mercoledì 13 marzo 2019

Affondamento dell’Hms Royal Oak. Un killer silenzioso.


Affondamento dell’Hms Royal Oak.

Un killer silenzioso.



La rotta seguita dall'U-47

Le gelide acque del mare del Nord. Un solitario U-Boot tedesco. La più munita base navel inglese e una corazzata orgoglio della flotta di sua Maestà. Cronaca di una delle più incredibile imprese navale della seconda guerra mondiale, che sulla carta avrebbe dovuto essere irrealizzabile.

Problematico, per non dire impossibile, concepire lo stato d’animo e la tensione dell’equipaggio dell’U-47, quella notte senza luna del 13 ottobre del 1939, quando si apprestava dare inizio alla fase più delicata dell’intera missione. Per il tenente di vascello Gunther Prien, comandante di quell’U-Boot della Kriegsmarine (Marina di guerra tedesca) la più piccola disattenzione, il minimo errore avrebbero potuto essere fatali. Il destino dei suoi uomini era, ora più che mai, nelle sue mani.
Non è difficile immaginare come la sua mente sia tornata indietro di molti anni, più precisamente ai convulsi giorni della Grande Guerra, al tragico destino di chi prima di lui aveva voluto sfidare la sorte e la più potente flotta del mondo: quei quattro sommergibili dell’allora Kaiserche Marine, la marina imperiale tedesca, che si erano prestati a una simile follia con risultati drammatici. E proprio l’ultimo in ordine di tempo, nell’ottobre 1918 precisamente, era stato il più tragico. L’UB-116 guidato da Hans Emsmann e il cui equipaggio era costituito da soli ufficiali offertisi volontari, una volta superati gli sbarramenti difensivi, era riuscito a penetrare la base nemica con l’obbiettivo di affondare l’ammiraglia della flotta inglese, l’HMS Iron Duke. Non era riuscito neppure ad avvicinarsi: individuato dagli idrofoni inglesi, divenne un facile bersaglio e fu letteralmente dilaniato dallo scoppio di potenti mine navali attivate con comandi da terra. Ciò che restava di quelle lamiere contorte si adagiò sul fondale a trenta metri di profondità con il suo carico di morte. Prien era conscio del terribile pericolo che stava correndo, ma non era il caso di ripensamenti. D’altronde si era offerto volontario, nonostante sapesse in cuor suo che la baia di Scapa Flow, la più importante base navale inglese, ubicata in una spaziosa rada delle Isole Orcadi, nell’estremo nord della Scozia, fosse ritenuta da tutti praticamente impenetrabile.


Il luogo dell'affondamento della Royal Oak è segnalato da una boa verde. Si noti come fuoriesca ancora dell'olio dal relitto

Grossadmiral Karl Donitz.
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In qualità di comandante della flotta subacquea (fino al gennaio del 1943, poi fu nominato ammiraglio della Marina da guerra tedesca) impiegò gli U-Boot in una guerra totale, passata alla storia come battaglia dell’Atlantico, per mettere in ginocchio i rifornimenti alleati.

IL GRANDE SOGNO DI DONITZ. Quali erano le ragioni di una simile audacia? Quale motivo spingeva questi uomini a un destino che per i più poteva essere la morte? La Kriegsmarine, nell’ottobre del 1939, a guerra da poco iniziata, era indubbiamente in cerca di un prestigio che nei mesi successivi non sarebbe tardato ad arrivare, e allo stesso tempo aveva bisogno d’intaccare il morale della Royal Navy, il cui dominio dei mari era incontestabile. Per tale ragione Scapa Flow era il bersaglio perfetto, un obiettivo che avrebbe giustificato la sfida delle potenti difese inglesi e le fortissime correnti in grado di mettere in crisi qualsiasi sommergibile avesse provato a percorre in immersione quelle infide acque. Ma, a conti fatti, non si trattava di sola propaganda. C’era anche un vecchio conto da regolare, un affronto da vendicare: solo così sarebbe stato possibile chiudere un capitolo oscuro che agitava i sogni di qualsiasi ufficiale tedesco. Proprio qui infatti nel primo dopoguerra, in base ai durissimi termini dell’armistizio di Compiègne (11 novembre 1918) e del successivo trattato di Parigi, fu internata l’intera Hochsceflotte, la flotta d’alto mare tedesca, in attesa di essere spartita tra le potenze vincitrici; e nella drammatica notte del 21 giugno 1919, per evitare che finisse in mano britannica, l’ammiraglio Ludwig von Reuter diede il terribile ordine a tutte le unità di autoaffondarsi. Ben cinquantadue grandi vascelli finirono con il colare a picco. Quella terribile offesa andava vendicata, a qualsiasi costo. Era il grande sogno cullato dal Befehshaber der U-Boote, il supremo comandante della flotta sottomarina, Karl Donitz. Per avere una minima possibilità di successo era necessario disporre di tutte le informazioni possibili sulle caratteristiche della base e i canali d’accesso percorribili. Furono pertanto predisposte accurate ricognizioni aeree e sottomarini per vagliare i possibili punti deboli del sistema difensivo inglese, anche se a quanto pare i risultati furono davvero poco incoraggianti. Il comandante dell’U14 mandato in avanscoperta così si espresse: “Il nemico ha naturalmente sistemato degli sbarramenti alle diverse entrate della rada: reti, mine, palizzate, relitti. I passaggi principali sono particolarmente ben protetti. Pare che il traffico venga smaltito attraverso Hoxa Sound (in inglese, sound indica uno stretto o un’insenatura), pattugliato per lo meno da una corvetta e chiuso da uno sbarramento di reti che viene aperto soltanto in occasione dell’entrata o dell’uscita di navi da guerra e pescherecci … Sulla costa orientale, Kirk Sound e Skerrt Sound, che vengono subito dopo Holm Sound, sono ostruiti da scafi affondati ….Inoltre le correnti di marea sono molto violente. Gli altri passaggi … sono impraticabili a causa di bassifondi e secche. Le correnti in certi punti superano i 10 nodi … E’ evidente che i nostri sommergibili, che non sviluppano in immersione una velocità maggiore di 7 nodi … sarebbero in balia delle correnti e delle contro correnti”. Di certo non sarebbe stata una passeggiata per chiunque fosse stato così folle da provarci.

