sabato 16 marzo 2019

La battaglia di Agincourt


La battaglia di Agincourt.
Quando si decise il destino della Francia.
In una delle battaglie più memorabili del Medioevo, nulla andò come previsto, e l’armata più forte venne decimata dalla fazione più stanca, esigua e disperata. Non si trattò di un colpo di fortuna, ma del risultato di molti fattori decisivi, che avrebbero cambiato per sempre l’arte della guerra.



La battaglia di Azincourt (o di Agincourt per gli inglesi[2]) si svolse presso Azincourt, località nel dipartimento del Passo di Calais nella regione del Nord-Passo di Calais il 25 ottobre 1415nell'ambito della Guerra dei cent'anni, e vide scontrarsi le forze del Regno di Francia di Carlo VI contro quelle del Regno d'Inghilterra di Enrico V.

In virtù della decisiva vittoria riportata dagli inglesi è considerata uno dei momenti più cupi della storia della Francia[3] e al contrario uno dei più fulgidi della storia dell'Inghilterra.

Battle of Agincourt, St. Alban's Chronicle by Thomas Walsingham.jpg
Miniatura della battaglia di Azincourt (XV secolo).Data25 ottobre 1415LuogoAzincourt, Pas-de-Calais, FranciaEsitoVittoria decisiva ingleseSchieramenti Comandanti Effettivi
A):
  • 6.000 uomini:
    * 5.000 arcieri
    * ca. 1.000 uomini d'arme e cavalieri appiedati
B):
  • Secondo il A. Coville: 13.000 uomini
A):
  • ca. 36.000 uomini:
    * 20.000 fanti
    * 12.000 cavalieri
    * 4.000 arcieri e balestrieri Genovesi
  • B):
    • Secondo il A. Coville: 50.000 uomini
    Perdite
    150 - 500 morti7.000 - 10.000 morti
    1.500 - 3.000 prigionieri[1]
    Voci di battaglie presenti su Wikipedia


    Quella mattina del 25 ottobre 1415, il ventottenne Enrico V d’Inghilterra sapeva che si sarebbe decisa la sua sorte. Tre settimane prima, la conquista di Harfleur, strappata ai francesi, aveva segnato un punto a suo favore in quella che i posteri avrebbero ricordato come la Guerra dei Cent’Anni. Ora, però, la situazione si era decisamente rovesciata. L’armata inglese sul continente era decimata, stanca e afflitta dalla dissenteria, mentre la forza francese che aveva di fronte era cinque o sei volte superiore. Schierata in un campo appena arato presso la città di Agincourt, in una zona della Lorena proprio sotto il Lussemburgo, i francesi sbarravano alle truppe nemiche l’unica strada verso la salvezza: quella che conduceva al porto normanno di Calais, saldamente in mano agli inglesi. La certezza di vincere era assoluta e indiscutibile. Il consiglio di guerra che sovrintendeva all’armata francese in assenza del re Carlo VI (incapace di esercitare il comando a causa della sua instabilità mentale) aveva un’unica seria preoccupazione: i magistrali arcieri inglesi. Le loro frecce ù, in passato, avevano sconfitto più volte i cavalieri francesi, nonostante la protezione offerta dalle solide armature. I generali di Carlo VI elaborarono così un complesso piano di battaglia, il cui scopo principale era proprio quello di contenere il pericolo rappresentato dagli arcieri inglesi. L’armata di Francia, tuttavia, era troppo indisciplinata e legata alle logiche feudali per rispettare ordini così articolati. Inoltre, il dispositivo tattico appariva timido, e questo irritò molti cavalieri.
    Così il piano originario fu stravolto e lo schieramento francese sul campo si presentò molto diverso dal previsto. Benché l’attacco principale fosse sempre affidato ai fanti (circa 8000 uomini), in loro supporto non vi erano i contingenti previsti di tiratori, ma le più tradizionali ali di cavalleria. Gli oltre 5000 arcieri e balestrieri, il cui compito avrebbe dovuto essere quello di fronteggiare i tiratori inglesi, furono invece tenuti indietro. Talmente in fondo che, come un cronista avrebbe riferito in seguito, non avrebbero potuto effettuare nemmeno un tiro in tutto lo scontro.
    Una seconda linea fu composta da altri 5000 uomini d’armi appiedati, e una terza da 10mila cavalieri. In tutto, gli oltre 30mila francesi si accalcarono su un fronte di 700 metri o poco più, spesso scegliendo di schierarsi in una linea o nell’altra solo in base a quel che ritenevano più onorevole per il proprio nome.
    Ben diversa la situazione nel campo inglese: dove Enrico V si dimostrò un leader attento e capace di trasferire ai propri uomini fiducia in se stessi di cui avevano assoluto bisogno. Il re avrebbe combattuto assieme ai 1000 uomini d’arme che gli erano rimasti, occupando il centro dello schieramento, mentre, equamente divisi sui fianchi, 5000 arcieri avrebbero fornito il loro micidiale supporto di tiro. Di fronte ai suoi uomini schierati, Enrico V pronunciò un’esortazione non meno efficace di quella che gli attribuì William Shakespeare nel dramma storico a lui dedicato: “Di questi noi felicemente pochi, di questa nostra banda di fratelli”. Nel suo discorso, il sovrano non mancò di ricordare che il re di Francia aveva promesso di mozzare anulare, indice e medio della mano destra a tutti gli arcieri inglesi catturati, condannandoli così alla disoccupazione. Venne quindi ordinato ai tiratori di piantare per terra pali appuntiti inclinati verso il nemico, per erigere una protezione improvvisata contro gli assalti della cavalleria.


