venerdì 7 giugno 2019

Olocausto. Urla nel silenzio.


Olocausto.
Urla nel silenzio.
Nell’eccidio di Babij Jar da parte dei nazisti è stato uno dei primi, e dei più feroci, nella storia della “soluzione finale”. Eppure è stato tenuto a lungo nascosto.



L’orrore della Shoah non deflagrò solo dietro i reticolati di Auschiwitz, Dachau e Mauthausen. Anche in mezzo alla natura, in una gola idilliaca e dal nome fiabesco, Babij Jar, il male nazista portò tutta la sua insensata violenza. Babij Jar è una fenditura profonda dai 15 ai 60 metri, larga 30 e lunga due chilometri e mezzo, ai margini della capitale ucraina, Kiev. Lì, nella “Gola delle comari”, luogo ameno e solcato da un ruscello, per secoli teatro di famigliole, le Ss perpetrarono uno dei primi, e più spaventosi eccidi di tutta la storia della soluzione finale. In pochi giorni sterminarono 70 mila persone.


I FATTI. Il 29 e 30 settembre 1941, gli uomini del Sonderkommando 4a dell’Einsatzgruppe C (così si chiamavano le quattro divisioni, formate da agenti di polizia del Reich e dal servizio di sicurezza delle SS, incaricate di sterminare gli ebrei nei territori occupati), spalleggiati dalla polizia ucraina, fucilarono e scaraventarono nella voragine, morti o ancora vivi, 33771 cittadini ebrei.. Uomini, donne, anziani e bambini. La strage continuò nei giorni successivi, fino a un totale, appunto, di 70mila vittime. Per tre giorni e tre notti le strade principali di Kiev furono percorse da una fiumana di ucraini e profughi di religione ebraica convinti di essere trasferiti altrove, mentre in realtà s’avviavano alla morte. Nei pressi del cimitero ebraico, dove era stato loro ordinato di radunarsi alle 8 del mattino con documenti, gioielli e altri valori, vestiti pesanti e biancheria, non li attendevano camion o altri mezzi di trasporto, ma aguzzini in uniforme. All’aperto erano state collocate delle scrivanie. A gruppi di cinquanta o cento gli sventurati venivano chiamati dai funzionari della Schutzpolizei (il corpo di pubblica sicurezza del Terzo Reich) e in poco più di un minuto dovevano depositare a terra abiti, documenti ed effetti personali fino a rimanere nudi. Dopodiché venivano spinti sul ciglio del burrone, pigiati su una sporgenza di un paio di metri, e mitragliati dal versante opposto, o fucilati alla schiena, o spinti ancora vivi nel dirupo. Poi venivano sotterrati a strati. Nel memoriale che solo nel 1970 svelò al mondo le dimensioni e la natura del massacro (Babij Jar di Anatolj Kuzbetsov) si legge la testimonianza dell’unica superstite, Dina Pronicheva. Quando capì che stava per essere giustiziata, approfittando dell’oscurità. Si lanciò nel precipizio un attimo prima del “fuoco”. Sperava che il tappeto di cadaveri sottostante attutisse la botta, e così fu: “Fu inondata di sangue, anche sul viso, come se si fosse tuffata in un lago di sangue. Rimase stesa, le braccia in croce e gli occhi chiusi. Sentiva dei rumori sordi, dei lamenti, degli spasimi e dei pianti intorno e sotto di lei”, riporta Kuznetsov. Rimase immobile anche quando i soldati tedeschi la coprirono di terra, trattenne il respiro e riuscì a riemergere e riprendere fiato un attimo dopo che si erano allontanati.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Un viale del Babij Jar
Particolare della gola di Babi Jar nel 2004
Babij Jar (russo Бабий Яр, Ucraino Бабин Яр, Babyn Jar) è un fossato nei pressi della città ucraina di Kiev. Il luogo è tristemente noto per essere stato durante la Seconda guerra mondiale un sito di massacri ad opera dei nazisti e collaborazionisti ucraini ai danni della popolazione locale. Particolarmente documentato e noto fra tali massacri, fu quello compiuto il 29 e 30 settembre 1941, in cui trovarono la morte 33.771[1] ebrei di Kiev[2], secondo il dettagliato rapporto fatto da personalità e militari tedeschi[3]. La decisione fu presa dal governatore militare e generale Kurt Eberhard, dal comandante della polizia del Gruppo d'armate Sud, dal SS-Obergruppenführer Friedrich Jeckeln, e dal comandante delle Einsatzgruppe C, Otto Rasch con l'aiuto dell'SD e di battaglioni delle SS, con l'appoggio della polizia locale ucraina[4]. Fu uno dei tre più grandi massacri della storia dell'Olocausto, superato solo dal massacro della Operazione Erntefest in Polonia, nel 1943, con più di 42,000 vittime e dal Massacro d'Odessa con più di 50.000 ebrei nel 1941[5]. La Shoah denomina l'eccidio come «massacro della gola di Babi Yar»[6]



