venerdì 15 marzo 2019

Osowiec 1915 La carica dei morti viventi.



Osowiec 1915
La carica dei morti viventi.
Nel 1915 si combatté sul fronte orientale una delle battaglie più impressionanti della storia. L’impiego dei gas da parte tedesca ridusse i soldati russi della fortezza di Osowiec a larve umane. Eppure a sferrare un ultimo vittorioso contrattacco.


Fortezza di Osowiec


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Monumento nella fortezza di Osowiec

Fortezza II della Fortezza di Osowiec

Soldati fuori dalla fortezza di Osowiec, 1915

Ufficiale tedesco fatto prigioniero nella fortezza di Osowiec, nel 1914
La fortezza di Osowiec ( polacco Twierdza Osowiec ) è una fortezza del XIX secolo situata nella Polonia nord-orientale , costruita dall'impero russo . Ha visto pesanti combattimenti durante la prima guerra mondiale quando è stato ostinatamente difeso per diversi mesi dalla sua guarnigione russa contro gli attacchi tedeschi.
La fortezza fu costruita negli anni 1882-1892 come una delle opere difensive per proteggere i confini occidentali della Russia contro la Germania , e continuamente modernizzata in seguito per far fronte ai progressi nella pesante artiglieria d'assedio. Nel 1889-1893, l'ingegnere militare Nestor Buinitsky prese una parte importante nella creazione della fortezza. Si trovava sul fiume Biebrza a circa 50 km dal confine con la provincia tedesca della Prussia orientale , nell'unico luogo in cui si potevano attraversare le paludi del fiume, controllando quindi un chokepoint vitale. Le vaste paludi e paludi che lo circondavano rendevano difficili gli attacchi. Il strategico Belostok - Lyck - Königsberganche la linea ferroviaria attraversava la fortezza e attraversava il fiume Biebrza. La fortezza vide pesanti combattimenti durante l'inizio della prima guerra mondiale nel fronte orientale dal settembre 1914 fino a quando l'esercito russo lo abbandonò nell'agosto del 1915. Negli anni tra le due guerre la fortezza fu utilizzata dall'esercito polacco. Durante l' invasione tedesca della Polonia nel 1939 fu bypassata e non vide molti combattimenti.



Fu una delle battaglie più impressionanti tra le tante che nella Grande Guerra macchiarono del sangue di milioni di soldati le trincee la terra di nessuno che la divideva. Impressionante per diverse ragioni: l’asprezza dei combattimenti, i reiterati e vani assalti contro in forte che pareva imprendibile, l’alto numero di vittime, il protrarsi della lotta per mesi seguendo sempre lo stesso, identico copione, senza che nessuna delle parti riuscisse a prevalere. Ma ci sono altre, particolari ragioni che ammantano quella battaglia di un velo di orrore. Innanzitutto, l’uso di armi micidiali come i gas, che rendevano il confronto disumano, violando gli accordi internazionali e riducendo il nemico a un essere privo di ogni valore, degno solo di essere eliminato nella sua totalità, come un insetto fastidioso. E, più di ogni altra cosa, le condizioni in cui uno degli schieramenti si ritrovò a combattere, per l’ultima volta, consapevole di andare incontro alla morte. Un esercito che pareva composto da zombie, a tal punto erano ridotti i suoi soldati.
Nell’estate del 1915 il fronte orientale si era bloccato all’altezza della fortezza di Osowiec (o Osovets), oggi in Polonia, allora parte dell’impero russo. Dopo aver sfondato a Gorlice, l’XI Armata tedesca e la IV Armata austro-ungarica avevano ripreso la provincia asburgica della Galizia, persa un anno prima, e avevano proceduto a occupare vaste regioni quali la Lituania, parte della Lettonia, la Bielorussia e, appunto, i territori polacchi già sotto la corona dello zar. La strada verso la Russia, insomma, era aperta. O quasi. A sbarrarla rimaneva solo Osowiec. La fortezza, costruita alla fine dell’Ottocento sul fiume Biebrza, a una cinquantina di chilometri dal confine con la Prussia orientale, rappresentava l’ultimo ostacolo da abbattere per conquistare lo strategico snodo ferroviario di Belostock. Da qui sarebbe poi stato facile per le Armate attaccanti raggiungere città importanti come Vilnius, Minsk, Brest-Litovsk (la stessa dove, tre anni dopo, sarebbe stato firmato il tratto di pace tra la Russia e gli imperi centrali), da cui muovere l’ultimo balzo in direzione della capitale russa, che all’epoca era l’attuale San Pietroburgo (ma si chiamava Pietrogrado). La fortezza di Osowiec, però, non voleva cedere, né tanto meno arrendersi. Gli attacchi per la sua conquista, cominciati nel febbraio del 1915, erano destinati a trascinarsi per più di sei mesi.

