La marcia su Roma che
non ci fu.
Sostenuto da validi
argomenti, uno storico sostiene che la Marcia su Roma non ci fu, che tutto
avvenne nel modo più pacifico e condiviso: quel falso evento fu la soluzione di
una crisi politica senza sbocchi, mettendo in sella un uomo forte e risoluto. Così
nacque la leggenda della “rivoluzione fascista”.
I fascisti a Roma (1922
“La Marcia su Roma semplicemente non è mai avvenuta. Il 28 ottobre 1922 per la capitale è stato uno dei giorni più tranquilli di tutti quegli anni e probabilmente il fatto più rilevante che avvenne in quelle ore fu lo scambio di telegrammi del re con alcuni notabili. Il governo che nacque poco dopo, guidato da Benito Mussolini, era gradito a tutti e tutti vi presero parte. Fu solo in seguito che da una parte e dall’altra nacque la leggenda della marcia su Roma”. Quella che appare una rivelazione sconvolgente, ma che il professor Aldo Mola definisce solo un’attenta lettura dei fatti, al là dei luoghi comuni, è la ricostruzione storica di quelle ore convulse realizzata dall’autore ‘Mussolini a pieni voti? Da Facta al Duce. Inediti sulla crisi del 1922”.
Fu a posteriori che
nacque la leggenda del 28 ottobre, alimentata sia da fascisti, increduli per la
facilità della loro scalata ai vertici del potere, sia degli antifascisti, che
dovevano giustificare la scarsa o nulla resistenza opposta a quell’inatteso
colpo di scena. Anche negli anni successivi la Marcia su Roma servì a spiegare
un dato di fatto, ormai metabolizzato da tutto il Paese. “Il fascismo usò gli eventi di quei giorni per poter asserire che si
era affermato con la propria forza: per trovare una nobile genesi alla propria
presa del potere, che il Partito Nazionale Fascista voleva far passare come un
rivoluzione. In seguito – ma solo nel 1927 – si decise che sarebbe entrato in
vigore in Italia il calendario dell’era fascista, che cominciava proprio con la
presunta Marcia su Roma. Il mito però face comodo anche agli antifascisti che
in realtà nel 1922 erano più che altro forze antisistema: socialisti, comunisti
e repubblicani, i quali giusti cavano la propria inconsistenza politica
raccontando di essere stati sconfitti solo di fronte all’assalto armato di
forze incontenibili. In realtà, esse non godevano di alcun seguito popolare ed
erano ai margini della vita politica, da dove sarebbero riemerse vent’anni
dopo, a seguito dei disastri di una guerra devastante”, spiega il professor
Mola.
Le camicie nere sfilano davanti al Quirinale
Italiani frustati, impotenti e confusi. L’origine
egli eventi dell’ottobre 1922 va ricercata negli anni e nei mesi precedenti: lo
Stato liberale si stava dissolvendo, la fine della Prima guerra mondiale aveva
portato una forte crisi sociale, la lotta politica era sfociata in episodi di
violenza. Dopo la Grande guerra, l’Italia fu sconvolta dalla crisi economica,
mentre montavano i rancori per la presunta ‘vittoria mutilata’ (gli italiani
ritenevano di non aver ricevuto un compenso adeguato per la partecipazione al
conflitto, considerando l’enorme prezzo pagato in vite umane, oltre che in
risorse economiche). Si viveva in uno stato diffuso di rabbia e frustrazione,
che contrapponeva da un lato i socialisti più esagitati (quelli che volevano
fare come in Russia, dove nel 1917 c’era stata la rivoluzione comunista) e
dall’altro gli squadristi fascisti. Le violenze, però, ebbero il culmine negli
anni 1919-21, mentre nel 1922 erano già in calo. La politica restava in forte
crisi, una crisi sociale ed economica senza via d’uscita. Nessun uomo politico
sulla scena era in grado di risolverla, occorreva un personaggio nuovo che si
facesse carico del problema del Paese. dal 1919 era stata introdotta una legge
elettorale proporzionale, potevano votare tutti i cittadini maschi che avessero
compiuto 21 anni. Nel 1921 si erano tenute elezioni anticipate, dopo quelle del
1919, e ancora una volta non si era pervenuti ad alcuna maggioranza chiara in
