Di cosa e di chi ridevano i romani.
Nell’antica Roma scherzi e battute erano
parte integrante della quotidianità e non risparmiavano nessuno.
Si dice che ogni popolo ha il
suo senso dell’umorismo, non sempre facile da capire per gli altri. Lo spirito
caustico degli antichi romani rifletteva il carattere insolente e sarcastico di
quella che in origine era una comunità di contadini e soldati. Il cosiddetto
Italum acetum costitutiva l’altra faccia della gravitas, la rispettabile
serietà che si sforzavano di trasmettere i cittadini dell’élite.
I romani davano un tocco
umoristico anche al terzo componente del nome, il cognome, che spesso traeva
origine dal riferimento a qualche caratteristica di famiglia. Ad esempio, il
nome completo del famoso poeta Ovidio era Publio Ovidio Nasone. Cicerone,
invece, viene da “cicer o cece” forse perché i suoi antenati coltivavano ceci
oppure perché il capostipite aveva un’escrescenza sul volto che dava la forma
del legume. Tra i cognomi particolarmente curiosi, troviamo Bruto (massiccio),
Ruffo (dai capelli rossi), Capitone (dalla testa grande) e Strabone (guercio).
La commedia: i romani ridono di sé
stessi.
Alla morte di Plauto “il riso, lo scherzo e il divertimento (…) piansero insieme”
recita un epitaffio di cui probabilmente lui stesso è l’autore. Nelle opere
del celebre commediografo latino sfilano i tipi sociali più caratteristici:
il vecchio libidinoso che contende al figlio una bella cortigiana, la matrona
romana prepotente e sprecona, il servo scaltro e imbroglione, il parassita
morto di fame, il soldato fanfarone, il protettore spietato e ripugnante, i
banchieri avidi e tirchi. Plauto accentuava i difetti di ogni personaggio per
fare ridere il suo pubblico e non esitava a ricorrere a un linguaggio
scurrile. “A casa di quella zoccola se
ne andava lo schifoso, quel miserabile ubriacone che ha corroto anche mia
figlio”, una moglie tradita nella commedia l’Asinaria.
Tito Maccio Plauto (in latino: Titus Maccius Plautus o Titus Maccus Plautus; Sarsina, tra il 255 e il 250 a.C. – 184 a.C.) è stato uncommediografo romano.
Plauto fu uno dei più prolifici e importanti autori dell'antichità latina.
Egli fu esponente del genere teatrale della palliata, ideato dall'innovatore della letteratura latina Livio Andronico. Il termineplautino, che deriva appunto da Plauto, si riferisce sia alle sue opere sia ad opere simili o influenzate da quelle di Plauto.
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IMPERATORI GROTTESCHI. Anche agli
imperatori venivano affibbiati nomignoli scherzosi. Quando Tiberio era ancora
un soldato i suoi commilitoni lo prendevano in giro storpiando il suo nome,
Tiberius Claudius Nero, in Biberius Caldius Mero, tre doppi sensi che
alludevano alla sua natura di gran bevitore, amante del vino caldo e puro
(merum).
I legionari amavano farsi beffe dei generali
nei carmina triumphalia, i canti che accompagnavano le sfilate degli eserciti
vittoriosi attraverso il centro di Roma. Durante la parata trionfale del 46 a .C. Giulio Cesare dovette
sopportare gli sberleffi dei suoi soldati, che intonavano: “cittadini, sorvegliate le vostre donne,vi portiamo il calvo adultero”,
in allusione alla vita dissoluta del loro comandante e alla sua pronunciata
calvizie. Giravano inoltre riferimenti maliziosi alle sue relazione con il re
di Bitinia: “Cesare sottomise le Gallie,
Nicodeme sottomise Cesare”. I toni burleschi che caratterizzavano questi
versi avevano probabilmente anche lo scopo di evitare gli eccessi di superbia
del generale vincitore.
Cicerone diceva che in una città
così pettegola nessuno era al riparo dalle maldicenze. Erano proprio le persone
dell’alta società come lui, presunte depositarie della gravitas, a riversare il
loro humor tanto nei discorsi pubblici come nella vita privata. Quando vide suo
genero Lentulo, che era basso di statura, con una lunga spada appesa in vita,
Cicerone esclamò: “chi ha legato mio
genero a quel ferro?”. A proposito di una matrona romana piuttosto in là
con gli anni che dichiarava di averne solo una trentina, commentò: Dev’essere senz’altro vero, sono già
vent’anni che glielo sento ripetere”.
Anche l’imperatore Augusto aveva
uno spiccato senso dell’umorismo. Quando il console Galba, che era gobbo, lo
invitò a correggerlo nel caso in cui avesse commesso degli errori, Augusto gli
rispose che avrebbe anche potuto correggerlo, ma non certo raddrizzarlo. Le
prese in giro non erano sempre ben ricevute dai destinatari. Cornelio Fido,
genero di Ovidio, si mise a piangere in senato perché qualcuno gli aveva dato
dello “struzzo spelacchiato”. A volte ridere in pubblico poteva essere
pericoloso. Nel 192 d.C. lo storico Cassio Dione si trovava con alcuni colleghi
senatori al Colosseo, dove si svolgeva un’esibizione dell’eccentrico imperatore
Comodo. A un certo punto il sovrano romano uccise uno struzzo al centro
dell’arena, lo decapitò e si girò verso di loro facendogli capire che avrebbero
potuto fare la stessa fine. La scienza provocò una certa ilarità trai i
senatori, ma per evitare di scoppiare a ridere apertamente Dione si mise a
masticare delle foglie di alloro della sua corona, prontamente imitato dato
compagni.
