Nel modenese tra il ’42 e
il ’43 furono mesi in salvo oltre settanta giovani ebrei di varie nazionalità.
A Nonantola, un paese a una
manciata di chilometri da Modena, si trova Villa Emma. Apparentemente una villa
come tante altre, in realtà uno straordinario luogo della memoria. Un
bell’edificio costruito a fine Ottocento dove, fra il 1942 e il 1943, trovarono
rifugio 74 ebrei, tra i 6 e i 17 anni, di diverse
nazionalità: tedeschi, austriaci, polacchi e slavi. Tutti in fuga dai nazisti.
Grazie alla gente di questo paesino emiliano che li protesse, li nutrì e li
nascose, tutti i ragazzi, (tranne uno) si salvarono. E dopo la guerra, molti di
loro proseguirono il loro viaggio verso la Terra promessa, Eretz Yisrael. La vicenda a lieto
fine è quasi unica nel panorama delle persecuzioni razziali, tanto che dal 2004 a Villa Emma è
intitolata una Fondazione,dove si possono trovare testimonianze e ricostruzioni
di quegli avvenimenti. L’odissea dei piccoli è stata anche rievocata recentemente
dalla storica Mirella Serri nel suo libro Bambini
in fuga,pubblicato da Longanesi.
Foto di gruppo: i ragazzi ebrei davanti a Villa Emma
MAESTRO AFFIDABILE. Tutto ebbe inizio a Berlino nel 1933, quando Recha
Schweitzer, direttrice della Judische Jugendhilfe (istituto ebraico per
l’assistenza ai giovani) e moglie del rabbino Moritz Freier, creò alcune
agenzie per l’espatrio degli orfani verso la Palestina. Ma nel luglio 1940
Schweitzer – che fino a qual momento aveva salvato circa 7mila bambini – ricercata dalla Gestapo fu costretta ad
abbandonare il progetto e a fuggire a Zagabria. Qui in ottobre affidò a Josef
Indig un maestro (madrich) croato poco più che ventenne, una quarantina di
bambini, i cui genitori erano morti nei campi di concentramento oppure non
avevano più dato notizie. Al maestro fu assegnato il difficile zona controllata
dai militari italiani), affittato appositamente per loro dalla Delasem. compito
di metterli in salvo. A dare appoggio all’operazione pensò l’associazione
Delasem, la delegazione per l’assistenza agli emigranti ebrei, con sede a
Genova, fondata in Italia nel 1939.
Nel luglio del 1941 Indig, con un esercito di 40 bambini e
8 accompagnatori, partì da Zagabria, caduta ormai sotto l’occupazione tedesca,
per approdare nella Slovenia Meridionale. Qui il gruppo si sistemò nel castello
di Lesno Brdo, un maniero cadente e tetro – ma relativamente sicuro – a 18 chilometri da
Lubiana.
VITA NEI BOSCHI. La sopravvivenza a Lesno Brdo era difficile e
procurarsi il cibo era un’ossessione quotidiana. Bisognava cercarlo al mercato
nero o dai contadini dei dintorini, macinando chilometri su chilometri. E i
bambini dovevano anche studiare. “Indig,
seguendo il modello educativo di Recha Scweitzer, comunicò che gli
accompagnatori, trasformandosi in insegnanti, avrebbero impartito lezioni di
ebraico moderno e di italiano per ridurre il disagio di vivere da profughi”,
scrive Mirella Serri. Dei genitori si era persa ogni traccia: le cartoline
inviate a Dachau o Auschwitz tornavano indietro con l’intestazione destinatario
sconosciuto e le poche che arrivavano dai campi raccontavano storie di fame, di
freddo e di annientamento.
