La fabbrica delle meraviglie.
La cattedrale milanese fu voluta da Gian Galeazzo Visconti come
emblema della sua potenza. La costruzione continuò per cinque secoli tra
lungaggini, bisticci, ambiguità. Ma, infine, generò un capolavoro di marmo e
luce.
Nel
suo sogno di grandezza politica, Gian Galeazzo Visconti vedeva nel Duomo
l’emblema di una Milano che si facesse guida di un’Italia unita. Lo volle in
marmo, a imitazione delle grandi cattedrali d’Oltralpe (in sostituzione del
tradizionale mattone rosso), e per erigerlo chiamò architetti francesi e
tedeschi, che accesero infuocate dispute con le maestranze italiane. Si
trattava di coniugare gli stilemi del Nord con la “parlata” lombarda, e non era
affatto facile.
Era solo il primo
episodio di una storia infinita, talmente infinita che la Fabbrica del Duomo,
istituita da Gian Galeazzo, è assunta, nei modi dire milanesi, a emblema di
qualcosa che, appunto non ha mai termine. D’altronde, ancora oggi la Fabbrica è
viva e vegeta, perché la chiesa è sempre bisognosa di restauri. Per estensione,
il Duomo è superato in Europa, solo da San Pietro e dalla cattedrale di
Siviglia. Più che una cattedrale, è il sogno di grandezza di Gian Galeazzo
Visconti, ma è anche il teatro del trionfo di Napoleone, qui incoronato re
d’Italia nel 1805. Fu lui a imporre di terminarne la facciata, così come la
vediamo oggi.
Il Duomo di Milano è
uno delle chiese più ricche di storia della nostra penisola, il prodotto di un
cantiere durato oltre 500 anni, tra ripensamenti, aggiustamenti, ripieghi
stilistici, demolizioni e rifacimenti. E nonostante tutte le contraddizioni, è
stato capace di partorire un unicum stilistico, che oggi si presenta come un
organismo unitario, una gigantesca macchina di pietra e di luce.
Dive ora c’è il Duomo e
la sua piazza, nel 1300 c’era la cattedrale di Santa Maria Maggiore e la
basilica di Santa Tecla, sacrificate all’edificazione della nuova cattedrale
richiesta per primo dall’arcivescovo Antonio de’ Saluzzi, nel maggio del 1386,
e con lui dalla gran parte della comunità milanese. Un desiderio al quale fu
felice di accondiscendere Gian Galeazzo Visconti, che da poco era riuscito a
scalzare dal potere il terribile Barnabò. Il nuovo signore di Milano assunse il
controllo dei lavori per imprimere all’intero progetto una grandiosità conforme
alla sua ambizione. Per questo pretese il marmo invece del mattone e concesse
forti esenzioni fiscali al commercio dello stesso che, dalle cave di Candoglia,
in val d’Ossola, navigava sulle chiatte attraverso il Toce, il Lago Maggiore,
il Ticino e il Naviglio Grande, fino al cuore di Milano. Attraversava un
sistema di chiuse che arrivava quasi fin sotto al cantiere: perché là dove
adesso c’è il Duomo c’era anche il laghetto di Santo Stefano, che la moderna
toponomastica ricorda con via Laghetto. I blocchi di marmo bianco-rosa
portavano il marchio “Auf” (Ad usum fabricae), a significare il loro impiego da
parte della Fabbrica del Duomo, e dovevano della franchigia fiscale (da qui il
detto milanese “a ufo”, a indicare qualcosa che non si paga). Là dove adesso
c’è il Duomo, c’era il battistero di San Giovanni alle Fonti (i resti sono
ancora visibili attraverso una stretta scala interna alla cattedrale), dove la
notte di Pasqua del 387 sant’Ambrogio aveva battezzato il futuro sant’Agostino.
Appena iniziato il cantiere, la Fabbrica vendette all’incanto colonne e marmi
del battistero, definitivamente demolito nel 1394.
Simone da Orsenigo fu
il primo ingegnere capo del nuovo Duomo, apripista di una nutrita fila di
architetti, soprattutto francesi e tedeschi, che si alterneranno alla guida di
un cantiere condannato a una tensione continua, lacerato dalle dispute tra i
responsabili del progetto. Le maestranze locali erano abituate a mettere becco
sui progetti e sulla loro realizzazione, e mal sopportavano la direzione di
architetti stranieri. Ma, i Visconti volevano che Milano apparisse come una
città dell’Impero, che nel 1395 li avrebbe incoronati duchi. La Fabbrica
divenne teatro di infuocate riunioni, estenuanti rinvii e pause lunghe decenni.
5 piccoli segreti.
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PUGILI TRA LE GUGLIE.
Tra le migliaia di sculture che fanno capolino dagli intrichi gotici del Duomo, ne spiccano alcune davvero curiose, come queste due coppie di modernissimi pugili, messi in opera negli anni Trenta. Allo stesso periodo appartiene anche una testa del Duce, resa però irriconoscibile nel dopoguerra.
