mercoledì 29 aprile 2020

Il soldato italiano.

Il  soldato italiano.

Perché all’estero mettono in dubbio la nostra capacità bellica? Da dove nasce un tale pregiudizio? Per rispondere a questa domanda occorre scavare nella storia patria risalendo di molti secoli, addirittura fino al Rinascimento.

Bandiere dell'Esercito Italiano conservate al Sacrario delle Bandiere a Roma

 

Diciamolo francamente: la reputazione del soldato italiano all’estero non è buona o, come minimo, è contrastante. Non si fa fatica ad ammettere che, preso singolarmente, il nostro militare è capace di atti eroici impressionanti, e che piccole squadre di italiani hanno saputo compiere imprese eccezionali e temerarie. Ma quando si tratta di grandi battaglie, della condotta generale dell’esercito e della Marina il giudizio cambia eccome. Questo pregiudizio ha radici lontane nei secoli.

Nel 1492, la morte di Lorenzo il Magnifico determinò profondi mutamenti nell’assetto dell’Italia. Già intorno al 1550, nei suoi ‘Commentari de’ fatti civili occorsi dentro la città di Firenze dall’anno 1215 al 1537’, Filippo de’ Nerli definiva Lorenzo “L’ago della bilancia intra’ Principi d’Italia”, e constatava come, dopo la morte, la nostra penisola fosse stata “cavalcata, e calpestata da’ forestieri, che mai più s’è riposata, né per ancora si vede come possa sperar di riposarsi”. Nerli si riferiva alla discesa in Italia di Carlo VIII di Francia, che nel 1494, approfittando delle discordie esplose dopo la scomparsa del Magnifico, decise di prendersi il Regno di Napoli, accampando antichi diritti ereditari. In risposta si mobilitarono le principali potenze italiane, come la signoria fiorentina dei Medici, il Ducato di Milano di Ludovico Sforza, lo Stato Pontificio di Alessandro VI Borgia e la Repubblica di Venezia, dando inizio al turbolento periodo delle Guerre d’Italia. Fino al 1559, quando la pace di Cateau-Cambrésis liquidò la rivalità tra Spagna e Francia, normalizzando gli equilibri europei per il successivo mezzo secolo. Ma ormai il nostro Paese era diventato terra di conquista per grandi potenze. Risale a quest’epoca il motto popolare “Franza o Spagna, basta che se magna”, a significare che le genti d’Italia, sfinite dai mille scontri che devastavano campi, villaggi e città, avevano come unico (e comprensibile) desiderio quello di garantirsi la sopravvivenza. Proprio da qui nasce il luogo comune, duro a morire, che vuole gli italiani privi di ideali e di amor patria, disincantati e cinici, preoccupati soltanto di riempirsi la pancia e sempre pronti a servire il padrone di turno. Pessimi patrioti e soldati inaffidabili.

Eppure, prima le cose erano state completamente diverse. Gli italiani del Trecento e del Quattrocento avevano goduto di ben altra fama, grazie al fenomeno dei capitani di ventura. Da Lodrisio Visconti a Bartolomeo Colleoni, da Muzio Attendolo Sforza a Giovanni dalle Bande Nere, i condottieri delle compagnie mercenarie si erano distinti per valore, audacia e spietatezza, com’era nel costume dell’epoca. Con loro, l’inarrivabile efficienza guerresca degli italiani era diventata proverbiale, e ancora per tutto il Cinquecento non vi fu campo di battaglia che non assistesse ai prodigi di ardimento e di ferocia di questi formidabili combattenti. Ma, sul finire di quel secolo, la diffusione delle armi da fuoco e la conseguente introduzione di nuove tattiche belliche portò al ridimensionamento e poi alla graduale sparizione delle compagnie di ventura. Con esse disparve anche il leggendario talento guerriero dei nostri connazionali, mentre iniziava a prevalere lo stereotipo dell’italiano imbelle, anzi codardo. Un cliché destinato a tramandarsi nei secoli.

 

Le nostre guerre.

 

Le lotte per l’indipendenza.

Re Carlo Alberto di Sardegna con la feluca in mano, a sinistra, accoglie le truppe piemontesi al passaggio del Ticino.[26]

Con  i conflitti napoleonici, la nostra storia militare conobbe un nuovo inizio. Per la prima volta gli italiani si presentarono su un campo di battaglia con una propria uniforme e combatterono per una nazione che, seppure costruita in modo artificiale da Napoleone Bonaparte, rivendicava esplicitamente la propria italianità. Nei suoi primi anni il Risorgimento è fortemente influenzato da quell’esperienza: dai ranghi napoleonici provengono gli ufficiali al comando delle insurrezioni popolari, come Carlo Zucchi a Modena nel 1831; anche i vincitori della battaglia di Goito il 30 maggio 1848, i generali Eusebio Bava e Federico Millet d’Arvillas, vantavano trascorsi nelle armate napoleoniche. Ben presto, però, divennero protagonisti dell’attività e del pensiero militare dell’Italia risorgimentale personalità giovanissime, nate negli ultimi anni dell’epopea napoleonica che aprirono nuovi orizzonti alle forze armate del Regno di Sardegna, il più importante tra tutti fu Alessandro La Marmora, fondatore del corpo dei Bersaglieri, nel quale il militare piemontese concentrò le più brillanti idee che avrebbero caratterizzato lo sviluppo delle fanterie nella seconda metà dell’Ottocento.

Le imprese coloniali.

Ormai unificata, l’Italia uscì dall’esaltante periodo risorgimentale con enormi problemi da affrontare, e tra questi anche quello di organizzare forze armate efficienti. Il percorso verso l’unità si era rivelato arduo, ma l’entusiasmo per il progetto era stato un tonico sufficiente per risollevarsi dalle sconfitte. Ora, però, le difficoltà crescevano a dismisura: lo scenario geostrategico italiano si apriva al mondo e l’Italia era ansiosa di recuperare gli svantaggi nei confronti delle altre potenze europee, in particolare in materia di espansione coloniale. Le ambizioni politiche erano troppo alte rispetto all’inadeguatezza dei mezzi disponibili, all’esperienza degli ufficiali e all’addestramento delle truppe. Su questa discrepanza si sarebbero giocate le sorti dell’Italia nella sua avventura africana. Gli altri eserciti europei non erano molto migliori del nostro e avevano alle spalle parecchi disastri. Tuttavia, disponevano delle risorse industriali ed economiche e della sagacia politica per rifarsi. Così il generale Oreste Baratieri non fu certo esente da colpe gravi il 1° marzo 1896 per la sconfitta di Adua, cose come i suoi sottoposti, ma ancora maggiore fu la responsabilità del primo ministro, Francesco Crispi, che volle la sciagurata spedizione.

Mujaheddin libici guidati da Omar al-Mukhtar

La presa della Libia.

Le battute d’arresto in terra d’Africa rallentarono, ma non interruppero, lo sviluppo delle forze armate italiane. La Regia Marina, in particolare, aveva conosciuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento una crescita veramente significativa: navi come la corazzata Caio Duilio avevano elevato l’Italia a potenza marittima di livello mondiale. Nonostante l’industria cantieristica fosse ancora in embrione, ingegneri navali di livello assoluto, come Benedetto Brin e Vittorio Emanuele Cuniberti, diedero lustro al Paese. sommessamente, le forze armate nel loro complesso iniziavano a darsi una struttura sempre più efficiente, organizzata e innovativa. Durante la guerra italo-turca del 1911-1912, l’Italia dimostrò capacità sofisticate: effettuò uno sbarco anfibio, realizzò complesse operazioni convenzionali e controinsurezzionali, vinse scontri navali e fece per la prima volta nella Storia un uso bellico degli aeroplani. Il Novecento si preparava a essere un secolo di guerre, per gli italiani: sei conflitti dal 1911 al 1945, 12 milioni di combattenti; 1,1 milioni di caduti; 1,3 milioni tra feriti e mutilati, 3 milioni di prigionieri e internati, e 140mila disertori.

La grande guerra.