Scapa Flow, una base impenetrabile.


La Royal Navy scelse la rada di Scapa Flow, ubicata nell’arcipelago delle isole Orcadi (nord della Scozia) come base principale perché rappresentava un ancoraggio perfetto, abbastanza grande da ospitare l’intera flotta di superficie. Ma non solo. La sua posizione aveva una forte rilevanza strategica, essendo in grado di dominare le rotte d’accesso all’Atlantico settentrionale. E fin dalla Prima guerra mondiale il suo ruolo fu essenziale per contendere il dominio dei mari alla marina da guerra tedesca. Al termine del conflitto, con il venir meno delle esigenze belliche, la base fu abbandonata per tornare a privilegiare porti più facilmente raggiungibili come quello di Rosyth, situato nel Firth of Forth, il canale di Edimburgo; gran parte delle difese costiere e degli sbarramenti di mine fu pertanto fatto saltare o demolito. Scelta piuttosto incoerente e azzardata che sarebbe stata pagata cara. Quando infatti nel 1938 l’Ammiragliato inglese decise che Scapa Flow avrebbe dovuto nuovamente ospitare la flotta in previsione di un possibile conflitto con la Germania nazista, fu immediatamente riabilitata. Eppure lo stato in cui versava era così pietoso che una prima analisi nise in luce vistose carenze e forte vulnerabilità. Si procedette pertanto a una nuova militarizzazione poiché la sua posizione strategica era troppo importante. E incredibilmente quando le prime unità da guerra entrarono in rada si trovarono di fronte alcuni marinai intenti a smantellare ancora parte delle infrastrutture della Grande guerra. Nonostante questo i lavori per renderla inattaccabile procedettero febbrilmente, sebbene alcuni ritardi e avvicendamenti nella catena di comando avrebbero impedito, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, di completare il sistema difensivo. In particolare si rilevava una carenza di pezzi antiaerei e falle nel sistema di sbarramento dei canali d’accesso. Per ovviare alla cosa erano state affondate alcune vecchie navi tra le isole maggiori e i vari isolotti come Lamb Holm e Gilms Holm. Per ironia della sorte, l’una nave per completare l’opera sarebbe arrivata solo il 14 ottobre 1939, dopo l’attacco dell’U-47.


Il comandante Prien nel 1940

UN VOLONTARIO ENTUSIASTA. Eppure un punto debole nel sistema di difesa inglese sembrava esserci, e non tardò a essere rilevato. Dopo un’attenta analisi delle informazioni ottenute, in special modo delle foto della ricognizione area, Donitz e il suo staff, come ricordato nelle sue memorie, riuscirono a localizzare un possibile accesso: “Holm Sound, non è sbarrato che da due piroscafi apparentemente affondati al traverso del canale di Kirk Sound e da un altro po’ più a nord. A sud di essi, fino a Lamb Holm, esiste una breccia larga 170 metri con un battente d’acqua di sette metri fino ai bassifondi. A nord di questi si trova pure una breccia, più stretta. Sulle due rive, la costa è pressoché disabitata. Ritengo possibile entrare di là, in superficie, durante la fase di stanca dell’alta marea. La navigazione costituirà la difficoltà principale”.
Un solo possibile varco (il canale di Kirk) quindi, da attraversare nelle più terribili condizioni di navigazione e cosa davvero poco piacevole in emersione, a poca distanza dalla terraferma. Che non ci fossero insediamenti sulla costa era un dato positivo, ma la presenza di una strada significava possibile traffico civile o militare, in grado di dare l’allarme rapidamente. Perché quel tratto di canale fosse sgombro era un mistero: avrebbe dovuto esserci un’ostruzione, ma così non era. L’arcano sarebbe stato risolto, per i non addetti ai lavori, solo trent’anni dopo, quando i documenti segreti militari furono declassificati. E il risultato fu sorprendente. Per ironia della sorte, l’ultima nave per ostruirlo avrebbe dovuta essere affondata il giorno 14 ottobre, poche ore dopo il passaggio dell’U47. Strano gioco del destino, di cui però i tedeschi erano all’oscuro. Comunque fosse, Kirk Sound era l’unica possibilità per entrare a Scapa Flow e andava tentato il tutto e per tutto. Questo era in sintesi il quadro, ben poco invogliante, che Donitz presentò al giovane Gunther Prien il 1° ottobre 1939, specificando che avrebbe avuto quarantotto ore per pensarci e decidere se guidare quella missione. Non ce ne fu bisogno. Il giorno successivo il tenente di vascello accettò l’incarico senza esitazioni: avrebbe condotto il suo sommergibile nel cuore di Scapa Flow.

