Roma corrotta.
Dalla repubblica
all’impero, coi soldi si comprava tutto, politici compresi. Un po’ come oggi.
«Ceterum censeo Carthaginem esse delendam!»
(IT)
«Per il resto ritengo che Cartagine debba essere distrutta!»
(Porcio Catone, da Plutarco, Vite parallele, Vita di Catone)
Marco Porcio Catone (in latino: Marcus Porcius Cato; nelle epigrafi M·PORCIVS·M·F·CATO; Tusculum, 234 a.C. circa – Roma, 149 a.C.) è stato un politico, generale e scrittore romano, chiamato anche Catone il Censore (Cato Censor), Catone il Sapiente (Cato Sapiens), Catone l'Antico (Cato Priscus), Catone il Vecchio per aver superato di molto l'età media massima di vita allora a Roma o Catone il Maggiore (Cato Maior) per distinguerlo dal pronipote Catone l'Uticense
“Chi commette furti a danno dei
privati passa la vita ai lavori forzati, chi commette furti nelle sue funzioni
pubbliche vive in mezzo al lusso”: ci aveva visto lungo
l’oratore Marco Porcio Catone (234 a.C.-149 a.C.) che si guadagnò sul campo il
soprannome di Censore per la sua instancabile lotta contro le ruberie dei
politici. Anche gli antichi Romani conobbero infatti la corruzione da parte di
amministratori o rappresentanti pubblici, sebbene avessero soprattutto agli
inizi del loro dominio, un’alta idea di morale e rispetto delle istituzioni.
L’elenco dei misfatti è sempre lo stesso fin d’allora: uso illecito di denaro
pubblico, furti di bottini o tesori, tangenti, abusi di di potere e,
ovviamente, compravendita di voti. Inizialmente il fenomeno era limitato e in
un certo senso utile: gli antichissimi rapporti clientelari tra cittadini
liberi e patroni (spesso patrizi che, in cambio del consenso, davano protezione
e assistenza) garantirono la stabilità di Roma. Ma quando nel II secolo a.C. la
repubblica si espanse, offrendo nuove possibilità di fare soldi e diventare
influenti, tutto cambiò. “Nel momento in
cui le ricchezze, grazie alle conquiste militari, affluirono copiosamente, la
ricerca spasmodica di clientele divenne causa di corruzione. Il politico
portava avanti la propria campagna elettorale con i suoi soli mezzi, e molte
volte s’indebitava; per pagare i debiti, era costretto a macchiarsi di episodi
di concussione ai danni dei sudditi di Roma”, spiega Luca Fezzi, docente di
Storia Romana all’Università di Padova.
GHIOTTA OCCASIONE. Con la costituzione
della prima provincia romana, la Sicilia nel 241 a.C., e la successiva creazione
di una mio sistema provinciale la corruzione trovò terreno fertile. Il governo
centrale non era in grado di controllare direttamente l’immenso territorio
conquistato: quindi inviò dei governatori, in genere magistrati, ex propretori
o ex proconsoli, nominati annualmente e affidò la riscossione delle tasse a
degli appaltatori privati (i pubblicani), che spesso abusavano dei loro poteri
chiedendo denaro in più. I magistrati non erano retribuiti dallo Stato (anche
se ricevano un rimborso), così cercavano di arricchirsi e coprire le
inevitabili spese legate al loro ruolo per ottenere gli appoggi necessari alla
nomina. I più disonesti non si facevano scrupoli a sottrarre ricchezze
all’erario e a lasciare mano livera ai pubblicani, in cambio di una partecipazione
ai guadagni.
LA LEGGE NON BASTA. Sebbene con pochi
risultati, Roma tentò di bloccare la corruzione con la legge. “Nel 149 a.C., contro la malversazione dei
governatori, il tribuno Calpurnio Pisone emanò la Lex Calpurniadi repetundis,
che istituì una corte di giustizia per i reati di concussione ed estorsione, la
cosiddetta questio de repetundis. Nei decenni successivi seguirono altre leggi,
come la Lex Acilia repetundarum, voluta nel 122 a.C. dal tribuno Caio Gracco”
spiega Simonetta Segenni, docente di Storia romana nell’Università di Milano.
Le accuse di corruzione di cui ci parlano le fonti sono bipartisan. Ci sono
quelle rivolte ai magistrati costruite ad hoc da senatori rivali allo scopo di
danneggiarne la carriera, e ci sono episodi di assoluzioni o insabbiamenti
processuali anche di fronte a un’evidente colpevolezza, complice la corruzione
di qualche giudice. Contava avere la difesa giusta e influente, affidata agli
oratori, che pronunciavano la loro arrigna in pubblico. “In età ciceroniana i processi si svolgevano in corti presiedute da un
pretore e costituite da membri del Senato e poi del ceto equestre, la ricca
classe imprenditoriale. Le condanne erano severe: un’ammenda superiore a quello
che era stato rubato e, per la rilevanza politica dei crimini (specie la
concussione), la pena capitale, commutabile in esilio”, spiega Luca Fezzi.
