L’assedio di Vienna
1683.
Ombre turche
sull’Europa.
Nel 1863, un grandioso
esercito ottomano muove all’assalto del Sacro Romano Impero. Il mondo cristiano
si salva solo grazie a un frate veneto e un audace re polacco.
Una
Vienna in cui svettano alti minareti e si parla la lingua turca può sembrarci
così surreale da sconfinare nella fantastoria; eppure la città austriaca
rischiò più di una volta di diventare islamica. Durante il Rinascimento,
l’Impero Ottomano spadroneggiava per tutti i Balcani, ed è per questo che
ancora oggi diverse aree della penisola, come la Bosnia, sono a maggioranza
musulmana.
La prima vera puntata
turca verso le mura di Vienna avvenne nel 1529, sotto la guida di Solimano il
Magnifico, ma non ebbe fortuna. Un grande esercito islamico tentò ancora di
risalire verso le Alpi nel 1664, ma venne sconfitto dal conte Raimondo
Montecuccoli, nella battaglia di San Gottardo sul fiume Raba, fra Austria e
Ungheria. Lo scontro si concluse con un trattato di pace ventennale tra
l’Impero Ottomano e quello asburgico, ma senza per questo spegnere le ambizioni
turche. Il Sultano impiegò la lunga tregua armata ai confini occidentali per
concentrarsi su quelli orientali, dove perdurava un annoso conflitto con i
Persiani. Poi, nel 1682, ottenuta la pacificazione a Oriente e senza attendere
la scadenza del trattato, incominciarono i preparativi per un nuovo attacco a
Vienna. Una buona causa per rilanciare il conflitto non mancava: a fare da
cuscinetto tra Asburgo e Ottomani si stendeva l’Ungheria, per metà controllata
dall’Austria e per il resto nella sfera d’influenza turca.
La battaglia di Vienna di Józef BrandtData11 - 12 settembre 1683
Lo sconfinato impero della
mezzaluna.
Le mire turche divennero
palesemente ambiziose sotto il sultano Selim I (1465-1520), il quale aveva
stretto ottimi rapporti con i vicini occidentali, in particolare con Venezia
e l’Ungheria, ma solo per espandersi verso Oriente e in Africa a scapito di
altri Stati musulmani. Una volta sconfitti i Persiani sciiti nella battaglia
di Chaldiran (1514), ed estesi i confini all’attuale Iraq, Selim attaccò il
regno dei Mamelucchi, turchi anch’essi, conquistando Siria, Palestina, Egitto
e le città sante di Mecca e Medina. In otto anni aveva triplicato i suoi
domini, creando nel Mediterraneo un’area di conflitto con l’Occidente.
Parallelamente la custodia dei luoghi santi imponeva anche il ruolo di
Protettore dell’Islam, facendo della Turchia il Paese guida dell’intero
universo musulmano. Ma fu Solimano il Magnifico (1494-1566) a trasformare
l’impero in vera potenza militare, conquistando Budapest, Tripoli, la
Mesopotamia e, soprattutto organizzando l’apparato statale in modo molto
efficiente e moderno.
|
LA PAZIENZA DI UN FRATE. I protestanti e altri
componenti antiasburgiche dell’Ungheria si erano coalizzate e, anche per mezzo
di un sostanzioso aiuto ottomano, avevano da poco conquistato una precaria
indipendenza, mal digerita dall’Austria. Il sultano Maometto IV ordinò la
mobilitazione delle sue armate nel gennaio 1682, ma i preparativi andarono per
le lunghe. Quando, il 6 agosto, dichiarò guerra, la stagione era ormai troppo
avanzata e l’invasione venne rimandata alla primavera successiva. Le forze
turche erano immense, fra i 100 e i 300mila uomini tenuti insieme da un
massiccio apparato logistico.
Il ritardo si rivelò
prezioso per l’imperatore Leopoldo I, che ebbe il tempo di guadagnare alleati
alla sua causa. Venne sostenuto dall’infaticabile lavoro diplomati del frate
cappuccino Marco d’Aviano, inviato di papa Innocenzo XI, che visitò le corti
europee per formare una nuova Lega santa cristiana. Ricevette un pesante
rifiuto dal sovrano di Francia, Luigi XIV, che aveva tutto da guadagnare da un
indebolimento del Sacro Romano Impero, ostacolo principale alle sue mire
espansionistiche in Germania. marco d’Aviano riuscì invece a ottenere
l’appoggio del re di Polonia, Jan III Sobieski. L’impresa era di enorme
significato per due ragioni: anzitutto perché tra i sovrani di Polonia e
d’Austria non correva buon sangue, poi perché Sobieski poteva mettere in campo
una delle maggiori potenze militari dell’epoca.
Il 1° aprile 1683,
l’esercito ottomano iniziò finalmente la lenta marcia verso Vienna. Era
preceduto da un’avanguardia di 40mila cavalieri tartari, con il compito di
tenere sotto controllo le mosse dell’esercito asburgico e terrorizzare la
popolazione locale; svolgevano l’incarico con particolare diligenza, essendo la
loro paga esclusivamente legata ai saccheggi. L’armata cristiana, guidata dal
duca Carlo V di Lorena, poté fare per contenere una forza che solo
nell’avanguardia era già il doppio della sua, e si ritirò.
