martedì 26 giugno 2018

i ragazzi di Villa Emma

Nel modenese tra il ’42 e il ’43 furono mesi in salvo oltre settanta giovani ebrei di varie nazionalità.


A Nonantola, un paese a una manciata di chilometri da Modena, si trova Villa Emma. Apparentemente una villa come tante altre, in realtà uno straordinario luogo della memoria. Un bell’edificio costruito a fine Ottocento dove, fra il 1942 e il 1943, trovarono rifugio 74  ebrei, tra i 6 e i 17 anni, di diverse nazionalità: tedeschi, austriaci, polacchi e slavi. Tutti in fuga dai nazisti. Grazie alla gente di questo paesino emiliano che li protesse, li nutrì e li nascose, tutti i ragazzi, (tranne uno) si salvarono. E dopo la guerra, molti di loro proseguirono il loro viaggio verso la Terra promessa, Eretz Yisrael. La vicenda a lieto fine è quasi unica nel panorama delle persecuzioni razziali, tanto che dal 2004 a Villa Emma è intitolata una Fondazione,dove si possono trovare testimonianze e ricostruzioni di quegli avvenimenti. L’odissea dei piccoli è stata anche rievocata recentemente dalla storica Mirella Serri nel suo libro Bambini in fuga,pubblicato da Longanesi

Foto di gruppo: i ragazzi ebrei davanti a Villa Emma


MAESTRO AFFIDABILE. Tutto ebbe inizio a Berlino nel 1933, quando Recha Schweitzer, direttrice della Judische Jugendhilfe (istituto ebraico per l’assistenza ai giovani) e moglie del rabbino Moritz Freier, creò alcune agenzie per l’espatrio degli orfani verso la Palestina. Ma nel luglio 1940 Schweitzer – che fino a qual momento aveva salvato circa 7mila bambini – ricercata dalla Gestapo fu costretta ad abbandonare il progetto e a fuggire a Zagabria. Qui in ottobre affidò a Josef Indig un maestro (madrich) croato poco più che ventenne, una quarantina di bambini, i cui genitori erano morti nei campi di concentramento oppure non avevano più dato notizie. Al maestro fu assegnato il difficile zona controllata dai militari italiani), affittato appositamente per loro dalla Delasem. compito di metterli in salvo. A dare appoggio all’operazione pensò l’associazione Delasem, la delegazione per l’assistenza agli emigranti ebrei, con sede a Genova, fondata in Italia nel 1939.  
Nel luglio del 1941 Indig, con un esercito di 40 bambini e 8 accompagnatori, partì da Zagabria, caduta ormai sotto l’occupazione tedesca, per approdare nella Slovenia Meridionale. Qui il gruppo si sistemò nel castello di Lesno Brdo, un maniero cadente e tetro – ma relativamente sicuro – a 18 chilometri da Lubiana.

VITA NEI BOSCHI. La sopravvivenza a Lesno Brdo era difficile e procurarsi il cibo era un’ossessione quotidiana. Bisognava cercarlo al mercato nero o dai contadini dei dintorini, macinando chilometri su chilometri. E i bambini dovevano anche studiare. “Indig, seguendo il modello educativo di Recha Scweitzer, comunicò che gli accompagnatori, trasformandosi in insegnanti, avrebbero impartito lezioni di ebraico moderno e di italiano per ridurre il disagio di vivere da profughi”, scrive Mirella Serri. Dei genitori si era persa ogni traccia: le cartoline inviate a Dachau o Auschwitz tornavano indietro con l’intestazione destinatario sconosciuto e le poche che arrivavano dai campi raccontavano storie di fame, di freddo e di annientamento. 