Il primo conflitto mondiale rappresentò uno sforzo enorme, per l’Italia, che entrò impreparata e in un quadro politico confuso, passando dall’alleanza con Germania e Impero Austroungarico all’adesione all’Intesa con Francia, Russia e Gran Bretagna. Il ruolo del nostro Paese risultò tanto importante, per l’Intesa, quanto disconosciuto. La mobilitazione fu un’impresa ciclopica, a cui venne dedicata ogni risorsa nazionale. Dal 1915 al 1917, i nostri battaglioni di fanteria salirono da 548 a 867, le artiglierie di medio calibro da 246 a 3000 e quelle leggere da 1772 a 5000. Artefice unico di questo rimarchevole risultato fu il generale Luigi Cadorna, che ebbe nelle sue mani un potere pressoché assoluto,  con il quale, nel bene e nel male, forgiò dal nulla forze armate a sua immagine e somiglianza. Ne fecero le spese 206 generali e 255 colonnelli, esonerati perché avevano disatteso le sue aspettative. La vittoria scaturì da questo immane sacrificio: il soldato italiano aveva combattuto con valore, aveva resistito con caparbietà al nemico, alle privazioni, al fango delle trincee, all’insipienza di molti ufficiali. Eppure, tutto ciò non bastò a migliorare l’immagine dei nostri militari all’estero.

Le imprese belliche del fascismo.

Mussolini nutriva grandi ambizioni per il ruolo bellico dell’Italia. Dichiarandosi erede dello spirito che aveva animato il Risorgimento propugnò la trasformazione del Paese in una “nazione militare”. Ancora una volta, però, le ambizioni nazionali superarono la realtà di uno Stato ancora arretrato e con un livello d’industrializzazione nettamente inferiore alle altre grandi potenze europee come Germania, Francia e Inghilterra. Prima della Seconda guerra mondiale, l’Italia affrontò due conflitti: si conquistò un impero con la Guerra d’Etiopia (1935-1936) e subito dopo partecipò alla Guerra civile spagnola del 1936-1939. In entrambe le occasioni le nostre forze armate mostrarono luci e ombre: organici e dottrine inadeguate, scarsa qualità e quantità di materiali, quadri inferiori insufficienti e ufficiali professionali ma di livello non uniforme, frammisti a ufficiali di complemento senza esperienza. Ultimo, ma non meno importante, il peso soffocante delle ingerenze politiche sulle decisioni militari. In definitiva, però, le forze armate raggiunsero quasi sempre i loro obiettivi, anche considerando che, in entrambi i conflitti, le difficoltà e la combattività degli avversari erano tutt’altro che trascurabili.

La seconda guerra mondiale.

Consumate fino a esaurirle le risorse nazionali nei due conflitti del quinquennio precedente, nel 1940 l’Italia affrontò la Seconda guerra mondiale con un’impreparazione persino maggiore di quanto era accaduto nella Grande Guerra. Soprattutto aveva possibilità ancora minori di recuperare lo svantaggio sia con l’alleato sia con gli avversari per la celerità che assunsero tanto lo sviluppo tecnologico quanto la produttività dell’industria. La Germania si rivelò un alleato poco generoso e poco comprensivo delle esigenze italiane, e scatenò il conflitto indifferente al contributo italiano. Al soldato italiano vennero dedicate le famose parole: “mancò la fortuna, non il valore” scolpite all’ingresso del sacrario di El Alamein una frase che ogni italiano conosce e di cui è fiero, il valore certamente non mancò, non solo in Africa, ma in ogni campo di battaglia e sul mare, come il nemico ha ampiamente riconosciuto (almeno sul livello militare la propaganda alleata, invece, alimentò sempre la leggenda dell’italiano codardo e imbelle). Tuttavia, sostenere che “mancò la fortuna” ebbe il valore implicito di un colpo di spugna che sottraeva gli alti ufficiali al giudizio sul proprio operato professionale. E nascose, dietro al valore dei soldati, precise responsabilità tecniche e morali sulla conduzione del conflitto.

 

L’onta di Adua.

Le sfortunate campagne coloniali d’Africa non costarono soltanto migliaia di morti, ma anche la reputazione del nostro giovane esercito, che pure si era battuto molto bene durante il Risorgimento.

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Le truppe etiopiche attaccano la brigata del generale Dabormida

Secondo il marche Ferrante d’Avalos, comandante dell’esercito asburgico durante le guerre d’Italia, la virtù marziale è il riflesso delle virtù civili: mancando il buon governo, mancano anche i buoni soldati. Nel XVI e XVII secolo, l’Italia sembrò confermare queste parole, tanto che nell’Ottocento l’idea di un popolo italiano pavido e smidollato era ormai consolidata. Come scrisse lo storico militare Costantino Mini, nei moti insurrezionali dal 1820 al 1831 “i nostri popoli si dimenticarono che per salvare l’Italia altro mezzo non v’era che la spada: quando si scossero operarono mollemente, o pretesero la ‘rivoluzione legale’”.


 

Una carica della cavalleria piemontese a Montebello: il colonnello Tommaso Morelli di Popolo (1814-1859) viene ferito a morte.

Contro l’aquila asburgica. Poi, nel 1848, sull’onda delle rivolte nazionaliste scoppiate in tutta Europa, anche l’Italia si riscosse. Il re di Sardegna Carlo Alberto intraprese la Prima guerra d’indipendenza, conclusasi nel 1849 con una sconfitta contro l’Austria; nello stesso anno prese a circolare una frase sprezzante, attribuita al generale francese Oudinot: “les italiens ne se battent pas” (gli italiani non combattono). Ma qualcosa stava cambiando. Quando, nel 1859, scoppiò la Seconda guerra d’indipendenza, la vittoria arrise ai piemontesi, sotto le cui bandiere accorrevano volontari da tutta la penisola, finché, nel marzo 1861 l’Italia divenne un regno unito sotto la corona sabauda. A quel punto, però, bisognava dotare gli italiani di un esercito, che nacque ufficialmente il 4 maggio 1861 dalla fusione dell’ex Armata sarda con le truppe delle entità statali minori confluite nel Regno d’Italia. Le nuove forze armate erano organizzate secondo il modello piemontese: solida formazione di ufficiali e sottoufficiali, ma diffusa incompetenza nei gradi più alti, affidati a rampolli dell’alta aristocrazia anziché a veri militari di carriera. Ancora ai primi del Novecento, il quadrumviro fascista Emilio De Bono disse che per diventare generali nell’esercito sabaudo bastava essere “bel, biondo e ciula” (bello, biondo e sciocco). Non era solo una battuta come dimostra la sfortunata avventura coloniale in cui il Regno d’Italia s’imbarcò sul finire del XIX secolo. Il progetto era quello di affermarsi come grande potenza dopo che, nel 1869, l’inaugurazione del Canale di Suez aveva aperto una rapida via per i traffici con l’Oriente.

 

La maledizione del Continente Nero. L’impresa coloniale italiana subì, in soli nove anni, tre sanguinose sconfitte nel Corno d’Africa, registrando un impressionante record negativo: a Dogali, nel 1887, all’Amba Alagi nel 1895 e ad Adua nel 1896 le truppe italiane furono annientate dalle forze indigene. A determinare le disfatte fu certamente l’inferiorità numerica, ma vi concorse anche la leggerezza del nostro stato maggiore. Lo storico Aldo Valori ricorda che nella preparazione della battaglia di Adua i piani d’attacco furono attuati basandosi su mappe in cui “un’intera serie di colossali alture era semplicemente soppressa, il corso dei torrenti profondamente alterato, i passi montani collocati a fantasia, le strade portate più a destra o più a sinistra, in un intreccio arbitrario”. Altre potenze coloniali aveva subito disfatte simili, ma in un quadro generale ampiamente positivo. Nella considerazione collettiva, quello italiano restava un esercito da operetta.

 

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La Battaglia di Dogali, rappresentata in un dipinto di Michele Cammarano


Da un alleato all’altro.

Una politica estera spregiudicata, con cambiamenti di alleanze repentini, pesò sulla reputazione dell’Italia e delle sue forze armate.

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La battaglia di Sciara Sciatt fu combattuta il 23 ottobre 1911 tra le truppe italiane e quelle turco ottomane supportate da migliaia di ribelli locali durante le prime fasi della guerra italo-turca.

