Legionari romani.
Alle radice della
grandezza militare di Roma.
Roma centro strategico
d’Italia.
In un panorama variegato,
dove numerosi popoli lottavano per la sopravivenza, la futura città eterna
riuscì a emergere sopra tutte le altre. Distinguere tra storia e mito, però,
non è facile.
“Chi
può essere tanto stolto o pigro da non sentire il desiderio di sapere come e
sotto quale forma di governo i Romani, in meno di 53 anni – fatto senza
precedenti nella storia – abbiano conquistato quasi tutta la terra abitata?”.
Così lo storico greco Polibio introduce al lettore il tema centrale delle sue
Storie: quei 53 anni dal 221 al 168 a.C. durante i quali Roma si affermò come
potenza egemone nel Mediterraneo, sconfiggendo Cartagine, sua mortale nemica.
C’è però un’altra
domanda che meriterebbe una risposta: come ha fatto Roma a proporsi per una
simile sfida? 0vvero, quale percorso ha compiuto nei cinque secoli che
precedono gli eventi narrati da Polibio, tanto da essere pronta a diventare la
padrona “di quasi tutta la terra abitata”?
Roma non fu
propriamente fondata, ma nacque, probabilmente anche prima dell’VIII secolo
a.C. dalla fusione di due centri abitati che dominavano il guado più
meridionale del Tevere dall’alto delle due cime del colle Palatino, il Palatius
e il Cermalus: il loro perimetro era protetto da una palizzata e da qui il nome
saepti montes (colli circondati da palizzata), che con il tempo venne
equivocato in “sette colli”. Roma invece deriva il suo nome, forse, da Rumon o
Rumen, nome arcaico del Tevere. E a questo fiume è legato anche il destino
della città. perché quel guado ne faceva un luogo di importanza strategica per
i traffici tra il Centro e il Meridione d’Italia. Alla foce del Tevere,
infatti, vi erano delle preziose saline, mentre il corso del fiume e del suo
affluente Anio (Aniene) conducevano al mercato di Roma il bestiame che veniva
allevato negli Appennini. L’Agro Romano (area rurale intorno alla città), poi
era molto fertile, e capace di sostenere una popolazione proporzionalmente più
numerosa che in molte altre zone limitrofe. Questa serie di fattori
concomitanti faceva dunque di Roma la chiave di volta dell’intera Italia
centrale, in una condizione privilegiata, ma allo stesso tempo critica. La
città era infatti circondata da popolazioni bellicose che la consideravano
niente altro che una ricca preda: una condizione naturale in un’epoca in cui la
guerra era endemica e rientrava nelle normali attività economiche di una
comunità. Roma, naturalmente, non era da meno: la sua sopravvivenza, ancora
prima che i suoi successi era strettamente legata alla forza militare, e
l’intreccio tra strutture militari – tattiche comprese – e istituzioni civili
fu per forza di cose indissolubile. La risposta che cercavamo, o almeno un’idea
di essa, deve essere trovata in questo connubio.
Tipico elmo villanoviano utilizzato dagli Etruschi. Venne introdotto anche nel primo periodo regio di Roma nel primo esercito romuleo. (Museo etrusco Guarnacci di Volterra).
Oltre il Tevere, a nord-ovest, i
Romani fronteggiavano la popolosa ed evoluta comunità etrusca, di origine non
indoeuropea, la cui esponente più meridionale, Veil (Isola Farnese), aveva un
proprio avamposto addirittura a Fidenae, a soli 9 chilometri in linea d’aria
dal Campidoglio. Poco più a nord c’erano Falisci e Umbri, a nord-est i
Sabini, che avevano intrattenuto stretti rapporti con i Romani e si erano
spinti fino alle sue porte, ad Antemnae. Gli Appennini a est di Roma erano
abitati dagli Aequi e dagli Hernici. A sud, nelle pianure che conducono alla
Campania, risiedevano i Latini, della stessa etnia dei Romani ma gelosissimi
della propria indipendenza; poi i Volsci che dagli Appennini del Lazio
meridionale erano scesi fino ad occupare il territorio dell’Agro Pontino.
