La Grande Armée in
azione.
Come si svolgevano le
battaglie durante le campagne militari di Napoleone? Ecco i segreti del suo
straordinario successo.
Napoleone distribuisce le insegne della Legion d'onore ai soldati dell'Armata d'Inghilterra nel 1804 che diverrà la Grande Armata nel 1805
Le
guerre della Rivoluzione francese e quelle napoleoniche furono caratterizzate,
come in precedenza quella dei Sette Anni (1756-1763), dal ruolo assunto dalla
battaglia campale, divenuta il momento risolutivo delle campagne. La potente
lezione di Federico II di Prussia, protagonista di quella guerra, aveva
fortemente influenzato il pensiero militare, ponendo il confronto in campo
aperto tra grandi eserciti all’apice degli obiettivi dell’attività bellica, il
momento dello sforzo supremo nel quale cercare la vittoria di un conflitto. “Sono le battaglie che decidono il destino
di una Nazione”, scrive il re di Prussia, e Napoleone è ancora più preciso:
“… io vedo una sola cosa: e cioè la parte
più forte del nemico. Il cerco di annientarla, pensando che le questioni meno
importanti si sistemeranno da sole”. La manovra strategica diventa così
finalizzata a ottenere il prima possibile, e alle migliori condizioni
possibili, una battaglia che ponesse celermente fine alla guerra. Il comandante
in capo, Napoleone o uno dei suoi marescialli, disponeva sul terreno i propri
elementi di manovra, basandosi quasi esclusivamente sul proprio intuito e la
propria esperienza per delineare le sue intenzioni, senza grandi informazioni
sull’entità del nemico. Esploratori di cavalleria leggera determinavano in modo
approssimativo forza, posizione e direzione dell’armata avversaria, tentando
nel contempo di mascherare le proprie, e molto dell’esito della battaglia
dipendeva da questa fase cruciale di avvicinamento. La cavalleria leggera della
Grande Armée si trovò spesso ad agire in inferiorità quantitativa rispetto a
quella avversaria, difetto contenuto dal loro impegno e dal genio di Napoleone.
Durante la campagna di Russia, però, il numero schiacciante dei polacchi dello
zar diede un decisivo contributo alla sconfitta francese. Per vincere una
battaglia si dovevano logorare il morale del nemico fino ad annullare la sua
volontà di combattere un obiettivo che veniva ottenuto con la forza delle armi,
ovvero l’effetto combinato del fuoco e dell’urto.
L’artiglieria era
l’arma principe dell’azione di fuoco, e naturalmente, non era in grado di
effettuare un’azione di urto. La cavalleria, al contrario, con le sue cariche
all’arma bianca svolgeva quasi esclusivamente quest’ultima funzione e, per
quanto potesse essere equipaggiata con armi da fuoco, non ne faceva quasi mai
uso, in particolare nelle battaglie campali. Inoltre, essendo il reparto più
mobile, era il più adatto a proteggere le ali dello schieramento e a
intervenire con tempismo là dove il comandante individuava un punto critico. La
fanteria, infine, era l’unica forza che potesse esercitare entrambe le azioni: di fuoco, con i
moschetti, di urto con le baionette, ed era per questo motivo considerata la
regina delle battaglie. Compito dei comandanti subordinati era quello di
impiegare fanteria, cavalleria e artiglieria in modo che ciascuna di esse
supplisse ai limiti delle altre e
beneficiasse delle loro qualità.
L’artiglieria in grandi
batterie doveva dispiegare il suo potere distruttivo in un punto focale
dell’azione e fornire a cavalleria e fanteria quel sostegno di fuoco che ne
moltiplicava l’efficacia. La fanteria doveva condurre lo sforzo principale, sia
in attacco che in difesa. La cavalleria interveniva sfruttando la sua velocità
ed imprevedibilità di azione per integrare con il proprio urto quello della
fanteria. In Francia si avvertì prima e più distintamente che nel resto
d’Europa l’importanza di sfruttare la forza combinate delle tre armi sotto un
unico comando: vennero dunque create divisioni e, successivamente, corpo
d’armata (su più divisioni) che le univano dando al loro comandante
un’elasticità di impiego sconosciuta agli altri eserciti, e la possibilità di
affrontare una battaglia anche contro nemici più numerosi.