Nonostante gli insuccessi africani, il giovane Regno d’Italia perseguì con ostinazione il sogno coloniale, stipulando con la Germania e Francia accordi diplomatici e commerciali che gli avrebbero permesso di stabilirsi in Nord Africa. La grande occasione si presentò nel 1911, quando prese corpo il progetto di occupare la Libia ottomana per tutelare gli interessi italiani in Tripolitania. L’opinione pubblica era divisa tra chi premeva era divisa tra chi premeva per la conquista di quel ‘piccolo Eden’ e chi la osteggiava giudicando la Libia nient’altro che “uno scatolone di sabbia”, ma alla fine vinsero i nazionalisti e la dichiarazione di guerra dell’Italia fu consegnata alla Sublime Porta il 28 settembre. Le operazioni di sbarco si svolsero talvolta con esasperante lentezza e molta disorganizzazione, tra le rivalità e le ripicche dei generali. Anche questa volta, il nostro stato maggiore non disponeva di carte geografiche aggiornate: in aggiunta, le informazioni che assicuravano il pieno appoggio della popolazione indigena ai “liberatori” italiani si rivelarono fasulle: i libici odiavano i turchi, ma ancor di più gli invasori infedeli. Lo scoprì dolorosamente l’11° bersaglieri, sorpreso nella notte del 23 ottobre a Sciara Sciat e massacrato dai guerriglieri libici.


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Batteria di cannoni da 149/23 in azione vicino Tripoli

L’avveniristico sbarco in Tripolitania. Eppure, in Libia l’esercito italiano mostrò una spiccata propensione alla tecnologia, che purtroppo negli anni successivi non sarebbe stata valorizzata a sufficienza. Il primo impiego dell’aereo, inventato solo otto anni prima e qui già usato per ricognizioni e bombardamenti, “automobili corazzate” antesignane dei carri armati, radiotelegrafo, documentari propagandistici furono i mezzi modernissimi che contribuirono nel 1912 alla vittoria del Regno d’Italia, arricchendolo di nuovi territori: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, oltre alle isole del Dodecaneso nel mar Egeo. Benché piccola, l’Italia si era conquistata un posto tra le potenze coloniali europee. Due anni dopo, nel giugno 1914, l’assassino dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo scatenò la Prima guerra mondiale, e l’Italia, ufficialmente membro della Triplice Alleanza insieme a Germania e Austria-Ungheria, temporeggiò per quasi un anno prima di scendere in campo. Ma lo fece sul fronte opposto, al fianco della Triplice Intesa di Francia, Regno Unito e Russia; alla fama di cattivi combattenti, gli italiani aggiungevano quella di voltagabbana.

 

Una buona prova nelle trincee. Ma contro le aspettative di molti, nelle trincee del Carso l’esercito italiano compì miracoli di ardimento e abnegazione, opponendo all’ottusità dei vertici militari la generosità delle truppe e conquistandosi il rispetto degli avversari. Lo scrittore Giuseppe Prezzolini, volontario nel 1915, ricordava “le cartoline austriache lanciate fra le nostre truppe, dove si vedevano i nostri soldati con la testa di leone guidati da generali con la testa d’asino”. La stessa opinione era condivisa dagli alleati francesi e inglesi, che nella riunione di Rapallo del 5 novembre 1917 pretesero la destituzione del generale Luigi Cadorna dopo la disfatta di Caporetto (23 ottobre), largamente riconducibile alla miopia dei vertici militari. Cadorna, invece, aveva accusato di disfattismo le truppe italiane sbandate, e lo fece pur sapendo che l’interruzione della catena di comando aveva reso impossibile qualsiasi comunicazione tra soldati e ufficiali. Il sacrificio e il valore dei fanti in grigioverde furono riconosciuti grazie alle imprese dell’ultimo anno di guerra, che si concluse con la nostra vittoria.

 

Sogni imperiali.

Quando Mussolini dichiarò di voler forgiare un popolo di guerrieri, i primi a dubitare sul buon esito del progetto furono proprio gli stessi italiani.

 

Il bilancio delle perdite italiane nella Grande Guerra fu spaventoso: su un totale di 5.615.000 mobilitati (l’Italia contava allora 36 milioni di abitanti), i caduti furono 650.000, i feriti 947.000 e i dispersi o prigionieri 600.000. il medico Corrado Tumiati sospettava che il numero dei militari e civili “minati, irrimediabilmente devastati nel fisico e nella mente” assommasse a 1.300.000. Nel primo dopoguerra, Mussolini cavalcò lo scontento dei reduci, facendo leva sul loro legittimo desiderio di rivalsa dopo il sangue e l’orrore delle trincee, per gettare le basi del regime che avrebbe retto l’Italia per vent’anni.

Con il fascismo le forze armate, potenziate in vista di un ritorno alla dimensione imperiale, parvero recuperare un prestigio a lungo negato. Di pari passo procedeva la militarizzazione della società (peraltro blanda in confronto a quella operata dal nazismo, che si andava sviluppando parallelamente in Germania): l’interno era fare del popolo italiano una stirpe di lavoratori pronti a prendere le armi in caso di bisogno.

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Partenza per il fronte dei soldati italiani da Montevarchi

Dall’Etiopia alla Seconda guerra mondiale. La prima prova a cui vennero chiamati i nuovi italiani fu la Guerra d’Etiopia. Iniziata nell’ottobre 1935 e conclusasi nel maggio 1936 con la conquista e la conseguente annessione dell’unico regno ancora autonomo del Continente Nero, porto alla creazione dell’Africa Orientale Italiana, grazie alla quale l’Italia ottenne un impero. Nell’estate del 1936, un’altra impresa attendeva gli italiani, che sembravano aver riscoperto il loro lato guerriero: la guerra civile in Spagna era scoppiata la guerra civile tra i repubblicani, fedeli al governo legittimo d’ispirazione marxista, e i nazionalisti di Francisco Franco. Mussolini inviò in appoggio a Franco circa 750 velivoli inquadrati nell’Aviazione legionaria, un corpo di spedizione della Regia Aeronautica appositamente costituito, oltre a circa 50mila ‘volontari’. Il conflitto terminò nell’aprile 1939 con la vittoria di Franco, e i successi riportati in quegli anni convinsero l’Italia della propria preparazione bellica. Così quando il Duce, il 10 giugno 1940, annunciò la discesa in campo al fianco di Hitler la gente non pensò al peggio.

Ma la guerra si rivelò più lunga del previsto: le risorse scarseggiavano, l’equipaggiamento degli uomini si rivelava inadeguato e le attrezzature belliche mostrarono la loro arretratezza. L’antica piaga dell’impreparazione dei vertici militari si riapriva, nonostante i prodigi di valore compiuti dalle truppe: dalle missioni dei ‘maiali’ alla disperata impresa di El Alamein, o durante la tragica campagna di Russia. Nel luglio del 1943 il fascismo cadde, e con esso l’effimero impero italiano. Le forze armate si divisero: da una parte quelle rimaste fedeli al re, nonostante la sua precipitosa fuga del 9 settembre, dall’altra quelle che scelsero di seguire Mussolini nella breve e drammatica avventura della Repubblica Sociale Italiana. Oltre gli steccati sanguinosi della guerra civile, in entrambi i campi i nostri connazionali seppero ancora una volta dimostrare valore e generosità. Che però non furono facili da percepire all’estero, dove gli italiani parevano aver voltato gabbana per l’ennesima volta, al termine di una guerra scriteriata e condotta in modo scellerato.

 

Le missioni di pace. Dal 1946, le forze armate della Repubblica Italiana sono impegnate in missioni di pace. Non è una novità, perché già nel 1885 l’Italia aveva inviato i suoi ufficiali a supervisionare la tregua dopo la Guerra serbo-bulgara. Da allora, in ben 64 occasioni l’Italia si è distinta nell’impegno di fornire un contributo alla ricostruzione e al mantenimento della pace in Africa, nei Balcani, in Medio Oriente e in Asia, dimostrando la sua propensione alla diplomazia: che da un lato può essere intesa come espressione di una scarsa attitudine alla guerra, ma dall’altro testimonia l’antica tradizione di solidarietà e vocazione al dialogo, propria del nostro Paese.

 

Articolo di Alessandra Colla – schede militari di Nicola Zotti pubblicato su Conoscere la Storia n. 50 – altri testi e immagini da Wikipedia


domenica 26 aprile 2020

Roma va in vacanza. I turisti nell’antichità.

Roma va in vacanza. I turisti nell’antichità.

