domenica 26 aprile 2020

Roma va in vacanza. I turisti nell’antichità.

Roma va in vacanza. I turisti nell’antichità.

 

Se andavano in Grecia o in Egitto, gli antichi romani non perdevano occasione di visitare i monumenti più celebri. I più famosi avevano anche delle ville marittime dove trascorrevano i mesi estivi con gli amici.


 

Pompei era una fiorente località. Molti facoltosi 

romani possedevano ville di lusso all'interno della 

cittadina ai piedi del Vesuvio o nei dintorni 

Litografia degli scavi nel 1850


A Roma si possono forse rintracciare le origini di un’usanza praticata oggigiorno da milioni di persone: il turismo. Se infatti viaggiare era un’attività comune tra gli antichi romani, che si spostavano per i motivi più svariati (commerciali, professionali, familiari, personali, religiosi, intellettuali o militari), c’era anche chi viaggiava per puro piacere, soprattutto tra le classi agiate. Lo stesso termine turismo viene dal francese tour, che a sua volta rimanda al latino tornare (‘girare’) e contiene implicitamente l’idea di un viaggio con un rientro, non diversamente dalle ferie estive dei nostri giorni. I nobili romani distinguevano tra il negotium, il tempo dedicato alle faccende e agli impegni quotidiani, e l’otium. Quest’ultimo era il periodo di riposo, in cui si allontanavano dal caso urbano per rifugiarsi in una delle numerose ville marittime ai piedi del Vesuvio o per esplorare i monumenti delle province orientali, soprattutto ne caso degli ufficiali e degli amministratori che lavoravano in quelle regioni.

 

Turisti e viaggiatori romani.

 

75 a.C.

Mentre esercita come questore a Lilibeo (Sicilia), il giovane Cicerone visita l’isola e scopre la tomba di Archimede.

64 a.C.- 19 d.C.

Strabone scrive la Geografia, in cui racconta anche il suo viaggio in Egitto con il prefetto Ellio Gallo.

I secolo d.C.

Plinio il Giovane descrive le piacevoli attività cui si dedica quando si ritira in una delle sue ville di campagna.

117-138 d.C.

L’imperatore Adriano trascorre gran parte del suo regno viaggiando per l’impero con una particolare predilezione per la Grecia.

160-180 d.C. circa

Nella sua Guida della Grecia in dieci volumi Pausania descrive le località e i monumenti che reputa degni di interesse.

Una carta stradale.

La tabula Peutingeriana è l’unica mappa conosciuta che mostra la rete di vie dell’impero romano, del Vicino Oriente e dell’Asia fino all’India e allo Sri Lanka.

Composta da undici pergamene, è una copia del XIII secolo circa di un originale risalente probabilmente al IV secolo d.C. ed è conservata nell’ex biblioteca delle carte imperiali di Vienna.ù

Tabula Peutingeriana: Pars IV - Segmentum IV; Rappresentazione delle zone Apuane con indicate le colonie di PisaLuccaLuni, il nome "Sengauni" e, poco sotto segnato con un puntino, il "Foro Clodi" posto a "XVI" miglia nell'entroterra a nord di Luni ove incontrava la strada che risaliva il fiume Serchio; il tratto Pisa-Luni non è ancora collegato

 

Il desiderio di conoscere il mondo. I romani non erano immuni al fascino irresistibile del viaggio. Non a caso nel corso del II e del III secolo d.C. si diffusero i racconti di avventure esotiche (come ‘Leucippe e Clitofonte’, ‘Le efesiache’ e ‘Le etiopiche’), grazie ai quali i lettori potevano immedesimarsi nelle giovani coppie di innamorati che si ritrovavano al termine di varie peripezie tra tribù etiopi, pirati greci e despoti orientali. Achille Tazio, Senofonte Efesio ed Eliodoro di Emesa sono alcuni dei nomi di questi “Salgari dell’antichità classica”, che sapevano trasportare il loro pubblico in località remote con la semplice forza dell’immaginazione. I bibliofili più colti potevano sfogliare anche i volumi delle periegesi, le narrazioni descrittive dei monumenti architettonici e scultorei più famosi del passato. Erano diffuse soprattutto quelle greche, ma ce n’erano anche dell’Asia Minore o dell’Italia meridionale.

