Attila il flagello di
Dio.
L’apparire degli Unni
nelle steppe dell’Europa orientale portò mutamenti di tali portata da provocare
la caduta dell’impero romano d’Occidente. Abili e spietati cavalieri. Le truppe
di Attila lasciarono dietro di loro una scia di morte e distruzione il cui
ricordo è ancora vivo nella memoria europea.
Sono
davvero poche – si contano sulle dita di una mano – le figure storiche in grado
di rivaleggiare in termini di brutalità con Attila. Il suo nome
nell’immaginario collettivo dell’Europa occidentale, è inteso da secoli come
una delle massime incarnazioni della violenza. Non si spiegherebbero altrimenti
espressioni del tipo ‘il flagello di Dio’ o ‘dove passa Attila non cresce più
l’erba’. Lo stesso Dante nel canto XII dell’Inferno, nel girone dei violenti
contro il prossimo, non troverà più illustre rappresentante che ‘quell’Attila
che fu flagello in terra. E non è certo il solo, se consideriamo che nel
celebre romanzo Dracula di Bram Stoker, il più famoso dei vampiri si definisce
senza mezzi termini un discendente di Attila. L’elenco di riferimenti storici e
letterari sul tema è davvero senza fine. Basta citare il suo nome e
immediatamente la mente ritorna indietro al V secolo, quando l’esercito unno,
di cui era re incontrastato, mise a ferro e fuoco ciò che rimaneva dell’Impero
romano d’Occidente, ormai prossimo al collasso, e minacciò l’esistenza di
quello d’Oriente, prima ancora che si tramutasse nell’eterna Bisanzio. Ma c’è
dell’altro. Talvolta si ha perfino l’impressione che questa figura e i suoi
fedeli cavalieri si siano materializzati solo per pochi decenni, quanto basta
per terrorizzare ciò che restava di Roma, per poi uscire dalla porta di
servizio alla sua morte, avvenuta in un giorno indefinito del 453. Una sintesi
che non rende giustizia agli unni, perché in realtà la storia di queste genti è
molto più complessa di quanto si possa pensare.
Un aspetto orribile. Lo storico romano Ammiano
Marcellino, nel 390 riferisce senza mezzi termini che gli unni erano
“stranamente brutti” ed erano abituati a procurarsi, fin dalla tenere età,
profonde ferite sul volte che li sfiguravano, rendendoli spaventosi a
vedersi. Ma non è la sola testimonianza al riguardo. La civile società romana
del tempo provava un vero e proprio senso di repulsione verso queste genti
più assimilabili ad animali che esseri viventi, sia per lo stile di vita, sia
per la totale assenza di pietà. Ma era in particolare il loro aspetto a
incutere repulsione. Ma era davvero così? Anche se con tutta probabilità si
tratta di una visione esagerata per ovvie ragioni di propaganda, un minimo di
verità potrebbe esserci. E in questo caso l’archeologia ci è venuta in aiuto.
In alcune necropoli della Russia sono venute alla luce scheletri che hanno
evidenziato una sorta di deformazione volontaria del cranio, finalizzata ad
una allungamento della testa. Una pratica che a quanto pare era diffusa anche
tra le popolazioni sarmatiche, di origine indo-iranica (sempre nelle steppe
dell’Asia centrale), ma anche in altre regioni del globo. Fin dalla tenera
età era prassi bendare il cranio dei fanciulli, in modo tale che le ossa
ancora morbide assumessero nel tempo la forma tanto desiderata. È stato dimostrato
che in alcune culture una simile usanza era dovuta a pratiche religiose, ma
nel caso degli unni non esistono certezze. Secondo lo storico John Man
sarebbe da mettere in relazione a una forma di distinzione sociale: in
sostanza era un onore riservati ai membri dell’aristocrazia nobiliare. |