Gli uomini e le uniformi
Uniformi della fanteria della Grande Armata nel periodo 1807-1815
La fanteria era l’indiscussa
regina delle battaglie napoleoniche. Era l’arma più numerosa e sosteneva il peso
principale dell’azione in battaglia. Si divideva in tre specialità: la
fanteria leggera, la fanteria di linea e i granatieri, con un organico di
battaglione che Napoleone nel 1808 fissò in 6 compagnie di 140 uomini
ciascuna, 4 di fanteria di linea e 1 ciascuna di fanteria leggera e
granatieri. Ogni comandante di battaglione, quindi poteva contare su un
nucleo centrale normale e su due componenti qualificate in compiti
particolari: una forza equilibrata ed elastica che consentiva diverse
soluzione tattiche. La fanteria leggera, costituita dagli uomini più agili e
dai migliori tiratori poteva disperdesi di fronte alla sua unità e
proteggerla nell’avanzata col suo tiro mirato. I granatieri, invece, erano
scelti tra gli uomini più alti e forti, e costituivano l’élite del
battaglione. La loro presenza serviva a rinforzare il morale delle truppe,
specie negli attacchi più pericolosi.
La cavalleria era molto meno
numerosa rispetto alla fanteria, tuttavia poteva essere decisiva. Era divisa
in tre categorie: leggera, media e pesante. La prima era composta da ussari e
cacciatori a cavallo, e in battaglia si vedeva raramente perché impegnata in
esplorazioni e schermaglie, un lavoro oscuro ma essenziale per la riuscita
delle campagne militari. I Dragoni da soli costituivano la cavalleria media
la più numerosa: veniva chiamata così perché poteva essere impiegata sia nel
ruolo leggero, sia in quello pesante. I corazzieri erano il nucleo principale
della cavalleria pesante: le loro cariche facevano tremare il terreno, un effetto
non meno terribile della vista delle loro corazze scintillanti e delle
sciabole sguainate.
Ultima, ma non meno importante era
la Guardia, la cui creazione fu uno dei primi atti iniziali come Primo
Console. La Garde des consuls riuniva due battaglioni di granatieri e una
compagnia di cacciatori a piedi e due piccoli reggimenti di cavalleria, 2000
veterani la cui missione era proteggere la sua persona. Questo il nucleo
originario di una formazione divenuta leggendaria e che nella sua componente
più prestigiosa, la Vecchia Guardia, non fu mai sconfitta in battaglia. Per
entrarne a farne parte i criteri erano assai severi: almeno 10 anni di
onorato servizio, essere stato citato per motivi di merito, un’altezza minima
di 1,76 cm, sapere leggere e scrivere. Indossata l’uniforme della Vecchia
Guardia la vita militare diventava facile, perché Napoleone era generoso con
i suoi pupilli. Unica promessa: essere pronti a sacrificare la vita per
lui.
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CAVALLERIA:
CORAZZIERI.
Fu Napoleone
in persona a volere il ritorno di questa pesante forza d’urto di cavalleria
nell’esercito francese. Ordinò la formazione di ben 12 reggimenti, sulla
carta 820 uomini, con il requisito di 180 cm. di altezza e il fisico
sufficientemente robusto da sopportare i 7,5 chilogrammi di peso della
corazza.
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CAVALLERIA:
USSARI.
Facevano parte
della cavalleria leggera. Avevano il compito di proteggere le armate facendo
da schermo intorno a esse, ma venivano anche impiegati in bataglia, come a
Friedland, il 14 giugno 1807, quando parteciparono a una grande carica di
cavalleria contro l’esercito russo.
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FANTERIA DI
LINEA.
Essa
supportava il peso maggiore delle battaglie e il più elevato numero di
perdite. Anche la mortalità tra gli ufficiali era molto alta, sia perché essi
guidavano gli attacchi, sia per le loro vistose uniformi: nella sola fanteria
di linea napoleonica si contano 17436 ufficiali caduti in battaglia.
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GUARDIA.