L’HMS Royal Oak.

HMS Royal Oak (08).jpg

Quarta unità della classe Revenge, la Royal Oak era entrata in servizio operativo nel maggio del 1916 partecipando attivamente alla battaglia dello Jutland nel giugno dello stesso anno. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale era pertanto una nave con una lunga storia alle spalle, ma in virtù della bontà del progetto costruttivo aveva subito diversi lavori di ammodernamento nel 1922, 1927 e in particolar mondo nel 1934, che ne potenziarono i sistema d’armamento e di tiro, la corazzatura e la protezione subacquea. La parte superiore della torre di comando fu inoltre modificata per consentire di sopportare il peso di una seconda stazione di controllo dei pezzi antiaeri e di radiogoniometro. Dotazione che nell’insieme garantirono all’unità un notevole vvataggio rispetto alle altre unità della sua classe.
TIPO:                   Nave da battaglia
CLASSE:             Revenge
LUNGHEZZA:   190 metri
LARGHEZZA:   31,1 metri
DISLOCAMENTO: 29150 Tonnellate
STAZZA LORDA:   33500 Tonnellate
VELOCITA’ MASSIMA: 20 nodi
AUTONOMIA:   4000 miglia nautiche
POTENZA MASSIMA: 40000 Shp
EQUIPAGGIO: 1150 uomini
CORAZZATURA: cintura 330 mm, cintura superiore 152 mm, barbette 254 mm, fronte delle torrette 330 mm.
APPARATO MOTORE: 2 gruppi di Turbine Parson su 4 assi d’elica alimentate da 18 caldaie Yarrow-
ARMAMENTO: 8 cannoni da 381 mm in torrette binate, 12 cannoni da 150 mm, 4 cannoni da 102 mm, 2 cannoni da 40 mmm, MK VIII antiaerei.
DIFESA ANTINAVE:  4 tubi lanciasiluri da 533 mm
AVIAZIONE IMBARCATA: 1 silurante Fairey Swordfish
Varata il 17 novembre 1914 entrò il servizio il 1° maggio del 1916. Il 14 ottobre venne affondata a Scapa Flow (nelle isole Orcadi) da siluri lanciati dall’U-Boot U-47. I morti tra i membri dell’equipaggio furono 833, i sopravissuti 386. Fu la prima nave da guerra britannica ad essere affondata nella seconda guerra mondiale. Il relitto, mai rimosso dal luogo in cui colò a picco, è considerato un monumento ai caduti. Tutti gli anni, nell’anniversario dell’affondamento viene esposta sulla poppa della nave una White Ensigne (la bandiera del White Squadron della Royal Navy). Nella città di Kirkwall è presente una lapide dedicata agli 833 marinai deceduti.
Radiografia dell’U-47.
Il battello tedesco che riuscì a violare l’impenetrabile base di Scapa Flow era un sottomarino del tipo VIIB, un mezzo di sole 735 tonnellate e 66,50 metri di lunghezza che fu impiegato nel corso della Seconda guerra mondiale principalmente per missioni oceaniche. Complessivamente dal 1935 al 1945 ne entrarono in servizio 705, di cui ben 661 appartenevano alla variante C o C/41, la più perfezionata. L’autonomia era di circa ottomila miglia a una velocità media di 10 nodi e la profondità operativa di 150 metri (quella massima consentita era 225). Una delle sue doti maggiori, e molto apprezzata in caso di attacco nemico, era la possibilità d’immergersi rapidamente: un buon equipaggio poteva farlo in poco meno di trenta secondi, il che in termini spiccioli significava la differenza tra la vita e la morte. È per questo motivo che nell’insieme fu molto amato dai sommergibilisti tedeschi e può essere considerato l’ossatura della flotta sottomarina tedesca. Su questo battello gli storici militari Erminio Bagnasco e Giorgio Giorgerini si sono espressi in questo modo “Non possedeva doti in se stesse eccezionali, ma era l’insieme delle sue caratteristiche, il buono bilanciamento e l’alto standard delle sue prestazioni che ne fecero in mani di equipaggi perfettamente addestrati e ben diretti un’arma formidabile e il più riuscito tipo di sommergibile della Seconda guerra mondiale.
LUNGHEZZA: 66,50 m
DISLOCAMENTO: 753 t in superficie, 857 t in immersione.
VELOCITA’ MASSIMA: 17,9 nodi in superficie, 8 nodi in immersione.
APPARATO PROPULSIVO: 2 motori diesel da 1400 cavalli e 2 motori elettrici da 375 cavalli.
ARMAMENTO: 5 tubi lanciasiluri da 533 mm (quattro a prua e uno a poppa) con dotazione massima di 14 siluri, un cannone da 88 mm 5KC/35 e un impianto da 20 mm Flak contraereo.