     Rappresentazione schematica della battaglia. Le forze inglesi sono indicate in rosso, quelle francesi in blu
    Enrico V, un ottimo tattico.

    Enrico V d'Inghilterra


    Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
    Jump to navigationJump to search
    Enrico V
    King Henry V from NPG.jpg
    Ritratto di Enrico V
    Re d'Inghilterra e signore d'Irlanda
    Stemma
    In carica21 marzo 1413 -
    31 agosto 1422
    PredecessoreEnrico IV
    SuccessoreEnrico VI
    Nome completoHenry of Monmouth
    Altri titoliprincipe del Galles
    duca di Lancaster
    duca di Cornovaglia
    NascitaMonmouth, 16 settembre 1387
    MorteCastello di Vincennes(Francia), 31 agosto 1422
    Casa realeLancaster
    PadreEnrico IV
    MadreMaria di Bohun
    ConsorteCaterina di Valois
    FigliEnrico VI
    Enrico di Monmouth (in inglese Henry (of) MonmouthMonmouth, 9 agosto o 16 settembre 1387[1][2][3] – Vincennes31 agosto 1422[1]) fu re d'Inghilterra dal 1413 alla sua morte. Benché regnante soltanto nove anni, l'azione politico-militare esercitata da Enrico V fu assai notevole sullo scacchiere europeo, tanto da renderlo uno dei più popolari sovrani del Medioevo[4]. Enrico, infatti, fu capace di portare nuovamente il regno d'Inghilterra tra le prime potenze europee grazie alla brillante vittoria conseguita ad Azincourt sui francesi, in seguito alla quale riuscì a farsi nominare erede del trono di Francia.
    Abile politico ed esperto amministratore, Enrico ebbe anche il merito di ricomporre, attraverso lo zio Enrico Beaufort, lo Scisma d'Occidente, stipulando con l'imperatore Sigismondo il Trattato di Canterbury[5]. La figura del sovrano, comunque, fu eternata da William Shakespeare nel dramma omonimo, in cui viene rimarcato lo spirito affabile, nobile e profondamente religioso.

    La tattica degli inglesi, adottata fin dai tempi di re Edoardo III (1312-1377), combinava la potenza di tiro degli arcieri dotati di arco lungo alla solidità degli uomini d’arme. Questa tecnica difensiva aveva permesso ai piccoli eserciti inglesi di sconfiggere forze molto superiori di numero, ma per sviluppare tutta la sua efficacia dovevano presentarsi alcune condizioni particolari.
    Un esercito tanto statico, infatti, era vulnerabile se preso sui fianchi o addirittura aggirato, come pure se si riusciva a contrastarne i temibili arcieri con attacchi corpo a corpo, contro i quali erano praticamente indifesi, privi com’erano di armature e protetti solo da una precaria fila di pali appuntiti. La scelta del terreno diventava quindi di vitale importanza, come pure la circostanza che il nemico fosse in qualche modo costretta ad attaccare alle condizioni più favorevoli per gli inglesi.
    Ad Agincourt, per buona parte della mattinata i francesi rimasero sulla difensiva a circa 800 metri dalla linea avversaria. Fu Enrico V, con un colpo di genio, a prendere l’iniziativa, avanzando a sorpresa fino a schierare nuovamente i suoi uomini a portata di tiro. Bersagliati da migliaia di dardi, i francesi si trovarono nella condizione di dover attaccare frontalmente, perché i boschi proteggevano i fianchi della linea inglese. Il terreno morbido e bagnato, che li faceva sprofondare, rese la loro avanzata sotto la pioggia di frecce nemiche un lunghissimo calvario. La confusione che ne seguì fece il resto e gli uomini d’arme francesi che arrivarono a contatto con gli inglesi ormani non erano nient’altro che vittime destinate al massacro.  