Vienna sarebbe stata
difesa dal conte Ernst von Starhemberg, validamente assistito dal borgomastro
Liebengerg: 11mila soldati e 5000 cittadini con 300 cannoni avrebbero dovuto
resistere a ogni costo, per dare il tempo ai soccorsi di arrivare. Quel che i
viennesi attendavano era un mosaico di forze che comprendeva, oltre alla
cavalleria asburgica rimasta fuori dalle mura e al già citato esercito polacco,
soldati dei maggiori Stati tedeschi e persino del Granducato di Toscana, oltre
a numerosi volontari. Il 14 luglio, gli Ottomani furono in vista della città, o
meglio di quello che ne rimaneva: il giorno prima i Viennesi avevano dato fuoco
agli edifici esterni alla cinta muraria, per consentire un più ampio campo di
fuoco alle loro artiglierie. Le difese cittadine, per quanto incomplete, erano
moderne e ispirate alle nuove regole dettate dagli architetti militari italiani
secondo i principi della "traccia bastionata”: un percorso murario irto di
propaggini a punta di freccia, per favorire il tiro dei propri cannoni e
rendere inefficace quello avversario. Il sultano si era fermato a Belgrado con
tutto il suo enorme bagaglio (200 carri solo per l’harem), lasciando il comando
assoluto nelle mani del gran visir Kara Mustafa. L’artiglieria al seguito
dell’esercito ottomano era di tipo medio o leggero, insufficiente per demolire
le mura viennesi. A Kara Mustafa fu subito chiaro che lo scontro sarebbe stato
lungo e logorante, e che il ruolo principale l’avrebbero giocato i genieri. La
sua armata aveva una lunga esperienza in fatto di assedi. Individuato il tratto
più vulnerabile delle mura, i giannizzeri vi si accamparono dinnanzi e
immediatamente iniziarono le opere di avvicinamento: una serie di trincee a
serpentina, chiamate parallele, che avrebbero permesso l’assalto protetto alla
città. In appena due settimane, i Turchi avevano raggiunto il fossato esterno,
ma già da alcuni giorni erano pronte le loro mine, gallerie scavate per far brillare
la polvere da sparo sotto le fondamenta delle mura.
Lapide commemorativa del contributo decisivo dell'Esercito polacco alla Battaglia di Vienna.
L’aquila a due teste.
Il simbolo imperiale dell’aquila a
due teste, ereditato da Bisanzio, torna nello stemma di Vienna, anche se con
i colori invertiti (oro su nero). Simboleggia un impero che guarda sia a Est
che a Ovest e il suo significato non cessò mai di essere attuale: nel XVII
secolo, accanto al pericolo ttomano, gli Asburgo dovettero anche fronteggiare
quello rappresentato da Luigi XIV, il re Sole, e le sue mire sui territori
tedeschi.
|
I giannizzeri ottomani: allevati
per la guerra.
Il corpo dei giannizzeri fu creato
dai sultani ottomani nel Trecento per dotare il proprio esercito, basato
sulla cavalleria feudale, di un solido contingente di fanteria. Da subito
costituirono il cuore delle armate turche riportando in grande stile una
forza militare permanente. Il loro reclutamento avveniva arruolando
forzosamente, ogni 5 anni, gli adolescenti più prestanti tra le famiglie
cristiane delle province europee, ottenendo così anche lo scopo di privare
delle energie migliori quelle aree infide. I giovani dovevano convertirsi all’Islam
(solo ai mussulmani era concesso di possedere armi), quindi erano avviati in
caserme nelle quali avrebbero vissuto lunga parte della loro vita, fino al
raggiungimento della pensione.
Indossata l’uniforme e riuniti in
compagnie di 200 uomini chiamate orta, le reclute venivano sottoposte a uno
strenuo addestramento che le forgiava in una disciplinatissima forza militare
di tiratori (prima con archi, poi con archibugi), e ancora più abile nell’uso
di sciabole e asce. I giannizzeri godevano di una tale fama che vennero
imitati da vari Paesi europei, lameno nell’uniforme e nel tipo di disciplina.
|
Gli
ussari alati polacchi: la forza e il terrore.
L’élite
dell’esercito polacco rappresentava, paradossalmente, un anacronismo. Gli
ussari erano infatti una cavalleria nobile corazzata, simile a quella
scomparsa da tempo in Europa occidentale, sostituita da cavalieri con
pistola. Nonostante gli ussari polacchi non disprezzassero le armi da fuoco,
la loro tipica tattica era ancora la carica a lance spiegate, condotta con
impeto irresistibile.