Parlamento. Dopo che, in due anni, si erano susseguiti sei governi (i quali non
riuscivano a fare niente, tanto meno a fermare la crisi post bellica), nel
febbraio 1922, si era dimesso il governo Bonomi ne era seguita una crisi di due
mesi. Per uscire dallo stallo, re Vittorio Emanuele III aveva affidato
l’incarico di presidente del consiglio a Luigi Facta, un giolittiano che però
si dimise subito, a luglio, di fronte a un imponente sciopero sindacale filo
socialista, che invece era stato fallire dai fascisti, i quali nel caos
imperante si facevano sempre più spavaldi e agguerriti. A quel punto si era
insediato il secondo governo Facta, che aveva ricevuto la fiducia in Parlamento
il 7 agosto: data da tener presente, perché da quel giorno il Parlamento non fu
più convocato per mesi.
La prima seduta del Consiglio dei ministri nel 1922
Di fronte a una crisi
permanente che rischiava di uscire dai binari istituzionali (comunisti e
socialisti ne avrebbero approfittato per prendere il potere), a metà ottobre il
re, che era in viaggio in Belgio per una visita di stato, chiese al premier di
convocare le Camere per mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità.
Dice Mola: “In realtà, la politica stava
lavorando al di fuori delle istituzioni, il nodo era la proposta sotterranea di
creare un governo con i liberali di Giolitti, i cattolici popolari di Meda
(manovrati però da don Sturzo, esterno al Parlamento) e i socialisti. Ma Sturzo
pose il veto a un governo guidato da Giolitti”. Fu una decisione fatale.
A quel punto, però, era
chiaro per tutti che il governo al più presto sostituito, tanto più che non
sembrava in grado di garantire l’ordine pubblico, sebbene la violenza politica
fosse ormai in netto calo. Fu in questa situazione che Mussolini decise di
forzare la mano, minacciando quella che poi sarebbe passata alla storia come
Marcia su Roma. Così al Congresso fascista in corso a Napoli il 24 ottobre,
mentre parlava di mobilitazione, in realtà chiese tre ministeri per partecipare
a un governo di coalizione. Niente di rivoluzionario, quindi in un discorso ufficiale
Giolitti sostenne che era utile associare i fascisti al governo, con un numero
di ministri proporzionale alla loro presenza in Parlamento, che era solo di
circa 35 deputati su 535 (eletti pertanto nei Blocchi nazionali insieme ai
liberali). Nel frattempo, anche Facta trattava segretamente con Mussolini,
sperando di mantenere il posto di presidente del consiglio. Tutti trattavano
con tutti, ma nessuno concludeva. “Solo
il re, unico con la testa sul collo, chiedeva la parlamentarizzazione della
crisi”, sostiene Mola.
Il governo Mussolini in parlamento nel 1930
Il bluff vincente di un grande giocatore. In
quel contesto, Mussolini decise di forzare i tempi, usando la pressione della
piazza, e al congresso di Napoli dichiarò: “O ci danno il governo o ce lo
prenderemo, calando su Roma a prendere per la gola la miserabile classe
politica dominante!”. Da politico sopraffino quale era, Mussolini aveva capito
che fosse il momento giusto per giocare d’azzardo. E così, ordinò la
mobilitazione dei fascisti in tutte le città e organizzò le sue colonne, guidati
da quadrumviri Emilio De Bono, Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi e Michele
Bianchi. L’idea di marciare sulla capitale, per mostrare forza e
determinazione, era figlia della precedente impresa di D’Annunzio a Fiume:
d’altro canto, lo stesso Facta aveva ipotizzato una marcia, o meglio una
sfilata per il 4 novembre, anniversario della vittoria del 1918, a Roma,
guidata proprio da Gabriel D’Annunzio, per neutralizzare Mussolini. Ma
quest’ultimo riuscì ad accordarsi con poeta, per non essere scavalcato da una
figura più popolare della sua. Del resto D’Annunzio, poeta e uomo d’armi,
impavido avventuriero, in politica sarebbe stato un pesce fuor d’acqua e ne era
perfettamente consapevole: rischiava di essere un’occasione sprecata.
