Osowiec 1915
La carica dei morti
viventi.
Nel 1915 si combatté
sul fronte orientale una delle battaglie più impressionanti della storia.
L’impiego dei gas da parte tedesca ridusse i soldati russi della fortezza di
Osowiec a larve umane. Eppure a sferrare un ultimo vittorioso contrattacco.
Fortezza di Osowiec
La fortezza di Osowiec ( polacco Twierdza Osowiec ) è una fortezza del XIX secolo situata nella Polonia nord-orientale , costruita dall'impero russo . Ha visto pesanti combattimenti durante la prima guerra mondiale quando è stato ostinatamente difeso per diversi mesi dalla sua guarnigione russa contro gli attacchi tedeschi.
La fortezza fu costruita negli anni 1882-1892 come una delle opere difensive per proteggere i confini occidentali della Russia contro la Germania , e continuamente modernizzata in seguito per far fronte ai progressi nella pesante artiglieria d'assedio. Nel 1889-1893, l'ingegnere militare Nestor Buinitsky prese una parte importante nella creazione della fortezza. Si trovava sul fiume Biebrza a circa 50 km dal confine con la provincia tedesca della Prussia orientale , nell'unico luogo in cui si potevano attraversare le paludi del fiume, controllando quindi un chokepoint vitale. Le vaste paludi e paludi che lo circondavano rendevano difficili gli attacchi. Il strategico Belostok - Lyck - Königsberganche la linea ferroviaria attraversava la fortezza e attraversava il fiume Biebrza. La fortezza vide pesanti combattimenti durante l'inizio della prima guerra mondiale nel fronte orientale dal settembre 1914 fino a quando l'esercito russo lo abbandonò nell'agosto del 1915. Negli anni tra le due guerre la fortezza fu utilizzata dall'esercito polacco. Durante l' invasione tedesca della Polonia nel 1939 fu bypassata e non vide molti combattimenti.
Fu
una delle battaglie più impressionanti tra le tante che nella Grande Guerra
macchiarono del sangue di milioni di soldati le trincee la terra di nessuno che
la divideva. Impressionante per diverse ragioni: l’asprezza dei combattimenti,
i reiterati e vani assalti contro in forte che pareva imprendibile, l’alto
numero di vittime, il protrarsi della lotta per mesi seguendo sempre lo stesso,
identico copione, senza che nessuna delle parti riuscisse a prevalere. Ma ci
sono altre, particolari ragioni che ammantano quella battaglia di un velo di
orrore. Innanzitutto, l’uso di armi micidiali come i gas, che rendevano il
confronto disumano, violando gli accordi internazionali e riducendo il nemico a
un essere privo di ogni valore, degno solo di essere eliminato nella sua
totalità, come un insetto fastidioso. E, più di ogni altra cosa, le condizioni
in cui uno degli schieramenti si ritrovò a combattere, per l’ultima volta,
consapevole di andare incontro alla morte. Un esercito che pareva composto da
zombie, a tal punto erano ridotti i suoi soldati.
Nell’estate del 1915 il
fronte orientale si era bloccato all’altezza della fortezza di Osowiec (o
Osovets), oggi in Polonia, allora parte dell’impero russo. Dopo aver sfondato a
Gorlice, l’XI Armata tedesca e la IV Armata austro-ungarica avevano ripreso la
provincia asburgica della Galizia, persa un anno prima, e avevano proceduto a
occupare vaste regioni quali la Lituania, parte della Lettonia, la Bielorussia
e, appunto, i territori polacchi già sotto la corona dello zar. La strada verso
la Russia, insomma, era aperta. O quasi. A sbarrarla rimaneva solo Osowiec. La
fortezza, costruita alla fine dell’Ottocento sul fiume Biebrza, a una
cinquantina di chilometri dal confine con la Prussia orientale, rappresentava
l’ultimo ostacolo da abbattere per conquistare lo strategico snodo ferroviario
di Belostock. Da qui sarebbe poi stato facile per le Armate attaccanti
raggiungere città importanti come Vilnius, Minsk, Brest-Litovsk (la stessa
dove, tre anni dopo, sarebbe stato firmato il tratto di pace tra la Russia e
gli imperi centrali), da cui muovere l’ultimo balzo in direzione della capitale
russa, che all’epoca era l’attuale San Pietroburgo (ma si chiamava Pietrogrado).