    UN ATTACCO DISSENNATO. Tutto era pronto per lo scontro, ma i francesi non si mossero. Le ore del mattino scorrevano e la situazione suggeriva loro che, prima o poi, gli inglesi si sarebbero dovuti arrendere per pura consunzione, dovuta alla dissenteria e alla situazione militare disperata. Perfettamente consapevole di questa eventualità, alle 11 del mattino, dopo un rapido consiglio di guerra, Enrico decise che non aveva nulla da guadagnare a rimanere inerte, e prese l’iniziativa. Gli arcieri divelsero i pali che li proteggevano e, lentamente e ordinatamente, l’intera formazione iniziò ad avanzare attraverso i campi arati. L’armatura appesantiva gli uomini d’arme e la terra dissodata inghiottiva i piedi, rendendo faticoso ogni passo, ma procedendo senza affanni e con opportune pause, gli inglesi riuscirono a economizzare le poche energie residue. Giunti a circa 200 metri dalla linea francese, si fermarono.
    Era la distanza massima alla quale gli archi lunghi risultassero efficaci: gli arcieri conficcarono nuovamente i pali nel terreno morbido e attesero l’ordine per cominciare il tiro. I francesi avevano assistito all’avanzata nemica senza reagire, ma a breve sarebbero stati costretti a farlo. A un segnale convenuto, infatti, gli arcieri inglesi iniziarono un fitto lancio di frecce. Ne avevano in abbondanza, ma probabilmente i primi tiri non furono effettuati alla velocità massima di dieci frecce al minuto: tendere l’arco lungo era faticoso e le energie andavano risparmiate. Quei tiri furono comunque sufficienti a obbligare la cavalleria francese a reagire con una carica. Le ore di attesa avevano provocato l’allontanamento della maggior parte dei cavalieri e i pochi rimasti risposero alla provocazione con lo scarso impeto consentito dal terreno molle, sopra il quale i pesanti palafreni non riuscivano a galoppare.

    PIOGGIA MORTALE. Le frecce, compiendo una parabola, colpivano i cavalieri dall’alto senza arrecare danni particolari agli uomini ma ferendo e innervosendo i cavalli, che erano meno protetti. Verificata l’inutilità dell’attacco, i cavalieri francesi presero la via del ritorno, inseguiti dalla frecce inglesi, che continuavano a tormentare uomini e animali, trasformando la ritirata in una rotta dagli effetti disastrosi. Gli uomini d’arme della prima linea francese, infatti, erano già partiti all’attacco e, affondati nel fango, vennero travolti dalla loro stessa cavalleria. Per cercare di sottrarsi al pericolo, si schiacciarono verso il centro della formazione propagando il caso. Era l’inizio della fine. Le frecce inglesi, provenendo dai due lati, accentuarono la spinta disordinata degli armigeri nemici, che dai fianchi convergeva verso il centro della formazione francese, sconvolgendone l’assetto. In quelle condizioni, le truppe di Carlo VI divennero un ammasso confuso di uomini storditi, stanchi, immersi nel fango fino al ginocchio e con la testa bassa per evitare la pioggia di dardi. Mano a mano che la distanza si riduceva, aumentava la letalità del tiro nemico: se da lontano i dardi ferivano solo penetrando un punto scoperto dell’armatura, a breve distanza potevano addirittura perforarla (esistevano frecce speciali per il tiro ravvicinato). Così. Accalcati l’uno sull’altro, procedendo alla cieca e trascinati dalla massa, i francesi, spesso feriti, giunsero a contatto con gli inglesi senza riuscire a esercitare la pressione che il loro numero avrebbe dovuto garantire. Il combattimento fu comunque molto cruento e gli uomini di Enrico V dovettero dare prova di grande fermezza e solidità.

