Dove nacque la parità
dei sessi.
Operaie, contadine,
infermiere, tramviere: costrette a sostituire gli uomini al fronte, le donne,
durante la Grande Guerra, hanno scoperto ruoli e responsabilità, impegni e
soddisfazioni prima sconosciuti. Così hanno preso coscienza della parità di
diritti che avrebbe dato presto i suoi frutti.
I
grandi
conflitti armati sono tragedie ma, paradossalmente, anche stimoli di progresso:
la Rivoluzione Francese e l’Impero Napoleonico hanno insanguinato l’Europa per
quasi tre decenni, eppure hanno permesso di passare dal mondo dei privilegi
settecenteschi al mondo dei diritti ottocentesco. Il 1914-15, a sua volta, ha
transitato la società dal mondo delle élites borghesi e aristocratiche al mondo
delle masse del XX. Milioni di uomini mobilitati nel primo conflitto
mondiale (5 milioni l’Italia, 7 la
Francia, 8 la Germania) hanno infatti creato un evento epocale che, per la
prima volta nella storia, ha coinvolto
tutta la popolazione dei paesi in guerra, qualunque casa, villa o catapecchia,
dal villaggio più lontano della Russia zarista all’ultimo paese di pescatore
della Sicilia mediterranea, ha al fronte qualcuno (un figlio, un padre, un
parente, un amico). La guerra entra nella coscienza collettiva, tutti vogliono
sapere come, dove, perché si combatte: l’informazione, prima riservata a pochi,
si diffonde a macchia d’olio, le tirature dei giornali e dei periodi illustrati
raggiungono numeri inimmaginabili qualche anno prima. Con la Grande Guerra
nasce l’opinione pubblica: la società della partecipazione così come siamo
stati abituati a conoscerla oggi. Sulla strada della modernizzazione c’è
tuttavia un altro elemento caratterizzante, figlio indiretto delle trincee del
Fronte occidentale e dell’Isonzo: l’emancipazione della donna. Movimento
ispirati dalla battaglia per la parità di genere esistono sin dalla battaglia
per la parità di genere esistono sin dalla seconda metà del XIX secolo,
soprattutto nei Paesi del Nord Europa e negli Stati Uniti: sono i cosiddetti
movimenti delle suffragette, termine sottilmente denigratorio con il quale si
indicano i gruppi che si batto per il diritto delle donne al suffragio (perché
non chiamarle siffragiste?). Si trattava tuttavia di movimenti elitari, che
coinvolgevano donne delle classi alte, ai quali restavano fondamentalmente
estranee le figlie del popolo, alle prese con il problema pratico di mettere in
tavola la minestra o la polenta tutti i giorni.
Il reggiseno. Il 12 febbraio 1914 Mary Phelps
Jacob, una ricca ereditiera americana appena ventenne, pronipote del celebre
inventore del battello a vapore Robert Fulton, richiede all’Ufficio brevetti
di New York il riconoscimento di una sua curiosa invenzione, brevetto che gli
venne concesso nel novembre successivo con il n. 1.115.674: si trattava di un
paio di piccoli triangoli di stoffa uniti tra loro e sorretti da bretelle, in
modo da fornire un adeguato sostegno al seno femminile. Apparentemente si
tratta di un capo di abbigliamento vagamente
erotico per un pubblico femminile delle classi agiate: dal punto di vista
pratico, si rivela invece un’invenzione fondamentale perché introduce una
vistosa miglioria fisica e psichica nelle donne, sino ad allora costrette
alla tortura delle stecche di balena dei corsetti. La Grande Guerra fa il
resto: la mobilitazione della manodopera femminile innesca un processo di
semplificazione del vestiario che trasforma l’intuizione di Mary Phelps Jacob
non solo in un simbolo di emancipazione femminile ma anche in elemento di
vestiario irrinunciabile, riprodotto in milioni di esemplari in tutto il
mondo. Il nome iniziale, reggipetto, viene trasformato in reggiseno, le
bretelle perfezionate, le fogge moltiplicate. Come afferma l’inventrice con
tono profetico, “non ritengo che il reggiseno cambierà il mondo come il