SILURI G8 E T2
Poco prima di salpare per Scapa Flow l’U-47 imbarcò i nuovi siluri a propulsione elettrica in sostituzioni di quelli ad aria compressa per evitare che potesse essere avvistata la scia dell’aria in risalita. Il modello utilizzato per l’affondamento della Royal Oak fu pertanto il G7 e T2 da 533 mm, un nuovo modello di arma progettato nel 1935 ed entrato in servizio nel 1939 proprio per l’impiego sui sottomarini. Considerando le buone prestazioni operative, nel 1942 si procedette a realizzarne una nuova versione, la T- 3a, che poteva raggiungere un bersaglio a quasi 7500 metri di distanza.
LUNGHEZZA: 7,186 m
CARICA ESPLOSIVA : 200 kg (Hexanite)
VELECITA’: 30 nodi
PORTATA: 3000 m
PROPULSIONE: un motore elettrico da 100 hp, alimentato da batterie piombo-acido che forniva potenza a due eliche bipala controrotanti.

Il memoriale della Royal Oak nella cattedrale di St. Magnus


LA MISSIONE ABBIA INIZIO. L’U-47, un U-Boot oceanico tipo VIIB, lasciò il porto tedesco di Kiel l’8 ottobre con una tabella di marcia calcolata con il preciso scopo di arrivare in prossimità della base nemica all’imbrunire del 13, data significativa del calendario perché avrebbe garantito un livello di marea favorevole e in particolar modo sarebbe stata una notte senza luna. Sebbene alla partenza, per evitare qualsiasi fuga di notizie e quindi avvantaggiare il nemico, solo il secondo e l’ufficiale di rotta fossero stati messi al corrente dell’obbiettivo, il resto dell’equipaggio si rese conto che non si trattava di una semplice missione: furono infatti imbarcati i viveri in eccesso e caricati i nuovi siluri a propulsione elettrica, modello G7 e T2, in sostituzione di quelli ad aria compressa che provocavano vistose scie in superficie a causa dell’aria in risalita. Nel resoconto della partenza avvenne, come riporta da Prien, un fatto piuttosto curioso: incrociando l’U-46 al rientro da una missione in mare, il suo comandante, completamente all’oscuro dell’incarico dell’U-47, megafono alla mano strepitò: “Gunther dimmi un po’ il gran capo non avrà mica l’idea di spedirti a Capa Flow?”. Incredibile fatalità o la notizia si era già diffusa? Si trattò di pura coincidenza, non vi fu nessuna fuga di notizie in grado di pregiudicare il vantaggio della sorpresa. E infatti il viaggio verso le Orcadi fu piuttosto tranquillo e privo di intoppi, a parte una fastidiosa infiltrazione d’acqua salata in una delle casse esterne di gasolio del motore di destra che rese necessario uno stop. Prien diede ordine di adagiare l’U-47 sul fondale per permettere al direttore di macchina di effettuare le riparazioni del caso che furono effettuate a tempo di record. Pertanto la fase di avvicinamento all’arcipelago non subì particolare ritardo. Ora però veniva la parte più pericolosa e difficile della missione. Conscio della posta in palio, il comandante mise al corrente della missione in atto tutto l’equipaggio, rendendolo partecipe delle grandi difficoltà che si sarebbero trovati ad affrontare. Verso le 23,07 del 13 ottobre l’improvvisa apparizione di un mercantile costrinse l’equipaggio a una rapida immersione, dopodiché intorno alle 23,30 l’U-Boot si inoltrò nello specchio di mare denominato Holm Sound, che conduceva verso il canale di Kirk, delimitato a est dalle isole di Burry e South Ronaldsay. Ma nell’oscurità più totale Prien non si rese conto d’aver preso il passaggio più a sud, lo Skerry Sound,, finché si trovò di fronte due navi affondate, la Seriano e la Numidian, e si infilò furtivamente nel varco libero a nord. Fu il momento più delicato della missione. A un certo punto un cavo sporgente da uno dei due relitti fece incagliare l’U-47: impossibilitato a procedere, Prien fu costretto a ordinare una serie di rapide manovre nel tentativo di liberarsi. Furono alcuni momenti interminabili, ma tutto andò per il meglio. Tuttavia un nuovo pericolo si palesò quando i fari di una macchina isolata illuminarono per alcuni secondi il battello. Per fortuna non fu dato alcun allarme, il conducente non si accorse di nulla e procedette nella sua corsa. L’ultimo ostacolo, il più problematico era stato superato: la corrente e il livello di marea così temuti erano stati preziosi alleati.