Riuniva 2000
veterani con almeno 10 anni di servizio, con il compito di proteggere
Napoleone stesso. “La guardia muore ma
non si arrende!” fu la risposta di Cambronne quando i nemici, a Waterloo,
chiesero la resa di Cacciatori della Vecchia Guardia, che non si arrese
nemmeno allora.
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IL MOSCETTO
CHARLEVILLE MODELLO 1777
Il moschetto
ad avancarica modello 1777 era il fucile di ordinanza delle truppe francesi
del periodo napoleonico. Derivato, con qualche modifica, da un modello
introdotto nei primi decenni del Settecento, fu prodotto in 2 milioni di
esemplari. Pesava circa 5 chili per un metro e mezzo di lunghezza, che
arrivavano quasi a 2 con la baionetta inastata (la baionetta aveva una lama
di 38 cm). Era robusto e il fucile poteva essere usato come clava. Il calibro
della canna, liscia al suo interno, era di 17,5 millimetri, ma la palla di
piombo aveva una circonferenza di circa 1 millimetro inferiore, per poter
scivolare facilmente al suo interno. Questa minima differenza, chiamata
tecnicamente vento, era sufficiente a rendere erratica la direzione della
palla: per colpire un bersaglio oltre i 100 metri bisognava essere molto
fortunati. La pietra focaia doveva essere sostituita dopo circa 50 colpi. Ma
in realtà mirare non era necessario: si sparava nel mucchio, contando
sull’effetto statico di tanti spari contemporanei, a un ritmo di 2-3 colpi al
minuto. Molto più importante era l’angolo di tiro: se la linea avversaria era
lontana gli uomini dovevano mirare al cappello, se era vicina ai piedi.
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L’ARTIGLIERIA.
Quella della
GraBatteria di cannoni da campagna francesi 75 mm Mle. 1897 in azione all'inizio della prima guerra mondiale.nde Armée era tra le più potenti e moderne del periodo. Napoleone stesso
era un artigliere e maestro nel suo impiego. Con il suo leggendario colpo
d’occhio, individuava un punto dello schieramento avversario contro il quale
concentrare il tiro di una Grande batteria di decine di pezzi in preparazione
di un attacco, tra cannoni e obici.
Ma i comandati
delle batterie di cannoni francesi erano anche capaci di portarsi a cento
metri o poco più dalle linee nemiche per falciarle con i pallettoni della
mitraglia.
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La strategia napoleonica.
Napoleone non si considerava un innovatore dell’arte
militare, ma fu indubbiamente geniale, riuscendo a raccogliere, unificare e
farsi interprete delle conoscenze e delle energie scaturite dal frenetico
dinamismo dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese. Sotto la sua guida i
corpi d’armata potevano disperdersi marciando su strade diverse, e quindi,
con colonne più corte, percorrere maggiori distanze giornaliere.
Procedere su percorsi diversi favoriva anche gli
approvvigionamenti, perché ogni armata prelevava almeno una parte delle
risorse di cui aveva bisogno razziando da un territorio differente, e quindi
dipendeva in misura minore dalle linee di rifornimento con i depositi
militari e la Francia. Al contrario per gli avversari le linee di
rifornimento erano un vitale cordone ombelicale che Napoleone poteva
recidere.
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Aggiramento.
L’aggiramento strategico è una delle manovre più
difficili da realizzare nella storia dell’arte militare, ma il suo successo
può portare a vittorie eclatanti. Lo scopo è prendere alle spalle
l’avversario tagliando la linea di comunicazione con la sua base logistica.
Se l’avversario non dispone di un’altra via di
rifornimento lungo la quale ripiegare in posizione più sicura, la sua
resistenza avrà le ore contate e potrà solo arrendersi o combattere in grave
svantaggio. Il rischio maggiore per chi effettua l’aggiramento, è quello di
essere scoperto mentre cerca di raggiungere le spalle del suo avversario: in
questo caso non solo la preda potrebbe sfuggire alla trappola, ma avrebbe
anche l’opzione di aggirarlo a propria volta. Napoleone era un maestro
nell’impiego di questa strategia: effettuava il proprio movimento con
energia, ma proteggendosi dietro schemi di cavalleria leggera o al riparo di
ostacoli geografici come boschi e fiumi e gli valse le vittorie di Mondovì,
Arcole, Marengo, Ulm e Jena.