Carta storica che descrive l'invasione della Gallia da parte degli Unni nel 451 d.C., e la battaglia dei Campi Catalaunici. Sono mostrati i probabili itinerari, e le città conquistate o risparmiate dagli Unni
Il caos venne da oriente. Secondo una teoria che
ha fatto scuola, ma oggi in parte ridimensionata, gli unni, una serie di tribù
della Siberia meridionale di ceppo turco, sarebbero da identificare con gli
Xiongnu, una popolazione citata in alcuni documenti cinesi. Grazie alle loro
indubbie capacità militari sarebbero riusciti, nel corso del II secolo a.C., a
creare un potente regno ai confini settentrionali del Celeste Impero. Poi le
notizie sul loro conto diventano piuttosto nebulose. È molto probabile comunque
che una parte di queste genti – le altre rimasero stanziate sul confine cinese
– si sia separata dal nucleo originale per muoversi nel cuore dell’Asia
centrale (nella regione compresa tra il Caspio e il lago di Aral) e dare vita a
una potente confederazione tribale che riuniva anche altre etnie. Solo
ulteriori ricerche potranno consentire di fare luce su questo aspetto, al
momento ancora piuttosto nebuloso. L’unica certezza è che la loro apparizione
sul palcoscenico della storia si colloca con una certa precisione sul finire
del IV secolo, quando le orde unne, guidate da re Octar, invasero gli attuali
territori compresi tra Ucraina e Bielorussia, provocando il caos e generando
quell’effetto domino le cui conseguenze si avvertiranno fino a Roma. Nel giro
di un biennio (374-376) infatti, prima sarmati, alani, brugundi, rugi e sciri
(ripetutamente battuti sul campo) e furono costretti ad abbandonare le loro
terre per fuggire verso est, abbattendosi sui confini dell’Impero romano
d’Occidente. Una pressione di tale entità che ne avrebbe provocato il collasso
nel giro di soli settant’anni. Allo stesso tempo una seconda onda, comprendente
anche tribù avare, bulgare e turche, mise a ferro e fuoco la Persia sassanide,
fino ai confini con il Continente indiano. Nel complesso quindi possiamo
immaginare l’ampiezza del fenomeno unno come esteso dai confini cinesi fino
alle steppe dell’Europa orientale, in grado di muoversi su più direzioni in
virtù della loro mobilità a cavallo. La parentesi europea che culminerà con
l’apparizione di Attila è quindi solo una delle tante manifestazioni, per
quanto la più conosciuta, della loro potenza. Si può notare, per esempio, come
nel 395 fosse presente una forte concentrazione unna nell’area del Mar Nero e
del Caucaso, capace di ripetute incursioni nei territori dell’Impero Romano d’Oriente,
fino alla lontana Palestina. In un drammatico resoconto lasciatoci da San
Gerolamo leggiamo: “Proprio un anno fa,
eccoti piombare su di noi, dalle più lontane regioni rupestri del Caucaso, dei
lupi. Non erano dell’Arabia… erano del Nord e in poco tempo hanno attraversato
immensi territori. Quanti monasteri hanno requisito! Quanti fiumi hanno visto
cambiare l’acqua in sangue umano!... l’Arabia, la Fenicia, la Palestina e
l’Egitto sono in preda al terrore, come paralizzate. Potessi avere anche cento
lingue e cento bocche e una voce di ferro, non potrei ugualmente fare una
rassegna completa di tutti questi disastri”.
Incontro tra Papa Leone Magno e Attila (affresco, 1514, Stanza di Eliodoro, Palazzi Pontifici, Vaticano).
L'affresco fu completato durante il pontificato di Leone X (papa dal 1513 al 1521). Secondo la leggenda, la miracolosa apparizione dei Santi Pietro e Paolo armati con spade durante l'incontro tra Papa Leone e Attila (452) avrebbe spinto il re degli Unni a ritirarsi, rinunciando al sacco di Roma.