La vita a bordo di un U-Boot.
modello dell'U boot 047
Essere imbarcati su uno di questi battelli significava di far parte di un vero e proprio corpo d’élite. Accedervi facendo una semplice domanda non era sufficiente, erano necessarie grandi doti fisiche e psicologiche, in previsione della durissima vita di bordo. Chi veniva scelto, dopo un pesante addestramento, sapeva però di poter contare su un’incredibile spirito di corpo e una considerazione fuori dal comune. E gli aspetti positivi non mancavano. Tutti i membri dell’equipaggio infatti, a prescindere dal grado, godevano di privilegi sconosciuti alle altre unità da combattimento, sia dal punto di vista del salario sia delle licenze e  tanti altri benefici. Basti pensare che da Parigi partiva regolarmente un treno speciale predisposto per condurre in patria quanto più velocemente possibile i sommergibilisti in permesso.

Stipati come sardine.
La vita a bordo di un qualsiasi sottomarino della Seconda guerra mondiale era un’esperienza non sopportabile da tutti, che richiedeva incredibili capacità di resistenza e adattamento. Per non parlare dei piccoli I-Boot tipo VII, con i loro 60 metri di lunghezza e i 4,5 di larghezza. Se si considera che la maggior parte dello spazio era occupato da sala siluri, apparato motore e strumentazione di vario genere, si è calcolato che l’equipaggio, composto da 43 uomini (con il comandante e sei tra ufficiali e sottoufficiali), dovesse condividere uno spazio angusto di poco più di 30 metri quadrati, un piccolo monolocale. Una vera e propria impresa se si pensa che una normale missione in Atlantico poteva durare almeno due settimane. Il cuore del battello era la sala controllo a tenuta stagna, con i suoi preziosi strumenti di navigazione e negli spazi rimanenti era presente una piccola cucina, la sala radio e ascolto idrofonico e due minuscoli bagni. Spesso le provviste, stipate all’inverosimile,ne occupavano uno, e solo dopo averle esaurite era possibile utilizzarlo. Non esistevano pause: il messo doveva funzionare 24 ore su 24, e pertanto solo il comandante era dotato di una piccola cuccetta senza porta, chiusa da una tenda, mentre per i più c’erano solo delle brande, le cosiddette “brande calde”, perché ospitavano uomini a rotazione dopo la fine di un turno e l’inizio dell’altro.
Il cibo, l’unico lusso.
Nonostante la penuria imposta dalla guerra, per gli equipaggi degli U-Boot non c’erano restrizioni sulla qualità del cibo, la migliore possibile. Alcune testimonianze fotografiche attestano che i battelli in partenza erano spesso stipati fino all’inverosimile, spesso con salami e prosciutti appesi sui soffitti a fianco delle brande. Erano ammessi gli alcolici, che finivano in verità piuttosto velocemente, e le sigarette. Non era possibile fumare all’interno del battello, ma rea prassi salire in superficie durante il giorno, mai di notte per il rischio di essere avvistati. Il cuoco di bordo era una figura chiave e rispettata; doveva esser sempre pronto a fornire un buon pasto a un marinaio al termine del turno. Unica nota dolente l’acqua potabile, poca e con un terribile sapore. Lavarsi era impossibile, così come radersi. Riconoscere gli uomini al ritorno della missione era un’impresa per la
Rischi e pericoli.
Attacchi nemici a parte, la sopravvivenza di un sottomarino era sempre a un filo sottile. Il più piccolo contrattempo, un calcolo sbagliato, un imprevisto potevano essere fatali. Per esempio una banale infiltrazione d’acqua di mare nelle .  poteva far sviluppare letali vapori di acido cloridrico che in taluni casi, e in concentrazioni elevate, potevano rivelarsi mortali. Ma anche una prolungata immersione poteva portare, in condizioni di saturazioni d’anidride carbonica e mancanza di ricambio d’aria, a principio d’asfissia. Una delle attività più importanti era la misurazione del grado di densità dell’acqua di mare per poter affrontare, in caso di bisogno, rapide immersioni senza inconvenienti. Ogni dodici ore ne veniva prelevato un campione e analizzato, dopodiché era possibile ottenere informazioni sul galleggiamento del battello e sull’equilibrio che era necessario dare al momenot della fase in discesa. Non pochi U-Boot rischiarono grosso, tuttavia, perché rispetto all’ultima misurazione le condizioni del mare erano mutate radicalmente.