 

Se andavano in Grecia o in Egitto, gli antichi romani non perdevano occasione di visitare i monumenti più celebri. I più famosi avevano anche delle ville marittime dove trascorrevano i mesi estivi con gli amici.


 

Pompei era una fiorente località. Molti facoltosi 

romani possedevano ville di lusso all'interno della 

cittadina ai piedi del Vesuvio o nei dintorni 

Litografia degli scavi nel 1850


A Roma si possono forse rintracciare le origini di un’usanza praticata oggigiorno da milioni di persone: il turismo. Se infatti viaggiare era un’attività comune tra gli antichi romani, che si spostavano per i motivi più svariati (commerciali, professionali, familiari, personali, religiosi, intellettuali o militari), c’era anche chi viaggiava per puro piacere, soprattutto tra le classi agiate. Lo stesso termine turismo viene dal francese tour, che a sua volta rimanda al latino tornare (‘girare’) e contiene implicitamente l’idea di un viaggio con un rientro, non diversamente dalle ferie estive dei nostri giorni. I nobili romani distinguevano tra il negotium, il tempo dedicato alle faccende e agli impegni quotidiani, e l’otium. Quest’ultimo era il periodo di riposo, in cui si allontanavano dal caso urbano per rifugiarsi in una delle numerose ville marittime ai piedi del Vesuvio o per esplorare i monumenti delle province orientali, soprattutto ne caso degli ufficiali e degli amministratori che lavoravano in quelle regioni.

 

Turisti e viaggiatori romani.

 

75 a.C.

Mentre esercita come questore a Lilibeo (Sicilia), il giovane Cicerone visita l’isola e scopre la tomba di Archimede.

64 a.C.- 19 d.C.

Strabone scrive la Geografia, in cui racconta anche il suo viaggio in Egitto con il prefetto Ellio Gallo.

I secolo d.C.

Plinio il Giovane descrive le piacevoli attività cui si dedica quando si ritira in una delle sue ville di campagna.

117-138 d.C.

L’imperatore Adriano trascorre gran parte del suo regno viaggiando per l’impero con una particolare predilezione per la Grecia.

160-180 d.C. circa

Nella sua Guida della Grecia in dieci volumi Pausania descrive le località e i monumenti che reputa degni di interesse.

Una carta stradale.

La tabula Peutingeriana è l’unica mappa conosciuta che mostra la rete di vie dell’impero romano, del Vicino Oriente e dell’Asia fino all’India e allo Sri Lanka.

Composta da undici pergamene, è una copia del XIII secolo circa di un originale risalente probabilmente al IV secolo d.C. ed è conservata nell’ex biblioteca delle carte imperiali di Vienna.ù

Tabula Peutingeriana: Pars IV - Segmentum IV; Rappresentazione delle zone Apuane con indicate le colonie di PisaLuccaLuni, il nome "Sengauni" e, poco sotto segnato con un puntino, il "Foro Clodi" posto a "XVI" miglia nell'entroterra a nord di Luni ove incontrava la strada che risaliva il fiume Serchio; il tratto Pisa-Luni non è ancora collegato

 

Il desiderio di conoscere il mondo. I romani non erano immuni al fascino irresistibile del viaggio. Non a caso nel corso del II e del III secolo d.C. si diffusero i racconti di avventure esotiche (come ‘Leucippe e Clitofonte’, ‘Le efesiache’ e ‘Le etiopiche’), grazie ai quali i lettori potevano immedesimarsi nelle giovani coppie di innamorati che si ritrovavano al termine di varie peripezie tra tribù etiopi, pirati greci e despoti orientali. Achille Tazio, Senofonte Efesio ed Eliodoro di Emesa sono alcuni dei nomi di questi “Salgari dell’antichità classica”, che sapevano trasportare il loro pubblico in località remote con la semplice forza dell’immaginazione. I bibliofili più colti potevano sfogliare anche i volumi delle periegesi, le narrazioni descrittive dei monumenti architettonici e scultorei più famosi del passato. Erano diffuse soprattutto quelle greche, ma ce n’erano anche dell’Asia Minore o dell’Italia meridionale.

Rispetto alle guide di viaggio di oggi le periegesi potrebbero essere definite dei trattati storico-artistici che informavano i lettori in merito alle usanze specifiche di una determinata zona e descrivevano i principali complessi religiosi e le rispettive feste e tradizioni. Plinio il Vecchio riferiva che i suoi contemporanei adoravano letture di questo tipo, in particolare quelle su Egitto, Grecia e Asia. Seneca, dal canto suo, amava uscire dalla città perché questo gli permetteva di conoscere persone nuove e scoprire meraviglie naturali prima sconosciute, specialmente i fiumi (un elemento naturale, spesso divinizzato, che esercitava un grande fascino sugli antichi), tra i quali citava il Tigri, il Nilo e il Meandro. Insomma, sono  gli stessi greco-romani a fornirci informazioni sulle principali destinazioni turistiche dell’epoca e sui punti di interesse artistico e naturalistico presenti in questi luoghi.

 

Attraverso la Grecia. Alcune regioni esercitavano un’attrazione particolare sui viaggiatori grazie al loro patrimonio culturale. L’Ellade e le province asiatiche evocavano reminiscenze delle tragedie classiche e dei poemi omerici. A Pilo si venerava il sepolcro di Nestore; ad Atene la tomba di Edipo; Oreste riposava a Sparta, mentre Agamennone e Ifigenia giacevano a Micene. A Troia, cui i romani erano particolarmente legati per le origini del loro eroe Enea, si potevano ancora intuire le tracce dell’accampamento degli assedianti achei o dell’altare di Zeus, dove il re troiano Priamo aveva perso la vita per mano di Neottolemo. Ciononostante la località era famosa soprattutto per le presunte tombe degli eroi omerici, come Ettore o lo stesso Achille, cui si recarono a rendere omaggio Giulio Cesare e alcuni dei suoi successori, come Adriano, Caracalla, Diocleziano e Costantino. Tra le tappe obbligate di un viaggio in Grecia c’erano destinazioni quali Corinto, Epidauro, Delfi, Sparta o Olimpia. In queste località si svolgevano importanti feste e giochi sportivi, che rappresentavano anche il momento migliore per una visita. Altre città erano famose per i loro monumenti locali: a Rodi, per esempio, c’erano i resti del Colosso, la cui massa bronzea di 33 metri di altezza raffigurante il dio Helios era crollata durante il terremoto del 226 a.C. I visitatori si divertivano ad esplorare i frammenti dei suoi enormi arti, trasformati in grotte artificiali, o a cercare di cingere il pollice della statua con le braccia, un compito che Plinio il Vecchio riteneva impossibile.

EGYPT-AMENHOTEPIII.JPG

Colossi di Memnone (anche noti in arabo come el-Colossat o es-Salamat) sono due enormi statue di pietra del faraone Amenhotep III. Eretti oltre 3400 anni fa nella necropoli di Tebe, lungo le rive del Nilo, di fronte sulla riva opposta all'attuale città di Luxor, le due statue facevano parte del complesso funerario eretto da Amenhotep III. Le statue successivamente alla morte del faraone divennero già famose nell'antichità, quando, in seguito al loro progressivo degrado, da una di esse si propagarono dei rumori, che all'epoca furono interpretati come il saluto dell'omonimo eroe a sua madre.

sulle basi di queste statue che si ergevano all'ingresso del tempio funerario di Amenofi III sulla riva occidentale del Nilo ci sono almeno 90 iscrizioni lasciate dai viaggiatoir romani a testimonianza della loro visita. 

 

Appassionati d’Egitto. Ma la terra che più meraviglia suscitava nel turista romano era l’Egitto. La stranezza dei riti religiosi e della scrittura geroglifica disorientavano e al contempo affascinavano i visitatori. Anche i monumenti provocavano stupore e sconcerto, che si trattasse delle piramidi di Giza o delle tombe sotterranee della Valle dei Re, sulle cui pareti sono ancora visibili i segni del passaggio di centinaia di viaggiatori che vi hanno inciso nomi, date, brevi biografie, poiesi e opinioni. Sappiamo per esempio che un certo Isidoro, originario di Alessandria, studiò legge ad Atene, che il centurione Januarina e che Antonio trovò la valle quasi altrettanto stupefacente di Roma. Circa la metà delle incisioni è stata rinvenuta nella tomba di Ramses VI, in passato ritenuta il sepolcro di Platone e per questo meta di pellegrinaggio dei filosofi neoplatonici, che vi entravano con la riverenza di chi visita un tempio. Molti di questi grafiti non sono altro che i commenti lasciati dai turisti. “Non mi è piaciuto affatto, se non per il sarcofago”, scrisse qualcuno. Un avvocato di nome Bourichios era seccato perché non comprendeva i geroglifici: “Di questa scrittura non si capisce niente!”, scrisse.