battello a vapore del mio antenato, ma quasi”. Certamente, esso è un’eredità
che 1914-18 lascia alle posterità del mondo occidentale. |
Donne al posto degli uomini. La situazione cambiò
bruscamente nel 1914-18: la mobilitazione al fronte di milioni di maschi per un
periodo ininterrotto di 4 anni determina infatti una frattura nell’ordine
sociale e familiare. Per le donne rimaste a casa non ci sono solo lutto e
ansia: la nuova realtà, l’assenza degli uomini significa anche assumere
responsabilità in ambito familiare prima riservate ai mariti e ai padri,
significa entrare nel mondo del lavoro per sostituire gli uomini sotto le armi,
significa uscire dalla gabbia (come affermano molte testimoni) e vedersi
dischiudere nuovi orizzonti, inquietanti e stimolanti al tempo stesso. Il primo
mutamento dell’ordine si registra in casa: accanto alla tradizionale educazione
dei figli, le donne devono occuparsi di pratiche burocratiche, rapporti con gli
uffici pubblici, acquisti e vendita di prodotti agricoli e di bestiame,
contrattazione dei prezzi, controversie legali, rapporto con le banche. In
alcuni casi (soprattutto nelle piccole aziende agricole) si tratta di decidere
se ricorrere ai lavorati salariati, assumendo la responsabilità dei relativi
costi; in altri di avviare lavori costosi di restauro (un tetto, un muro di
recinzione, un’intonacatura); in generale, si tratta di far quadrare i bilanci
con entrate inevitabilmente ridotte. Non a caso, nella corrispondenza privata
si intrecciano affetti e affari, come scrive la contadina piemontese Angela
Gottero, classe 1894, al marito Luigi nel gennaio 1916: “oggi ho ricevuto la
tua cara lettera e mi ha fatto piacere nel sentire che hai speranza di venire
in licenza: io desidero tanto quel giorno per poterti abbracciare e per
aggiustare gli affari di interesse”. Il mutamento più vistoso si ha però nel
mondo della produzione agricola e, soprattutto, industriale. Secondo calcoli
riportati da Antonio Gibelli ne “La grande guerra degli Italiani”: “Nelle campagne restano attivi solo 2,2
milioni di uomini sopra i 18 anni, contro un totale di 6,2 milioni di donne”.
Ne deriva l’occupazione femminile in mansioni agricole dalle quali erano solitamente
esentate: da quelle più pesanti (ammucchiare i covoni, scaricare il grano,
tagliare la legna) a quelle tecnologiche come la manovra delle macchine
agricole. Altrettanto significativo l’ingresso nell’ambito della fabbrica: le
esigenze belliche richiedono uno sforzo produttivo ingente, le donne vengono
impiegate nelle officine metalmeccaniche che realizzano fucili, mitragliatrici,
esplosivi, proiettili, cannoni di piccolo e medio calibro, alcune acquisiscono
livelli alti di specializzazione (per esempio, quelle addette al montaggio di
macchine di precisione per motori di aerei). Personale femminile compare negli
uffici postali, nelle banche, nelle assicurazioni, sui tram e sui treni. Donne vengono
coinvolte nell’estrazione dei minerali di ferro destinati all’industria
siderurgica. Il Corriere della Sera titola “Donne al posto degli uomini” una
pagina nella quale compaiono fotografie di donne italiane o straniere in
mansioni come spazzine, tramviere, barbiere.
Il fenomeno, così
rapido e dirompente, suscita curiosità e, insieme, sospetto: se Ugo Ojetti
osserva che “per tutti gli interstizi una
fiumana di donne è penetrata, gorgogliando e frusciando, nei luoghi degli
uomini (i campi, le fabbriche … ), e le più di esse lavorano e sono preziose e
s’ha bisogno di loro”, altri esprimono riserve e ironie, come il contadino
emiliano mobilitato sull’Isonzo che, lamentando la lentezza della moglie nel
rispondere alle lettere, scrive “adesso
che fate tutto voialtre e niente noi uomini non avete tempo da perdere in tanti
scritti”.