RIDERE DELLE DEFORMITA’. A volte venivano invitate a intervenire ai
banchetti anche persone con disabilità fisiche come nani o gobbi, o
intellettuali. I loro intermezzi, probabilmente, suscitavano le risa dei
commensali.
COMICI DI PALAZZO. Presso la corte
imperiale non mancavano i buffoni per il divertimento dei regnanti. Il
prediletto di Augusto e del suo circolo era un comico di nome Galba. Tiberio,
dal canto suo, annoverava un nano tra i suoi giullari. Domiziano invece
assisteva agli spettacoli dei gladiatori in compagnia di un giovane dal cranio
piccolo e deforme, che si sedeva ai suoi piedi vestito di rosso conversava con
lui tra il serio e il faceto. All’epoca di Traiano a incaricarsi dei motti di
spirito era un certo Capitolino, che secondo Marziale, era ancora più
divertente di Galba.
Anche le menomazioni fisiche e
mentali potevano essere oggetto di scherno, ma per qualcuno c’erano dei limiti.
In una delle sue lettere a Lucilio, Seneca cita una certa Arpaste, una serva
matta ereditata dalla prima moglie “che
non sa di essere cieca (…) e dice che la casa è buia”. Il filosofo afferma
con grande umanità che è contrario a ridere delle miserie della gente e
aggiunge: “Se voglio divertirmi con un
pagliaccio, non devo cercare lontano: rido di me”. L’umorismo era il
protagonista indiscusso delle conversazioni in strada e in taverna. Ne sono una
testimonianza i graffiti sui muri degli edifici di Pompei, dove abbondano
scherzi, invettive e caricature d persone reali. I clienti scontenti di una
pensione scrivono per esempio: “Abbiamo
pisciato a letto. Lo confesso, ospite abbiamo sbagliato. Ma se mi chiedi perché
rispondo: non c’era un orinale”.
Quando Ventidio Basso raggiunse una delle più alte cariche della
magistratura, la gente ripensò con stupore alle sue origini di mulattiere.
Qualcuno scrisse per le vie di Roma: “Accorrete,
auguri tutti e aruspici! È avvenuto proprio adesso un prodigio straordinario:
quello che stigliava i muli è stato eletto console”. Tracce di umorismo
popolare sono visibile anche in alcuni epigrammi satiri di Marziale, famosi per
le loro chiuse brevi e incisive. Il poeta spagnolo amava prendere di mira con
il suo spirito caustico i difetti fisi e caratteriali dei suoi contemporanei: “Quinto ama Taqide. Taide quale? Taide la
guercia. A Taide manca un occhio, a Quinto tutti e due”.
ANTOLOGIA DI BARZELETTE. Ciononostante,
bisogna aspettare il IV, V secolo d.C. per trovare ima vera e propria raccolta
di barzellette. È scritta in greco e si intitola Philogelos, che letteralmente
significa “l’amante della risata”. L’antologia contiene circa 270 barzellette di vario tipo. Alcune
hanno come protagonisti gli abitanti di Abdera (nella Grecia settentrionale),
anticamente considerati gli scemi per antonomasia, insieme ai cumani (detti
anche poloviciani). Ma compaiono anche eunuchi, falsi indovini e misogini. Ecco
un esempio che dimostra come certe forme di umorismo siano una costante di ogni
epoca. Un indovino incompetente predice a
uomo il suo futuro e gli dice che non potrà avere figli. Quando l’uomo ribatte
che ne ha già sette, l’indovino replica: “Ma li hai guardati bene?”. Altre barzellette: un uomo che sta rientrando da un viaggio chiede a un falso indovino
notizie sulla sua famiglia. “Stanno tutti bene, anche tuo padre”, dice
l’indovino. “Ma mio padre è morto dieci anni fa”, risponde l’uomo. Al che
l’indovino ribatte: “che fosse tuo padre lo credi tu”. Un abitante di Abdera
vede un eunuco conversare con una donna e gli chiede se è sua moglie. Quando
quello gli risponde che gli eunuchi non possono avere donne, l’abderita
replica: “Allora dev’essere tua figlia”. Un uomo si lamenta con un
intellettuale perché lo schiavo che gli ha venduto è morto. Questi gli
risponde: “Che strano finché ce l’avevo io non è mai successo”.
https://viadellebelledonne.wordpress.com/2008/12/14/come-ridevano-gli-antichi-philogelos/
https://viadellebelledonne.wordpress.com/2008/12/14/come-ridevano-gli-antichi-philogelos/
Articolo di Fernando Lillo Redonet pubblicato su Storica National Geografic di
giugno 2019 immagini da wikipedia.
bellissimo articolo complimenti e mi ha aiutato per il mio lavoro,volevo farmi una idea di cosa ridono gli antichi romani.Stavo leggendo la storica inglese Mary Beard pur molto interessante ma poco impattante.BUONA SERATA LUIGI
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