PROTETTI DA TUTTI. A partire dalla primavera del ’42, però, anche il
paesino sloveno non fu più un luogo sicuro: era iniziata la lotta dei
partigiani iugoslavi. La
Delasem aveva a Modena un suo rappresentante, Gino Friedmann,
ex sindaco di Nonantola, e decise di trasferire i ragazzi in quel paese, prendendo in affitto Villa
Emma. L’edificio era molto grande, aveva più di 40 stanze e un parco di sette
ettari. Il trasferimento, che,
nonostante le leggi razziali in vigore dal ’38, ebbe il via libera del
ministero dell’Interno (unica autorizzazione di questo tipo concessa durante la
guerra), fu compiuto nel luglio del ’42. I ragazzi approdarono così a
Nonantola. La struttura, disabitata da tempo, era piena di polvere e topi e
inizialmente gli ospiti dovevano accontentarsi di dormire sul pavimento; solo
in seguito arrivò qualche branda. La cosa positiva tuttavia era che il cibo qui
non scarseggiava, anzi, la signora che gestiva la trattoria vicina, cucinava
tutti i giorni per loro. Indig trovò a
Nonantola un ambiente raccolto, amichevole, dove la politica razziale di
Mussolini era scivolata via come acqua fresca”, scrive Serri. I ragazzi che non potevano frequentare
osterie e pubblici esercizi, né allontanarsi dal Comune, così recitava la
normativa di polizia, con la complicità dei nonantolani si potevano invece
muovere in libertà. I carabinieri chiudevano un occhio e, al cinema, il
bigliettaio faceva finta di non vederli. Qui Indig per i suoi orfani organizzò
una vera e propria scuola con quattro classi divise per fasce di età (c’era
anche un grammofono e un pianoforte) .
Nel
novembre ’42 la Delasem
trasferì da Genova (bombardata) alla soffitta di Villa Emma anche il magazzino
da dove partivano pacchi per gli oltre 6mila ebrei internati nelle varie
località italiane. E nella primavere del 1943 da Spalato arrivarono altri 34
ragazzi ebrei serbo-croati. I piccoli rifugiati divennero così 74. Un cono d’ombra però avvolge la vicenda:
lontano da Nonantola, Salomon Papo e Goffredo Pacifici, un quindicenne di
Sarajevo e un funzionario della Delasem affiliato al gruppo, verranno arrestati
e deportati ad Auschwitz.
Josef Indig, Don Arrigo Beccari, Giuseppe Moreali (1964)
QUASI SALVI. Ma dopo qualche mese la situazione precipitò. Con la
firma dell’armistizio tra il governo Badoglio e gli Alleati firmato l’8
settembre ’43 e i tedeschi in arrivo, bisognava nascondere i piccoli rifugiati,
che dovettero lasciare la villa. Le ragazze vennero ospitate dalle suore,
mentre i maschi furono nascosti dalla popolazione nei fienili, nelle stalle o
nei sottotetti, dividendo con loro i pur magri pasti. “Le SS andarono casa per casa a chiedere se vi fossero ebrei nascosti
nella zona, ma nessuno fiatò” scrive Serri. I nonantolani mostrarono,
ancora una volta, tutta la loro solidarietà, rischiando la vita in prima
persona pur di salvare questi ragazzi. Dopo meno di un mese la situazione era
però diventata insostenibile e quindi fu presala decisione di tentare la fuga
in Svizzera. Così, tra il 6 e il 14 ottobre 1943, il gruppo lasciò il paese di
Nonantola e passò il confine, guadando nottetempo il fiume Tresa. Tutti si
salvarono, tra uno: Salomon Papo, l’unico deportato ad Auscwitz. Il ragazzo di
Sarajevo, malato di tubercolosi, dalla villa era stato trasferito nel sanatorio
di Gaiato di Pavullo sull’Appennino modenese. Qui, nella primavera del ’44 fu
prelevato dalla Gestapo: un infermiere, accortosi che era circonciso, lo aveva
denunciato ai nazisti. Il 29 maggio del ’45, a guerra finita, 46 dei ragazzi da
Barcellona partirono per la
Palestina , altri poi li seguirono, qualcun altro andò negli
Stati Uniti, in Inghilterra e in Jugoslavia.
Indig
è morto in Israele nel 1988 a
80 anni. Nel 2003, la città israeliana di Haifa su iniziativa di un’ex ragazza
di Villa Emma ha intitolato ai cittadini di Nonantola un parco. E nella
cittadina emiliana verrà presto costruito un luogo della memoria dedicato alla
vicenda.
Articolo di Franca Porciani pubblicato su Focus
Storia 139 – immagini Fondazione Villa Emma
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