Il suffragio
femminile. Le suffragette britanniche Annie Kenney e Christabel Pankhurst manifestano a favore del suffragio femminile (1908 circa). Nell’immediato
dopoguerra la celebrazione “dell’indispensabile contributo femminile al
conflitto”, da una parte accentua la campagna contro i rischi per la moralità
pubblica, dall’altra, al contrario, apre notevoli spiragli al riconoscimento
del movimento di emancipazione femminile, nel campo dei diritti civili, del
diritto di istruzione, di accesso alle professioni, di emancipazione della
tutela giuridica, di accesso al voto. In Germania nel 1918 viene concesso il
suffragio femminile, in Inghilterra (pur con limitazione dei 30 anni di età),
nel 1919, in Francia nel 1925 limitatamente alle elezioni municipali, in
Italia la legge Sacchi nel 1919, comunemente definita “premio di
smobilitazione”, decreta il riconoscimento della parità giuridica della donna
con l’abolizione dell’autorizzazione maritale per tutti gli atti di proprietà
all’esercizio delle professioni e degli impieghi pubblici, con eccezioni
(peraltro molto restrittive). Solo nel 1925 Mussolini, prima di eliminare del
tutto e per tutti il diritto di voto, concede il diritto di voto, concede il
suffragio amministrativo alle donne “decorate della medaglia o della croce di
merito di guerra” o che siano “decorate di medaglia al valor civile, o della
medaglia di benemerite della sanità pubblica” o madri e vedove di cadute in
guerra o donne che abbiano la patria potestà o licenze o diplomi e “paghino
annuo contributo al Comune” (Laura Derossi, “1915 il voto alle donne”) |
Si rompono i ceppi della tradizione. Il
rapporto tra lavoro ed emancipazione è evidente: lavorare significa uscire dall’ambito
della casa, uscire dall’ombra maritale o paterna, acquisire consapevolezza di sé,
stabilire una nuova rete di rapporti sociali, avere la disponibilità di un
salario con il conseguente senso di indipendenza, assumere comportamenti che
prima erano considerati prerogative maschili (dal bere alcolici all’uscire di
sera, al frequentare luoghi di divertimento). E, soprattutto, decidere il
proprio destino, da sempre nelle mani degli uomini. In molti casi (soprattutto
per le donne giovani ancora senza famiglia propria) lavorare significa
spostarsi dalla campagna alla città, scoprendo nuovi orizzonti geografici e
sociali, oppure trasferirsi da una fabbrica all’altra cambiando luogo e
mansioni, in una dimensione di fluidità in netto contrasto con la tradizione di
stabilità alla quale le classi popolari sono state educate. Questo mutamento
nel rapporto tra spazio domestico e spazio esterno rappresenta un sensibile rimescolamento
della vita sociale. Cambia persino il modo di vestire: se ancora all’inizio del
Novecento le donne hanno i vestiti lunghi sino a terra, nel momento in cui esse
entrano nel mondo del lavoro hanno bisogno di indumenti più pratici e
funzionali e le gonne si accorciano sino al ginocchio. Allo stesso modo
scompaiono i corsetti, i busti che stringevano il petto rendendo impacciati i
movimenti, e vengono sostituiti dai più agili reggiseni. La donna del 1914-18 è
una donna che si libera dai limiti augusti del ruolo femminile tradizionale e
si avvia sulla strada della modernizzazione. Non a caso in molte testimonianze
femminili sulla Grande Guerra si parla di “senso di libertà”, di andare a
lavorare “quasi come un divertimento”, di “cose che non avremmo mai potuto fare
prima”, mentre in quelle maschili la memoria è interamente collegata alla
sofferenza e alla paura del fronte.
La lotta per la parità dei diritti. Il
fenomeno emancipatorio, ovviamente, non va esagerato nelle sue implicazioni. Ogni
momento di rottura comporta anche reazioni in contro tendenza. C’è chi, negli
anni di guerra, lamenta l’allentarsi della moralità pubblica, chi accusa la manodopera
femminile di scarsa professionalità e capacità di lavoro, chi è insofferente
per l’irrequietezza esistenziale e denuncia una preoccupante indisciplina, chi
cerca di imporre il “comando dei vecchi” per lasciare inalterate le gerarchie
di genere. Alcuni giornali di ispirazione più conservatrice richiedono maggiore
severità e vigilanza da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, la quale a
sua volta opera sulla base di una legislazione che limita fortemente l’agibilità.
Il tutto è comunque conferma di come i modi di vivere stiano cambiando. “La guerra cominciava a incrinare modelli di
comportamento, relazioni tra generi e classi di età, nonché tra classi sociali,
mettendo in discussione gerarchie, distinzioni di ruoli e autorità ritenute
immutabili: un effetto che – contenuto per il momento dalla legislazione
repressiva – sarebbe emerso più ampiamente nel dopoguerra, contribuendo a
conferire alle lotte sociali un’impronta di contestazione radicale dell’ordine
esistente”, afferma Gibelli nel suo libro. Sostenere che la donna si è
emancipata durante il conflitto è improprio, è però vero che il movimento di
emancipazione femminile ha trovato nelle condizioni eccezionali del 1914-18 le
sue radici e la sua spinta propulsiva che avrebbe presto dato i suoi frutti. Non
a caso in alcuni Paesi europei il diritto di voto viene concesso alle donne
proprio dopo la fine della Prima guerra mondiale.
Articolo di Gianni
Oliva storica e giornalista, autori di libri pubblicato su BBC History n. 91
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