Lungo la costa della Campania c’erano le intraprendenti colonie della Magna
Grecia, che contendevano ance territori nell’interno alle popolazioni
Campane, così come gli Etruschi, che avevano cercato di stabilirsi sulle
coste del Tirreno meridionale. Infine, non immediatamente gravitanti su Roma,
ma comunque attori di primo piano della scienza geopolitica italiana,
incombevano a su i Sanniti, una federazione di varie tribù che avevano in
comune la lingua, l’osco, e la religione, e a nord i Galli Senoni. Tutte
queste popolazioni, purtroppo, non ci hanno lasciato una storia autonoma:
abbiamo loro notizie praticamente solo quando incrociano il cammino con
quello dei Romani, e non conosciamo la loro versione dei fatti. Sono
rarissime le informazioni relative a conflitti fra popolazioni italiche, che
pure non dovevano mancare, quando non coinvolgono anche i Romani.
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Tra mito e realtà
Colonna Traiana, rilievo XV. Alcuni exploratores conducono un prigioniero dace al cospetto dell'imperatore, per essere interrogato. Traiano, dall'alto di un accampamento fortificato, affiancato da due collaboratori, ispeziona lo status dei lavori sottostante, dove numerosi legionari stanno costruendo un nuovo ponte fisso su di un fiume, mentre altri legionari sono intenti a scavare un profondo fossato, utilizzando delle ceste per il trasporto del materiale.
Le fonti della storia di Roma
dagli albori almeno fino alla maturità della Repubblica sono a dir poco
problematiche. Gli storici romani svilupparono estese narrazioni, il cui
corpo principale è confluito in due opere che ci sono pervenute in modo quasi
completo, scritte entrambe alla fine del I secolo a.C. da Tito Livio e dal
greco Dionigi di Alicarnasso: Storia di Roma dalla sua fondazione, il primo,
e Antichità romane il secondo. A Roma la scrittura storica aveva mosso i suoi
primi incerti passi solo nella seconda metà del III secolo a.C. e non c’è
dubbio che per i secoli precedenti, e in particolare per l’epoca di racconti
variamente ritoccati, nella quale è difficile discernere la realtà dei fatti
storici originari. A partire dalla costituzione della Repubblica, nel 509, il
pontefice massimo redigeva annualmente una sintesi degli eventi notevoli, ma
in epoche successive questi documenti vennero rielaborati, in parte distorti,
in parte completati da ricostruzioni arbitrarie quando mancavano. Livio e
Dionigi sono dunque intermediari tra noi e le le loro assai poco affidabili
fonti, e la loro distanza temporale dai fatti che raccontano è tale da rendere molto
difficile interpretarli. I ritrovamenti archeologici contribuiscono
notevolmente a tratteggiare un quadro storico più dettagliato, ma non senza
difficoltà e zone d’ombra. Fino al III secolo a.C., per esempio, praticamente
non abbiamo armi riconosciute come romane e dobbiamo dunque affidarci ai
rinvenimenti in zone collegate o affini e compiere un ragionamento per
analogia. Ogni ricostruzione storica è così ampiamente congetturale e tanto
più fondata quanto più riesce a conciliare in una logica unitaria le singole
tessere di un mosaico tanto ampio.
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La legione “tribale”
Fin dagli albori, a
fare la differenza fu l’alto valore civico che veniva attribuito all’eroismo in
battaglia: la gloria conquistata da un soldato sul campo era tale perché andava
anche a beneficio di tutta la comunità.
Una società inclusiva.