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Posizione centrale.
Napoleone si trovò spesso a
combattere contro nemici più numerosi, che lo attaccavano da più direzioni
nello stesso momento. Il pericolo maggiore per la Grande Armée consisteva
nell’eventualità che essi riuscissero a riunirsi in un’unica grande massa,
riuscendo così a vincere per il semplice peso dei numeri. La strategia della
posizione centrale consisteva nell’inserirsi come un cuneo tra gli avversari
schierando i corpi d’armata come i vertici di una losanga, e mantenendo tra
un corpo e l’altro distanze brevi e costanti, per esempio un giorno di
marcia. Quando uno dei vertici incontrava un’armata nemica, Napoleone poteva
concentrare contro di essa la parte maggiore delle proprie forze, riservando
le rimanenti al contenimento degli altri avversari. Sconfitto il primo
nemico, la Grande Armée muoveva il più rapidamente possibile contro il
secondo. Fu la strategia che Napoleone adottò nel 1815 contro britannici e
prussiani, purtroppo per lui, concusasi a Waterloo con scarsa fortuna.
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Riunione in campo.
Un aforisma del generale
cinese Sun Tzu che sicuramente Napoleone avrebbe condiviso recita: “Devi apparire debole quando sei forte, e
forte quando sei debole”. Un principio che l’imperatore poteva applicare
grazie all’agilità conferita alla Grande Armée dall’organizzazione in corpi
d’armata. I corpi d’armata francese marciavano divisi e il nemico non aveva
precisa nozione sulla consistenza e la disposizione del proprio avversario.
Al contrario Napoleone sapeva di poter iniziare una battaglia lasciando
intendere di essere in inferiorità numerica, contando sul fatto che altre
truppe lo avrebbero raggiunto durante il suo corso. In più di un’occasione
questo costringeva gli uomini a marce incredibili, come quando il corpo di
Davout dovette percorrere 120 chilometri in 50 ore per arrivare puntuale e
naturalmente decisivo, sul campo di battaglia di Austerlitz.
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L’organizzazione delle forze
armate.
L’unità fondamentale di fanteria
era il battaglione. Più battaglioni venivano riuniti in un reggimento,
chiamato inizialmente “demi-brigate” dai francesi perché due di essi
formavano una brigata, la maggiore unità composta da un’unica arma, al
massimo con qualche cannone leggero di accompagnamento.
Due o più brigate a loro volta
formavano una divisione. Queste ultime, di più armi, componevano un corpo
d’armata e, infine, più corpi d’armata riuniti costituivano l’armata.
Suddividere una di queste in più corpi forniva ai francesi un’elasticità
strategica sconosciuta agli altri eserciti. Formata da un cuore di divisioni
di fanteria, supportato da reggimenti di cavalleria e batterie di
artiglieria, disponeva delle forze necessarie ad agire come entità autonoma e
poteva affrontare il combattimento anche contro forze molto superiori. In
ogni campagna Napoleone determinava attentamente la composizione dei corpi,
prevedendo per ciascuno di essi un ruolo preciso nel suo disegno delle
operazioni strategiche.
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L’analisi: Austerlitz, la campagna
esemplare.
La resa del generale Mack a Ulma
La campagna del 1805 fu coronata
dalla straordinaria vittoria di Austerlitz. Le settimane iniziali, tuttavia,
videro un suvcesso meno celebrato ma decisivo, ottenuto grazie a una geniale
manovra strategica. Una potente coalizione austro-russa si stava concentrando
in Germania per invadere la Francia: il generale austriaco Karl Mack von
Leiberich, con 40mila uomini, attendeva l’arrivo delle armate russe a Ulm, in
una posizione protetta alla congiunzione tra il Danubio e il suo affluente
Iller. Un ritardo dei russi provocò lo slittamento dei tempi previsti: una
breve finestra temporale durante la quale i due alleati sarebbero stati
troppo lontani per aiutarsi reciprocamente. Era un’occasione che Napoleone
.non si fece sfuggire. Mentre la sua riserva di cavalleria confondeva il
nemico illudendolo che il principale attacco sarebbe venuto dalla Selva Nera,
il 25 settembre 1805 la Grande Armée attraversò il Reno. Sei torrenti di
uomini nascosti da un schermo di cavalleria aggirarono veloci Ulm
costringendo Mack alla resa il 20 ottobre.