I trucchi di Sallustio.
Acquistò una villa a Tivoli e fece
costruire un sontuoso palazzo nei pressi del Quirinale (gli Horti
Sallustiani), grazie al denaro furto di tangenti e ruberie, Gaio Sallustio
Crispo, conosciuto soprattutto come storico, abbellì Roma con un’opera
notevole: una villa circondata da un immenso parco con porticati, terme,
piscine, piccoli templi e piante rare. Peccato che quella dimore fosse anche
il simbolo dello sfarzo corrotto di moltissimi politici romani.
INCORREGGIBILE. Sallustio venne
accusato più volte di corruzione durante la sua carriera. Cacciato già una
volta dal Senato per indegnità morale, nel 46 a.C. fi comunque nominato da
Cesare propetore nella provincia in Africa Nova (già regno di Numidia, ora
Algeria) e lì si arricchì a dismisura grazie ad appalti truccati e taciti
accordi con personalità locali. Non solo: pare che buona parte del suo bottino
sia stato accumulato impadronendosi delle ricchezze dell’ultimo re di
Numidia, Giubia I. Questo gli consentì di commissionare i celebri Horti, di
fatto i giardini più grandi e lussuosi del mondo romano. Tornato a Roma nel
44 a.C. Sallustio fu giudicato per concussione e malgoverno, ma riuscì ad
evitare la condanna. Dopo un’ulteriore accusa Cesare lo spinse a ritirarsi a
vita privata.
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IL PEGGIORE. Il caso più noto giunto a noi è
indubbiamente quello di Gaio Licinio Verre, governatore della Sicilia dal 73 al
70 a.C. Furono ben 64 città dell’isola, stufe dei soprusi del magistrato ad
accusarlo, chiedendo di essere difese da Cicerone: “Ho portato in tribunale un uomo che è stato dilapidatore del denaro
pubblico, rovina e flagello della provincia di Sicilia”, racconta l’oratore
nelle sue Verrine. Secondo le fonti, Verre, tra estorsioni, ruberie e persino
saccheggi di opere d’arte, accumulò la spaventosa cifra di 40 milioni di
sesterzi (circa 20 milioni di euro di oggi). Attraverso la sua arringa,
Cicerone smascherò platealmente quella classe dirigente che assomigliava sempre
più a una casta, e chiese per il governatore il pagamento di 100 milioni di
sesterzi. Verre, condannato, riuscì a fuggire in esilio volontario e a pagarne
solo tre.
Voti all’ingrosso.
Nell’antica Roma era
piuttosto comune che i canditati politici comprassero il consenso e i voti a
suon di sesterzi, e non solo attraverso i rapporti clientelari. Nonostante la
legge lo vietasse, infatti, era consuetudine consolidata garantirsi
l’appoggio della tribù o della fazione di appartenenza, promettendo e
distribuendo denaro una volta ottenuta la carica. Del periodo di campagna
elettorale beneficiavano anche i Romani dei ceti inferiori, che gli aspiranti
politici adescavano nei mercati e nei villaggi. “Quando Catone Uticense, pronipote del censore, nel 54 a.C. cercò di
porre argine alla pratica della corruzione elettorale, rischiò addirittura di
essere linciato dai cittadini, che lamentavano la perdita di un’importante
fonte di reddito”, racconta Luca Fezzi.
NON TUTTI I MALI… si
caldeggiavano voti offrendo banchetti, posti a teatro e attraverso
l’organizzazione di ludi e giochi di gladiatori, tanto che nel 63 a.C.
Cicerone promosse una legge che
impediva di presentarsi alle elezioni a che aveva organizzato giochi nei due
anni precedenti. Questi spettacoli, comunque, furono fino all’età tardo antica
anche luogo di confronto politico con i cittadini e un’occasione per
esprimere consenso o dissenso.
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GIU’ LE MANI. nell’età
imperiale la vena corruttiva dei politici romani non si arrestò, anzi. Il
sempre più gigantesco apparato amministrativo, i giochi di potere e i rapporti
clientelari contribuirono al dilagare di un altro fenomeno: tangenti pagate in
cambio di cariche. Un meccanismo che minò l’impero dall’interno.
Nell’ambito
del diritto privato non mancarono intromissioni ed interferenze da parte dei
funzionari imperiali, in costante concorrenza tra di loro; durante il
principato di Adriano (iniziato nel 117 d.C.), anche per fare un po’ di ordine,
fu redatto dal famoso giurista Salvio Giuliano l’Editto perpetuo, un insieme di
norme alle quali i magistrati dovevano attenersi senza poter introdurre
modifiche non autorizzate. La legge doveva essere un po’ più uguale per tutti.
Articolo
in gran parte di Arianna Pescini pubblicato su Focus Storia n. 143. Altri testi
e immagini da Wikipedia.
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