PROTETTI DA TUTTI. A partire dalla primavera del ’42, però, anche il paesino sloveno non fu più un luogo sicuro: era iniziata la lotta dei partigiani iugoslavi. La Delasem aveva a Modena un suo rappresentante, Gino Friedmann, ex sindaco di Nonantola, e decise di trasferire i ragazzi  in quel paese, prendendo in affitto Villa Emma. L’edificio era molto grande, aveva più di 40 stanze e un parco di sette ettari.  Il trasferimento, che, nonostante le leggi razziali in vigore dal ’38, ebbe il via libera del ministero dell’Interno (unica autorizzazione di questo tipo concessa durante la guerra), fu compiuto nel luglio del ’42. I ragazzi approdarono così a Nonantola. La struttura, disabitata da tempo, era piena di polvere e topi e inizialmente gli ospiti dovevano accontentarsi di dormire sul pavimento; solo in seguito arrivò qualche branda. La cosa positiva tuttavia era che il cibo qui non scarseggiava, anzi, la signora che gestiva la trattoria vicina, cucinava tutti i giorni per loro. Indig trovò a Nonantola un ambiente raccolto, amichevole, dove la politica razziale di Mussolini era scivolata via come acqua fresca”, scrive Serri.  I ragazzi che non potevano frequentare osterie e pubblici esercizi, né allontanarsi dal Comune, così recitava la normativa di polizia, con la complicità dei nonantolani si potevano invece muovere in libertà. I carabinieri chiudevano un occhio e, al cinema, il bigliettaio faceva finta di non vederli. Qui Indig per i suoi orfani organizzò una vera e propria scuola con quattro classi divise per fasce di età (c’era anche un grammofono e un pianoforte) .
Nel novembre ’42 la Delasem trasferì da Genova (bombardata) alla soffitta di Villa Emma anche il magazzino da dove partivano pacchi per gli oltre 6mila ebrei internati nelle varie località italiane. E nella primavere del 1943 da Spalato arrivarono altri 34 ragazzi ebrei serbo-croati. I piccoli rifugiati divennero così 74. Un cono d’ombra però avvolge la vicenda: lontano da Nonantola, Salomon Papo e Goffredo Pacifici, un quindicenne di Sarajevo e un funzionario della Delasem affiliato al gruppo, verranno arrestati e deportati ad Auschwitz.


Josef Indig, Don Arrigo Beccari, Giuseppe Moreali (1964)


QUASI SALVI. Ma dopo qualche mese la situazione precipitò. Con la firma dell’armistizio tra il governo Badoglio e gli Alleati firmato l’8 settembre ’43 e i tedeschi in arrivo, bisognava nascondere i piccoli rifugiati, che dovettero lasciare la villa. Le ragazze vennero ospitate dalle suore, mentre i maschi furono nascosti dalla popolazione nei fienili, nelle stalle o nei sottotetti, dividendo con loro i pur magri pasti. “Le SS andarono casa per casa a chiedere se vi fossero ebrei nascosti nella zona, ma nessuno fiatò” scrive Serri. I nonantolani mostrarono, ancora una volta, tutta la loro solidarietà, rischiando la vita in prima persona pur di salvare questi ragazzi. Dopo meno di un mese la situazione era però diventata insostenibile e quindi fu presala decisione di tentare la fuga in Svizzera. Così, tra il 6 e il 14 ottobre 1943, il gruppo lasciò il paese di Nonantola e passò il confine, guadando nottetempo il fiume Tresa. Tutti si salvarono, tra uno: Salomon Papo, l’unico deportato ad Auscwitz. Il ragazzo di Sarajevo, malato di tubercolosi, dalla villa era stato trasferito nel sanatorio di Gaiato di Pavullo sull’Appennino modenese. Qui, nella primavera del ’44 fu prelevato dalla Gestapo: un infermiere, accortosi che era circonciso, lo aveva denunciato ai nazisti. Il 29 maggio del ’45, a guerra finita, 46 dei ragazzi da Barcellona partirono per la Palestina, altri poi li seguirono, qualcun altro andò negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Jugoslavia.
Indig è morto in Israele nel 1988 a 80 anni. Nel 2003, la città israeliana di Haifa su iniziativa di un’ex ragazza di Villa Emma ha intitolato ai cittadini di Nonantola un parco. E nella cittadina emiliana verrà presto costruito un luogo della memoria dedicato alla vicenda.

Articolo di Franca Porciani pubblicato su Focus Storia 139 – immagini Fondazione Villa Emma


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