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ANATOMIA DI UNA BATTAGLIA. Lo svolgimento dello
scontro dipendeva non solo dall’abilità del comandante, ma anche dalle
circostanze in cui si trovava e dal controllo che aveva sulle sue truppe. La
situazione sul terreno era caotica e la visibilità limitata dagli elementi del
paesaggio e dalle condizioni atmosferiche, oltre che dal fumo prodotto da
moschetti e cannoni. La battaglia era un crudele e vorace falò: la vittoria
sarebbe andata a chi manteneva viva la fiamma più a lungo, a chi possedeva
l’ultima risorsa per alimentarla. Per questo motivo era importante che il
comandante disponesse di una riserva: essendo le uniche forze tenute lontane
dalla linea del combattimento, erano anche le sole che egli potesse controllare
direttamente, la sua speranza di vittoria se un geniale (o fortunato) colpo
d’occhio lo assisteva nell’individuare un punto debole del nemico sul quale
esercitare uno sforzo decisivo, oppure la sua ultima possibilità di contenere
gli effetti potenzialmente catastrofici di una sconfitta, utilizzando quelle
truppe per arrestare o almeno rallentare un nemico dilagante. Le unità d’élite
della guardia, quando presenti, artiglieria e reggimenti di cavalleria pesante
sono le truppe che costituiscono preferibilmente la riserva. Napoleone in
battaglia usava frequentemente la cavalleria della Guarda, ma era molto
prudente nell’impiego della sua fanteria di èlite, in particolare della Vecchia
Guardia. Il combattimento è aperto dalle schermaglie tra le fanterie leggere,
che sciamano sul terreno dando il tempo ai battaglioni di linea di schierarsi.
Gli uomini agiscono dispersi in piccoli gruppi, che fanno fuoco libero e
mirato, quando è possibile sugli ufficiali nemici, riconoscibili dalle vistose
uniformi. Il loro compito si conclude quando i battaglioni sono pronti allo
scontro principale. Gli attacchi della fanteria sono preceduto da un intenso
fuoco di artiglieria che Napoleone ha riunito a volte in una “grande batteria”,
ma il suo potere distruttivo è indispensabile anche nella difensiva. A Wagram,
il 6 luglio 1809, l’imperatore schierò una grande batterai di 112 cannoni per
fermare un intero corpo austriaco e poi la impiegò per appoggiare il proprio
contrattacco.
I comandanti
della Grande Armata.
Ecco chi
furono gli uomini chiave dell’esercito napoleonico.
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LOUIS-ALEXANDRE
BERTHIER (1753-1815) L’INSOSTITUIBILE.
Forse
l’uomo in assoluto più importante per Napoleone, perché come Capo di Stato
maggiore, riusciva a organizzare le sue intuizioni fulminee e a tradurle in
precisi ordini scritti.
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LOUIS-NICOLAS
DAVOUT (1770-1823) IL PIU’ TEMUTO.
Il
più abile tra i marescialli di Napoleone, dal quale aveva poco da imparare, e
il più temuto dagli avversari: ma anche, per questo, molto poco amato dallo
stesso imperatore.
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EMANUEL DE
GROCHY (1766-1847) L’INDECISO.
Unico
nobile di nascita nella nuova nobiltà napoleonica dei marescialli, su di lui
pesa come un macigno il fatto di non essere accorso con le sue unità verso il
rombo dei cannoni il giorno di Waterloo.
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JEAN LANNES
(1769-1809) IL TEMERARIO.
I
marescialli di Napoleone rischiavano la vita a ogni battaglia e Jean Lannes perse la sua per le gravi
ferite riportate durante quella di Essling. Riposa al Pantheon a Parigi.
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ANDREA MASSENA
(1758-1817) IL PIEMONTESE.
Abilissimo,
ma troppo interessato ai piaceri della vita: Napoleone dovette emettere un
ordine del giorno rivolto a tutti gli ufficiali per allontanare la sua amante
Silvia Cepolini.