Roma fin dalla sua nascita fu un
centro di comunicazione e di scambi, un crocevia di culture, e questo pesò in
modo decisivo sulla sua struttura sociale e politica. Sorta da popoli
diversi, con il tempo Roma rafforzò questa propria originaria vocazione multietnica,
coltivando uno spirito e un’identità fortemente unitarie. Roma crebbe per
inclusione, accogliendo e assimilando chi voleva farne parte e sviluppando anche
un’aristocrazia aperta ad altre etnie, ma autenticamente romana. La lista dei
re vede nomi latini, sabini ed etruschi: a cominciare dal sabino Tito Tazio,
che seppure per breve tempo, condivise con Romolo il trono di Roma. Leader
eletti dal Senato, il cui carattere identitario romano, un tempo messo in
discussione è testimoniato dalla stessa espansione della città, che nel
periodo regio non conobbe le asprezze e il peso di un dominio straniero
(nella fattispecie, come spesso viene affermato, etrusco), ma fu al contrario
arricchita di prestigiosi edifici pubblici religiosi e civili, e intraprendente,
attiva e fortunata nelle sue azioni belliche. Analogamente, quando Roma
iniziò il proprio cammino egemonico sulla penisola, la sua strategia fu
altrettanto inclusiva e sempre attenta alla politica delle alleanze,
coinvolgendo nei propri progetti altri popoli e condividendo con questi i
medesimi interessi e obiettivi. Forza e persuasione, convenienza e
coercizione furono leve manovrate dalle élite romane nei confronti dei Socii
(alleati) con sapiente realismo politico e con straordinaria coerenza durante
i secoli. Senza questa capacità di coalizione, senza i contingenti alleati
schierati al fianco dei legionari romani, la Città Eterna non avrebbe
raggiunto i suoi ambiziosi obiettivi di conquista. L’integrazione dei
contingenti alleati nel dispositivo militare fu un’operazione assai
complessa, ma fondamentale e perfezionata nel corso dei secoli, riunendo e
facendo agire in modo coordinato e organizzato un grande numero di truppe di
entità, etnia e tradizioni militari molto diverse tra loro.
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(sarcofago di Portonaccio, Roma, Museo Nazionale Romano-palazzo Massimo alle Terme)
L’esercito
arcaico romano rifletteva fedelmente la multi etnicità originaria di Roma. La
sua prima forma organizzata di cui si ha notizia viene fatta risalire a Romolo
ed è costituita sulla base di 3 tribus (la terza parte del popolo), i cui i
nomi, Ramnes, Tities (o Titienses) e Luceres, derivano secondo gli storici
antichi dalle tre componenti la cui fusione diede origine a Roma: la prima da
Romolo, i Latini, la seconda da Tazio, i Sabini, la terza dagli “abitanti dei
boschi sacri”, probabilmente gli Etruschi. Ciascuna tribus era divisa in 10
curie letteralmente assemblee di uomini in armi, che dunque erano allo stesso
tempo alla base dell’organizzazione politica e di quella militare. Ogni tribus
doveva scegliere mille uomini, cento per ogni curia, creando così una “legione”
(letteralmente: selezione, scelta) di tremila uomini suddivisi in trenta
centurie. Da questo momento in poi le centurie divennero l’unità di base della
legione romana, rimanendo tali per secoli e secoli. Inoltre ogni tribus
conferiva anche cento cavalieri, formando così un piccolo corpo di cavalleria
di trecento uomini, suddiviso in trenta decurie di dieci uomini. L’opinione
prevalente tra gli storici moderni ritiene che questa organizzazione non sia
stata introdotta dal leggendario re e fondatore, ma verso la fine del VII
secolo a.C., quando Roma si stava configurando come una città stato. In questa
fase del proprio sviluppo, Roma doveva avere l’esigenza di acquisire il
monopolio dell’uso della forza dotandosi di un’autonoma forza militare, riducendo
la propria dipendenza dalle truppe reclutate e organizzate da privati
cittadini.
Nei primi secoli di
vita di Roma sono infatti frequenti i riferimenti storici a eserciti riuniti da
clan (in latino gentes) di famiglie nobili che di propria iniziativa incominciavano
guerre o venivano incaricate dal Senato di porvi fine, oppure dovevano
presidiare un obiettivo strategico per periodi di tempo proibitivi al normale
miliziano-contadino-romano, vincolata alla stagionalità dei lavori agricoli.
