La battaglia di
Agincourt.
Quando si decise il
destino della Francia.
In una delle battaglie
più memorabili del Medioevo, nulla andò come previsto, e l’armata più forte
venne decimata dalla fazione più stanca, esigua e disperata. Non si trattò di
un colpo di fortuna, ma del risultato di molti fattori decisivi, che avrebbero cambiato
per sempre l’arte della guerra.
La battaglia di Azincourt (o di Agincourt per gli inglesi[2]) si svolse presso Azincourt, località nel dipartimento del Passo di Calais nella regione del Nord-Passo di Calais il 25 ottobre 1415nell'ambito della Guerra dei cent'anni, e vide scontrarsi le forze del Regno di Francia di Carlo VI contro quelle del Regno d'Inghilterra di Enrico V.
In virtù della decisiva vittoria riportata dagli inglesi è considerata uno dei momenti più cupi della storia della Francia[3] e al contrario uno dei più fulgidi della storia dell'Inghilterra.
Miniatura della battaglia di Azincourt (XV secolo).Data25 ottobre 1415LuogoAzincourt, Pas-de-Calais, FranciaEsitoVittoria decisiva ingleseSchieramenti Comandanti Effettivi
A):
B):
| A):
* 20.000 fanti * 12.000 cavalieri * 4.000 arcieri e balestrieri Genovesi
B):
|
150 - 500 morti | 7.000 - 10.000 morti 1.500 - 3.000 prigionieri[1] |
Quella
mattina del 25 ottobre 1415, il ventottenne Enrico V d’Inghilterra sapeva che
si sarebbe decisa la sua sorte. Tre settimane prima, la conquista di Harfleur,
strappata ai francesi, aveva segnato un punto a suo favore in quella che i
posteri avrebbero ricordato come la Guerra dei Cent’Anni. Ora, però, la
situazione si era decisamente rovesciata. L’armata inglese sul continente era
decimata, stanca e afflitta dalla dissenteria, mentre la forza francese che aveva
di fronte era cinque o sei volte superiore. Schierata in un campo appena arato
presso la città di Agincourt, in una zona della Lorena proprio sotto il
Lussemburgo, i francesi sbarravano alle truppe nemiche l’unica strada verso la
salvezza: quella che conduceva al porto normanno di Calais, saldamente in mano
agli inglesi. La certezza di vincere era assoluta e indiscutibile. Il consiglio
di guerra che sovrintendeva all’armata francese in assenza del re Carlo VI
(incapace di esercitare il comando a causa della sua instabilità mentale) aveva
un’unica seria preoccupazione: i magistrali arcieri inglesi. Le loro frecce ù,
in passato, avevano sconfitto più volte i cavalieri francesi, nonostante la
protezione offerta dalle solide armature. I generali di Carlo VI elaborarono
così un complesso piano di battaglia, il cui scopo principale era proprio
quello di contenere il pericolo rappresentato dagli arcieri inglesi. L’armata
di Francia, tuttavia, era troppo indisciplinata e legata alle logiche feudali
per rispettare ordini così articolati. Inoltre, il dispositivo tattico appariva
timido, e questo irritò molti cavalieri.
Così il piano
originario fu stravolto e lo schieramento francese sul campo si presentò molto
diverso dal previsto. Benché l’attacco principale fosse sempre affidato ai
fanti (circa 8000 uomini), in loro supporto non vi erano i contingenti previsti
di tiratori, ma le più tradizionali ali di cavalleria. Gli oltre 5000 arcieri e
balestrieri, il cui compito avrebbe dovuto essere quello di fronteggiare i tiratori
inglesi, furono invece tenuti indietro. Talmente in fondo che, come un cronista
avrebbe riferito in seguito, non avrebbero potuto effettuare nemmeno un tiro in
tutto lo scontro.
Una seconda linea fu
composta da altri 5000 uomini d’armi appiedati, e una terza da 10mila
cavalieri. In tutto, gli oltre 30mila francesi si accalcarono su un fronte di
700 metri o poco più, spesso scegliendo di schierarsi in una linea o nell’altra
solo in base a quel che ritenevano più onorevole per il proprio nome.
