretrare
ordinatamente combattendo. Ma era un evento poco frequente: il più delle volte,
questi soldati, ormai in preda al panico, gettavano l’equipaggiamento dandosi
alla fuga in maniera disordinata e voltando le spalle. Corpi lacerati e
moribondi, feriti in modo orribile, sparsi ovunque: al termine dello scontro,
il campo di battaglia era uno spettacolo spaventoso a cui pochi sapevano
resistere. Già all’epoca lo shock da combattimento, con conseguente perdita
della ragione, colpiva indistintamente soldati e ufficiali. Nelle fonti si
parla di un fenomeno chiamato epiphanies, traducibile con allucinazioni, come
il celebre episodio di Maratona, quando un oplita giurò di aver visto passare al suo fianco un guerriero
gigantesco che abbatté un avversario poco distante. Se nell’immediato la vista
di cadaveri era impressionante, nei giorni successivi il loro numero poteva
diventare anche un problema sanitario, perché spesso, nel caso di grandi
battaglie in aree isolate, era impossibile recuperare i caduti. E poi c’era la
questione dei feriti, più o meno gravi: c’era chi aveva subito danni
relativamente leggeri da potersi muovere con le proprie gambe, o aiutato dai
compagni, ma c’erano anche i moribondi, le cui lacerazioni erano così profonde
da non poter essere spostati. Per questi ultimi la medicina dell’epoca era
quasi impotente. I feriti, anche quando la lesione sembrava rimarginata,
potevano comunque risentirne a distanza di giorni o settimane. Nel Corpus
Hippocraticum (un testo medico del IV secolo a.C.) si può leggere di come un
oplita colpito da un giavellotto nella parte bassa della schiena fosse morto
nel giro di cinque giorni, mano a mano che il suo quadro clinico era peggiorato
per via di un’infiammazione peritoneale. Frequentissime erano anche gli edemi
celebrali dovuti ai colpi ricevuti sull’elmo: sebbene l’arma non fosse in grado
di penetrarne la superficie metallica, la violenza dell’impatto era tale da
provocare danni irreparabili al cervello. Nelle fonti però si celebrano anche
casi di veterani sopravvissuti a numerosi colpi, come il generale tebano
Pelopida che a Mantinea (362 a.C.) era stato trafitto ben sette volte. per
arrestare le emorragie si faceva ricorso a sostanze come il latte di fico, la
mirra e il vino. In certe situazioni, come le ferite aperte, i medici erano in
grado di intervenire, avendo maturato una certa esperienza nelle fasciature con
bende di lino e cotone. E si facevano anche tamponi di lana e impiastri di grano
e giuggiola per pulirle. Nei casi più gravi, non mancavano operazioni di sutura
con aghi in bronzo, a patto che le arterie non fossero state recise. In quel
caso c’era ben poco da fare. Di fatto, la paura nei volti dei sopravvissuti era
evidente. Gli uomini di una falange non erano più coraggiosi o intrepidi dei
loro contemporanei, ma rispetto a loro avevano assimilato una regola base a cui
era impossibile sottrarsi: la vittoria sul campo dipendeva dalla loro capacità
di stare uniti, come fossero una cosa sola. Rinnegarla poteva significare
soltanto la disfatta totale.
Articolo in gran parte
di Antonio Ratti pubblicato su Storie di guerre e guerriero n. 20. Altri testi
e foto da Wikipedia.
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