Turni massacranti-
Un normale equipaggio era in genere diviso in due parti: gli addetti ai motori e i non addetti. A parte il comandante, una figura importante era il direttore di macchina, a cui spettavano compiti delicati come quelli di gestire l’assetto del sommergibile, la sua velocità e ogni particolare del sistema propulsivo. I motori, due diesel per la navigazione in emersione e i due elettrici per la fase subacquea, dovevano essere sempre in perfetta efficienza per qualsiasi evenienza. I turni in genere in sala macchine prevedevano sei ore di lavoro e sei di riposo. Per tutti gli altri uomini dell’equipaggio le mansioni erano rigidissime per garantire il perfetto funzionamento del battello (addetti alle armi, navigazione, ascolto radio e idrofoni e così via). Una delle guardie più spossanti era la vedetta in torretta, effettuata in qualsiasi condizione atmosferica: gli uomini stavano incollati ai cannocchiali cercando di notare qualsiasi pericolo all’orizzonte. Non furono poche le vittime causate dalle terribili condizioni del mare, come nel caso dell’U-124 che rischiò di capovolgersi per un’onda anomala. Tutti i membri dell’equipaggio furono spazzati via.
La sala macchine di un U-boot tipo VII-C, ripresa guardando verso prua: in primo piano i motori elettrici; si nota il portello di accesso, oltre il quale ci sono i motori diesel. In navigazione i motoristi erano i più importanti componenti dell'equipaggio e l'ufficiale di macchina era spesso l'uomo-chiave, assieme al comandante, per l'efficienza del battello.
Svaghi e superstizioni.
Nei rari momenti di relax il comandante ricorreva a ogni mezzo possibile pur di garantire l’integrità psichica dei suoi uomini. Non era pertanto raro assistere a tornei di scacchi, dama o partite a carte e musica a tutto volume, sebbene le direttive naziste lo proibissero tassativamente. Anche le ricorrenze nazionali erano celebrate puntualmente, insieme ad altre usanze come la cerimonia di attraversamento dell’equatore. L’equipaggio di un sottomarino era quanto di più superstizioso ci potesse essere. La scaramanzia era in taluni casi una legge invisibile che dettava i ritmi di bordo e spesso salvò la vita di alcuni battelli. Un caso stupefacente fu l’U-48. Il suo comandante Herbert Schultze aveva ideato un rito propiziatorio incredibile: la rotta che assegnava al suo timoniere era sempre basata su un numero multiplo di sette, nessuna eccezione era permessa. E quando a capo del mezzo subentrò un altro comandante, si sfiorò quasi la corte marziale perché, non informato dell’usanza, cercò a tutti i costi di imporre al timoniere una rotta non “convenzionale”. L’U-48 fu uno dei pochi sottomarini tedeschi a finire la guerra.
I ruoli e le divise:
Personale di guardia di un VII-C in torretta, in navigazione nel mare del Nord. Le vedette avevano un compito vitale su un U-Boot: avvistare in tempo utile una nave o un aereo avversario.

GUARDIE DI TORRETTA.
Un compito molto pericolo e spesso temuto dall’equipaggio era la guardia in torretta, sia nei giorni di sole e fresco, sia in quelli di burrasca o freddo polare. Il loro compito era quello d’avvistare possibili minacce nemiche con largo anticipo; il cannocchiale era pertanto uno strumento di cui non privarsi mai. Era normale con il clima rigido indossare capi pesanti antivento e in caso di mare mosso o addirittura in tempesta un salvagente. Anche se non sempre era sufficiente a salvarsi.

MARINAI.
Anche nel loro caso c’era una bella differenza tra divisa d’ordinanza e abbigliamento operativo. Indipendentemente dal ruolo quindi, il vestiario era un fattore che variava molto in funzioni delle condizioni meteorologiche e del clima in cui operava il battello. In particolare lavorare in sala macchine, con altissime temperature d’esercizio, in luoghi chiusi e spazi limitati, determinava scelte drastiche come l’uso di semplici t-shirt e pantaloni corti.

UFFICIALI.
La loro divisa d’ordinanza era standard, ma come confermato da filmati o foto d’epoca nella vita frenetica di bordo si poteva indossare qualsiasi indumento. Il simbolo del comandate era il berretto bianco floscio, tipico della divisa estiva, ma usato in realtà come forma di distinzione: una legge non scritta, ma da tutti rispettata, voleva che a bordo solo questi potesse portarlo. Di norma, però, il comandante calzava questo copricapo solo alla partenza o al rientro da una missione.  