La memoria offesa.
24 gennaio 1946 - Dina Mironovna Pronicheva, sopravvissuta al massacro, testimone al processo di Kiev per crimini di guerra tenutosi contro i quindici responsabili della polizia tedesca durante l'occupazione
Fin da subito la memoria dell’Olocausto nei territori sovietici è stata soggetta a censure e insabbiamenti. Solo con la glasnost di Gorbaciov e Eltsin si è ristabilito un quadro di verità. Il libro nero sul genocidio nazista nei territori sovietici, degli scrittori Il’ja Ehrenburg e Vasilij Grossman, fu bloccato dalla censura di Stalin nel 1947 e vide la luce in edizione integrale solo nel ’93. Eppure i fatti erano noti da tempo: nel marzo ’61 un disastro naturale aveva riportato a galla l’orrore sepolto di Kiev: una diga cedette e il terrapieno di fronte a Babij Jar, colmato per volere delle autorità ucraine, sprofondò. L’allora ventottenne poeta russo Evgenij Evtusenko osò denunciare l’oltraggio alla memoria delle vittime ebree in un poema. Lesse il suo Babij Jar davanti a un’attonita platea di studenti il 16 settembre 1961 a Mosca. “Non c’è nessun monumento a Bucciso. Io sono ogni bambino ucciso. Io sono ogni bambino abij Jar. Tuoni l’Internazionale quando sarà sepolto l’ultimo antisemita della Terra”. Ma i tempi non erano maturi. Intervenne Crusciov, e il poeta fu “indotto” a modificare il testo eliminando i versi “io sono ogni vecchio qui ucciso. Io sono ogni bambino qui ucciso”, e al fianco delle vittime ebree spuntarono martiri russi e ucraini. Nel ’67 la rivista Junost pubblicò una versione purgata del memoriale di Kuznetsov. Per poterne divulgare la versione integrale, l’autore dovette riparare in Inghilterra.
Dietro la minimizzazione del massacro s’intravedeva la coda di paglia del regime comunista. L’antisemitismo era infatti un tratto comune a Hitler e Stalin, prima complici e poi nemici. La volontà di assimilare le vittime dell’Olocausto agli altri caduti denotava la coscienza sporca di Stalin e dei suoi eredi, l’ansia di coprire le discriminazioni, i pogrom e la complicità con i nazisti di larga parte delle popolazioni sottomesse (che odiavano i russi e vedevano nei tedeschi dei liberatori). Senza l’apporto di migliaia di collaborazionisti e senza una delazione diffusa, le SS non sarebbero riusciti nel loro piano genocida.



PRIMA. La strage di Babij Jar e altri eccidi simili compiuti in gran numero dati tedeschi nei territori occupati durante l’Operazione Barbarossa sono l’altra faccia dell’Olocausto. Una macchia parallela a quella dei ghetti e dei campi di sterminio ma ben più a lungo taciuta o minimizzata. A Kiev il pretesto ufficiale per la strage fu una rappresaglia. Pochi giorni prima dell’eccidio, il 22 settembre, i partigiani avevano fatto saltare con l’esplosivo gli edifici del Krescatik, il corso principale della città, nei quali era acquartierato lo stato maggiore degli occupanti. Per sei giorni e sei notti il quartiere era andato a fuoco. I tedeschi avevano mostrato subito il loro vero volto: appena entrati in città, il 19 settembre, s’erano abbandonati a saccheggi, requisizioni ed esecuzioni sommarie. Avevano soppresso i pazienti dell’ospedale psichiatrico locale con i Gauwagen, camere a gas su quattro ruote. E tuttavia la maggior parte della popolazione, che mai aveva sentito parlare di lager e forni crematori, e nemmeno di ghetti, non credeva, non concepiva neppure che avessero programmato il suo sterminio. I termini usati dalle SS “trattamento speciale”, “operazione speciale”, erano vaghi e ingannevoli.
L’ordinanza del 28 settembre venne interpretata come una notizia non troppo drammatica: l’annuncio d’un trasferimento di massa in una città di provincia. Si vociferava di una mobilitazione di mano d’opera o dello scambio tra prigionieri di guerra tedeschi e famiglie ebree. Tutti si misero dunque fiduciosamente in marcia verso via Menlik, l’anticamera del dirupo della morte; alcuni s’incamminarono che faceva ancora buoi, pensando di accaparrarsi i posti migliori.