Strategie e tattiche. La massima estensione dei territori degli Unni, dalle steppe dell'Asia centrale alla Germania e dal mar Baltico al mar Nero Una delle ragioni che resero gli
unni quasi imbattibili era il loro approccio al campo di battaglia, in grado
di stravolgere i dettami della guerra del tempo: l’impiego di una veloce
cavalleria mobile, ottimamente addestrata e ben armata. Uno schema che sotto
certi punti di vista anticiperà di secoli il modo di combattere delle armate
mongole. Secondo lo Strategikon, un manuale militare bizantino del VI secolo,
gli eserciti unni adottavano strategie inusuali come attacchi a sorpresa,
imboscate, improvvise ritirare e fulminei contrattacchi. Prediligevano
inoltre isolare il nemico, privandolo dei rifornimenti per poi sfinirlo con
assalti ripetuti. Prima di disporsi per la battaglia non erigevano campi
fortificati, ma avanzavano divisi in gruppi alla ricerca di foraggio per il loro
cavalli. Ogni guerriero infatti era abituato a portarsi a presso diverse
cavalcature sia per ragioni logistiche che per dare l’idea che l’esercito era
molto più grande. Disponevano anche di veloci esploratori in grado di
avvertire della presenza nemica nei paraggi e prevenire possibili attacchi a
sorpresa. A differenza di romani e persiani, non formavano una linea di
battaglia compatta ma si frazionavano in divisioni irregolari con reparti
predisposti per imboscate, altri in retroguardia. L’attacco frontale era
portato da reparti chiusi a ranghi molto profondi, disposti a cuneo,
suddivisi secondo regole di appartenenza ai clan familiare e guidati da capi
chiamati cur. In genere però preferivano combattere il nemico tenendolo a
distanza, bersagliandolo con frecce al fine di indebolirlo e aprirne i
ranghi. Mettendo in atto finte ritirate, cercavano inoltre di indurre alcuni
reparti a mettersi al loro inseguimento: la soluzione ideale per attirarli in
imboscate. |
Alleati prima, nemici poi. Agli inizio del V
secolo, poi, si verificò la loro seconda grande migrazione, verso le pianure
ungheresi, come dimostrato da un’ambasceria condotta da Olimpiodoro di Tebe per
conto di Roma nel 412. Un evento di enorme portata che genererà un altro esodo
di massa verso il limes romano: vandali, alani, burgundi e svevi in Gallia e
ostrogoti in Italia. Gli unni stessi, sotto la guida di re Uldino, misero a
ferro e fuoco la ricca regione della Tracia. Ma erano le avvisaglie di un
periodo ancora più grave che si sarebbe concretizzato con l’unificazione di
tutte le tribù intorno al 430: un fenomeno iniziato ai tempi di re Rua e
conclusosi con la salita al potere di Attila. La nascita di questo potente
regno, che avrebbe inglobato altre etnie sottomesse (alani, sarmati, slavi,
ecc.) fu possibile grazie a una superiorità militare disarmante: potenti
reparti di cavalleria, in grado di mettere in atto sofisticate tattiche, e
un’arma, l’arco composito. Roma non tardò a comprenderne il loro valore in
battaglia, visto che almeno inizialmente un certo numero di cavalieri unni fu
arruolato come mercenari nelle file dell’esercito imperiale all’epoca di
Valentiniano III, contribuendo a risollevare non poco, anche se momentaneamente,
le sorti delle guerre contro le popolazioni barbariche in Gallia: nel 436
furono annientati i burgundi, nel 439 i visigoti subirono una cocente
sconfitta. Una scelta decisamente saggia, che dobbiamo alle capacità militari
dell’ultimo grande condottiero romano, quel Flavio Ezio, che sarà poi l’unico in
grado di sconfiggere gli unni in battaglia. L’elezione di Attila nel 445 però
cambiò tutte le carte in tavola. Ottimo stratega, abile tattico, ma soprattutto
temuto e rispettato dai suoi, agì con determinazione e ferocia senza pari. Che
senso aveva essere alleato di Roma se in fin dei conti avrebbe potuto
prenderla? E così fece. Il suo primo obiettivo furono le provincie balcaniche,
invase e razziate ripetutamente senza che gli eserciti di Teodosio II, più
volte sconfitti, potessero far nulla per impedirglielo. Non riuscì a
conquistare Costantinopoli, ma devastò i territori limitrofi. Solo l’oro lo
convinse a non andare oltre. Secondo la testimonianza dello storico Prisco il
trattato di pace fu particolarmente umiliante per l’impero: “Bisognò versare 6mila libbra d'oro per le rate arretrate
del tributo e di lì in avanti il tributo stesso sarebbe stato di 2mila libbre
d’oro all’anno”. Ma è senza alcun dubbio la ferocia ad aver lasciato un
segno indelebile nell’immaginario del tempo. Il quadro che ne fa Ammiano è
rimasto famoso: “Sono infidi e incostanti
nelle tregue, mobilissimi a ogni soffio di una nuova speranza e sacrificano
ogni sentimento a un violentissimo furore. Ignorano profondamente, come animali
privi di ragione, il bene e il male, sono ambigui e oscuri quando parlano, né
mai sono legati dal rispetto per una religione o superstizione”.