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IL SANTO SCORTICATO.
All’interno, nel transetto destro, è posta l’impressionante statua di San Bartolomeo scorticato, opera di Marco d’Agrate (1582), la cui anatomia è tanto suggestiva quanto fantastica.
LIBERTA’ DI PLAGIO.
Secondo alcuni, una delle due statue ottocentesche che ornano il finestrone centrale della facciata del Duomo, la Legge Nuova di Camillo Pacetti, sarebbe stata una delle fonti di ispirazione della Statua della Libertà di New York.
L’OROLOGIO INVISIBILE.
Non tutti sanno che sul pavimento del Duomo, poco oltre l’ingresso principale, è presente una monumentale meridiana, realizzata nel 1786; i raggi del sole entrano da un oculo della parete meridionale e colpiscono una lunga striscia di ottone intarsiata nel pavimento e circondata dai segni zodiacali.
IL CAMPANILE INESISTENTE.
Curiosamente il Duomo non ha campanile. Nel 1868 venne abbattuto quello traballante che si trovava sopra la navata, e che non fu più ricostruito. Durante il fascismo si pensò di erigere una nuova, poderosa torre staccata dal corpo della chiesa, ma il progetto restò lettera morta
TERRENO MINATO PER ARCHITETTI. Durante i secoli, fecero le spese di queste contrapposizioni anche i giganti come il Bramante e Leonardo, costretti a ritirare o vedersi respinti i progetti relativi al tiburio, cioè la copertura dell’intersezione fra le navate e il grandioso transetto. Il work in progress provocò diversi problemi, a partire dal primo ripensamento, che si potrebbe chiamare la madre di tutti gli altri inciampi: una volta completate le fondamenta, si decise di passare da tre a cinque navate, creando preoccupazioni in merito alla stabilità della struttura.
Anche per questo venne
interpellato il matematico cremonese Gabriele Stornaoloco, che modificò
l’iniziale progetto dell’edificio, pensato ad quadratum, in una versione ad
figuram triangularem, più adatta a reggere l’immane peso della mastodontica
struttura. Il progetto incontrò feroci resistenze, ma venne infine approvato
dalla Fabbrica, salvo poi venir di nuovo abbandonato per privilegiare la
“concretezza del fare” (eravamo pur sempre a Milano…) ai presupposti teorici.
Questo atteggiamento empirico portò l’architetto francese Jean Mignot, nel
1399, a predire una sicura “ruina” dell’edificio: il vaticinio gli costò
l’immediato allontanamento, mentre i lavori per il triburio vennero
momentaneamente accantonati.
Di rovina si tornò a parlare
sul finire del Quattrocento, quando il nuovo signore di Milano, Francesco
Sforza, chiese conto di eventuali pericoli di crollo. Una questione così
spinosa che Luca Fancelli faceva sapere, in una missiva diretta a Lorenzo de’
Medici, di temere la rovina della copertura, parzialmente smontata e di cui si
progettava il rifacimento. Finalmente nel 1490 la Fabbrica ruppe gli indugi e
affidò congiuntamente a Giovanni Antonio Amadeo e Gian Giacomo Dolcebuono, dopo
regolare concorso (quello della bocciatura di Bramante e Leonardo), la
definitiva costruzione della cupola, che si concluse il 24 settembre del 1500:
una grande volta a ombrello costolata e impostata su otto lunette archiacute.
La cacciata di Ludovico
il Moro e la successiva dominazione francese, poi quella spagnola, non fecero
bene al Duomo, che vide rallentare i lavori e dovette attendere l’avvento di
Carlo Borromeo, nella seconda metà del Cinquecento, per tornare a marciare di
buona la lena. L’architetto Pellegrino Tibaldi, designato dal Borromeo, mise
mano anche all’annosa questione della facciata, destinata però a trascinarsi
ancora per due secoli. Fu il decisionismo napoleonico a mettere fine alla
secolare questione, mediante l’ordine di completare la facciata in stile
neogotico, ultimata nel 1813 (anche se le statue sulle mensole verranno
sistemate durante tutto il secolo e sono addirittura novecentesche le porte di
bronzo). Ancora nel tardo Ottocento, la Fabbrica indisse un nuovo concorso
internazione per l’intero rifacimento della stessa in stile gotico, concorso
che ebbe anche un vincitore nell’architetto Giuseppe Brentano la cui prematura
morte congelò il progetto, sebbene i marmi necessari fossero già stati
acquistati. Ma i fedeli milanesi non hanno certo dovuto aspettare tutto questo
tempo per ascoltare messa in Duomo: mentre architetti e maestranze lavoravano e
dibattevano, dall’agosto 1492, grazie a coperture provvisori, nella nuova
cattedrale già si officiava. D’altronde, ancora fino ai primi anni del
Novecento proseguirono i lavori di completamento delle guglie, delle
decorazioni architettoniche e la posa delle statue, alcune in stile art déco.