 UN BALUARDO IMPRENDIBILE. Le carenze strutturali dell’esercito zarista, formato da soldati male armati, poco addestrati e guidati da comandanti impreparati, promossi a ufficiali per il loro rango nobiliare anziché per meriti o capacità militari, erano compensate dalla strenua volontà dei soldati di resistere all’invasore, a costo della propria vita. I crescenti malumori, le diserzioni in massa e gli ammutinamenti alimentati dagli afflati rivoluzionari erano ancora di là da venire. Al tempo stesso il soldato russo combatteva, e bene, conscio della responsabilità che gli era stata affidata: difendere dai tedeschi la sua terra, la sua gente, la sua stessa famiglia. A Osowiec, erano appena un migliaio a rallentare l’avanzata di forze decisamente superiori per numero, preparazione ed equipaggiamenti. Tanti ne contava la guarnigione, chiamata a fronteggiare l’XI Armata del Kaiser comandata dal feldmaresciallo August von Mackensen. Agli uomini che presidiavano la fortezza era stato chiesto di resistere almeno 48 ore. Rimasero ai loro posti di combattimento per 190 giorni, tagliati fuori da tutto e da tutti.
Per snidare i russi asserragliati nella fortezza, i tedeschi le provarono tutte, dai supercannoni ai gas- il 25 febbraio cominciarono i bombardamenti, sferrati da ben 17 batterie. Ne facevano parte anche quattro esemplari del cannone 42 cm. M-Gerat 14 L/12, detto il “cannone di Guglielmo” (dal nome dell’imperatore tedesco) ma meglio noto come la “grande Berta”. La prassi della Krupp, che lo fabbricava, era di dare ad ogni prodotto il nome di un membro della famiglia dei proprietari: all’M14 (cioè mortaio 14) toccò quello di Bertha, la figlia maggiore di Friedrich Alfred Krupp, che aveva ereditato l’acciaieria di famiglia. La “grande Berta” era una macchina da guerra impressionante: pesava 42 tonnellate e sparava proiettili calibro 420, capaci di bucare una parete di acciaio larga due metri. Nessuna protezione, insomma, sembrava in grado di resistere ai suoi colpi tremendi. Il “cannone di Guglielmo” fu schierato sia sul fronte occidentale, per smantellare le fortezze belghe e francesi, sia contro le difese russe lungo il Danubio. Con un’arma simile, la presa di Osowiec sembrava questione di pochi giorno. Uno dei membri della guarnigione raccontò “L’impressione era che nessuno sarebbe scampato integro a quell’uragano di ferro e di fuoco”. Gli assedianti, invece, avevano fatto male i loro calcoli. Quando il 3 marzo i bombardamenti finalmente cessarono, la fortezza era si danneggiata, ma ancora in grado di resistere, come i tedeschi dovettero ben presto rendersi conto. Per conquistarla una volta per tutte, non restava che un’altra arma, ancora più terribile: il gas. Con buona pace delle Convenzioni internazionali che ne vietavano l’utilizzo in guerra.

Tenente Vladimir Karpovich Kotlinsky, comandante della fortezza di Osowiec durante l'attacco

Le fasi della battaglia.