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MICHEL NEY
(1769-1815) IL PIU’ PRODE TRA I PRODI.
La
sua abilità a Waterloo fu di gran lunga inferiore al suo coraggio: quel
giorno sotto di lui perirono 4 cavalli, ma la morte lo risparmiò per il
plotone di esecuzione durante la Restaurazione.
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JOACHIM MURAT
(1767-1815) IL COGNATO.
Grande
comandante di cavalleria e re di Napoli in virtù del matrimonio con Caroline,
sorella di Napoleone, venne fucilato a Pizzo Calabro quando tentò di
riconquistare il trono.
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NICOLAS-CHARLSE
OUDINOT (1767-1848) IL GRANATIERE.
I
granatieri non temono la morte. Oudinot, che li comandava, dava l’esempio: fu
ferito 35 volte in battaglia, ma morì alla venerabile età di 81 anni nel suo
letto.
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LOUIS-GABRIEL
SUCHET (1770-1826) UN UOMO GIUSTO.
Secondo
Napoleone ne sarebbero serviti due come lui per conquistare la Spagna; e si
guadagnò il rispetto dei nemici punendo gli abusi delle truppe francesi.
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NICOLAS-JEAN
DE DIEU SOULT (1769-1851) L’AMBIZIOSO.
Nonostante
in 17 anni fosse salito dal grado di caporale a quello di maresciallo
dell’Impero, Soult fu anche un abile e apprezzato politico durante la
Restaurazione.
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CARICARE IL NEMICO. Lunghe vie parallele di
fanti muovono lentamente in avanti a passo cadenzato dal tamburo, seguendo la
direzione delle bandiere. Giunti almeno a un centinaio di metri scaricano i
loro moschetti sull’avversario ubbidendo disciplinatamente agli ordini di
ufficiali e sottoufficiali. Le perdite sono terribili, soprattutto alle
distanze più ravvicinate, sotto i 50 metri, e si sommano a quelle causate
dall’artiglieria che abbatte gli uomini come birilli con i colpi a palla e ne
falcia letteralmente i ranghi con la scarica di pallettoni della mitraglia. Gli
scontri alla baionetta sono molto rari, ma anche il solo annuncio di un assalto
può essere decisivo. Gli uomini che ricevono l’ordine possono rifiutarsi di
eseguirlo e fuggire. Se il coraggio li assiste, allora è l’avversario che
potrebbe perdersi d’animo e scappare. Se invece i difensori contrattaccano,
allora è l’attaccante che a volte ci ripensa e abbandona l’impresa. Serve la
volontà di entrambi per infilzarsi con le baionette o spaccarsi le teste con il
calcio del moschetto, e sono in particolare luoghi chiusi come boschi, città,
opere difensive a essere scenario di mischie furiose tra i soldati resi
spietati dall’odio reciproco (la campagna del 181, per esempio, si distinse per
il numero e l’intensità degli scontri corpo a corpo, a causa del rancore
accumulato dai prussiani per le umiliazioni subite negli anni precedenti). Contemporaneamente
la cavalleria ha iniziato le sue cariche nei tratti di terreno più ampi e
regolare, dove gli animali non rischiano di azzopparsi. Anche gli squadroni si
allineano l’uno all’altro, e avanzano ordinatamente, aumentando l’andatura con
l’avvicinarsi del nemico, fino letteralmente a scontrarsi come ad Austerlitz,
dove il fragore dell’impatto tra 4 reggimenti di cavalleria pesante francese
contro un analogo contingente austro-russo si udì per tutto il campo di
battaglia. se ai fanti può essere risparmiato l’orrore dello scontro fisico,
occhi negli occhi, per i cavalieri è la norma. Ci si batte all’arma bianca, con
la spada o la sciabola, perché anche i lancieri abbandonano la loro arma dopo
il primo impatto.
Le sue più
grandi battaglie.
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AUSTERLITZ 2
dicembre 1808.
Il
capolavoro di Napoleone contro la coalizione austro-russa: non solo
l’imperatore anticipò le mosse degli avversari, ma seppe anche spingerle
nella direzione desiderata.
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JENA-AUERSTADT
14 ottobre 1806
Una
doppia battaglia che Napoleone vinse contro i prussiani in virtù della
maestria con la quale dominava i principi strategici della posizione
centrale.