La fortezza di Osowiec, però, non voleva cedere, né tanto meno arrendersi. Gli
attacchi per la sua conquista, cominciati nel febbraio del 1915, erano
destinati a trascinarsi per più di sei mesi.
UN BALUARDO IMPRENDIBILE. Le carenze strutturali
dell’esercito zarista, formato da soldati male armati, poco addestrati e
guidati da comandanti impreparati, promossi a ufficiali per il loro rango
nobiliare anziché per meriti o capacità militari, erano compensate dalla
strenua volontà dei soldati di resistere all’invasore, a costo della propria
vita. I crescenti malumori, le diserzioni in massa e gli ammutinamenti
alimentati dagli afflati rivoluzionari erano ancora di là da venire. Al tempo
stesso il soldato russo combatteva, e bene, conscio della responsabilità che
gli era stata affidata: difendere dai tedeschi la sua terra, la sua gente, la
sua stessa famiglia. A Osowiec, erano appena un migliaio a rallentare
l’avanzata di forze decisamente superiori per numero, preparazione ed equipaggiamenti.
Tanti ne contava la guarnigione, chiamata a fronteggiare l’XI Armata del Kaiser
comandata dal feldmaresciallo August von Mackensen. Agli uomini che
presidiavano la fortezza era stato chiesto di resistere almeno 48 ore. Rimasero
ai loro posti di combattimento per 190 giorni, tagliati fuori da tutto e da
tutti.
Per snidare i russi
asserragliati nella fortezza, i tedeschi le provarono tutte, dai supercannoni
ai gas- il 25 febbraio cominciarono i bombardamenti, sferrati da ben 17
batterie. Ne facevano parte anche quattro esemplari del cannone 42 cm. M-Gerat
14 L/12, detto il “cannone di Guglielmo” (dal nome dell’imperatore tedesco) ma
meglio noto come la “grande Berta”. La prassi della Krupp, che lo fabbricava,
era di dare ad ogni prodotto il nome di un membro della famiglia dei
proprietari: all’M14 (cioè mortaio 14) toccò quello di Bertha, la figlia
maggiore di Friedrich Alfred Krupp, che aveva ereditato l’acciaieria di
famiglia. La “grande Berta” era una macchina da guerra impressionante: pesava 42
tonnellate e sparava proiettili calibro 420, capaci di bucare una parete di
acciaio larga due metri. Nessuna protezione, insomma, sembrava in grado di
resistere ai suoi colpi tremendi. Il “cannone di Guglielmo” fu schierato sia
sul fronte occidentale, per smantellare le fortezze belghe e francesi, sia
contro le difese russe lungo il Danubio. Con un’arma simile, la presa di
Osowiec sembrava questione di pochi giorno. Uno dei membri della guarnigione
raccontò “L’impressione era che nessuno sarebbe scampato integro a
quell’uragano di ferro e di fuoco”. Gli assedianti, invece, avevano fatto male
i loro calcoli. Quando il 3 marzo i bombardamenti finalmente cessarono, la
fortezza era si danneggiata, ma ancora in grado di resistere, come i tedeschi
dovettero ben presto rendersi conto. Per conquistarla una volta per tutte, non
restava che un’altra arma, ancora più terribile: il gas. Con buona pace delle
Convenzioni internazionali che ne vietavano l’utilizzo in guerra.
Tenente Vladimir Karpovich Kotlinsky, comandante della fortezza di Osowiec durante l'attacco
Le fasi della battaglia.
|
||
FASE 1 DAL 25
FEBBRAIO AL 3 MARZO 1915.