Lo stato maggiore fascista a Roma: (da sinistra a destra: Emilio De Bono, Benito Mussolini, Italo Balbo e Cesare Maria De Vecchi)
Mussolini proseguì
dunque con i preparativi: bande raccogliticce, vocianti e anche violente, ma assolutamente non in grado di fronteggiare
l’Esercito, che aveva il pieno controllo della situazione. Se le camicie nere
erano armate di pugnali, bastoni, qualche schioppo e alcune rivoltelle, le
Forze Armate avevano predisposto tutto il necessario per non essere colte di
sorpresa. Infatti, nei giorni tra il 24 e il 27 ottobre ci fu qualche
manifestazione fascista in giro per l’Italia, “Ma laddove le cose furono appena un po’ più serie, con i tentativi di
occupare le prefetture, Carabinieri ed Esercito risposero energicamente. I
fascisti furono i primi ad essere sorpresi di trovare una risposta così
determinata a quelle che loro in fondo consideravano azioni poco più che
simbolico”, afferma Mola. Anche la difesa di Roma era più che pronta: “Il Ministero della Guerra era perfettamente
informato su quello che stava avvenendo, così come il Ministero dell’Interno e
le prefetture sapevano tutto di tutti, come emerge chiaramente dai documenti dell’Archivio di Stato in gran
parte ancora inesplorati. Un attacco armato non avrebbe mai potuto avere
successo”, prosegue Mola. La strada alle camicie nere era sbarrata: il
Regio Esercito aveva preso possesso dei nodi ferroviari di Civitavecchia, Orte
e Valmontone (gli accessi a Roma dalle tre principali direzioni), dove aveva
tolto i binari e sbarrato il passaggio dei treni in arrivo con vagoni carichi
di sabbia. La tensione dunque c’era, ma la situazione era sotto controllo, in
realtà a Roma arrivarono poche migliaia di fascisti dai dintorni: la capitale
il 28 ottobre era assolutamente tranquilla. Due giorni prima, il 26, il capo
del governo Facta aveva mandato un breve telegramma al re, in cui comunicava
che ormai era finita la minaccia dell’assalto fascista su Roma. Ma il giorno
dopo aveva bruscamente cambiato idea e ne inviò uno nuovo, stavolta piuttosto
lungo, in cui drammatizzava la situazione e ritornava con toni allarmanti sulla
minaccia della mobilitazione fascista in corso. Il re, compreso che qualcosa
non andava e trovandosi a San Rossore presso Pisa, aveva risposto con solo
quattro parole: “Arrivo a Roma stasera”. Giunto a Termini, lo aveva accolto
Facta, annunciando le sue dimissioni.
