Le insulae antichi
grattacieli.
In una città sempre
più popolata e dove gli spazi edificabili diventavano ogni giorno più rari, gli
architetti romani ebbero un’idea destinata a durare: creare i primi condomini.
Una
città cosparsa di caseggiati a molti piani dove un’umanità litigiosa e rumorosa
si stipava, suo malgrado, in una promiscuità forzata. Questa visione, per noi
abituale, era invece sconvolgente per gli antichi, perché al di fuori di Roma e
di pochissime altre città non esisteva nulla del genere. L’insula, il
caseggiato con appartamenti in affitto, fu infatti un’invenzione dell’Urbe,
legata alle sue caratteristiche peculiari. La civiltà romana era fondata sulla
città come unità base dell’organizzazione politica e amministrativa, poiché in
essa si trovavano i luoghi in cui si esercitava il potere. questo trasformò le
città romane in poli di attrazione irresistibili che, soprattutto nel caso
dell’Urbe, presero presto l’aspetto di vere metropoli.
Strada con insulae a Ostia antica
FAME DI SPAZIO. La superficie di Roma all’interno
delle Mura Aureliane è di poco inferiore ai 1400 ettari (circa 2000 campi di
calcio), insufficienti per una popolazione che già all’epoca di Augusto, era
stimata in circa 1 milione di abitanti. Parte di essa, inoltre, non era
edificabile, come il Palatino, la zona dei magazzini sul Tevere o il Campo
Marzio.
Le città moderne hanno
ovviato al problema creando le periferie, ma anticamente non era possibile
vivere lontani dalla propria attività, perché in assenza ldi trasporto pubblico
e mezzi veloci sarebbe stato impensabile fare i pendolari tra casa e lavoro. A
Roma, la questione fu risolta estendendo l’area residenziale non in larghezza,
ma in altezza. L’esigenza di sfruttare in maniera ottimale gli spazi
edificabili emerse già durante la Repubblica. Tito Livio racconta un episodio
avvenuto nell’inverno del 218-217 a.C.: un toro fuggito dal mercato del Foro
Boario cercò rifugio in un edificio arrampicandosi per le scale fino al terzo
piano. Ciò significa che già a quell’epoca esistevano case a più piani. Due secoli
più tardi, Ciceroni si lamentava che Roma, per la singolare posizione delle
abitazioni, fosse come sollevata e sospesa nell’aria, con vincoli strettissimi,
mentre Capua era tutta armonicamente in pianura. All’epoca di Augusto, la
preoccupazione per l’altezza delle costruzioni era tale che il sovrano pose un
limite massimo di 70 piedi (21 metri)
per gli edifici privati, pari a circa sei o sette piani. Ma la legge non ne
fermò l’ascesa un secolo dopo, Traiano dovette emanare una nuova normativa con
limiti ancora più restrittivi, riducendo l’altezza a 60 piedi.
GRATTACIELI, INCENDI E CROLLI. Come spesso
accade, gli sforzi dei legislatori furono inutili. Sotto i Severi, nel II
secolo, venne costruito quello che può essere considerato il primo “grattacielo”
della Storia, l’insula di Felicula, che superava di parecchio i limiti di
Traiano. I Regionari (elenchi di monumenti delle quattordici “regioni” in cui
era divisa Roma) la collocano nella Regio IX, detta “del Circo Flaminio”, non
lontana dalla Colonna di Marco Aurelio, con cui rivaleggiava in altezza. Poiché
la colonna è alta 29 mm. è possibile che il caseggiato di Felicula contasse
nove o dieci piani. Ciò lo rese subito leggendario, tanto da provocare una
sorta di turismo per andare ad ammirare un simile portento. Due secoli più
tardi quell’insula era ancora tanto famosa (o miracolosamente in piedi) che lo
scrittore cristiano Tertulliano la utilizzò come metafora dell’arroganza degli
eretici Valentiniani. Ma quanto erano sicuri questi edifici? Per non mangiarsi
troppa superficie di base, sempre scarsa, i costruttori tendevano a realizzare
muratori dagli spessori ridotti. Secondo Vitruvio, la legge proibiva che i muri
perimetrali superassero il piede e mezzo (circa 45 cm), anche se a Ostia i muri
maestri erano spessi fino a 60 cm. A Roma, però, la fame di terreno edificabile
spingeva spesso a soluzioni estreme, se non addirittura criminali. La Forma
Urbis, la grande pianta di Roma di età severiana, indica che nel II secolo le
insulae avevano una superficie di circa 300 o 400 mq. Un muro di 45 cm non era
sufficiente a garantire la stabilità di sei o sette piani, men che meno se di
spessore inferiore. Se a questo si aggiunge la malafede dei costruttori, che
spesso per risparmiare utilizzavano materiali scadenti, non sorprende che il
rischio di crolli fosse assai concreto. Di conseguenza, alle case venivano
spesso aggiunti rinforzi e sostegni, come testimonia Giovenale: “Viviamo in
un’Urve che si sostiene su esili puntelli”.