ALL’ATTACCO DELL’HMS ROYAL OAK. Esattamente alle 00,27 del 14 ottobre l’U-47 entrava nella grande rada di Scapa Flow. Sul giornale di bordo il comandante scrisse in maniera molto concisa: “Siamo dentro Scapa Flow!”. Ora però era necessario dare la caccia alle tanto agognate prede. L’Uboot in un primo momento mantenne una rotta verso sud-est per alcuni chilometri, ma non fu avvistata nessuna unità nemica. In realtà alcune navi da guerra inglesi, tra cui il nuovo incrociatore Belfast, erano a otto chilometri di distanza, ancorate al largo delle isole di Flotta e Hoy, divise una dall’altra per espressa disposizione dell’ammiraglio Forbe onde evitare inutili concentramenti di mezzi in caso di raid nemico. Però non riuscì ad avvistarle, per cui diede ordine di invertire la rotta. Solo a quel punto, navigando in direzione opposta, riuscì a intravedere le sagome di due unità nemiche a circa quattromila metri di distanza verso nord. La prima in linea  d’aria fu correttamente identificata come una nave da battaglia da 33mila tonnellate, classe Revenge, la HMS Pegasus, ricavata dalla vecchia HMS Ark Royal. erano immobili e, data la tarda ora, non si vedevano attività di sorta in coperta. Inoltre non furono identificate unità di pattugliamento in quello specchio di mare: gli inglesi sembravano certi dell’inviolabilità della loro base, pensando che nessun sottomarino nemico sarebbe stato così folle da tentare una simile impresa. Per Prien fu un aiuto insperato. Nonostante la tensione di quei febbrili momenti, il comandate tedesco mostrò una calma glaciale. I suoi uomini erano ai posti di combattimento e aspettavano nervosamente solo il fatidico ordine, che arrivò alle 00,58. Solo tre dei quattro siluri lanciati dai tubi di prua si diressero verso gli obiettivi, il quarto rimase bloccato per un’avaria al meccanismo di lancio. Passarono tre minuti e mezzo, dopodiché fu udita una singola esplosione. Un siluro aveva centrato la prua della Royal Oak, svegliando di soprassalto l’equipaggio. Eppure inizialmente gli inglesi non si resero conto della gravità dell’attacco, sospettando si fosse trattato di un’esplosione accidentale in uno dei magazzini di materiale infiammabile. Non era d’altronde la prima volta che si verificava una cosa simile: già nel 1917 la nave da battaglia HJMS Vanguard, sempre a Scapa Flow, era stata protagonista di qualcosa del genere. Pertanto gli ufficiali diedero ordine di accertarsi che la temperatura di tali locali fosse nella norma e molti marinai, per nulla allarmarti, decisero di tornare nelle brande. L’idea di un attacco nemico era qualcosa da non prendere neppure in considerazione. Questa rilassatezza sarebbe stata pagata cara. Infatti Prien, dopo aver dato ordine di ricaricare i tubi lanciasiluri, decise un secondo passaggio sull’unità nemica. Alle ore 01,23 da una distanza di soli 1500 metri una seconda salva cominciò la sua corsa, dopodiché tre tremende esplosioni investirono in rapida successione la Royal Oak a mezzanave. Sul diario di bordo del battello tedesco, il comandante scrisse: “Dopo tre minuti di tensione si avvertono le detonazioni dalla nave più vicina … Si alzano quindi colonne d’acqua, subito seguite da lingue di fuoco, e schegge volano in aria”.  Nel porto scoppiò l’inferno. Lo scafo fu letteralmente sollevato e dagli squarci il mare incominciò a entrare copioso. In pochi secondi la corazzata si inclinò di 15 gradi a dritta, permettendo all’acqua di infilarsi anche dagli oblò. Pochi minuti dopo lo sbandamento raggiunse i 45 gradi stabilizzandosi per alcuni attimi, dopodiché con incredibile rapidità la corazzata si capovolse portando con sé centinaia di uomini, incluso Henry Blagrove, comandate della Seconda Divisione navi da battaglia.
Mentre si consumava questa tragedia, l’U-47, silenziosamente come era arrivato, e ripercorrendo la stessa rotta dell’andata alla velocità di 10 nodi, nonostante una fortissima corrente contraria, riuscì a ripassare il canale di Kirk senza essere notato e arrivare in mare aperto illeso. Per i superstiti della Royal Oak iniziava una vera odissea, resa ancora peggiore dalle gelide acque di ottobre. Con indosso abbigliamento da notte, molti uomini cercarono di nuotare fino a riva (distante ottocento metri) ma la presenza di combustibile in mare e la rigidità del clima non ebbero pietà. Pochi di loro raggiunsero la terraferma. Per altri la salvezza arrivò da un aiuto insperato: il Daisy 2, comandato da John Gatt della Royal Naval Reserve e ancorato sul lato sinistro della nave da battaglia, una volta liberatosi dalla morsa del relitto che affondava incominciò la provvidenziale opera di recupero dei naufraghi. Grazie a lui furono messi in salvo ben 386  marinai, tra cui il comandante della nave William Benn. Le operazioni si conclusero solo alle 4,00, quando l’U-47 era già lontano dalla base inglese in rotta per Kiel.