Ben diversa la
situazione nel campo inglese: dove Enrico V si dimostrò un leader attento e
capace di trasferire ai propri uomini fiducia in se stessi
di cui avevano assoluto bisogno. Il re avrebbe combattuto assieme ai 1000
uomini d’arme che gli erano rimasti, occupando il centro dello schieramento,
mentre, equamente divisi sui fianchi, 5000 arcieri avrebbero fornito il loro
micidiale supporto di tiro. Di fronte ai suoi uomini schierati, Enrico V
pronunciò un’esortazione non meno efficace di quella che gli attribuì William
Shakespeare nel dramma storico a lui dedicato: “Di questi noi felicemente
pochi, di questa nostra banda di fratelli”. Nel suo discorso, il sovrano non
mancò di ricordare che il re di Francia aveva promesso di mozzare anulare,
indice e medio della mano destra a tutti gli arcieri inglesi catturati,
condannandoli così alla disoccupazione. Venne quindi ordinato ai tiratori di piantare
per terra pali appuntiti inclinati verso il nemico, per erigere una protezione improvvisata
contro gli assalti della cavalleria.
Enrico V, un ottimo tattico.
Enrico V d'Inghilterra |
Enrico V | |
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Ritratto di Enrico V | |
Re d'Inghilterra e signore d'Irlanda | |
In carica | 21 marzo 1413 - 31 agosto 1422 |
Predecessore | Enrico IV |
Successore | Enrico VI |
Nome completo | Henry of Monmouth |
Altri titoli | principe del Galles duca di Lancaster duca di Cornovaglia |
Nascita | Monmouth, 16 settembre 1387 |
Morte | Castello di Vincennes(Francia), 31 agosto 1422 |
Casa reale | Lancaster |
Padre | Enrico IV |
Madre | Maria di Bohun |
Consorte | Caterina di Valois |
Figli | Enrico VI |
Enrico di Monmouth (in inglese Henry (of) Monmouth; Monmouth, 9 agosto o 16 settembre 1387[1][2][3] – Vincennes, 31 agosto 1422[1]) fu re d'Inghilterra dal 1413 alla sua morte. Benché regnante soltanto nove anni, l'azione politico-militare esercitata da Enrico V fu assai notevole sullo scacchiere europeo, tanto da renderlo uno dei più popolari sovrani del Medioevo[4]. Enrico, infatti, fu capace di portare nuovamente il regno d'Inghilterra tra le prime potenze europee grazie alla brillante vittoria conseguita ad Azincourt sui francesi, in seguito alla quale riuscì a farsi nominare erede del trono di Francia.
Abile politico ed esperto amministratore, Enrico ebbe anche il merito di ricomporre, attraverso lo zio Enrico Beaufort, lo Scisma d'Occidente, stipulando con l'imperatore Sigismondo il Trattato di Canterbury[5]. La figura del sovrano, comunque, fu eternata da William Shakespeare nel dramma omonimo, in cui viene rimarcato lo spirito affabile, nobile e profondamente religioso.
La tattica degli inglesi, adottata
fin dai tempi di re Edoardo III (1312-1377), combinava la potenza di tiro
degli arcieri dotati di arco lungo alla solidità degli uomini d’arme. Questa tecnica
difensiva aveva permesso ai piccoli eserciti inglesi di sconfiggere forze
molto superiori di numero, ma per sviluppare tutta la sua efficacia dovevano
presentarsi alcune condizioni particolari.
Un esercito tanto statico, infatti,
era vulnerabile se preso sui fianchi o addirittura aggirato, come pure se si
riusciva a contrastarne i temibili arcieri con attacchi corpo a corpo, contro
i quali erano praticamente indifesi, privi com’erano di armature e protetti
solo da una precaria fila di pali appuntiti. La scelta del terreno diventava
quindi di vitale importanza, come pure la circostanza che il nemico fosse in
qualche modo costretta ad attaccare alle condizioni più favorevoli per gli
inglesi.
Ad Agincourt, per buona parte della
mattinata i francesi rimasero sulla difensiva a circa 800 metri dalla linea
avversaria. Fu Enrico V, con un colpo di genio, a prendere l’iniziativa,
avanzando a sorpresa fino a schierare nuovamente i suoi uomini a portata di
tiro. Bersagliati da migliaia di dardi, i francesi si trovarono nella
condizione di dover attaccare frontalmente, perché i boschi proteggevano i fianchi
della linea inglese. Il terreno morbido e bagnato, che li faceva sprofondare,
rese la loro avanzata sotto la pioggia di frecce nemiche un lunghissimo
calvario. La confusione che ne seguì fece il resto e gli uomini d’arme
francesi che arrivarono a contatto con gli inglesi ormani non erano nient’altro
che vittime destinate al massacro.