Rispetto alle guide di viaggio di oggi le periegesi potrebbero essere definite dei trattati storico-artistici che informavano i lettori in merito alle usanze specifiche di una determinata zona e descrivevano i principali complessi religiosi e le rispettive feste e tradizioni. Plinio il Vecchio riferiva che i suoi contemporanei adoravano letture di questo tipo, in particolare quelle su Egitto, Grecia e Asia. Seneca, dal canto suo, amava uscire dalla città perché questo gli permetteva di conoscere persone nuove e scoprire meraviglie naturali prima sconosciute, specialmente i fiumi (un elemento naturale, spesso divinizzato, che esercitava un grande fascino sugli antichi), tra i quali citava il Tigri, il Nilo e il Meandro. Insomma, sono  gli stessi greco-romani a fornirci informazioni sulle principali destinazioni turistiche dell’epoca e sui punti di interesse artistico e naturalistico presenti in questi luoghi.

 

Attraverso la Grecia. Alcune regioni esercitavano un’attrazione particolare sui viaggiatori grazie al loro patrimonio culturale. L’Ellade e le province asiatiche evocavano reminiscenze delle tragedie classiche e dei poemi omerici. A Pilo si venerava il sepolcro di Nestore; ad Atene la tomba di Edipo; Oreste riposava a Sparta, mentre Agamennone e Ifigenia giacevano a Micene. A Troia, cui i romani erano particolarmente legati per le origini del loro eroe Enea, si potevano ancora intuire le tracce dell’accampamento degli assedianti achei o dell’altare di Zeus, dove il re troiano Priamo aveva perso la vita per mano di Neottolemo. Ciononostante la località era famosa soprattutto per le presunte tombe degli eroi omerici, come Ettore o lo stesso Achille, cui si recarono a rendere omaggio Giulio Cesare e alcuni dei suoi successori, come Adriano, Caracalla, Diocleziano e Costantino. Tra le tappe obbligate di un viaggio in Grecia c’erano destinazioni quali Corinto, Epidauro, Delfi, Sparta o Olimpia. In queste località si svolgevano importanti feste e giochi sportivi, che rappresentavano anche il momento migliore per una visita. Altre città erano famose per i loro monumenti locali: a Rodi, per esempio, c’erano i resti del Colosso, la cui massa bronzea di 33 metri di altezza raffigurante il dio Helios era crollata durante il terremoto del 226 a.C. I visitatori si divertivano ad esplorare i frammenti dei suoi enormi arti, trasformati in grotte artificiali, o a cercare di cingere il pollice della statua con le braccia, un compito che Plinio il Vecchio riteneva impossibile.

EGYPT-AMENHOTEPIII.JPG

Colossi di Memnone (anche noti in arabo come el-Colossat o es-Salamat) sono due enormi statue di pietra del faraone Amenhotep III. Eretti oltre 3400 anni fa nella necropoli di Tebe, lungo le rive del Nilo, di fronte sulla riva opposta all'attuale città di Luxor, le due statue facevano parte del complesso funerario eretto da Amenhotep III. Le statue successivamente alla morte del faraone divennero già famose nell'antichità, quando, in seguito al loro progressivo degrado, da una di esse si propagarono dei rumori, che all'epoca furono interpretati come il saluto dell'omonimo eroe a sua madre.

sulle basi di queste statue che si ergevano all'ingresso del tempio funerario di Amenofi III sulla riva occidentale del Nilo ci sono almeno 90 iscrizioni lasciate dai viaggiatoir romani a testimonianza della loro visita. 

 

Appassionati d’Egitto. Ma la terra che più meraviglia suscitava nel turista romano era l’Egitto. La stranezza dei riti religiosi e della scrittura geroglifica disorientavano e al contempo affascinavano i visitatori. Anche i monumenti provocavano stupore e sconcerto, che si trattasse delle piramidi di Giza o delle tombe sotterranee della Valle dei Re, sulle cui pareti sono ancora visibili i segni del passaggio di centinaia di viaggiatori che vi hanno inciso nomi, date, brevi biografie, poiesi e opinioni. Sappiamo per esempio che un certo Isidoro, originario di Alessandria, studiò legge ad Atene, che il centurione Januarina e che Antonio trovò la valle quasi altrettanto stupefacente di Roma. Circa la metà delle incisioni è stata rinvenuta nella tomba di Ramses VI, in passato ritenuta il sepolcro di Platone e per questo meta di pellegrinaggio dei filosofi neoplatonici, che vi entravano con la riverenza di chi visita un tempio. Molti di questi grafiti non sono altro che i commenti lasciati dai turisti. “Non mi è piaciuto affatto, se non per il sarcofago”, scrisse qualcuno. Un avvocato di nome Bourichios era seccato perché non comprendeva i geroglifici: “Di questa scrittura non si capisce niente!”, scrisse.