Un altro monumento egizio di particolare richiamo era la coppia di sculture di Amenofi III conservate nel suo tempio funerario, nei pressi di Luxor. Greci e romani le ribattezzarono subito “colossi di Memnone”, ritenendo che una delle statue raffigurasse il re etiope alleato dei troiani. Al mattino, quando la brezza soffiava attraverso le crepe provocate dal terremoto, le statue emettevano un suono curioso, in cui molti credevano di riconoscere la musica di una lira, oppure un fischio o un pianto. C’era anche chi ingaggiava scalpellini locali per fare incidere sul colosso i propri componimenti, come un poeta lirico di nome Paeone che scrisse dei versi in onore del suo mecenate Mezio Rufo, o la poeta Giulia Balbilla, che viaggiava al seguito della moglie dell’imperatore Adriano, Vibia Sabina.

 

Lavoro e piacere. Anche chi era all’estero per svolgere missioni belliche o diplomatiche trovava il tempo per fare turismo. È il caso di Lucio Emilio Paolo, che dopo la vittoria di Pidna nel 168 a.C. e lo smembramento del vecchio regno ellenistico di Macedonia andò a rendere omaggio alla dea Atena sull’Acropoli ad Apollo presso il santuario di Delfi, ad Asclepio nel recinto sacro di Epidauro e, naturalmente, a Zeus nel tempio di Olimpia a lui dedicato. Ma non trascurò nemmeno altre località emblematiche come Aulide, in Beozia, da dove era salpata la spedizione greca contro Troia guidata da Agamennone, o l’istmo di Corinto, sede dei famosi giochi. Alcuni anni più tardi il senatore Lucio Memmio trovò il modo di coniugare ozio e impegni lavorativi nel corso di una visita alla città egiziana di Arsinoe, l’antica Crocodilpoli. Memmio fu accolto con tutte le attenzioni da un funzionario del re Tolomeo IX, tale Asclepiade, che durante la sua permanenza non gli fece mancare nulla: gli organizzò una visita al labirinto (il complesso funerario collegato alla piramide del faraone Amenemhat III) e gli procurò i tipici panetti che i turisti davano in pasto ai rettili da cui la città prendeva nome, e in particolare al più importante fra questi: il coccodrillo che incarnava il dio Sobek. Il geografo Strabone racconta che questo enorme animale trangugiava la frutta, i biscotti e il vino che i visitatori gli gettavano passando. Ma non c’era bisogno di andare dall’altra parte del Mediterraneo per godersi di una bella vacanza. A partire dall’epoca repubblicana molti patrizi romani cominciarono a dotarsi di una o più ville al mare o in campagna, dove si ritiravano quando volevano sottrarsi agli impegni quotidiani e dedicarsi a un otium completo.

 Nile Mosaic.jpg

l'Egitto era una delle mete turistiche preferite 

dai romani. Tra i più famosi capolavori dell'arte musiva del periodo ellenistico, un posto di rilievo occupa il Mosaico del Nilo di Palestrina.

Scoperto tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento all'interno della cosiddetta aula absidata del Foro Civile dell’Antica Praeneste, adibita allora a cantina del vecchio Palazzo Vescovile, è conservato dal 1956 nel Museo Archeologico Nazionale di Palestrina.

Case di villeggiatura. La zona preferita per le ville marittime era la Campania, che ospitava località emblematiche come Pompei, Ercolano e Stabia. La regione era facilmente raggiungibile da Roma e aveva un clima mite e spiagge attraenti che ne facevano un centro turistico privilegiato. Ben lo comprese all’inizio del I secolo a.C. l’imprenditore Caio Sergio Orata, che ristrutturava le ville del golfo di Napoli per poi venderle a caro prezzo ai senatori. Sulle spiagge campane il tempo trascorreva sereno, tra “le gozzoviglie, i canti, i concerti, le gite in barca”, secondo le parole di Cicerone. Plinio il Giovane descrive le occupazioni estive cui si dedicava nelle sue ville: la meditazione, la lettura, i massaggi, il bagno, la musica, la pesca e le gite a cavallo. Se era in compagnia di qualche altro vacanziere delle case adiacenti, il passatempo prediletto era la caccia. Nel IV secolo d.C. l’oratore Quinto Aurelio Simmaco, proprietario di decine di abitazioni, trascorreva il tempo con i suoi amici Macedonio e Attalo chiacchierando, leggendo e dedicandosi anche lui alla caccia, uno svago che tra gli aristocratici andava per la maggiore. Tra i nobili poi erano all’ordine del giorno i banchetti, spesso allietati da spettacoli di musica, teatro, danza o esibizioni che oggi si definirebbero circensi. Ummidia Quadratilla, illustre nobildonna vissuta circa duemila anni fa, disponeva di una compagnia di pantomimi, funamboli e ballerini che animava le sue serate. L’archeologia è riuscita a conservare vari esempi di queste lussuose abitazioni, spesso circondate da ampi giardini e ninfei, decorate con pitture e gruppi di sculture in marmo e in bronzo d’ispirazione greca, e dotate di biblioteche come quella della villa dei Papiri a Ercolano. Molte di queste residenze erano immense, come la villa del Pastore a Stabia, con i suoi quasi 10mila metri quadrati, o la vicina villa Arianna, approssimativamente di 13mila metri quadrati.

In questi sontuosi ambienti di rappresentanza sociale, il patrizio romano poteva dedicarsi al riposo spirituale e al divertimento intellettuale come un raffinato sovrano ellenistico nel suo palazzo.

 

la Grecia era una delle destinazioni preferite dei romani, 

che seguivano le orme di Omero e dei grandi filosofi. sopra il 

Tempio di Poseidone a capo Sunio.



Turismo culturale.

Cicerone approfittò del periodo in cui fu questore di Lilibeo (in Sicilia) per dedicarsi al turismo. Qui scoprì la tomba di Archimede come racconta lui stesso nelle Tusculanae “Mentre passavo in rassegna con lo sguardo i monumenti … notai una colonnina che poco sporgeva dai cespugli, sulla quale si trovava la figura di una sfera e di un cilindro. E io subito ai siracusani … dissi di ritenere che fosse proprio ciò che cercavo”.

Cicerone scopre la tomba di Archimede, dipinto del 1781 di Christian Wink.

Vacanzieri fuori controllo.

Baia era per i romani sinonimo di caos estivo e turismo di massa. Le locande, le ville e le strutture termali della cittadina campana non godevano di buona reputazione. Ovidio riferisce quanto fosse facile “andare a caccia” di donne sole e vedove. Seneca racconta di persone ubriache in spiaggia, orge e chiatte che attraversavano il lago Lucrino ospitando ogni sorta di dissolutezza. Le grida e i canti si intensificavano al calar della notte, tanto in riva al mare quanto nelle innumerevoli osterie. Il poeta Marziale sottolinea che anche una matrona esemplare come la fedele Penelope avrebbe lasciato Baia trasformata in Elena di Troia. Marco Terenzio Varrone dice: “Non solo le ragazze diventavano pubbliche prostitute, ma persino uomini anziani si comportavano da efebi”.

Feste popolari.

A Baia i romani agiati si dedicavano a tutta una serie di attività che per gli stoici, come il filosofo Seneca, erano ripugnanti: “Non ho nessuna voglia di vedere ubriachi vagare lungo le spiagge, feste di beoni sulle barche, i laghi risuonanti di concerti e altri eccessi di questo genere”.

Ville con giardino.

I palazzi urbani o rurali dei ricchi romani ospitavano magnifici giardini privati. Uno degli elementi protagonisti di queste vere e proprie oasi di pace era l’acqua, presente in fontane, laghetti o ruscelli. C’era anche una grande varietà di piante e uccelli, come per esempio colombe e pavoni, così come sculture ed elementi architettonici.

Le ville marittime dei patrizi romani.