Le violenze. L'Ordine di smobilitazione Il Partito Nazionale Fascista comunica: Il Quadrumvirato Fu il clima concitato e violento
di quel periodo, dopo mesi di attacchi squadristi e di scontri fra rossi e
neri, con toni retorici molto alti, che diede origine all’idea della “presa
di Roma”. Qualche azione di forza ci fu davvero. A Ravenna, a fine luglio,
una spedizione punitiva di marca fascista provocò 9 morti e ci furono scontri
anche a Pavia, Biella e Rimini. Il primo ‘esperimento’ di conquista
territoriale avvenne ad agosto ad Ancona, città scelta per le sue simpatie di
sinistra e giudicata coriacea, la quale venne occupata da bande fasciste
senza alcuna opposizione, con grande sorpresa di tutti: i fascisti pensarono
che se una città come Ancona fosse così facile da prendere, le imprese future
non sarebbero state impossibili. Tanto più che, in quei giorni – nel contesto
di un grande confronto con i socialisti che avevano indetto uno sciopero
legalitario – i fascisti occuparono brevemente anche i municipi di Milano,
Pistoia, Varese, Alessandria, Firenze e Savona. L’episodio più grave avvenne
a Parma: le squadre guidate da Italo Balbo assediarono la città difesa dagli
antifascisti e negli scontri caddero 40 squadristi e 5 antifascisti, tanto
che, alla fine, le camicie nere si ritirarono. Il 10 ottobre il ministro
della Giustizia, Giulio Alessio, fece un bilancio delle illegalità fasciste
dal 15 agosto al 22 settembre 1922: 369 reati di natura politica, tra i quali
74 omicidi, 70 lesioni personali, 75 violenze private, 72 danneggiamenti, 37
incendi. Quando, negli ultimi giorni di ottobre, da Napoli si annunciò la
minaccia di calare su Roma, il telegramma di resoconto stilato dal prefetto
partenopeo non evidenziava alcun problema reale e recitava: “Manifestazione
fascista svolta nell’ordine. nulla da segnalare”. Il raduno si era chiuso
sena scontri né violenze. Per organizzare la marcia. Il quartier generale
fascista fu insediato a Perugia e ciò facilitò il transito di alcune squadre
fasciste verso Roma, riuscendo anche a requisire alcuni treni. Nelle ore
successive vennero convocate manifestazioni in tutte le città e in alcune di
esse i militanti occuparono le prefetture, come a Firenze, Siena, Pisa,
Foggia e Rovigo. Ma a Roma, niente di tutto questo. Devastazione di una sede sindacale della CGL a Roma, con falò sulla strada delle carte e suppellettili ivi rinvenute |
Il 28 ottobre a Roma non successe nulla. Ciononostante,
la mattina dopo, il premier dimissionario decise di proclamare lo stato
d’assedio e ne chiese convalida al re. Ma Vittorio Emanuele rifiutò, ritenendo
la mobilitazione fascista solo una propaganda e che non ci fosse una situazione
d’emergenza tale da giustificare una decisione così grave. Facta, peraltro,
sembrava non essersi reso conto delle conseguenze: lo stato d’assedio prevedeva
l’applicazione del codice militare e significava autorizzare i soldati a
sparare ad altezza d’uomo, con l’unico precedente del non dimenticato massacro
di Bava Beccaris a Milano, nel 1898. Secondo il re, si sarebbe data inutilmente
all’estero l’impressione di un Paese spaventato a causa di quattro facinorosi.
La soluzione doveva, piuttosto, essere politica. La mattina del 28 ottobre, Vittorio
Emanuele III, dopo una serie di consultazioni e dopo aver ricevuto alcuni
dinieghi (naufragò subito l’ipotesi di un governo Salandra), mandò i telegrammi
di convocazioni a tre persone (c’era scritto: “venite a Roma per risolvere la
crisi”): il cattolico popolare Filippo Meda, che era a Milano e non risposte
tempestivamente; Giovanni Giolitti, che si trovava a Cavour, in Piemonte, dove
aveva appena festeggiato gli 80 anni e dove le comunicazioni e gli spostamenti
erano assai complessi (infatti disse al re che sarebbe arrivato a Roma nei
giorni successivi, ma in realtà neanche si mosse); Benito Mussolini, che
seguiva la mobilitazione della “Marcia su Roma” da Milano, ma rispose
prontamente che sarebbe rimasto in attesa delle disposizioni del sovrano. “Vittorio Emanuele aveva ricevuto di prima
mattina una visita molto importante, ma pochissimo nota: si trattava di Ernesto
Civelli, uno degli organizzatori della Marcia, ma soprattutto collegato a Raul
Palermo, Gran Maestro della Loggia d’Italia, con il compito di garantire al re
che i fascisti non avrebbero messo in discussione la corona e sarebbero stati
favorevoli alla monarchia”, racconta Mola.