Queste armate private sono testimoniate finanche nel periodo repubblicano: una
delle più antiche iscrizioni latine, databile attorno alla fine del VI secolo
a.C., nota come pietra di Satricum (Ferriere di Conca nell’Agro Pontino), dice
“… posero di Publio Valerio i compagni in Marte”: chiara indicazione di una
comunità di guerrieri che celebra il ricordo del proprio capo, forse lo stesso
Publio Valerio Publicola che fu tra i fondatori della Repubblica romana. Gli
eserciti arcaici (non solo a Roma) costituivano con il proprio capo un legame
simile a quello feudale del Medioevo e anche le tattiche di combattimento non
dovevano essere molto dissimili. Il comandate (o li capoclan) raccoglieva
attorno a sé i propri familiari e clienti (ovvero persone con cui aveva stretti
legami di amicizia, economici e politici) e combatteva con loro al centro della
formazione, guidandone le azioni in prima linea, affiancato dai propri compagni
più valori ed esperiti e da un’insegna personale, il cui valore era allo stesso
tempo militare e mistico. I vari contingenti di truppe marciavano incolonnati e
si schieravano in battaglia uno di fianco all’altro mantenendo la formazione
più ordinata possibile. In attacco le unità assumevano spontaneamente la forma
di un cuneo, guidato dal capo, ma in difesa e durante i combattimenti
prolungati si allineava in modo altrettanto spontaneo in modo che i fianchi di
ogni guerriero fossero protetti da un compagno. I ritrovamenti archeologici
suggeriscono che l’arma principale dei guerrieri di questa epoca fosse una lancia
con una punta imponente, in alcuni casi quasi una spada con un manico
allungato, ma sono stati rinvenuti anche giavellotti, spade, asce; mentre come
armamento protettivo abbiamo pettorali e corazze metalliche, elmi di varia
foggia, scudi ovali o circolari. Data la prevalenza di questo particolare tipo
di lancia, inadatta a essere scagliata, ciascun guerriero combatteva
singolarmente, con una scherma fatta di continui movimenti avanti e indietro
per piazzare un affondo o allontanarsi dall’avversario. Le linee delle
formazioni dovevano essere distanziate in profondità per fornire lo spazio
necessario, e mentre la prima linea combatteva, le successive contribuivano
scagliando armi da lancio, con incitamenti, aiutando i feriti, sostituendo le
perdite.
Con la legione
suddivisa in tribus, dunque, Roma crea una forza organizzata e propriamente
romana, ovviando all’aleatorietà delle armate dei privati, e riesce a
disciplinare l’individualismo portandolo al servizio di un interesse
collettivo: non si negano le differenze etniche delle tribù, ma vengono
armonizzate nella stessa unità affinché si inneschi un meccanismo
collaborativo/competitivo. Si valorizza il contributo dei singoli, ma lo si
mette al servizio di un successo che è in eguale misura personale e collettivo:
anzi, è personale proprio perché è anche collettivo. Alla diversità, per etnia
o censo, fa da potente contrappeso la comune condizione di cittadino romano.
Ogni guerriero combatteva per se stesso e per la comunità ristretta cui
apparteneva e che poi gli avrebbe riconosciuto e condiviso con lui la gloria
guadagnata sul campo, ma anche per Roma. E proprio in questo periodo prende
forma tra i Romani uno spirito guerriero fatto di un’epica del tutto simile a
quella di altre civiltà, con eroi romani non diversi da quelli omerici o delle
saghe nordiche, ma che assume la caratteristica unica del valore civico
dell’azione eroica: si onora l’individuo e la famiglia cui appartiene in quanto
le sue virtù personali portano un beneficio alla comunità più ampia della
città.