I
tedeschi della XI armata ai comandi deTenente Vladimir Karpovich Kotlinsky, comandante della fortezza di Osowiec durante l'attaccol feldmaresciallo August von Mackensen
martellano la fortezza russa di Osowiec con intensi bombardamenti di
artiglieria. Vengno usati anche cannoni M-Gerat 14L/12 (il “cannone di
Guglielmo” o “la grande Berta”.
|
FASE
Dopo
aver constatato che le difese del forte sono ancora in grado di resistere a
un attacco via terra, il 6 agosto i tedeschi ricorrono all’uso dei gas
(iprite). Una nuvola alta 15 metri e larga 8 chilometri investe una fascia di
territorio profonda 20 km, contaminando tutto quello che incontra.
|
|
FASE 3
Per
stroncare ogni residua resistenza dei russi ulteriore bombardamento con le
loro batterie. Nelle stesse ore, il gas si dirada in misura sufficiente a far
avanzare le truppe senza che corrano il pericolo di respirarlo.
|
FASE 4
Convinti
che i difensori della fortezza siano tutti morti o messi fuori combattimento
dal gas, i tedeschi muovono all’attacco con 14 battaglioni della fanteria
(Landwehr), in tutto circa 7mila soldati, puntando verso la posizione chiave
di Sosneskaja.
|
|
FASE 5
Il
comandante del II dipartimento della guarnigione russa, Svechnikov, raccoglie
i pochi sopravvissuti e organizza un contrattacco, guidato dal sottotenente Kotlinskij. La
mossa coglie di sorpresa i tedeschi, che ripiegano spaventati dall’aspetto
dei soldati russi: questi, i volti fasciati e le divise lacere, camminano a
stento e sputano sangue.
|
FASE 6
Con
un assalto alla baionetta, i russi riconquistano alcune posizioni nel
perimetro più esterno della fortezza che avevano perdute, dalle quali
mitragliano i nemici in fuga. I tedeschi, ormai nel panico, si ritirano
disordinatamente, incalzati dal fuoco nemico. Una sconfitta del tutto
inattesa, anche per la loro netta superiorità numerica e … fisica.
|
|
LA LETALE NUVOLA VERDE. Un primo attacco con i
gas fu tentato già alla fine dell’inverno, ma invano: le temperature erano
ancora troppo basse per permettere ai vapori venefici di librarsi fino
all’obiettivo, portando con sé i loro effetti letali. Arrivata l’estate, però,
le condizioni climatiche erano decisamente cambiate. Con il sopravvenire
dell’agosto, la temperatura si era alzata al punto giusto; restava solo da
aspettare con pazienza che il vento prendesse forza e la direzione adatte. Cosa
che avvenne il 6 agosto. Alle prime ore del mattino, migliaia di contenitori
furono aperti dai tedeschi per liberare la miscela di cloro e bromo in
direzione delle fortificazioni russe. In pochi minuti, una nuvola
giallo-verdastra alta fino a 15 metri e larga 8 chilometri avanzò silenziosa
investendo una fascia di territorio profonda una ventina di chilometri. La
guarnigione del forte, o meglio quel che ne restava dopo mesi di assedio, non
aveva nulla per difendersi contro un simile espediente. Nessun rifugio a tenuta
stagna, né tanto meno maschere antigas.
Dal punto di vista
tattico, l’attacco con il gas risultò perfettamente riuscito. Tutto ciò che era
nella fortezza e negli immediati dintorni fu avvelenato e la sua sorte segnata.