FASE 1 DAL 25 FEBBRAIO AL 3 MARZO 1915.
I tedeschi della XI armata ai comandi deTenente Vladimir Karpovich Kotlinsky, comandante della fortezza di Osowiec durante l'attaccol feldmaresciallo August von Mackensen martellano la fortezza russa di Osowiec con intensi bombardamenti di artiglieria. Vengno usati anche cannoni M-Gerat 14L/12 (il “cannone di Guglielmo” o “la grande Berta”.
FASE
Dopo aver constatato che le difese del forte sono ancora in grado di resistere a un attacco via terra, il 6 agosto i tedeschi ricorrono all’uso dei gas (iprite). Una nuvola alta 15 metri e larga 8 chilometri investe una fascia di territorio profonda 20 km, contaminando tutto quello che incontra.
FASE 3
Per stroncare ogni residua resistenza dei russi ulteriore bombardamento con le loro batterie. Nelle stesse ore, il gas si dirada in misura sufficiente a far avanzare le truppe senza che corrano il pericolo di respirarlo.
FASE 4
Convinti che i difensori della fortezza siano tutti morti o messi fuori combattimento dal gas, i tedeschi muovono all’attacco con 14 battaglioni della fanteria (Landwehr), in tutto circa 7mila soldati, puntando verso la posizione chiave di Sosneskaja.
FASE 5
Il comandante del II dipartimento della guarnigione russa, Svechnikov, raccoglie i pochi sopravvissuti e organizza un contrattacco,  guidato dal sottotenente Kotlinskij. La mossa coglie di sorpresa i tedeschi, che ripiegano spaventati dall’aspetto dei soldati russi: questi, i volti fasciati e le divise lacere, camminano a stento e sputano sangue.
FASE 6
Con un assalto alla baionetta, i russi riconquistano alcune posizioni nel perimetro più esterno della fortezza che avevano perdute, dalle quali mitragliano i nemici in fuga. I tedeschi, ormai nel panico, si ritirano disordinatamente, incalzati dal fuoco nemico. Una sconfitta del tutto inattesa, anche per la loro netta superiorità numerica e … fisica.

LA LETALE NUVOLA VERDE. Un primo attacco con i gas fu tentato già alla fine dell’inverno, ma invano: le temperature erano ancora troppo basse per permettere ai vapori venefici di librarsi fino all’obiettivo, portando con sé i loro effetti letali. Arrivata l’estate, però, le condizioni climatiche erano decisamente cambiate. Con il sopravvenire dell’agosto, la temperatura si era alzata al punto giusto; restava solo da aspettare con pazienza che il vento prendesse forza e la direzione adatte. Cosa che avvenne il 6 agosto. Alle prime ore del mattino, migliaia di contenitori furono aperti dai tedeschi per liberare la miscela di cloro e bromo in direzione delle fortificazioni russe. In pochi minuti, una nuvola giallo-verdastra alta fino a 15 metri e larga 8 chilometri avanzò silenziosa investendo una fascia di territorio profonda una ventina di chilometri. La guarnigione del forte, o meglio quel che ne restava dopo mesi di assedio, non aveva nulla per difendersi contro un simile espediente. Nessun rifugio a tenuta stagna, né tanto meno maschere antigas.
Dal punto di vista tattico, l’attacco con il gas risultò perfettamente riuscito. Tutto ciò che era nella fortezza e negli immediati dintorni fu avvelenato e la sua sorte segnata. Le foglie degli alberi si ingiallirono, si accartocciarono e caddero al suolo, come se in pochi secondi fosse trascorsa un’intera stagione. Ma non era il ciclo naturale della natura che li aveva ridotti a scheletri inanimati. L’erba si annerì e si afflosciò al suolo, i fiori persero i petali. Nulla poteva sottrarsi a quella nuvola di morte. Gli oggetti di rame, come lavandini e cisterne per l’acqua, ma anche cannoni e proiettili, si ricoprirono di uno strato di ossido di cloro e presero anch’essi quel colore verde che, a Osowiec, era sinonimo di morte. Le provviste di cibo e di acqua vennero irrimediabilmente contaminate. E gli uomini? Soffocati dal gas, che riempiva di bolle la loro pelle, impregnava le divise ed entrava nei polmoni, provocando devastanti lacerazioni negli organi interni, cercavano disperatamente un rifugio inesistente, o un po’ d’acqua per placare l’arsura che li aveva presi alla gola, come una morsa. Chinandosi a terra per bere dalle fonti d’acqua, però, respiravano ancora di più le esalazioni venefiche, cadendo stremati. Uno scenario apocalittico, da cui sembrava che nessuno potesse sopravvivere. Per essere certi che non avrebbero più incontrato alcuna resistenza, i tedeschi pensarono bene di procedere con un ulteriore bombardamento del forte, prima di lasciare che il gas si diradasse abbastanza da permettere un’avanzata senza danni. Quattordici battaglioni della fanteria, non meno di 7mila soldati, mossero verso posizione chiave di Sosneskaj. I loro ufficiali li avevano rassicurati: “State tranquilli, il gas non c’è più e non incontrerete alcuna resistenza: i russi sono tutti morti, o nono sono più in grado di combattere”. I fanti del Kaiser, così, si mossero convinti che l’occupazione della postazione sarebbe stata una formalità. Ma i russi non erano tutti morti. Certo, quelli sopravvissuti non avevano proprio l’aspetto di chi è ancora in grado di muoversi, figuriamoci di combattere.