Un altro monumento egizio di particolare richiamo era la coppia di sculture di Amenofi III conservate nel suo tempio funerario, nei pressi di Luxor. Greci e romani le ribattezzarono subito “colossi di Memnone”, ritenendo che una delle statue raffigurasse il re etiope alleato dei troiani. Al mattino, quando la brezza soffiava attraverso le crepe provocate dal terremoto, le statue emettevano un suono curioso, in cui molti credevano di riconoscere la musica di una lira, oppure un fischio o un pianto. C’era anche chi ingaggiava scalpellini locali per fare incidere sul colosso i propri componimenti, come un poeta lirico di nome Paeone che scrisse dei versi in onore del suo mecenate Mezio Rufo, o la poeta Giulia Balbilla, che viaggiava al seguito della moglie dell’imperatore Adriano, Vibia Sabina.

 

Lavoro e piacere. Anche chi era all’estero per svolgere missioni belliche o diplomatiche trovava il tempo per fare turismo. È il caso di Lucio Emilio Paolo, che dopo la vittoria di Pidna nel 168 a.C. e lo smembramento del vecchio regno ellenistico di Macedonia andò a rendere omaggio alla dea Atena sull’Acropoli ad Apollo presso il santuario di Delfi, ad Asclepio nel recinto sacro di Epidauro e, naturalmente, a Zeus nel tempio di Olimpia a lui dedicato. Ma non trascurò nemmeno altre località emblematiche come Aulide, in Beozia, da dove era salpata la spedizione greca contro Troia guidata da Agamennone, o l’istmo di Corinto, sede dei famosi giochi. Alcuni anni più tardi il senatore Lucio Memmio trovò il modo di coniugare ozio e impegni lavorativi nel corso di una visita alla città egiziana di Arsinoe, l’antica Crocodilpoli. Memmio fu accolto con tutte le attenzioni da un funzionario del re Tolomeo IX, tale Asclepiade, che durante la sua permanenza non gli fece mancare nulla: gli organizzò una visita al labirinto (il complesso funerario collegato alla piramide del faraone Amenemhat III) e gli procurò i tipici panetti che i turisti davano in pasto ai rettili da cui la città prendeva nome, e in particolare al più importante fra questi: il coccodrillo che incarnava il dio Sobek. Il geografo Strabone racconta che questo enorme animale trangugiava la frutta, i biscotti e il vino che i visitatori gli gettavano passando. Ma non c’era bisogno di andare dall’altra parte del Mediterraneo per godersi di una bella vacanza. A partire dall’epoca repubblicana molti patrizi romani cominciarono a dotarsi di una o più ville al mare o in campagna, dove si ritiravano quando volevano sottrarsi agli impegni quotidiani e dedicarsi a un otium completo.

 Nile Mosaic.jpg

l'Egitto era una delle mete turistiche preferite 

dai romani. Tra i più famosi capolavori dell'arte musiva del periodo ellenistico, un posto di rilievo occupa il Mosaico del Nilo di Palestrina.

Scoperto tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento all'interno della cosiddetta aula absidata del Foro Civile dell’Antica Praeneste, adibita allora a cantina del vecchio Palazzo Vescovile, è conservato dal 1956 nel Museo Archeologico Nazionale di Palestrina.

Case di villeggiatura. La zona preferita per le ville marittime era la Campania, che ospitava località emblematiche come Pompei, Ercolano e Stabia. La regione era facilmente raggiungibile da Roma e aveva un clima mite e spiagge attraenti che ne facevano un centro turistico privilegiato. Ben lo comprese all’inizio del I secolo a.C. l’imprenditore Caio Sergio Orata, che ristrutturava le ville del golfo di Napoli per poi venderle a caro prezzo ai senatori. Sulle spiagge campane il tempo trascorreva sereno, tra “le gozzoviglie, i canti, i concerti, le gite in barca”, secondo le parole di Cicerone. Plinio il Giovane descrive le occupazioni estive cui si dedicava nelle sue ville: la meditazione, la lettura, i massaggi, il bagno, la musica, la pesca e le gite a cavallo. Se era in compagnia di qualche altro vacanziere delle case adiacenti, il passatempo prediletto era la caccia. Nel IV secolo d.C. l’oratore Quinto Aurelio Simmaco, proprietario di decine di abitazioni, trascorreva il tempo con i suoi amici Macedonio e Attalo chiacchierando, leggendo e dedicandosi anche lui alla caccia, uno svago che tra gli aristocratici andava per la maggiore. Tra i nobili poi erano all’ordine del giorno i banchetti, spesso allietati da spettacoli di musica, teatro, danza o esibizioni che oggi si definirebbero circensi. Ummidia Quadratilla, illustre nobildonna vissuta circa duemila anni fa, disponeva di una compagnia di pantomimi, funamboli e ballerini che animava le sue serate. L’archeologia è riuscita a conservare vari esempi di queste lussuose abitazioni, spesso circondate da ampi giardini e ninfei, decorate con pitture e gruppi di sculture in marmo e in bronzo d’ispirazione greca, e dotate di biblioteche come quella della villa dei Papiri a Ercolano. Molte di queste residenze erano immense, come la villa del Pastore a Stabia, con i suoi quasi 10mila metri quadrati, o la vicina villa Arianna, approssimativamente di 13mila metri quadrati.