Gli affreschi di Pompei mostrano le diverse tipologie di ville in cui i romani agiati cercavano tranquillità e svago.

Villa San Marco - Atrio termale.jpg

L'atrio termale di Villa San Marco


Una villa in riva al mare.

Nella sua opera ‘Immagini’ il filosofo Filostrato Maggiore descrive così il lusso di una villa affacciata sul golfo di Napoli: “Vivevamo fuori dalle mura, in un quartiere residenziale di fronte al mare; c’era un portico orientato verso lo zefiro (un vento proveniente da ovest), di quattro o cinque piani, con vista sul Tirreno. Ospitava varie sculture di marmo, che conferivano splendore all’edificio, ma il fiore all’occhiello erano i dipinti … collezionati con gran gusto che dimostravano il talento dei loro esecutori”. 

 

Affresco pompeiano con le nozze di Zefiro e Clori, simile a quelli descritti da Filostrat

La villa laurentina di Plinio il giovane.

Pianta della Villa ritenuta di Plinio il Giovane presso Laurentum

Nelle sue ‘Lettere’ Plinio il Giovane descrive così la sua villa a Laurento: “Sul davanti vi è un atrio semplice … cui segue un portico che in forma di una D racchiude una corte piccola ma graziosa. L’insieme offre un eccellente ricovero per il cattivo tempo giacché è protetto dalle vetrate e soprattutto dalle grondaie dei tetti … Tutt’intorno la sala ha delle porte, o delle finestre non meno grandi delle porte e così lungo i lati e di fronte essa sembra affacciarsi su tre mari …”.

 

Articolo in gran parte di Jorge Garcia Sanchez, università Complutense di Madrid pubblicato su Storica National Geographic del mese gennaio 2019 – altri testi e immagini da Wikipedia.


mercoledì 22 aprile 2020

La marcia su Roma che non ci fu.

La marcia su Roma che non ci fu.

Sostenuto da validi argomenti, uno storico sostiene che la Marcia su Roma non ci fu, che tutto avvenne nel modo più pacifico e condiviso: quel falso evento fu la soluzione di una crisi politica senza sbocchi, mettendo in sella un uomo forte e risoluto. Così nacque la leggenda della “rivoluzione fascista”.

 

I fascisti a Roma (1922



“La Marcia su Roma semplicemente non è mai avvenuta. Il 28 ottobre 1922 per la  capitale è stato uno dei giorni più tranquilli di tutti quegli anni e probabilmente il fatto più rilevante che avvenne in quelle ore fu lo scambio di telegrammi del re con alcuni notabili. Il governo che nacque poco dopo, guidato da Benito Mussolini, era gradito a tutti e tutti vi presero parte. Fu solo in seguito che da una parte e dall’altra nacque la leggenda della marcia su Roma”. Quella che appare una rivelazione sconvolgente, ma che il professor Aldo Mola definisce solo un’attenta lettura dei fatti, al là dei luoghi comuni, è la ricostruzione storica di quelle ore convulse realizzata dall’autore ‘Mussolini a pieni voti? Da Facta al Duce. Inediti sulla crisi del 1922”.

Fu a posteriori che nacque la leggenda del 28 ottobre, alimentata sia da fascisti, increduli per la facilità della loro scalata ai vertici del potere, sia degli antifascisti, che dovevano giustificare la scarsa o nulla resistenza opposta a quell’inatteso colpo di scena. Anche negli anni successivi la Marcia su Roma servì a spiegare un dato di fatto, ormai metabolizzato da tutto il Paese. “Il fascismo usò gli eventi di quei giorni per poter asserire che si era affermato con la propria forza: per trovare una nobile genesi alla propria presa del potere, che il Partito Nazionale Fascista voleva far passare come un rivoluzione. In seguito – ma solo nel 1927 – si decise che sarebbe entrato in vigore in Italia il calendario dell’era fascista, che cominciava proprio con la presunta Marcia su Roma. Il mito però face comodo anche agli antifascisti che in realtà nel 1922 erano più che altro forze antisistema: socialisti, comunisti e repubblicani, i quali giusti cavano la propria inconsistenza politica raccontando di essere stati sconfitti solo di fronte all’assalto armato di forze incontenibili. In realtà, esse non godevano di alcun seguito popolare ed erano ai margini della vita politica, da dove sarebbero riemerse vent’anni dopo, a seguito dei disastri di una guerra devastante”, spiega il professor Mola.


Le camicie nere sfilano davanti al Quirinale

Italiani frustati, impotenti e confusi. L’origine egli eventi dell’ottobre 1922 va ricercata negli anni e nei mesi precedenti: lo Stato liberale si stava dissolvendo, la fine della Prima guerra mondiale aveva portato una forte crisi sociale, la lotta politica era sfociata in episodi di violenza. Dopo la Grande guerra, l’Italia fu sconvolta dalla crisi economica, mentre montavano i rancori per la presunta ‘vittoria mutilata’ (gli italiani ritenevano di non aver ricevuto un compenso adeguato per la partecipazione al conflitto, considerando l’enorme prezzo pagato in vite umane, oltre che in risorse economiche). Si viveva in uno stato diffuso di rabbia e frustrazione, che contrapponeva da un lato i socialisti più esagitati (quelli che volevano fare come in Russia, dove nel 1917 c’era stata la rivoluzione comunista) e dall’altro gli squadristi fascisti. Le violenze, però, ebbero il culmine negli anni 1919-21, mentre nel 1922 erano già in calo. La politica restava in forte crisi, una crisi sociale ed economica senza via d’uscita. Nessun uomo politico sulla scena era in grado di risolverla, occorreva un personaggio nuovo che si facesse carico del problema del Paese. dal 1919 era stata introdotta una legge elettorale proporzionale, potevano votare tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 21 anni. Nel 1921 si erano tenute elezioni anticipate, dopo quelle del 1919, e ancora una volta non si era pervenuti ad alcuna maggioranza chiara in Parlamento. Dopo che, in due anni, si erano susseguiti sei governi (i quali non riuscivano a fare niente, tanto meno a fermare la crisi post bellica), nel febbraio 1922, si era dimesso il governo Bonomi ne era seguita una crisi di due mesi. Per uscire dallo stallo, re Vittorio Emanuele III aveva affidato l’incarico di presidente del consiglio a Luigi Facta, un giolittiano che però si dimise subito, a luglio, di fronte a un imponente sciopero sindacale filo socialista, che invece era stato fallire dai fascisti, i quali nel caos imperante si facevano sempre più spavaldi e agguerriti. A quel punto si era insediato il secondo governo Facta, che aveva ricevuto la fiducia in Parlamento il 7 agosto: data da tener presente, perché da quel giorno il Parlamento non fu più convocato per mesi.


La prima seduta del Consiglio dei ministri nel 1922


Di fronte a una crisi permanente che rischiava di uscire dai binari istituzionali (comunisti e socialisti ne avrebbero approfittato per prendere il potere), a metà ottobre il re, che era in viaggio in Belgio per una visita di stato, chiese al premier di convocare le Camere per mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità. Dice Mola: “In realtà, la politica stava lavorando al di fuori delle istituzioni, il nodo era la proposta sotterranea di creare un governo con i liberali di Giolitti, i cattolici popolari di Meda (manovrati però da don Sturzo, esterno al Parlamento) e i socialisti. Ma Sturzo pose il veto a un governo guidato da Giolitti”. Fu una decisione fatale.

A quel punto, però, era chiaro per tutti che il governo al più presto sostituito, tanto più che non sembrava in grado di garantire l’ordine pubblico, sebbene la violenza politica fosse ormai in netto calo. Fu in questa situazione che Mussolini decise di forzare la mano, minacciando quella che poi sarebbe passata alla storia come Marcia su Roma. Così al Congresso fascista in corso a Napoli il 24 ottobre, mentre parlava di mobilitazione, in realtà chiese tre ministeri per partecipare a un governo di coalizione. Niente di rivoluzionario, quindi in un discorso ufficiale Giolitti sostenne che era utile associare i fascisti al governo, con un numero di ministri proporzionale alla loro presenza in Parlamento, che era solo di circa 35 deputati su 535 (eletti pertanto nei Blocchi nazionali insieme ai liberali). Nel frattempo, anche Facta trattava segretamente con Mussolini, sperando di mantenere il posto di presidente del consiglio. Tutti trattavano con tutti, ma nessuno concludeva. “Solo il re, unico con la testa sul collo, chiedeva la parlamentarizzazione della crisi”, sostiene Mola.