GIOCHI DI LUCE E DI COLORE. altro vanto del Duomo è costituito dalle 55 vetrate monumentali realizzate tra la fine dle Trecento e gli anni Ottanta del Novecento.
La costruzione di vetrate nel cantiere del duomo milanese cominciò a soli vent'anni dalla sua fondazione, all'inizio del Quattrocento, per i grandi finestroni dell'abside, che venivano man mano completati. Di queste prime vetrate non restano che scarsissimi frammenti, in quanto già nel secolo successivo molte di esse vennero rifatte: tra questi si conservano sei busti di vegliardi contenuti entro antelli trilobati, provenienti dalla distrutta vetrata di santa Giuditta e oggi inclusi nella vetrata di san Martino, attribuiti alla mano del celebre miniatore Michelino da Besozzo.
la cattedrale dei record. Le misure del duomo di Milano sono imponenti. la guglia più alta, quella della Madonnina, si eleva dal suolo per ben 108.,50 metri (la statua stessa è alta 4 m e 16 cm e, fino a non molti anni fa, era il vertice più alto di Milano); l'altezza della facciata al centro, nel punto più elevato, è di 56,40 metri mentre quella della navata maggiore è di 45 m ; la lunghezza del Duomo all'esterno è pari a 158,5 m. Imponente la superficie interna: 11.700 mq. LE colonne sono 52, 136 le guglie e ben 3400 le statue di cui 2300 sono collocate all'esterno.
Il
volto di Caterina: la Certosa di Pavia.
L’ambizione
del primo duca di Milano, Gian Galeazzo Sforza, era quella di consolidare la
sua egemonia nel Nord Italia. Con le armi, certo, ma anche con cono lo sfarzo
e il fascino dell’arte. Oltre all’avvio della costruzione del Duomo, questa
sete di gloria artistica trovò un alleato nel volto espresso dalla seconda
moglie e cugina, Caterina Sforza, figlia di Bernabò: ella ordinò, per
testamento, redatto prima del seconda parto, l’edificazione di un monastero
nel Pavese. Caterina sopravvisse, e nell’agosto 1396 il marito pose la prima
pietra della Certosa delle Grazie, una chiesa e un monastero, destinato nella
sua mente a divenire anche luogo di sepoltura dei Visconti. Sorta in
posizione strategica a metà strada tra Milano, capitale del ducato, e Pavia,
seconda città per importanza (dove Gian Galeazzo era cresciuto e dove aveva
sede la corte), la chiesa venne consacrata nel 1497.
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UN MERLETTO FATTO DI GUGLIE. E proprio le
decorazioni sono uno dei tratti distintivi, si può dire inimitabili, del Duomo
così come oggi lo ammiriamo. Un vero e proprio museo a cielo aperto dell’arte
statuaria (3400 opere, di cui 2000 esterne) si innalzano a raccontarci
l’evoluzione stilistica della scultura dal XIV al XX secolo, dai maestri
campionesi al Novecento, passando per il barocco e il neoclassicismo. Il tutto
incastonato tra 55 finestroni monumentali (le tre dell’abside sono forse le più
grandi del mondo), vero apice dell’arte vetraria supportata dall’ingegno di
importanti pittori come l’Arcimboldo. Il trionfo decorativo raggiunge il suo
acme nella foresta di guglie rette da contrafforti, archi rampanti e pinnacoli
che slanciano verso il cielo la cattedrale e cingono la copertura a terrazze in
marmo, un unicum nell’architettura gotica.
Le terrazze,
raggiungibili in ascensore, creano un percorso mozzafiato, che permette di
guardare dall’alto tutta Milano e, nelle giornate migliori, gran parte della
pianura circostante. Più in alto ancora, a 108.5 metri, svetta la Madonnina,
simbolo della città dal dicembre del 1774. Disegnata dallo scultore Giuseppe
Perego e fusa dall’orafo Giuseppe Bini, la statua dovette esser coperta di
stracci durante la Seconda guerra mondiale perché i riflessi del suo oro non
servissero da guida ai caccia alleati. Anche le vetrate furono sostituite da
rotoli di tela.
L’interno ha un
impianto a croce latina a cinque navate, la cui scarsa differenza di altezza è
il pegno pagato al gotico lombardo, ben distinguibile anche dalla dilatazione
orizzontale dello spazio a controbilanciare lo slancio verticale dell’intera
struttura, tratto tipico dello stile transalpino. Un’ambiguità che è la vera
cifra stilistica del Duomo, e che affascina invece di disorientare.
Articolo in gran parte
di Mario Galloni pubblicato su Medioevo misterioso extra n. 7 altri testi e immagini da wikipedia.
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