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UN ATTACCO DISSENNATO. Tutto
era pronto per lo scontro, ma i francesi non si mossero. Le ore del mattino
scorrevano e la situazione suggeriva loro che, prima o poi, gli inglesi si
sarebbero dovuti arrendere per pura consunzione, dovuta alla dissenteria e alla
situazione militare disperata. Perfettamente consapevole di questa eventualità,
alle 11 del mattino, dopo un rapido consiglio di guerra, Enrico decise che non
aveva nulla da guadagnare a rimanere inerte, e prese l’iniziativa. Gli arcieri
divelsero i pali che li proteggevano e, lentamente e ordinatamente, l’intera
formazione iniziò ad avanzare attraverso i campi arati. L’armatura appesantiva gli
uomini d’arme e la terra dissodata inghiottiva i piedi, rendendo faticoso ogni
passo, ma procedendo senza affanni e con opportune pause, gli inglesi
riuscirono a economizzare le poche energie residue. Giunti a circa 200 metri
dalla linea francese, si fermarono.
Era la distanza massima
alla quale gli archi lunghi risultassero efficaci: gli arcieri conficcarono
nuovamente i pali nel terreno morbido e attesero l’ordine per cominciare il
tiro. I francesi avevano assistito all’avanzata nemica senza reagire, ma a breve
sarebbero stati costretti a farlo. A un segnale convenuto, infatti, gli arcieri
inglesi iniziarono un fitto lancio di frecce. Ne avevano in abbondanza, ma
probabilmente i primi tiri non furono effettuati alla velocità massima di dieci
frecce al minuto: tendere l’arco lungo era faticoso e le energie andavano
risparmiate. Quei tiri furono comunque sufficienti a obbligare la cavalleria
francese a reagire con una carica. Le ore di attesa avevano provocato l’allontanamento
della maggior parte dei cavalieri e i pochi rimasti risposero alla provocazione
con lo scarso impeto consentito dal terreno molle, sopra il quale i pesanti
palafreni non riuscivano a galoppare.
PIOGGIA MORTALE. Le frecce, compiendo
una parabola, colpivano i cavalieri dall’alto senza arrecare danni particolari
agli uomini ma ferendo e innervosendo i cavalli, che erano meno protetti. Verificata
l’inutilità dell’attacco, i cavalieri francesi presero la via del ritorno,
inseguiti dalla frecce inglesi, che continuavano a tormentare uomini e animali,
trasformando la ritirata in una rotta dagli effetti disastrosi. Gli uomini d’arme
della prima linea francese, infatti, erano già partiti all’attacco e, affondati
nel fango, vennero travolti dalla loro stessa cavalleria. Per cercare di
sottrarsi al pericolo, si schiacciarono verso il centro della formazione
propagando il caso. Era l’inizio della fine. Le frecce inglesi, provenendo dai
due lati, accentuarono la spinta disordinata degli armigeri nemici, che dai
fianchi convergeva verso il centro della formazione francese, sconvolgendone l’assetto.
In quelle condizioni, le truppe di Carlo VI divennero un ammasso confuso di
uomini storditi, stanchi, immersi nel fango fino al ginocchio e con la testa
bassa per evitare la pioggia di dardi. Mano a mano che la distanza si riduceva,
aumentava la letalità del tiro nemico: se da lontano i dardi ferivano solo
penetrando un punto scoperto dell’armatura, a breve distanza potevano addirittura
perforarla (esistevano frecce speciali per il tiro ravvicinato). Così. Accalcati
l’uno sull’altro, procedendo alla cieca e trascinati dalla massa, i francesi,
spesso feriti, giunsero a contatto con gli inglesi senza riuscire a esercitare
la pressione che il loro numero avrebbe dovuto garantire. Il combattimento fu
comunque molto cruento e gli uomini di Enrico V dovettero dare prova di grande
fermezza e solidità.
Due sovrani molto diversi.