 

Il governo Mussolini in parlamento nel 1930

Il bluff vincente di un grande giocatore. In quel contesto, Mussolini decise di forzare i tempi, usando la pressione della piazza, e al congresso di Napoli dichiarò: “O ci danno il governo o ce lo prenderemo, calando su Roma a prendere per la gola la miserabile classe politica dominante!”. Da politico sopraffino quale era, Mussolini aveva capito che fosse il momento giusto per giocare d’azzardo. E così, ordinò la mobilitazione dei fascisti in tutte le città e organizzò le sue colonne, guidati da quadrumviri Emilio De Bono, Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi e Michele Bianchi. L’idea di marciare sulla capitale, per mostrare forza e determinazione, era figlia della precedente impresa di D’Annunzio a Fiume: d’altro canto, lo stesso Facta aveva ipotizzato una marcia, o meglio una sfilata per il 4 novembre, anniversario della vittoria del 1918, a Roma, guidata proprio da Gabriel D’Annunzio, per neutralizzare Mussolini. Ma quest’ultimo riuscì ad accordarsi con poeta, per non essere scavalcato da una figura più popolare della sua. Del resto D’Annunzio, poeta e uomo d’armi, impavido avventuriero, in politica sarebbe stato un pesce fuor d’acqua e ne era perfettamente consapevole: rischiava di essere un’occasione sprecata.

Lo stato maggiore fascista a Roma: (da sinistra a destra: Emilio De BonoBenito MussoliniItalo Balbo e Cesare Maria De Vecchi)



Mussolini proseguì dunque con i preparativi: bande raccogliticce, vocianti e anche violente,  ma assolutamente non in grado di fronteggiare l’Esercito, che aveva il pieno controllo della situazione. Se le camicie nere erano armate di pugnali, bastoni, qualche schioppo e alcune rivoltelle, le Forze Armate avevano predisposto tutto il necessario per non essere colte di sorpresa. Infatti, nei giorni tra il 24 e il 27 ottobre ci fu qualche manifestazione fascista in giro per l’Italia, “Ma laddove le cose furono appena un po’ più serie, con i tentativi di occupare le prefetture, Carabinieri ed Esercito risposero energicamente. I fascisti furono i primi ad essere sorpresi di trovare una risposta così determinata a quelle che loro in fondo consideravano azioni poco più che simbolico”, afferma Mola. Anche la difesa di Roma era più che pronta: “Il Ministero della Guerra era perfettamente informato su quello che stava avvenendo, così come il Ministero dell’Interno e le prefetture sapevano tutto di tutti, come emerge chiaramente  dai documenti dell’Archivio di Stato in gran parte ancora inesplorati. Un attacco armato non avrebbe mai potuto avere successo”, prosegue Mola. La strada alle camicie nere era sbarrata: il Regio Esercito aveva preso possesso dei nodi ferroviari di Civitavecchia, Orte e Valmontone (gli accessi a Roma dalle tre principali direzioni), dove aveva tolto i binari e sbarrato il passaggio dei treni in arrivo con vagoni carichi di sabbia. La tensione dunque c’era, ma la situazione era sotto controllo, in realtà a Roma arrivarono poche migliaia di fascisti dai dintorni: la capitale il 28 ottobre era assolutamente tranquilla. Due giorni prima, il 26, il capo del governo Facta aveva mandato un breve telegramma al re, in cui comunicava che ormai era finita la minaccia dell’assalto fascista su Roma. Ma il giorno dopo aveva bruscamente cambiato idea e ne inviò uno nuovo, stavolta piuttosto lungo, in cui drammatizzava la situazione e ritornava con toni allarmanti sulla minaccia della mobilitazione fascista in corso. Il re, compreso che qualcosa non andava e trovandosi a San Rossore presso Pisa, aveva risposto con solo quattro parole: “Arrivo a Roma stasera”. Giunto a Termini, lo aveva accolto Facta, annunciando le sue dimissioni.

 

Le violenze.

L'Ordine di smobilitazione

Il Partito Nazionale Fascista comunica:
Fascisti di tutta Italia!
Il nostro movimento è stato coronato dalla vittoria. Il Duce ha assunto i poteri politici dello Stato per l'Interno e per gli Esteri. Il nuovo Governo, mentre consacra il nostro trionfo col nome di coloro che ne furono gli artefici per terra e per mare, raccoglie a scopo di pacificazione nazionale, uomini anche di altre parti perché devoti alla causa della Nazione.
Il Fascismo italiano è troppo intelligente per desiderare di stravincere.
Fascisti
Il Quadrumvirato supremo d'azione, rimettendo i suoi poteri alla Direzione del Partito, vi ringrazia per la magnifica prova di coraggio e di disciplina e vi saluta. Voi avete bene meritato dell'avvenire della Patria
Smobilitate con lo stesso ordine perfetto col quale vi siete raccolti per il grande cimento destinato -lo crediamo certamente- ad aprire una nuova epoca nella storia italiana. Tornate alle consuete opere poiché l'Italia ha ora bisogno di lavorare tranquillamente per attingere le sue maggiori fortune. Nulla venga a turbare l'ordine potente della vittoria che abbiamo riportato in queste giornate di superba passione e di sovrana grandezza
Viva l'Italia! Viva il Fascismo".

Il Quadrumvirato

Fu il clima concitato e violento di quel periodo, dopo mesi di attacchi squadristi e di scontri fra rossi e neri, con toni retorici molto alti, che diede origine all’idea della “presa di Roma”. Qualche azione di forza ci fu davvero. A Ravenna, a fine luglio, una spedizione punitiva di marca fascista provocò 9 morti e ci furono scontri anche a Pavia, Biella e Rimini. Il primo ‘esperimento’ di conquista territoriale avvenne ad agosto ad Ancona, città scelta per le sue simpatie di sinistra e giudicata coriacea, la quale venne occupata da bande fasciste senza alcuna opposizione, con grande sorpresa di tutti: i fascisti pensarono che se una città come Ancona fosse così facile da prendere, le imprese future non sarebbero state impossibili. Tanto più che, in quei giorni – nel contesto di un grande confronto con i socialisti che avevano indetto uno sciopero legalitario – i fascisti occuparono brevemente anche i municipi di Milano, Pistoia, Varese, Alessandria, Firenze e Savona. L’episodio più grave avvenne a Parma: le squadre guidate da Italo Balbo assediarono la città difesa dagli antifascisti e negli scontri caddero 40 squadristi e 5 antifascisti, tanto che, alla fine, le camicie nere si ritirarono. Il 10 ottobre il ministro della Giustizia, Giulio Alessio, fece un bilancio delle illegalità fasciste dal 15 agosto al 22 settembre 1922: 369 reati di natura politica, tra i quali 74 omicidi, 70 lesioni personali, 75 violenze private, 72 danneggiamenti, 37 incendi. Quando, negli ultimi giorni di ottobre, da Napoli si annunciò la minaccia di calare su Roma, il telegramma di resoconto stilato dal prefetto partenopeo non evidenziava alcun problema reale e recitava: “Manifestazione fascista svolta nell’ordine. nulla da segnalare”. Il raduno si era chiuso sena scontri né violenze. Per organizzare la marcia. Il quartier generale fascista fu insediato a Perugia e ciò facilitò il transito di alcune squadre fasciste verso Roma, riuscendo anche a requisire alcuni treni. Nelle ore successive vennero convocate manifestazioni in tutte le città e in alcune di esse i militanti occuparono le prefetture, come a Firenze, Siena, Pisa, Foggia e Rovigo. Ma a Roma, niente di tutto questo.