Le foglie degli alberi si ingiallirono, si accartocciarono e caddero al suolo,
come se in pochi secondi fosse trascorsa un’intera stagione. Ma non era il
ciclo naturale della natura che li aveva ridotti a scheletri inanimati. L’erba
si annerì e si afflosciò al suolo, i fiori persero i petali. Nulla poteva
sottrarsi a quella nuvola di morte. Gli oggetti di rame, come lavandini e
cisterne per l’acqua, ma anche cannoni e proiettili, si ricoprirono di uno
strato di ossido di cloro e presero anch’essi quel colore verde che, a Osowiec,
era sinonimo di morte. Le provviste di cibo e di acqua vennero
irrimediabilmente contaminate. E gli uomini? Soffocati dal gas, che riempiva di
bolle la loro pelle, impregnava le divise ed entrava nei polmoni, provocando
devastanti lacerazioni negli organi interni, cercavano disperatamente un
rifugio inesistente, o un po’ d’acqua per placare l’arsura che li aveva presi
alla gola, come una morsa. Chinandosi a terra per bere dalle fonti d’acqua,
però, respiravano ancora di più le esalazioni venefiche, cadendo stremati. Uno
scenario apocalittico, da cui sembrava che nessuno potesse sopravvivere. Per
essere certi che non avrebbero più incontrato alcuna resistenza, i tedeschi
pensarono bene di procedere con un ulteriore bombardamento del forte, prima di
lasciare che il gas si diradasse abbastanza da permettere un’avanzata senza
danni. Quattordici battaglioni della fanteria, non meno di 7mila soldati,
mossero verso posizione chiave di Sosneskaj. I loro ufficiali li avevano
rassicurati: “State tranquilli, il gas
non c’è più e non incontrerete alcuna resistenza: i russi sono tutti morti, o
nono sono più in grado di combattere”. I fanti del Kaiser, così, si mossero
convinti che l’occupazione della postazione sarebbe stata una formalità. Ma i
russi non erano tutti morti. Certo, quelli sopravvissuti non avevano proprio
l’aspetto di chi è ancora in grado di muoversi, figuriamoci di combattere.
Grande Berta
L’uso del gas nella Grande guerra.
effetti dell'iprite
Vietate dalla
Convenzione dell’Aia del 1907, le armi velenose furono prodotte e impiegati
da quasi tutti i contendenti nella Grande guerra, Italia compresa.
L’obiettivo era tanto semplice, quanto spietato: eliminare fisicamente i
nemici che nessun bombardamento o assalto avrebbe snidato dalle loro
posizioni trincerate o fortificate. I gas utilizzati spaziavano dai
lacrimogeni all’iprite (una miscela di zolfo e cloro, detta “gas mostarda”
per il suo odore) al fosgene. Mentre i lacrimogeni procuravano effetti
invalidanti, gli altri erano mortali. Si calcola che le vittime complessive
dei gas durante il conflitto furono più di un milione, di cui 400mila russi,
200mila tedeschi e 190mila francesi – pari al 6% del totale. I primi ad usare
il gas sul fronte di battaglia furono i francesi, già nel 1914, ma si
trattava di lacrimogeni. L’impiego su vasta scala avvenne l’anno seguente
per mano tedesca sul fronte orientale.
Ben presto ci si rese conto che l’impiego di questa nuova arma era soggetto a
una serie di varianti atmosferiche quali la temperatura e l’umidità
dell’aria, la forza e la direzione del vento, che se non opportunamente
tenute conto potevano annullarne l’efficacia o addirittura ritorcerla contro
lo stesso esercito che aveva deciso di farne uso, come avvenne per gli
inglesi a Loos, in Francia, nel settembre del 1915. Un altro problema era
rappresentato dalla modalità con cui procedere per investire dei gas le linee
nemiche, ovvero se sparare con cannoni e mortai proiettili pieni di veleno,
oppure liberarlo da contenitori (come bombole), collocati nelle proprie
trincee e collegati a tubi e rubinetti. Il gas che si rivelò più micidiale,
nonché il più noto, è l’iprite, che prese nome dalla città belga di Ypres,
sul fronte occidentale, dove venne usato per la prima volta. Oltre ad avere
violenti effetti vescicanti, tali da causare emorragie interne ed esterne
assai dolorose, questo agente chimico ristagnava sulle divise, sul terreno e
si insinuava persino nel sottosuolo, continuando ad agire per settimane. Ne subivano
i danni gli stessi portaferiti e il personale medico che assistevano quanti
ne erano contaminati. A ben poco servivano le maschere antigas distribuite ai
soldati in prima linea (e anche ad animali come muli e cavalli) , dal momento
che avevano una riserva limitata d’aria. Le prime maschere in flanella,
inoltre, facevano sudare moltissimo e appannavano la vista, così che i
soldati finivano con il togliersele prima che il pericolo fosse cessato. Le
linee non lontane dagli abitati, inoltre, fecero sì che dai gas fosse
investita in alcuni casi anche la popolazione civile, che non disponeva di
protezioni. Alcune stime indicano tra 100mila e 250mila le vittime civili
della guerra chimica, i cui effetti si sarebbero protratti sui sopravvissuti
ancora per anni dopo la fine delle ostilità. La gran parte di quanti avevano
inalato gas, infatti, non morirono: alcuni rimasero invalidi, i più dovettero
fare i conti con le conseguenze sulla loro salute per il resto della vita.