Anche un edificio ben
costruito correva comunque il rischio degli incendi. I caseggiati erano divisi
in cenacula (appartamenti), con tramezzi di legno precursori del nostro
cartongesso, comodi da spostare per dare un nuovo aspetto agli spazi e
ottenere, eventualmente, più appartamenti da affittare. Il pericolo di questi
materiali infiammabili, unito all’utilizzo di bracieri per riscaldare o
cucinare, era reso più grave dalla mancanza dell’acqua. Benché i Romani fossero
maestri nel creare condotte idriche anche in situazioni molto complesse, non
esistono prove di un sistema per portare l’acqua ai piani superiori delle
abitazioni. Le insulae in cui sono state rinvenute tubature connesse agli
acquedotti cittadini potevano, al limite, avere una fontana nel cortile
centrale a disposizione degli inquilini, che dovevano portare l’acqua a mano ai
piani superiori. Facile immaginare che chi abitava al sesto piano non ne avesse
molta voglia, e in caso di incendio non avesse acqua per contrastarlo. Nerone,
dopo il grande incendio del 64 d.C., tentò di imporre norme basilari di
sicurezza, prescrivendo che ogni edificio avesse muri indipendenti da quelli
vicini e utilizzasse materiali ignifughi, come il tufo di Gabii. Fece anche
allargare i vicoli, per distanziare le facciate delle abitazioni, ma senza
molto successo. I cenacula presentavano anche altre scomodità: legata al
problema dell’acqua era, per esempio, la mancanza di servizi igienici. Nelle
insulae più eleganti poteva esistere una latrina condominiale, al pianoterra,
ma di solito gli inquilini dovevano accontentarsi di contenitori, svuotati a
volte, in un grande recipiente per le orine posto fuori dal portone.
Insula e domus. La
differenza è già nel nome.
L’origine del
termine insula, “isola”, sembra in contrasto con le fonti che ne offrono le
fonti antiche e le evidenze archeologiche: un agglomerato brulicante di
umanità, tanto strettamente connesso al tessuto urbano da causare incendi
tremendi se il fuoco sfuggiva al controllo anche in un singolo appartamento.
In realtà, in origine questi edifici svettavano in solitudine, a causa
dell’inusuale altezza e per il lato di essere delimitati tutt’intorno da
strade o giardini su cui si affacciavano con porte e finestre. Queste
caratteristiche allontanavano del tutto l’insula dalla struttura abitativa
tradizionale, la domus, sviluppata su un solo piano e quasi invisibile
dall’esterno perché circondata da mura senza finestre e orientata verso un
giardino o un cortile interno. Mentre l’insula era destinata all’utilizzo
simultaneo (e spesso temporaneo) di persone non si conoscevano fra loro, la
domus suggeriva già nel nome un “dominio” privato, trasferito per eredità
all’interno di un’unica famiglia.
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Quante erano e dove.
Gli elenchi di edifici dell’Urbe
compilati nel IV secolo di quasi 47 mila insulae: un numero così
impressionante che alcuni studiosi lo riferiscono ai singoli cenacula e non
agli edifici. Le insulae erano comunque molte. Elio Aristide, nel II secolo,
scrive che se le abitazioni fossero portate tutte al livello terreno l’Urbe
si estenderebbe fino all’Adriatico. Solo l’insula dell’Ara Coeli, ai piedi
del Campidoglio, è giunta fino a noi: databile al II secolo, si stima potesse
ospitare circa 380 persone su almeno cinque piani, con botteghe al
pianoterra.