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EYLAU 8
febbraio 1807.
Nella
neve dell’inverno prussiano, una delle più grandi cariche di cavalleria della
storia, forte di 11mila sciabole, guidata dal Maresciallo Murat, salvò
Napoleone dalla sconfitta.
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FRIEDLAND 14
giugno 1807.
I
russi sono nuovamente sconfitti da Napoleone in Prussia, questa volta in modo
definitivo. Lo zar è costretto ad aderire al blocco continentale contro la
Gran Bretagna.
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WAGRAM 5-6
luglio 1809.
Nel
1809 sono gli austriaci a prendere le armi contro Napoleone, che li ha già
sconfitti più volte nelle campagne d’Italia. Ma è una vittoria pagata a caro
prezzo: ben 34mila morti.
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FUENTES DE
ONORO. 3-5 maggio 1815.
La
guerra nella Penisola Iberica fu un’ulcera per Napoleone, un’inarrestabile
emorragia di uomini: e nemmeno l’abile maresciallo Massena riuscì a guarirla
con una vittoria.
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BORODINO 7
settembre 1812.
Durante
la campagna di Russia Napoleone cercò sempre una battaglia decisiva contro le
truppe dello zar. A Borodino ottenne solo un sanguinoso e inconcludente
scontro frontale.
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LIPSIA 16-19
ottobre 1813
Circondando
su più lati da forze quasi doppie, a Lipsia la stella di Napoleone, già
compromessa dalla disastrosa ritirata di Russia, era ormai nella sua parabola
discendente.
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LA BOTHIERE 1
febbraio 1814.
Con
soli 40mila uomini contro i 120mila comandata di Bucher, Napoleone compì un
vero miracolo di tattica: riuscì a ritirarsi e infliggendo ai nemici perdite
superiori alle proprie.
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WATERLOO 18
GIUGNO 1815
L’ultimo
atto di Napoleone, un uomo affaticato da troppe battaglie e circondato da
nemici spietati, potenti e decisi una volta per tutte lui e il suo ordine
dall’Europa.
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IL MOMENTO DECISIVO. Le unità vengono
gettate nella mischia una dopo l’altra, spesso anche in modo casuale, per la
decisione improvvida di un comandante subordinato che ha perso la testa. Altre
volte è proprio l’iniziativa di un ufficiale che sa cogliere l’attimo giusto
per intervenire a decidere di una battaglia. Dopo ore di combattimenti, le
perdite umane e il logorio fisico e nervoso rompono l’equilibrio iniziale delle
forze. Cadaveri letteralmente fatti a pezzi, feriti che urlano di dolore, gli
sguardi sempre più smarriti dei pochi commilitoni rimasti vivi, nemici che
arrivano da ogni parte sempre più numerosi, e sembrano precludere ogni via di
scampo, l’istinto di sopravvivenza dei singoli prende il sopravvento. Come un
castello di sabbia colpito da onde di marea, uno dei due eserciti inizia a
sfaldarsi. A gruppi, gli uomini si sottraggono alla lotta, e tanto maggiore è
il loro numero, tanto meno gli ufficiali e i sottoufficiali possono riuscire a
trattenerli a loro posto. È il momento per cogliere la vittoria, impiegando la
riserva tenuta a riposo per questo sforzo decisivo: migliaia di uomini sembrano
accorgersi contemporaneamente che non c’è più speranza ed è come se crollasse
una diga.
Ogni resistenza è
finita, ma non ancora la battaglia, che può conoscere un’ultima sanguinosa
fase: l’inseguimento, durante il quale i fuggitivi, ormai inermi, saranno
massacrati spietatamente o fatti prigionieri dalla cavalleria nemica.
L’esercito vittorioso, esausto, può contare le proprie perdite, assistere i
feriti, spogliare i morti dei propri beni.
Articolo in gran parte
di Nicola Zotti pubblicato su Storie di guerre e guerrieri Antologia n. 1.
Altri testi e foto da wikipedia.
La rivoluzionaria
ambulanza di Larry.
Un medico francese
ideò un sistema per soccorrere rapidamente i feriti sul campo di battaglia, le
cosiddette “ambulanze volanti”.