La leggenda del B-06.
Nel corso del Secondo conflitto mondiale l’eco dell’impresa dell’U-47 non si esaurì, anzi cominciarono a circolare strane storie, a dire la verità spesso incontrollate, sulle vere o presunte dinamiche che avevano portato al forzamento di Scapa Flow. Secondo una delle più dure a morire il comandante Prien fu guidato all’interno della base da un fantomatico Alfred Wehring, agente segreto nazista che viveva nelle isole Orcadi sotto mentite spoglie, spacciandosi per un orologio elvetico di nome Albert Oertel. Ad attacco concluso, compiuto il suo dovere, si sarebbe dileguato fuggendo a bordo di un sottomarino, che i testimoni non avevano dubbi fosse denominato B-06, per tornare in patria. Questa suggestiva interpretazione dei fatti fu svelata dal Saturday Evening Post nel maggio del 1942 per poi essere battuta da tutte le altre testate britanniche. Eppure, nonostante il grande clamore suscita, nulla di quanto raccontato ha il minimo fondamento di verità. Una serie di ricerche effettuate nel dopoguerra negli archivi tedeschi e nelle Orcadi ha infatti dimostrato che i nomi dei due protagonisti non sono mai citati in alcun documento ufficiale allo stesso tempo un sottomarino con quella sigla non è mai esistito. Pertanto si tratterebbe di una leggenda metropolitana.

IL NOTIZIARIO DELLA BBC. Per l’Alto Comando inglese la tragedia fu un fulmine a ciel sereno. Era impossibile pensare che la base navale più munita dell’impero fosse stata colpita al cuore da un attacco nemico. Cominciò pertanto a materializzarsi una ridda di ipotesi: possibile esplosione a bordo, attacco dal cielo e tante altre incredibili e fantasiose versioni, ma non che potesse essere stato un sottomarino. E per ironia della sorte l’equipaggio dellìU-47 fu informato dell’incredibile successo proprio dalle trasmissioni della BBC: il notiziario diede infatti notizia della sorte della Royal Oak quando l’U-Boot era ancora in navigazione e il messaggio fu captato dalla radio bordo. Bene presto anche tutte le stazioni tedesche ne vennero informate con dovizia di particolari. Il 17 ottobre un affranto Winston Churchill, di fronte alla Camera dei Comuni, svelò i retroscena dell’attacco. Riferendosi alle capacità messe in luce dall’avversario, si espresse in questi termini: “un rimarchevole successo di capacità professionali e audacia”. Alcuni palombari immersisi sul relitto nei giorni successivi all’affondamento avevano infatti trovato i resti di un siluro tedesco: non c’erano più dubbi pertanto sulle modalità di attacco. Una commissione d’inchiesta cercò di fare luce sulla dinamica in una base che era considerata inviolabile. Dal rapporto segreto, reso pubblico trent’anni dopo, le conclusioni degli esperti non lasciano dubbi:”I dati disponibili dimostrano come l’attacco sia stato portato da un sottomarino e non ci sono altri elementi che possano suggerire che possa essere stato realizzato in altro modo. Siamo quindi dell’opinione che la HMS Royal Oak fu affondata da siluri lanciati da un sottomarino”. Come poi il battello nemico si fosse infiltrato era una cosa ancora da appurare. Le conseguenze che ne seguirono furono drastiche. La flotta inglese fu trasferita in altri porti in attesa che a Scapa Flow si operassero tutti i miglioramenti necessari: potenziamento delle difese, sbarramento dei canali e aumento delle reti di protezione. Furono poi rafforzati i pattugliamenti agli ingressi a est e vennero chiusi con dighe artificiali per creare una barriera impenetrabile, per la cui realizzazione vennero impiegati molti prigionieri di guerra italiani. In Germania invece l’arrivo del U-47, alle 11,44 del 17 ottobre, fu festeggiato come un successo senza precedenti. La propaganda nazista si scatenò e i membri dell’equipaggio furono salutati come eroi. Per Prien sarebbe arrivata l’ambita Croce di Ferro di prima classe, per il suo equipaggio invece la Croce di Ferro di seconda. Ma fu proprio un raggiante Hitler a voler consacrare il successo nel modo più degno possibile: l’intero equipaggio, trasporta con il suo aereo personale, fu da lui ricevuto a Berlino con tutti gli onori, un privilegio riservato a pochi. L’impresa di Scapa Flow fu senza dubbio uno dei più incredibili esempi di audacia dell’intero Secondo conflitto mondiale, in un momento iniziale in cui la guerra non sembrava ancora avere preso quella folle piega che avrebbe messo in ginocchio il Vecchio Continente e il resto del mondo. Una fase, se vogliamo, ancora legata a una visione romantica, in cui audacia, determinazione e lealtà apparivano valori imprescindibili. È proprio in quest’ottica che il coraggio dell’equipaggio dell’U-47 provocò un profondo rispetto anche nel primo ministro Winston Churchill.

Articolo in gran parte di Antonio Ratti storie di Guerre e guerrieri antologia extra n. 1 altri testi e articoli da Wikipedia.

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