Carlo VI di Francia
La leadership energica e ispirata
di Enrico V d’Inghilterra ebbe un ruolo decisivo nelle sito della battaglia
di Agincourt. Assistito da un gruppo di leali collaboratori, il re guidò lo
scontro dalla prima linea, con l’esempio del proprio coraggio. Se nel campo
inglese si incarnava il principio militare dell’unità di comando, in quello francese
regnava invece l’anarchia. Re Carlo VI era psicologicamente labile e non
avrebbe mai potuto guidare il suo esercito, affidato a un comitato composto
da nobili e militari di professione, tra cui il maresciallo de Boucicault e
il connestabile d’Abret. Questi ultimi tentarono di suggerire una condotta
prudente ma non furono ascoltati.
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RINFORZI DISASTROSI. Alla fine, anche gli
arcieri inglesi abbandonano le proprie posizioni, sui fianchi, e si gettarono
nel vivo dell’azione con le poche armi a disposizione (a volte solo il martello
con il quale avevano conficcato il palo di protezione): grazie alla loro mobilità,
fecero strage degli esausti uomini d’arme nemici.
Re Enrico partecipò coraggiosamente
alla mischia, rischiando la vita e salvandosi solo grazie al pesante elmo da torneo
che indossava al posto di quello da battaglia. il sopraggiungere della seconda
linea francese, in soccorso della prima, non migliorò l’andamento della
battaglia, per loro, semmai lo peggiorò. Creò, infatti, una nuova, insostenibile
pressione sulla prima linea francese, i cui uomini, non riuscendo più nemmeno a
indietreggiare, incominciarono ad arrendersi in massa. Chi poteva fuggiva con
le poche forze che gli rimanevano, seguendo le orme della maggior parte dei
cavalieri della terza linea che, dopo aver assistito impotenti al massacro dei
loro commilitoni, se n’erano già andati, lasciando gli inglesi padroni del
campo. In mezz’ora Carlo VI non aveva perso solo una battaglia, ma il fior
fiore della classe dirigente e dei suoi sostenitori, che lo lasciarono solo e
incapace di organizzare una reazione. L’esito inequivocabile della battaglia
aveva, nella mentalità medievale, la forza di un pronunciamento divino. Enrico V
seppe approfittarne, dando inizio a un lungo periodo di superiorità inglese
nella Guerra dei Cent’Anni. I frutti della vittoria maturarono nel tempo. Accolto
in patria come un eroe, Enrico rinsaldò la legittimità dei Lancaster in
Inghilterra, mentre i sovrani europei cominciarono a prendere sul serio le sue
pretese sul suolo francese. In Francia, la guerra civile tra la fazione
armagnacca, che ad Agincourt aveva pagato il tributo di sangue più alto, e
quella borgognona, rimasta sostanzialmente neutrale, si riaccese, volgendo a
favore della seconda. Il caso che ne scaturì diede a Enrico il tempo per
prepararsi a nuove ostilità. Solo la morte riuscì a fermarlo, due anni più
tardi: ora l’attenzione si sarebbe spostata dai sovrani ambiziosi a un’umile
pastorella: Giovanna d’Arco.
arco lungo laminato.
La strage del disonore.
Poco dopo mezzogiorno la battaglia
di Agincourt era virtualmente finita, ma nessuno dei contendenti se n’era
ancora reso conto. Mentre nelle retrovia inglesi si stavano radunando
migliaia di prigionieri francesi, per i quali si poteva chiedere un oneroso
riscatto, giunsero allarmate notizie di due nuovi attacchi: uno alle spalle,
contro l’accampamento inglese, e un rinnovato assalto frontale di cavalleria.
Minacciato da due lati e
preoccupato che i prigionieri potessero raccogliere le armi che avevano abbandonato,
Enrico V prese una decisione destinata a gettare il disonore su di lui e
sulla sua stessa vittoria: ordinò che tutti i nemici catturati venissero
sommariamente trucidati. Nessun uomo d’arme volle eseguire l’ordine del
sovrano, assassinando a sangue freddo dei propri pari, e l’ingrato compito fu
affidato a duecento arcieri. Una volta che le minacce di attacco si
rivelarono infondate, le esecuzioni furono prontamente interrotte: rimanevano
in vita circa 1500 prigionieri, ma la maggior parte dei francesi catturati
era già stata massacrata, spesso con i martelli che gli arcieri utilizzavano
per piantare le loro palizzate di riparo.
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Articolo in gran parte
di Nicola Zotto esperto di arte militare pubblicato Medioevo misterioso extra
n. 7 – altri testi e immagini da Wikipedia.
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