Dicke Bertha.Big Bertha.jpg
Grande Berta 

L’uso del gas nella Grande guerra.
Formula di struttura

effetti dell'iprite
Vietate dalla Convenzione dell’Aia del 1907, le armi velenose furono prodotte e impiegati da quasi tutti i contendenti nella Grande guerra, Italia compresa. L’obiettivo era tanto semplice, quanto spietato: eliminare fisicamente i nemici che nessun bombardamento o assalto avrebbe snidato dalle loro posizioni trincerate o fortificate. I gas utilizzati spaziavano dai lacrimogeni all’iprite (una miscela di zolfo e cloro, detta “gas mostarda” per il suo odore) al fosgene. Mentre i lacrimogeni procuravano effetti invalidanti, gli altri erano mortali. Si calcola che le vittime complessive dei gas durante il conflitto furono più di un milione, di cui 400mila russi, 200mila tedeschi e 190mila francesi – pari al 6% del totale. I primi ad usare il gas sul fronte di battaglia furono i francesi, già nel 1914, ma si trattava di lacrimogeni. L’impiego su vasta scala avvenne l’anno seguente per  mano tedesca sul fronte orientale. Ben presto ci si rese conto che l’impiego di questa nuova arma era soggetto a una serie di varianti atmosferiche quali la temperatura e l’umidità dell’aria, la forza e la direzione del vento, che se non opportunamente tenute conto potevano annullarne l’efficacia o addirittura ritorcerla contro lo stesso esercito che aveva deciso di farne uso, come avvenne per gli inglesi a Loos, in Francia, nel settembre del 1915. Un altro problema era rappresentato dalla modalità con cui procedere per investire dei gas le linee nemiche, ovvero se sparare con cannoni e mortai proiettili pieni di veleno, oppure liberarlo da contenitori (come bombole), collocati nelle proprie trincee e collegati a tubi e rubinetti. Il gas che si rivelò più micidiale, nonché il più noto, è l’iprite, che prese nome dalla città belga di Ypres, sul fronte occidentale, dove venne usato per la prima volta. Oltre ad avere violenti effetti vescicanti, tali da causare emorragie interne ed esterne assai dolorose, questo agente chimico ristagnava sulle divise, sul terreno e si insinuava persino nel sottosuolo, continuando ad agire per settimane. Ne subivano i danni gli stessi portaferiti e il personale medico che assistevano quanti ne erano contaminati. A ben poco servivano le maschere antigas distribuite ai soldati in prima linea (e anche ad animali come muli e cavalli) , dal momento che avevano una riserva limitata d’aria. Le prime maschere in flanella, inoltre, facevano sudare moltissimo e appannavano la vista, così che i soldati finivano con il togliersele prima che il pericolo fosse cessato. Le linee non lontane dagli abitati, inoltre, fecero sì che dai gas fosse investita in alcuni casi anche la popolazione civile, che non disponeva di protezioni. Alcune stime indicano tra 100mila e 250mila le vittime civili della guerra chimica, i cui effetti si sarebbero protratti sui sopravvissuti ancora per anni dopo la fine delle ostilità. La gran parte di quanti avevano inalato gas, infatti, non morirono: alcuni rimasero invalidi, i più dovettero fare i conti con le conseguenze sulla loro salute per il resto della vita.