A Ostia, parecchie insulae sono
sopravvissute fino al primo piano: spesso più eleganti di quelle romane,
hanno soffitti affrescati e muri decorati a imitazione dei marmi più
pregiati. A Pompei la presenza di simili edifici è assai inferiore, forse
perché la diffusione fu bloccata dalla distruzione della città. Case di
grandi dimensioni, persino più alte di quelle di Roma, erano presenti,
secondo Strabone, anche a Tiro, in Fenicia (l’attuale Libano).
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CASA, DOLCE MA SCOMODA CASA. I liquami garantivano
ulteriori guadagni al padrone dell’edificio, perché il liquido veniva venduto a
conciatori e tintori. Analogo metodo di eliminazione, tramite un pozzo nero,
avevano le altre deiezioni. Molti inquilini dei piani alti, però, per evitare
il trasporto del secchio olezzante fino al punto di raccolta, con il favore
della notte lo svuotavano nella strada sottostante. Anche la temperatura
domestica era difficile da gestire. Come si è accennato, l’unico sistema di
riscaldamento era costituito da bracieri, solitamente di metallo, accesi nelle
stanze. Alto era il rischio di morte per esalazioni di anidride carbonica,
perché gli ambienti non erano ben areati e per impedire che il caldo sfuggisse,
le finestre, prive di vetri, venivano sigillate con sportelli di legno o pelli
di animali. Anche per cucinare si ricorreva allo stesso sistema, ma chi se lo
poteva permettere preferiva mangiare in una delle tante taverne che servivano
cibo pronto a prezzi ragionevoli. Di intimità, ovviamente, neanche a parlarne:
attraverso i tramezzi di legno passava qualsiasi rumore.
Data la scarsa
comodità, ci si aspetterebbe che queste abitazioni fossero almeno economiche.
Tutt’altro: gli affitti erano così esorbitanti che Tolomeo VI, re d’Egitto in
esilio a Roma nel 164 a.C. dovette farsi ospitare da un pittore di Alessandria
nel suo misero appartamento ai piani alti, non potendo pagarsene uno di tasca propria.
IL VERO PREGIO DELLE INSULAE. Se abitare in
un’insula costringeva a un tenore di vita molto modesto, possederne una era
tutt’altra faccenda. Questi edifici, infatti, assicuravano rendite fruttuose.
Di solito l’insula apparteneva al proprietario del terreno (spesso il
costruttore). Questi però, non lo amministrava personalmente. Quasi sempre
l’edificio veniva affittato per intero a un’altra persona, che pagava un canone
complessivo, affittando poi i singoli cenacula o anche sezione dell’edificio
(uno o più piani, oppure gruppi di appartamenti) ad altri locatari. Una volta
versato il dovuto al proprietario delle mura, tutto il resto era guadagno. Ecco
perché i cenacula erano moltissimi, piccoli, stipati di abitanti e con affitti
esosi. Altri profitti potevano venire dalle attività commerciali al piano della
strada: si poteva sia riscuotere il normale canone, sia partecipare all’impresa
con capitali propri, incassando poi una parte degli utili.
La proprietà urbana
garantiva una rendita più alta di quella agricola, anche se era poco onorevole
ammetterlo: il patrizio romani, infatti, basava la sua ricchezza sulla terra.
In realtà, i ceti abbienti ricavavano vere fortune dalle proprietà immobiliari.
Cicerone, ogni anno, si metteva in tasca circa 80mila sesterzi solo con gli
affitti delle insulae, equivalenti a una cifra vicina ai 480mila euro, secondo
una plausibile valutazione del sesterzio. Ma perché sottoporsi a tante
scomodità e rischi concreti a così caro prezzo? In verità, gli inquilini delle
insulae non passavano molto tempo in casa. La vita si volgeva per le strade,
dove c’erano le terme per lavarsi, taverne per nutrirsi, piazze per portare
avanti i propri commerci. Soprattutto, fuori c’era Roma, la città più bella e
grande del mondo.
Articolo in gran parte
di Francesca Garello pubblicato su Civiltà Romana n. 3 Sprea edizioni – altri
testi e immagini da wikipedia.
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