    Due sovrani molto diversi.
    Charles VI de France - Dialogues de Pierre Salmon - Bib de Genève MsFr165f4.jpg
    Carlo VI di Francia
    La leadership energica e ispirata di Enrico V d’Inghilterra ebbe un ruolo decisivo nelle sito della battaglia di Agincourt. Assistito da un gruppo di leali collaboratori, il re guidò lo scontro dalla prima linea, con l’esempio del proprio coraggio. Se nel campo inglese si incarnava il principio militare dell’unità di comando, in quello francese regnava invece l’anarchia. Re Carlo VI era psicologicamente labile e non avrebbe mai potuto guidare il suo esercito, affidato a un comitato composto da nobili e militari di professione, tra cui il maresciallo de Boucicault e il connestabile d’Abret. Questi ultimi tentarono di suggerire una condotta prudente ma non furono ascoltati.   
      
    RINFORZI DISASTROSI. Alla fine, anche gli arcieri inglesi abbandonano le proprie posizioni, sui fianchi, e si gettarono nel vivo dell’azione con le poche armi a disposizione (a volte solo il martello con il quale avevano conficcato il palo di protezione): grazie alla loro mobilità, fecero strage degli esausti uomini d’arme nemici.
    Re Enrico partecipò coraggiosamente alla mischia, rischiando la vita e salvandosi solo grazie al pesante elmo da torneo che indossava al posto di quello da battaglia. il sopraggiungere della seconda linea francese, in soccorso della prima, non migliorò l’andamento della battaglia, per loro, semmai lo peggiorò. Creò, infatti, una nuova, insostenibile pressione sulla prima linea francese, i cui uomini, non riuscendo più nemmeno a indietreggiare, incominciarono ad arrendersi in massa. Chi poteva fuggiva con le poche forze che gli rimanevano, seguendo le orme della maggior parte dei cavalieri della terza linea che, dopo aver assistito impotenti al massacro dei loro commilitoni, se n’erano già andati, lasciando gli inglesi padroni del campo. In mezz’ora Carlo VI non aveva perso solo una battaglia, ma il fior fiore della classe dirigente e dei suoi sostenitori, che lo lasciarono solo e incapace di organizzare una reazione. L’esito inequivocabile della battaglia aveva, nella mentalità medievale, la forza di un pronunciamento divino. Enrico V seppe approfittarne, dando inizio a un lungo periodo di superiorità inglese nella Guerra dei Cent’Anni. I frutti della vittoria maturarono nel tempo. Accolto in patria come un eroe, Enrico rinsaldò la legittimità dei Lancaster in Inghilterra, mentre i sovrani europei cominciarono a prendere sul serio le sue pretese sul suolo francese. In Francia, la guerra civile tra la fazione armagnacca, che ad Agincourt aveva pagato il tributo di sangue più alto, e quella borgognona, rimasta sostanzialmente neutrale, si riaccese, volgendo a favore della seconda. Il caso che ne scaturì diede a Enrico il tempo per prepararsi a nuove ostilità. Solo la morte riuscì a fermarlo, due anni più tardi: ora l’attenzione si sarebbe spostata dai sovrani ambiziosi a un’umile pastorella: Giovanna d’Arco.

    arco lungo laminato.

    La strage del disonore.
    Poco dopo mezzogiorno la battaglia di Agincourt era virtualmente finita, ma nessuno dei contendenti se n’era ancora reso conto. Mentre nelle retrovia inglesi si stavano radunando migliaia di prigionieri francesi, per i quali si poteva chiedere un oneroso riscatto, giunsero allarmate notizie di due nuovi attacchi: uno alle spalle, contro l’accampamento inglese, e un rinnovato assalto frontale di cavalleria.
    Minacciato da due lati e preoccupato che i prigionieri potessero raccogliere le armi che avevano abbandonato, Enrico V prese una decisione destinata a gettare il disonore su di lui e sulla sua stessa vittoria: ordinò che tutti i nemici catturati venissero sommariamente trucidati. Nessun uomo d’arme volle eseguire l’ordine del sovrano, assassinando a sangue freddo dei propri pari, e l’ingrato compito fu affidato a duecento arcieri. Una volta che le minacce di attacco si rivelarono infondate, le esecuzioni furono prontamente interrotte: rimanevano in vita circa 1500 prigionieri, ma la maggior parte dei francesi catturati era già stata massacrata, spesso con i martelli che gli arcieri utilizzavano per piantare le loro palizzate di riparo.
      
    Articolo in gran parte di Nicola Zotto esperto di arte militare pubblicato Medioevo misterioso extra n. 7 – altri testi e immagini da Wikipedia.

    Nessun commento:

    Posta un commento

    I vichinghi, gli eroi delle sagre.

      I   vichinghi gli eroi delle saghe. I popoli nordici vantano un tripudio di saghe che narrano le avventure di eroi reali o di fantasia. ...