L’ULTIMA CARICA DELLA 13a COMPAGNIA. I soldati si erano fasciati il volto con pezze strappate dalle uniformi, che si erano presto imbevute dl sangue fuoriuscito dalle piache sul volto e sulle mani. Respiravano a fatica, fra atroci dolori, sputando sangue, schiuma e pezzi di essuti dai polmoni. Le loro lacere uniformi e le armi con le parti in metallo ossidate concorrevano a dare loro l’aspetto di cadaveri. Invece erano vivi. Nella maggior parte dei casi, ancora per poco. Insomma, non avevano nulla da perdere. E prima di lasciare questo mondo, erano mossi da un solo desiderio: farla pagare cara a chi li aveva ridotti così. Contro ogni aspettativa dei tedeschi, il capo del II dipartimento della guarnigione, Svechnikov, decise di raccogliere i sopravvissuti per organizzare un contrattacco. A comandarlo sarebbe stato il sottotenente Vladimir Karpovich Kotlinskij con quello che restava della 13a compagnia del 226° reggimento Zemliaskij, dimezzata nell’organicol. Le sofferenze alimentarono una insospettabile volontà che si tramutò in furia. I soldati uscirono dalle fortificazioni e mossero contro i tedeschi, seppure questi fossero assai superiori di numero e in condizioni fisiche incomparabilmente migliori. E contro ogni pronostico, ebbero la meglio.
I tedeschi non si sarebbero mai aspettati lo spettacolo che si presentò ai loro occhi. Non solo i russi non erano morti o fuori combattimenti, ma muovevano al contrattacco. Il loro aspetto, poi, era terrificante: a vederli avanzare, parevano morti che camminavano. Colti di sorpresa e terrorizzati dalle figure che vedevano avanzare contro di loro, le truppe della Landwehr furono prese dal panico. Qualcuno, forse, pensò che si trattasse dei fantasmi dei soldati del forte, che volevano trascinarli con sé nel regno dei morti. In breve, i tedeschi fecero dietrofront e scapparono a gambe levate verso le loro postazioni, incalzate dal fuoco dei russi. Con un assalto alla baionetta, questi riuscirono a riprendere alcune posizioni perdute, da dove mitragliarono i nemici in fuga.
Quella terribile giornata – che sarebbe passata alla storia come l’attacco dei morti – si concluse con la perdita, nelle file russe, di 660 uomini. Fra loro, anche il sottotenente Kondiskij, che era stato ferito a morte nel corso dell’attacco da lui guidato. L’anno seguente fu insignito dell’Ordine imperiale di San Giorgio di IV grado, una onorificenza introdotta da Caterina II per chi si distingueva nelle imprese militari. Al IV grado erano ammessi gli ufficiali che avessero partecipato ad almeno a una battaglia. L’utilità del suo sacrificio, però, si rivelò di breve durata. Poche settimane dopo, infatti, la fortezza fu evacuata allorché l’arretramento del fronte a est rese inutile la sua difesa. I russi portarono con sé ogni arma rimasta intatta e la notte del 24 agosto fecero saltare in aria le poche opere difensive ancora in piedi. Il giorno dopo i tedeschi poterono occuparne solo le rovine. A differenza di Kotlinskij, gli ultimi difensori della fortezza non furono considerati eroi, al contrario. Nel 1917, con la salita al potere di Kerenskij, vennero accusati di tradimento per essersi ritirati. Solo dopo che i sovietici avevano preso il potere con la rivoluzione, furono riabilitati e il loro comportamento portato ad esempio in seguito all’invasione nazista del 1941.

Articolo in gran parte di Andrea e Federico Accorsi, pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 21- altri testi e immagini da Wikipedia.  

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