Devastazione di una sede sindacale della CGL a Roma, con falò sulla strada delle carte e suppellettili ivi rinvenute

   

 

Il 28 ottobre a Roma non successe nulla. Ciononostante, la mattina dopo, il premier dimissionario decise di proclamare lo stato d’assedio e ne chiese convalida al re. Ma Vittorio Emanuele rifiutò, ritenendo la mobilitazione fascista solo una propaganda e che non ci fosse una situazione d’emergenza tale da giustificare una decisione così grave. Facta, peraltro, sembrava non essersi reso conto delle conseguenze: lo stato d’assedio prevedeva l’applicazione del codice militare e significava autorizzare i soldati a sparare ad altezza d’uomo, con l’unico precedente del non dimenticato massacro di Bava Beccaris a Milano, nel 1898. Secondo il re, si sarebbe data inutilmente all’estero l’impressione di un Paese spaventato a causa di quattro facinorosi. La soluzione doveva, piuttosto, essere politica. La mattina del 28 ottobre, Vittorio Emanuele III, dopo una serie di consultazioni e dopo aver ricevuto alcuni dinieghi (naufragò subito l’ipotesi di un governo Salandra), mandò i telegrammi di convocazioni a tre persone (c’era scritto: “venite a Roma per risolvere la crisi”): il cattolico popolare Filippo Meda, che era a Milano e non risposte tempestivamente; Giovanni Giolitti, che si trovava a Cavour, in Piemonte, dove aveva appena festeggiato gli 80 anni e dove le comunicazioni e gli spostamenti erano assai complessi (infatti disse al re che sarebbe arrivato a Roma nei giorni successivi, ma in realtà neanche si mosse); Benito Mussolini, che seguiva la mobilitazione della “Marcia su Roma” da Milano, ma rispose prontamente che sarebbe rimasto in attesa delle disposizioni del sovrano. “Vittorio Emanuele aveva ricevuto di prima mattina una visita molto importante, ma pochissimo nota: si trattava di Ernesto Civelli, uno degli organizzatori della Marcia, ma soprattutto collegato a Raul Palermo, Gran Maestro della Loggia d’Italia, con il compito di garantire al re che i fascisti non avrebbero messo in discussione la corona e sarebbero stati favorevoli alla monarchia”, racconta Mola.

Dopo aver consultato liberali, cattolici, democratici, industriali ed ecclesiastici, il re trova tutti favorevoli all’ipotesi di dare l’incarico di governo a Mussolini. Vittorio Emanuele III invia perciò un nuovo telegramma di convocazione al futuro Duce, che il 28 arriva in treno a Civitavecchia. Sottolineiamo questa data: siamo già al 29, il 28 a Roma è trascorso senza che sia accaduto nulla di rilevante sotto il profilo dell’ordine pubblico. La mattina del 30, il leader fascista prende un altro treno da Civitavecchia a Roma, sul quale mette a punto la lista dei ministri. Rappresentanti politici di vari partiti gli chiederanno di cambiare un paio di ministri rispetto al suo elenco originario: lui voleva Luigi Einaudi all’economia e il futuro presidente era disponibile, ma gli venne preferito Alberto De Stefani. L’altro nome della lista era, addirittura, quello di un socialista: Mussolini voleva tendere la mano al suo parto di origine, pensando che potessero esserci convergenze su lavoro e previdenza sociale, e indicò Gino Baldesi, il quale aveva accettato insieme ai socialisti riformisti di Bruno Buozzi. Alla fine, però, fu chiesto al futuro Capo del governo di lasciare fuori i socialisti. Nella coalizione c’erano in ogni caso liberali, democratici sociali, nazionalisti, cattolici popolari, oltre al generale Armando Diaz al Ministero della Guerra e all’ammiraglio (e massone) Paolo Thaon di Revel a quello della Marina.

 

Un governo di unità nazionale. In giornata, Mussolini riceve ufficialmente l’incarico e dopo qualche ora consegna al re l’elenco dei ministri concordato tra tute le parti in causa. Fra il 30 e il 31 – nell’assoluta tranquillità della capitale, con la sola eccezione di risse notturne a San Lorenzo tra forze dell’ordine e gruppi di anarchici – avvengono tutti i passaggi di consegna fra Facta e i suoi ministri e i loro successori. In un governo di unione nazionale (ben lontano in quel momento dall’essere espressione  di una dittatura) e di assoluto prestigio: ci sono personaggi come Giovanni Gentile e Giovanni Gronchi, uno dei nomi espressi dal Partito Popolare, che non aveva voluto aderire a un governo Giolitti, ma era presente in quello Mussolini.

 

La legge Acerbo e la Lista Nazionale.

La crisi istituzionale fu eminentemente politica e la sua soluzione, tramite un governo a guida fascista, fu confermata due anni più tardi dalle elezioni del 1924. In questo quadro si inserisce la Legge Acerbo, che assegnava un premio di maggioranza dei due terzi del Parlamento a chi avesse raggiunto il 25% dei voti. Molti studiosi attribuiscono ad essa la vera origine della dittatura fascista, ma il discorso in realtà è più complesso. La crisi degli anni precedenti, secondo i politici di allora, era stata determinata dalla legge elettorale proporzionale introdotta nel 1919, la quale aveva generato la moltiplicazione dei gruppi parlamentari rendendo più difficile formare una maggioranza di governo. Per questo ci si impegnò attivamente nella ricerca di una riforma elettorale. “La legge che porta il nome del sottosegretario fascista Giacomo Acerbo dovrebbe in realtà chiamarsi Legge Giolitti, perché fu il leader liberale a volerla più di qualunque altro. la sogli per il premio fu fissata al 25% perché nelle elezioni del 1921 il partito che aveva ottenuto più voti era stato quello socialista con il 24”, afferma il professor Mola. Spinti da questa legge fortemente maggioritaria, i diversi partiti trovarono un accordo e fu così che nacque la Lista Nazionale. Esse non era una lista fascista, ma teneva unite molte forze politiche. “I candidati fascisti nel Listone erano 227 su un totale di 543 e della lista facevano parte forze politiche eterogenee, dai liberali ai nazionalisti, con personaggi eminenti come Vittorio Emanuele Orlando ed Enrico De Nicola”, prosegue Mola. A parte i rivali di sinistra, dei vecchi alleati non vi parteciparono alcuni liberali e i popolari di De Gasperi. La Lista Nazionale alle urne ottenne quasi il 65% dei voti, ma i fascisti ancora non costituivano da soli la maggioranza in Parlamento. Fu nei mesi successivi che Mussolini riuscì a trasformare il suo governo in regime autoritario, soprattutto a partire dall’emanazione delle cosiddette leggi fascistissime, nel 1925.

 

La parata celebrativa e poi a casa. Solo il 31 si svolte l’evento che più si avvicina alla Marcia su Roma, come sostiene ancora il professor Mola: “Qualche migliaio di ‘marciatori’ fascisti erano presenti a Roma dal giovedì 26 precedente, pesando di fare la manifestazione il sabato 28 e la domenica di essere di nuovo a casa. Si era invece arrivati a mercoledì e non avevano con sé neanche da mangiare. A cose fatte, dovendo rimandare a casa i dimostranti, il 31 mattina fu organizzata la parata. Il tragitto era semplice e ufficiale, con in testa al corte la banda del Comune di Roma inviata dal sindaco Filippo Cremonesi: da piazza del Popolo le camicie nere (tra cui generali, massoni, monarchici e deputati) raggiunsero l’Altare della Patria, poi passarono sotto i  balconi del Quirinale, rendendo omaggio al re che li osservava al fianco di Diaz e Thaon di Revel, e infine si diressero a Termini dove li aspettavano 245 treni speciali organizzati dal governo”. Fu questo ‘l’assalto armato’ su Roma dell’ottobre 1922. “Il tutto avvenne nei giorni seguenti al 28 ottobre e confermò il dato di fatto della soluzione della crisi sui binari istituzionali voluti dal re. A questo punto fu convocato il Parlamento: il 17 ottobre la Camera dei deputati votò la fiducia con un’ampia maggioranza di 306 favorevoli, 116 contrari e 7 astensioni. L’intervento di adesione al governo per il partito Popolare fu tenuto dal capogruppo, Alcide De Gasperi. Pochi giorni dopo anche il Senato (dove erano presenti solo due fascisti) approvò la fiducia con 196 voti favorevoli e 19 contrari”, conclude Mola.

Era nato il primo governo Mussolini, cui di fatto quasi nessuno in Italia era contrario. Quella che è passata alla storia come un golpe, o una minaccia di golpe, si era risolta come un regolare conferimento di governo. Nessuno poteva prevederne il seguito.

 

Articolo in gran parte di Osvaldo Baldacci, ricercatore e scrittore di Storia, pubblicato su BBC History Sprea Editori, del mese di novembre 2018 altri testi e immagini da wikipedia

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