Manifesto del 28 settembre 1941 in tre lingue (russo, ucraino e tedesco) con cui si ordina a tutti gli ebrei di Kiev di radunarsi alle ore 8 del 29 settembre 1941 nel luogo designato nella città di Kiev

DOPO. Le prove del massacro giacquero sotto poche spanne di terra per un paio d’anni. I tedeschi tentarono in extremis di cancellarle. Il 18 agosto ’43, nell’imminenza della ritirata, il capo delle SS locali, Paul Blobel, fece prelevare 300 prigionieri dal campo di Syrec e li spedì nella forra a dissotterrare con vanghe ed escavatori i corpi delle vittime. Dal cimitero ebraico furono strappate lapidi e ringhiere di ferro che vennero usate come graticole per bruciare i resti. Andarono avanti a incenerire i 70mila morti di Babj Jar fino  al 28 settembre, accatastando in ogni pria fino a 3mila cadaveri. Infine, con magli e pali, i prigionieri dovettero frantumare le ossa e disperderne la polvere lungo la gola.

MA NON SERVI’. Quando, due mesi dopo, l’adolescente Anatolij Kuznetsov tornò con gli amici sul ruscello che scorreva lunga la forra notò subito qualcosa di strano: “Il suo fondo era, prima, ricoperto da una bella ghiaia, ma ora appariva stranamente disseminato di pietruzze bianche. Mi chinai a raccoglierne una per esaminarla. Era un pezzettino di osso bruciato, piccolo come un’unghia”. Più avanti la sabbia della sponda era diventata grigia: “A un tratto ci accorgemmo che camminavano su cenere umana”. Riporta Kuznetsov. Ancora più in alto, dei pastorelli, mentre rompevano a martellate blocchi di carbone franati con le piogge, scoprirono tibie, teschi, anelli d’oro e altri oggetti semicorrosi incastonati. A Kiev c’erano 848mila abitanti all’arrivo dei tedeschi. 160mila erano ebrei e furono ammazzati. Quasi la metà venne gettata e incenerita in quella selvaggia discarica naturale.

Il criminale nazista SS Paul Blobel

CENSURA.  All’orrore dello scempio si aggiunse lo scandalo della censura calata sulla strage: l’attenuazione caparbia da parte delle autorità sovietiche che, come afferma la storica Antonella Salomoni, hanno reso Babji Jar “Il simbolo dell’atteggiamento minimalistico del governo sovietico di fronte alla catastrofe ebraica”. Metà delle vittime della Shoah, cioè 3 milioni di ebrei, caddero in territorio sovietico, ma di loro si sa poco e se ne parla assai meno rispetto agli ebrei deportati ad Auschiwtiz o a Treblinka. A Babij Jar non c’è un monumento commemorativo degno di tal nome. Non esiste più nemmeno la gola della vergogna: per una decina d’anni una fabbrica di laterizi vi ha scaricato i suoi scarti. “Il governo sovietico voleva liquidare Babij Jar anche come luogo fisico”, sostiene la scrittrice Katja Petrowskaja. Una stele e una scultura a forma di menorah (il candelabro della religione ebraica) sono state erette tra il ’66 e il ’91, ma non sul luogo dell’eccidio, bensì dove sorgeva il cimitero ebraico. Nel 1976 è stato costruito un memoriale per le vittime sovietiche fucilate dai nazisti. Una croce è stata collocata nei pressi del burrone, con una generica dedica “ai patrioti ucraini”. Un dramma nel dramma, con protagonisti illustri.

Articolo in gran part di Dario Biagi pubblicato su Focus Storia 146 – altri testi e immagini da Wikipedia.

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