Dopo aver consultato
liberali, cattolici, democratici, industriali ed ecclesiastici, il re trova
tutti favorevoli all’ipotesi di dare l’incarico di governo a Mussolini. Vittorio
Emanuele III invia perciò un nuovo telegramma di convocazione al futuro Duce, che
il 28 arriva in treno a Civitavecchia. Sottolineiamo questa data: siamo già al
29, il 28 a Roma è trascorso senza che sia accaduto nulla di rilevante sotto il
profilo dell’ordine pubblico. La mattina del 30, il leader fascista prende un
altro treno da Civitavecchia a Roma, sul quale mette a punto la lista dei
ministri. Rappresentanti politici di vari partiti gli chiederanno di cambiare
un paio di ministri rispetto al suo elenco originario: lui voleva Luigi Einaudi
all’economia e il futuro presidente era disponibile, ma gli venne preferito
Alberto De Stefani. L’altro nome della lista era, addirittura, quello di un
socialista: Mussolini voleva tendere la mano al suo parto di origine, pensando
che potessero esserci convergenze su lavoro e previdenza sociale, e indicò Gino
Baldesi, il quale aveva accettato insieme ai socialisti riformisti di Bruno
Buozzi. Alla fine, però, fu chiesto al futuro Capo del governo di lasciare
fuori i socialisti. Nella coalizione c’erano in ogni caso liberali, democratici
sociali, nazionalisti, cattolici popolari, oltre al generale Armando Diaz al
Ministero della Guerra e all’ammiraglio (e massone) Paolo Thaon di Revel a
quello della Marina.
Un governo di unità nazionale. In giornata,
Mussolini riceve ufficialmente l’incarico e dopo qualche ora consegna al re l’elenco
dei ministri concordato tra tute le parti in causa. Fra il 30 e il 31 – nell’assoluta
tranquillità della capitale, con la sola eccezione di risse notturne a San Lorenzo
tra forze dell’ordine e gruppi di anarchici – avvengono tutti i passaggi di
consegna fra Facta e i suoi ministri e i loro successori. In un governo di
unione nazionale (ben lontano in quel momento dall’essere espressione di una dittatura) e di assoluto prestigio: ci
sono personaggi come Giovanni Gentile e Giovanni Gronchi, uno dei nomi espressi
dal Partito Popolare, che non aveva voluto aderire a un governo Giolitti, ma
era presente in quello Mussolini.
La legge Acerbo e la Lista
Nazionale. La crisi istituzionale fu
eminentemente politica e la sua soluzione, tramite un governo a guida
fascista, fu confermata due anni più tardi dalle elezioni del 1924. In questo
quadro si inserisce la Legge Acerbo, che assegnava un premio di maggioranza
dei due terzi del Parlamento a chi avesse raggiunto il 25% dei voti. Molti studiosi
attribuiscono ad essa la vera origine della dittatura fascista, ma il discorso
in realtà è più complesso. La crisi degli anni precedenti, secondo i politici
di allora, era stata determinata dalla legge elettorale proporzionale
introdotta nel 1919, la quale aveva generato la moltiplicazione dei gruppi
parlamentari rendendo più difficile formare una maggioranza di governo. Per questo
ci si impegnò attivamente nella ricerca di una riforma elettorale. “La legge che porta il nome del
sottosegretario fascista Giacomo Acerbo dovrebbe in realtà chiamarsi Legge
Giolitti, perché fu il leader liberale a volerla più di qualunque altro. la
sogli per il premio fu fissata al 25% perché nelle elezioni del 1921 il
partito che aveva ottenuto più voti era stato quello socialista con il 24”,
afferma il professor Mola. Spinti da questa legge fortemente maggioritaria, i
diversi partiti trovarono un accordo e fu così che nacque la Lista Nazionale.