In questi sontuosi ambienti di rappresentanza sociale, il patrizio romano poteva dedicarsi al riposo spirituale e al divertimento intellettuale come un raffinato sovrano ellenistico nel suo palazzo.

 

la Grecia era una delle destinazioni preferite dei romani, 

che seguivano le orme di Omero e dei grandi filosofi. sopra il 

Tempio di Poseidone a capo Sunio.



Turismo culturale.

Cicerone approfittò del periodo in cui fu questore di Lilibeo (in Sicilia) per dedicarsi al turismo. Qui scoprì la tomba di Archimede come racconta lui stesso nelle Tusculanae “Mentre passavo in rassegna con lo sguardo i monumenti … notai una colonnina che poco sporgeva dai cespugli, sulla quale si trovava la figura di una sfera e di un cilindro. E io subito ai siracusani … dissi di ritenere che fosse proprio ciò che cercavo”.

Cicerone scopre la tomba di Archimede, dipinto del 1781 di Christian Wink.

Vacanzieri fuori controllo.

Baia era per i romani sinonimo di caos estivo e turismo di massa. Le locande, le ville e le strutture termali della cittadina campana non godevano di buona reputazione. Ovidio riferisce quanto fosse facile “andare a caccia” di donne sole e vedove. Seneca racconta di persone ubriache in spiaggia, orge e chiatte che attraversavano il lago Lucrino ospitando ogni sorta di dissolutezza. Le grida e i canti si intensificavano al calar della notte, tanto in riva al mare quanto nelle innumerevoli osterie. Il poeta Marziale sottolinea che anche una matrona esemplare come la fedele Penelope avrebbe lasciato Baia trasformata in Elena di Troia. Marco Terenzio Varrone dice: “Non solo le ragazze diventavano pubbliche prostitute, ma persino uomini anziani si comportavano da efebi”.

Feste popolari.

A Baia i romani agiati si dedicavano a tutta una serie di attività che per gli stoici, come il filosofo Seneca, erano ripugnanti: “Non ho nessuna voglia di vedere ubriachi vagare lungo le spiagge, feste di beoni sulle barche, i laghi risuonanti di concerti e altri eccessi di questo genere”.

Ville con giardino.

I palazzi urbani o rurali dei ricchi romani ospitavano magnifici giardini privati. Uno degli elementi protagonisti di queste vere e proprie oasi di pace era l’acqua, presente in fontane, laghetti o ruscelli. C’era anche una grande varietà di piante e uccelli, come per esempio colombe e pavoni, così come sculture ed elementi architettonici.

Le ville marittime dei patrizi romani.

Gli affreschi di Pompei mostrano le diverse tipologie di ville in cui i romani agiati cercavano tranquillità e svago.

Villa San Marco - Atrio termale.jpg

L'atrio termale di Villa San Marco


Una villa in riva al mare.

Nella sua opera ‘Immagini’ il filosofo Filostrato Maggiore descrive così il lusso di una villa affacciata sul golfo di Napoli: “Vivevamo fuori dalle mura, in un quartiere residenziale di fronte al mare; c’era un portico orientato verso lo zefiro (un vento proveniente da ovest), di quattro o cinque piani, con vista sul Tirreno. Ospitava varie sculture di marmo, che conferivano splendore all’edificio, ma il fiore all’occhiello erano i dipinti … collezionati con gran gusto che dimostravano il talento dei loro esecutori”. 

 

Affresco pompeiano con le nozze di Zefiro e Clori, simile a quelli descritti da Filostrat

La villa laurentina di Plinio il giovane.

Pianta della Villa ritenuta di Plinio il Giovane presso Laurentum

Nelle sue ‘Lettere’ Plinio il Giovane descrive così la sua villa a Laurento: “Sul davanti vi è un atrio semplice … cui segue un portico che in forma di una D racchiude una corte piccola ma graziosa. L’insieme offre un eccellente ricovero per il cattivo tempo giacché è protetto dalle vetrate e soprattutto dalle grondaie dei tetti … Tutt’intorno la sala ha delle porte, o delle finestre non meno grandi delle porte e così lungo i lati e di fronte essa sembra affacciarsi su tre mari …”.

 

Articolo in gran parte di Jorge Garcia Sanchez, università Complutense di Madrid pubblicato su Storica National Geographic del mese gennaio 2019 – altri testi e immagini da Wikipedia.


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