La medicina sul campo di
battaglia.
|
1792
Pierre-Francois Percy pubblica
Manuel du chirurgien d’armée: i feriti vanno trattati in base alla gravità
delle lesioni.
|
1792
Dominque Larrey inventa un sistema
di ambulanze volanti per prestare soccorso ai feriti.
|
1793
Durante i tre mesi in cui dura
l’assedio di Magonza per la prima volta vengono usate le ambulanze di Larrey.
|
1798
Larrey organizza una squadra di
ambulanze volanti e di chirurghi per le campagne di Napoleone in Egitto.
Napoleone e Larrey, rivista L'Artiste
|
1810
Il sistema
ferito-ambulanza-chirugica viene esteso a tutti i livelle della Grande
armata.
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Nel
XVII secolo le battaglie lasciavano un impressionante numero di morti. Non solo
a causa dei micidiali armamenti dell’epoca, ma anche al ritardo con cui si
soccorrevano i feriti, che dovevano aspettare la conclusione del combattimento
per poter ricevere assistenza. Sempre che non vincessero gli avversari: in quel
caso potevano venire derubati di ogni avere e uccisi, o essere abbandonati a
una crudele agonia.
In piena Rivoluzione
francese un giovane medico transalpino di nome Dominique-Jean Larry inventò un
sistema per ridurre questi tempi di attesa. Dopo gli studi di medicina e la
specializzazione in chirurgia, nel 1792 Larrey si unì all’esercito
rivoluzionario che combatteva al confine con la Germania, dove ebbe modo di
rendersi conto della disorganizzazione dei servizi sanitari al fronte. Ideò
pertanto un sistema di carrozze trainate da cavalli per trasportare rapidamente
il paziente all’ospedale da campo e operarlo nelle 24 ore successive. Le
ambulanze volanti si ispirarono al funzionamento dell’artiglieria volante a
cavallo che accompagnava gli attacchi delle avanguardie. Pensate per agevolare
il più possibile il trasporto dei soldati ai centri chirurgici, consistevano in
cassoni di legno dal coperchio arrotondato, con pannelli laterali rivestiti,
due finestrelle su entrambi i lati lunghi e porte a doppio battente anteriori e
posteriori. All’interno quattro rulli permettevano di far scorrere facilmente
la base, sulla quale era collocato un materasso rivestito di pelle.
MEDICINA DI EMERGENZA. Le ambulanze di Larrey
furono utilizzate per la prima volta nel luglio del 1793, durante l’assedio di
Magonza. Un generale scrisse che avevano contribuito “a salvare molti coraggiosi difensori del nostro Paese”. Un altro
giovane generale, Napoleone Bonaparte, si interessò al sistema e volle con sé
Larry nella campagna in Italia. Ai suoi ordini, nel 1797 Larrey creò un’unità
di ambulanze e una scuola di chirurgia a Udine. Mise anche in funzione il
sistema di triage, riprendendo il lavoro del medico francese Pierre.Francoise
Percy, grazie al quale si stabiliva la maggiore o minore urgenza con cui
assistere i soldati in base alla gravità della ferita, e non al grado o alla
posizione che occupavano nell’esercito. Nel 1798 Larry prese parte alla
spedizione di Napoleone in Egitto. Qui organizzò tre unità, ciascuna formata da
16 ambulanze volanti trainate da muli o da cammelli, 15 chirurghi e decine di
ausiliari. Dopo averle viste in azione, il generale corso si congratulò con
Larrey: “La vostra opera è una delle più
belle idee del nostro secolo; saprà garantirvi da sola una fama meritata”.
Nella battaglia di Abukir del 1799 (vedi articolo su questo blog) molti dei
feriti francesi riuscirono a salvarsi grazie al rapido soccorso prestato dalle
ambulanze.
La carenza di carrozze
e alcuni problemi amministrativi limitarono inizialmente a poche unità
dell’élite questo sistema, che si sarebbe progressivamente esteso agli altri
livelli della Grande armata.
Articolo in gran parte
di Enrique F. Sicilia Cardona pubblicato su Storica National geographic del
mese di agosto 2018. Altri testi e immagini da wikipedia.
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