Gli
Svedesi per primi avevano provato a proprie spese l’effetto di una simile
massa di uomini e cavalli, e il grande Gustavo Adolfo di Svezia ne aveva
fatto tesoro, addestrando la sua cavalleria nell’assalto a sciabola
sguainata. La lancia rimase a lungo la prerogativa della cavalleria polacca:
l’arma era molto difficile da utilizzare efficacemente e richiedeva un intenso
allenamento. All’epoca dell’assedio di Vienna, la lancia era divisa in due
parti e cava all’interno, così da poter essere usata lunga o corta, per
risultare più maneggevole. Non si conosce molto circa l’origine delle lunghe
ali dotate di piume d’aquila degli ussari, ma il fragore sibilante che
provocavano durante le cariche di cavalleria doveva essere terrificante.
|
Sobieski manda al Papa il messaggio della vittoria dipinto di Jan Matejko
UNA LENTA AGONIA. La prima esplosione
avvenne il 23 luglio e altre seguirono giorno dopo giorno. In agosto, il
combattimento assunse un ritmo spietatamente metodico: la mattina i cannoni
turchi bombardavano, la sera venivano fatte brillare le mine e di notte
partivano gli assalti.
Ma anche i difensori si
erano organizzati in modo efficiente. A fianco dei militari operavano compagnie
di cittadini divisi per corporazioni, e non mancava il contributo delle donne,
che si distinsero nello scavo di trincee. Il prolungarsi dei combattimenti
provava duramente i viennesi: i ranghi si assottigliavano e la dissenteria
logorava le forze. Dopo una prima fase in cui vennero tentate delle sortite,
anche i difensori cominciarono a seguire uno schema ripetitivo: le brecce
venivano chiuse con barricate di fortuna, e li si attendeva l’attacco turco,
che, pur venendo ogni volta respinto, causava un alto costo in vite umane. I
primi frutti della metodica tattica di assedio si colsero a inizio settembre,
quando mine più potenti del solito abbatterono ampie porzioni di bastioni, tra
le cui rovine andarono a insediarsi i turchi. Con un piede già quasi in città la
vittoria sembrava questione di giorni; ma anche nel campo ottomano si pagava il
prezzo di un assedio sfinente. La prudenza di Kara Mustafa non era condivisa
dai suoi, tanto più che celava una grande avventatezza: tutta la forza lavoro
era impegnata per accelerare l’avanzamento delle opere d’assedio, lasciando l’enorme accampamento
praticamente indifeso. Il 7 settembre l’esercito della Lega santa erano ormai
radunati a pochi chilometri dalla città, pronti ad intervenire per strapparla
dall’assedio turco. Jan Sobesky aveva guidato i suoi uomini in una
straordinaria marcia forzata, coprendo in soli 12 giorni i 320 km che lo separavano
da Vienna. Inoltre, lo schermo offerto dai guerrieri tartari non funzionava più
a dovere e la maggior parte di essi aveva abbandonato la guerra per gravi
dissidi con Kara Mustafa.
LA PIU’ GRANDE CARICA DELLA STORIA. L’11
settembre, solo i boschi a nord di Vienna separavano l’accampamento turco dall’esercito
di liberazione cristiano. Esperti cacciatori austriaci aiutarono le colonne
della Lega santa ad avvicinarsi in buon ordine. il giorno successivo, al primo
apparire dei nemici, Kara Mustafa radunò frettolosamente alcune migliaia di
uomini e ordinò un attacco improvvisato, nella speranza di bloccare i cristiani
sul posto. La battaglia si scatenò presso il Danubio prima che i due eserciti
fossero completamente schierati. L’armata tedesca iniziò a respingere lentamente
i Turchi, incontrando una tenace resistenza. Verso le 4 del pomeriggio, l’esercito
polacco emerse finalmente dalla foresta. Kara Mustafa era finalmente riuscito a
dispiegare tutte le forze in una linea continua di quasi 6 km, mentre solo i giannizzeri
proseguivano un disperato assalto alla città. Jan Sobieski guidò personalmente
i suoi 3000 “ussari alati” (chiamati così perché portavano sulla schiena due
lunghe ali verticali piumate) e altri 20mila uomini in quella che venne
ricordata come la più grande carica della cavalleria della Storia. L’impatto di
una simile massa ebbe un effetto devastante sui Turchi, che provarono
inutilmente a contrattaccare. Il fianco destro dello schieramento ottomano era
stato logorato dai fanti tedeschi e la carica di uno squadrone di ussari alati
polacchi vi aveva aperto una breccia, minacciando di aggirare l’intero
schieramento musulmano. Kara Mustafa tentò di ricomporre lo schieramento,
cercando inutilmente la morte alla testa della sua guardia del corpo. Venuta meno
ogni ragionevole possibilità di resistenza, la sua armata andò in rotta. Alle 6
di sera la battaglia si spense intorno a Vienna, che mai più sarebbe stata
minacciata dai Turchi. Fuggito a Belgrado, Kara Mustafa fu strangolato con
corda di seta dai giannizzeri, che lo ritenevano responsabile del disastro. La sua
testa fu inviata al sultano in una preziosa valigia di velluto.
Articolo in gran parte
di Nicola Zotti pubblicato su Conoscere la Storia n. 49 Sprea Edizioni. Altri testi
e immagini da Wikipedia.
Nessun commento:
Posta un commento