|
L’ULTIMA CARICA DELLA 13a COMPAGNIA. I
soldati si erano fasciati il volto con pezze strappate dalle uniformi, che si
erano presto imbevute dl sangue fuoriuscito dalle piache sul volto e sulle
mani. Respiravano a fatica, fra atroci dolori, sputando sangue, schiuma e pezzi
di essuti dai polmoni. Le loro lacere uniformi e le armi con le parti in
metallo ossidate concorrevano a dare loro l’aspetto di cadaveri. Invece erano
vivi. Nella maggior parte dei casi, ancora per poco. Insomma, non avevano nulla
da perdere. E prima di lasciare questo mondo, erano mossi da un solo desiderio:
farla pagare cara a chi li aveva ridotti così. Contro ogni aspettativa dei
tedeschi, il capo del II dipartimento della guarnigione, Svechnikov, decise di
raccogliere i sopravvissuti per organizzare un contrattacco. A comandarlo
sarebbe stato il sottotenente Vladimir Karpovich Kotlinskij con quello che
restava della 13a compagnia del 226° reggimento Zemliaskij, dimezzata
nell’organicol. Le sofferenze alimentarono una insospettabile volontà che si
tramutò in furia. I soldati uscirono dalle fortificazioni e mossero contro i
tedeschi, seppure questi fossero assai superiori di numero e in condizioni
fisiche incomparabilmente migliori. E contro ogni pronostico, ebbero la meglio.
I tedeschi non si
sarebbero mai aspettati lo spettacolo che si presentò ai loro occhi. Non solo i
russi non erano morti o fuori combattimenti, ma muovevano al contrattacco. Il
loro aspetto, poi, era terrificante: a vederli avanzare, parevano morti che
camminavano. Colti di sorpresa e terrorizzati dalle figure che vedevano
avanzare contro di loro, le truppe della Landwehr furono prese dal panico.
Qualcuno, forse, pensò che si trattasse dei fantasmi dei soldati del forte, che
volevano trascinarli con sé nel regno dei morti. In breve, i tedeschi fecero
dietrofront e scapparono a gambe levate verso le loro postazioni, incalzate dal
fuoco dei russi. Con un assalto alla baionetta, questi riuscirono a riprendere
alcune posizioni perdute, da dove mitragliarono i nemici in fuga.
Quella terribile
giornata – che sarebbe passata alla storia come l’attacco dei morti – si
concluse con la perdita, nelle file russe, di 660 uomini. Fra loro, anche il
sottotenente Kondiskij, che era stato ferito a morte nel corso dell’attacco da
lui guidato. L’anno seguente fu insignito dell’Ordine imperiale di San Giorgio
di IV grado, una onorificenza introdotta da Caterina II per chi si distingueva
nelle imprese militari. Al IV grado erano ammessi gli ufficiali che avessero
partecipato ad almeno a una battaglia. L’utilità del suo sacrificio, però, si
rivelò di breve durata. Poche settimane dopo, infatti, la fortezza fu evacuata
allorché l’arretramento del fronte a est rese inutile la sua difesa. I russi
portarono con sé ogni arma rimasta intatta e la notte del 24 agosto fecero
saltare in aria le poche opere difensive ancora in piedi. Il giorno dopo i
tedeschi poterono occuparne solo le rovine. A differenza di Kotlinskij, gli
ultimi difensori della fortezza non furono considerati eroi, al contrario. Nel 1917,
con la salita al potere di Kerenskij, vennero accusati di tradimento per
essersi ritirati. Solo dopo che i sovietici avevano preso il potere con la
rivoluzione, furono riabilitati e il loro comportamento portato ad esempio in
seguito all’invasione nazista del 1941.
Articolo in gran parte
di Andrea e Federico Accorsi, pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 21-
altri testi e immagini da Wikipedia.
Nessun commento:
Posta un commento