Esse non era una lista fascista, ma teneva unite molte forze politiche. “I candidati fascisti nel Listone erano
227 su un totale di 543 e della lista facevano parte forze politiche eterogenee,
dai liberali ai nazionalisti, con personaggi eminenti come Vittorio Emanuele
Orlando ed Enrico De Nicola”, prosegue Mola. A parte i rivali di
sinistra, dei vecchi alleati non vi parteciparono alcuni liberali e i
popolari di De Gasperi. La Lista Nazionale alle urne ottenne quasi il 65% dei
voti, ma i fascisti ancora non costituivano da soli la maggioranza in
Parlamento. Fu nei mesi successivi che Mussolini riuscì a trasformare il suo
governo in regime autoritario, soprattutto a partire dall’emanazione delle
cosiddette leggi fascistissime, nel 1925. |
La parata celebrativa e poi a casa. Solo
il 31 si svolte l’evento che più si avvicina alla Marcia su Roma, come sostiene
ancora il professor Mola: “Qualche
migliaio di ‘marciatori’ fascisti erano presenti a Roma dal giovedì 26
precedente, pesando di fare la manifestazione il sabato 28 e la domenica di
essere di nuovo a casa. Si era invece arrivati a mercoledì e non avevano con sé
neanche da mangiare. A cose fatte, dovendo rimandare a casa i dimostranti, il
31 mattina fu organizzata la parata. Il tragitto era semplice e ufficiale, con
in testa al corte la banda del Comune di Roma inviata dal sindaco Filippo
Cremonesi: da piazza del Popolo le camicie nere (tra cui generali, massoni,
monarchici e deputati) raggiunsero l’Altare della Patria, poi passarono sotto i balconi del Quirinale, rendendo omaggio al re
che li osservava al fianco di Diaz e Thaon di Revel, e infine si diressero a
Termini dove li aspettavano 245 treni speciali organizzati dal governo”. Fu
questo ‘l’assalto armato’ su Roma dell’ottobre 1922. “Il tutto avvenne nei giorni seguenti al 28 ottobre e confermò il dato
di fatto della soluzione della crisi sui binari istituzionali voluti dal re. A questo
punto fu convocato il Parlamento: il 17 ottobre la Camera dei deputati votò la
fiducia con un’ampia maggioranza di 306 favorevoli, 116 contrari e 7
astensioni. L’intervento di adesione al governo per il partito Popolare fu
tenuto dal capogruppo, Alcide De Gasperi. Pochi giorni dopo anche il Senato
(dove erano presenti solo due fascisti) approvò la fiducia con 196 voti
favorevoli e 19 contrari”, conclude Mola.
Era nato il primo governo
Mussolini, cui di fatto quasi nessuno in Italia era contrario. Quella che è
passata alla storia come un golpe, o una minaccia di golpe, si era risolta come
un regolare conferimento di governo. Nessuno poteva prevederne il seguito.
Articolo in gran parte di Osvaldo Baldacci, ricercatore e scrittore di Storia, pubblicato su BBC History Sprea Editori, del mese di novembre 2018 altri testi e immagini da wikipedia
Stefano Pagliaro
RispondiEliminaUn articolo molto interessante di cui condivido la visione globale. Mi sento però di aggiungere che in molte città ci fu una 'ribellione' fascista con la compiacenza dei prefetti e delle forze di polizia che gestirono la situazione comunque gravissima. Poi è vero, la marcia su Roma come viene raccontata sembra una rivoluzione che sfocia nell'incarico a Mussolini. Di fatto bastava qualche cannonata e i fascisti si sarebbero dispersi, l'esercito era ancora fedele al re. Non ci fu colpo di stato, ma ci fu un colpo allo stato promosso dagli stessi che lo dovevano difendere. Poi la famosa marcia fu una sfilata postuma, i giochi erano fatti