L’esercito unno. Ricostruzione moderna di arco composito unno (costruito in Ungheria) Secondo lo Strategikon, redatto
dall’imperatore bizantino Maurizio, i cavalieri unni, protetti da cotte di
maglia ed elmo, disponevano di spade e lance che impiegavano in maniera
intercambiale. Per proteggere le loro cavalcature, invece, ricorrevano a
bardature in lino o lana e talvolta in ferro. Tutti gli elementi che hanno
trovato riscontro nei ritrovamenti archeologici. Nelle necropoli di
Volnikovka e Brut (Russia) i reperti più interessanti son elmi segmentati e
armature lamellari. Nel loro equipaggiamento era prevista anche un’ascia
lunga con lama di 60 cm che sarebbe diventata popolare anche tra i barbari
che invasero l’impero romano. La spada invece era mutuata dalla spartha di
derivazione persiana e aveva una lama dritta di circa 80 cm. L’arma che rese
famosi questi cavalieri era tuttavia un arco, chiamato anche ‘arco unno’, di
tipo composito (legno, osso e corno) e lunghezza variabile tra i 145 e i 155 centimetri.
Ideale per tiri di precisione entro i 40 metri, aveva comunque una gittata di
almeno 250. Dotati di una potenza superire a qualsiasi controparte
occidentale, era in grado di penetrare con facilità scudi e armature. Le
frecce, molto lunghe, 75 cm, avevano una punta romboidale in ferro. Gli
eserciti unni disponevano anche di reparti di fanteria forniti da popoli
assoggettati, come i goti. |
Il terrore in Gallia. Anche
le province occidentali avrebbero presto conosciuto la sua ferocia. E il tutto
per un colossale fraintendimento: una supplica d’aiuto rivolta dal condottiero
unno da parte di Onoria, sorella dell’imperatore, per sottrarsi a un matrimonio
con un senatore sgradito, fu interpretata da Attila come una richiesta di
matrimonio rivolta alla sua persona. A cui rispose affermativamente pretendendo
però in dote metà dell’Impero d’Occidente. Non servì a nulla l’intervento
dell’imperatore romano che sconfessò la sorella e la esiliò in Italia. Attila
decise di prendersi ciò che aveva chiesto con la forza. Per questa incredibile
incomprensione il suo esercito, che le fonti quantificano in mezzo milione di
uomini (cifra sicuramente esagerata) sciamò nel 451, dopo aver varcato il
Danubio, sulle Gallie senza che nessuno potesse opporvisi. Ovunque si
registrarono morte e distruzione. Alcune delle più importanti città imperiali
furono prese e devastare Magonza, Colonia, Treviri, Reims, Strasburgo. Solo un
miracolo militare scongiurò ulteriori devastazioni: il 20 giugno presso Chalons
(Campi Catalaunici), proprio Ezio, a capo di un esercito composto da ausiliari
barbari e supportato dai visigoti (120mila uomini), riuscì a sconfiggere gli
unni in una drammatica battaglia durata ore, in bilico fino all’ultimo. Ma non
si trattò di uno scontro decisivo – Ezio si rifiutò di inseguire il nemico,
permettendogli di ritirarsi – perché l’anno successivo Attila tornò nuovamente
in Italia per pretendere ciò per cui aveva scatenato la guerra. Dopo aver preso
Aquileia, al termine di tre mesi di assedio, puntò su Milano, trasformandola in
sua residenza temporanea.
Ma era solo una
tappa obbligata prima della sua calata sull’Urbe. Ancora una volta però accadde
l’impossibile, perché, in procinto di attraversare il Po, fu raggiunto da
un’ambasciata capeggiata dal console Avienno e da papa Leone I. cosa accadde in
quel frangente è uno dei più curiosi misteri dell’antichità: il condottiero
infatti, dopo un breve colloquio, decise di interrompere la sua marcia e
ritirarsi, abbandonando l’idea di conquista e le pretese sulla mano di Onoria. La
leggenda vuole che il pontefice l’abbia riportato sulla retta via, mostrandogli
semplicemente la croce di Cristo, convertendolo al suo messaggio di pace e amore.
La spiegazione va ricercata altrove probabilmente. C’è chi ha sostenuto che una
terribile epidemia di colera, che stava infuriando in Italia, potrebbe aver
falcidiato le sue truppe, impedendogli di proseguire. Oppure fu messo in
allarme dalla notizia che un esercito romano, guidato dall’Augusto dell’Impero
d’Oriente Marciano, aveva attraversato il Danubio con l’intenzione di tagliarli
la strada. O entrambe le cose C’è perfino chi ha sostenuto che fu comprato con
una favolosa quantità d’oro. Fatto sta che Roma in quell’occasione riuscì a
salvarsi.
I Campi Catalunici in tre mosse. La battaglia dei Campi Catalaunici, manoscritto del XIV secolo (Biblioteca Nazionale Olandese Il 20 maggio del 451, nella piana di
Chalons-en-Champagne, va in scena quella che può essere considerata l’ultima
grande vittoria dell’impero romano d’Occidente. Da una parte il generale
Flavio Ezio, a capo di uno schieramento di circa 120mila uomini
comprendente un esercito romano,
truppe ausiliarie (alani e germani) e l’esercito visigoto di Teodorico I come
alleato; dall’altra Attila con 150mila uomini divisi in tre contingenti
(unno, germanico e ostrogoto). L’andamento dello scontro, che le fonti
dell’epoca definiscono selvaggio e durissimo, si protrasse per l’intero
giorno e può essere suddiviso in tre fasi. Fase 1: le forze romane, divise in
tre contingenti, approcciano il terreno di battaglia scelto da Attila nei
giorni precedenti, dopodiché si dispongono per la battaglia. le truppe romane
di Ezio nel frattempo provano a occupare un’altura strategica che domina il
campo di battaglia, cercando di sottrarla alle mire avversarie. Fase 2: i romani riescono a prendere
la collina e resistono ai tentativi di assalto del nemico. A quel punto la
cavalleria di alani e visigoti inquadrata con i romani riesce a sorprendere e
battere le truppe germaniche e unne, impegnate nell’attacco alle alture,
costringendole alla ritirata. Sul lato destro del dispositivo i visigoti
invece hanno la meglio sugli ostrogoti. Fase 3: le forze di Attila, sconfitte
su tutta la linea e costrette a ripiegare, si rifugiano all’interno del loro
campo incalzate dai visigoti che nel frattempo subiscono la perdita del loro
re Teodorico. Quando l’esercito viene informato della morte del sovrano
vorrebbe lanciarsi all’attacco del nemico per vendicarlo, ma viene fermato da
Ezio preoccupato che la disfatta unna possa avvantaggiare proprio i visigoti.
In tal modo il giorno seguente Attila è libero di levare il campo
indisturbato e ritirarsi. |
Morte e oblio. Attila
a quel punto decise di riattraversare il Danubio e tornare nelle sue terre, da
dove pianificò una nuova incursione contro Costantinopoli, rea di aver
interrotto il pagamento dei tributi pattuiti. Ma non ebbe il tempo di mettere
in atto i suoi progetti. In un giorno indefinito del 453 morì. Secondo la tradizione
ciò accadde mentre celebrava l’ultimo dei suoi innumerevoli matrimoni con una
giovane principessa gota, Krimhilda, forse a causa di un’emorragia celebrale,
come scrive lo storico bizantino del VI secolo Giordane. La notizia fu accolta
tra le fila dell’esercito tra le file dell’esercito con sgomento, tanto che i
suoi decisero. di radersi i capelli a zero e sfregiarsi in segno di lutto. Scrive
Giordane: “Il più grande di tutti i
guerrieri fu pianto senza lamenti femminili e senza lacrime, ma con il sangue
degli uomini” . Seguì un funerale sontuoso lontano dalla capitale e dagli
sguardi indiscreti: il suo corpo fu rinchiuso in tre sarcofaghi (uno in legno,
uno d’argento e il terzo d’oro) e sepolto insieme a tutte le sue ricchezze:
cavalli, mogli, servi e gli stessi schiavi a cui era andato l’onore di
scavargli la fossa. Il luogo non è mai stato appurato con certezza. La sua improvvisa
scomparsa decretò l’inizio del disgregamento del suo impero, perché le lotte
per la successione finirono con il porre uno contro l’altro suoi tre figli (Dengizich, Ellac ed Ernac). Incapaci
di accordarsi sul futuro re, non riuscirono ad arginare le forze indipendentiste
dei popoli recentemente sottomessi: i primi a liberarsi dal giogo furono i
gepidi di re Ardarico, capaci di annientare l’esercito unno nella battaglia di
Nedao (454); dopodiché fu la volta di longobardi, ostrogoti, eruli e via via
tutti gli altri. In capo a pochi anni, quelle genti, capaci di terrorizzare un
Impero romano in agonia, finirono con il perdere la loro identità o in alcuni
casi rifluire verso oriente, nelle steppe da cui erano arrivate in forze poco
meno di un secolo prima.
Articolo di
Antonio Ratti pubblicato su Storie di guerre e guerrieri, Sprea editore n. 22 –
altri testi e immagini da Wikipedia.
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