Roma sta affinando una
peculiare cultura civica unitaria che avrà un grande peso non tanto nelle
vittorie, ma soprattutto quando dovette riprendersi dalle sconfitte, dando
prova di una coesione, di una capacità di sacrificio e di una resistenza alle
difficoltà senza precedenti nella storia umana.
I nemici di Roma.
L’Italia antica non era una terra
pacifica, ma un luogo dove le guerre erano endemiche, e le popolazioni
numerose quanto bellicose e indomabili. La conquista della Penisola da parte
di Roma fu lenta proprio perché le difficoltà che dovette affrontare furono
enormi, nessuna vittoria fu facile, nessuna guerra senza rischi. Le guerre
rispondevano a esigenze di tipo economico, a crisi demografiche, o erano
l’unica, disperata risorsa per risolvere emergenze drammatiche come una
carestia. Il loro esito poteva esser catastrofico: intere popolazioni
potevano estinguersi ed essere assimilate, in schiavitù dai vincitori.
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GLI ITALICI.
I
Latini condividevano con i Romani la stessa lingua, la stessa religione, la
stessa etnia, ma non si piegavano alle loro mire egemoniche. Riuscire a
sconfiggerli nella battaglia del Lago di Regillo, nel 496 a.C., fu
fondamentale per Roma che non solo respinse il tentativo del suo ulti re
Tarquinio il Superbo, che era stato scacciato e si alleò con i Latini, di
rientrarvi, ma dopo altri tre anni di conflitti riuscì alla fine a stringere
con trenta città della Lega Latina il Foedus Cassianum, un patto firmato dal
console Spurio Cassio Vecellino che sanciva un’alleanza militare e forme di
parità giuridica tra i Latini e i Romani. Su entrambi incombeva la minaccia
dei Volsci che, provenienti dai monti del Lazio meridionale, avevano occupato
l’Agro Pontino strappandolo ai Latini. Come Ernici ed Equi, anch’esse
bellicose popolazioni appenniniche, i Volsci compivano periodiche razzie e ruberie,
agendo come feroci truppe leggere, abituate a combattere tra i boschi e i
monti, ma potevano dare luogo a spedizioni di più ampio respiro quando erano
sottoposti a pressioni demografiche. Questa esigenza era stata
istituzionalizzata con la pratica religiosa del Ver Sacrum (La Primavera
sacra), mediante la quale interi gruppi generazionali nati nei mesi
primaverili venivano dedicati a una divinità e obbligati a conquistarsi con
le armi un nuovo insediamento, guidati da un animale totemico, di norma rappresentato
in effige, ma presente come segnale divino nelle leggende. I Latini entrarono
definitivamente nella sfera di influenza romana solo nel 338, quando furono
sconfitti e la Lega Latina venne sciolta.
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Per
la loro bellicosità, la loro tenacia e il loro profondo senso di
indipendenza, i Sanniti furono sicuramente i più pericolosi nemici di Roma.
Erano una federazione di quattro tribù accomunate dalla stessa lingua,
l’osco, e da comuni santuari religiosi come quello sito a Bovianum: Pentri, Caudini,
Hirpini e CAraceni. Benché questa federazione avesse vincoli non
particolarmente stringenti, in caso di pericolo poteva reagire mettendo in
campo eserciti considerevoli: Livio, per esempio, attesta che riuscirono a
schierare un’armata di ben 40mila uomini. Insediati nelle aspre regioni
dell’Appennino meridionale, entrarono in conflitto con Roma a partire dal 343
a.C., ma il loro spirito indomito li portò a combattere contro l’egemonia
romana appena se ne presentava l’occasione. Abili anche a intessere relazioni
diplomatiche, si fecero promotori di un’alleanza tra Etruschi, Umbri e Galli
Senoni che lanciò una pericolosissima sfida ai Romani alla battaglia di
Sentinum nel 295. La loro resistenza cessò nell’82 a.C., quando Silla compì
una vera e propria pulizia etnica ai loro danni, massacrando chi si opponeva
e disperdendo la popolazione. Le loro armate erano prevalentemente composte
da fanterie organizzate in formazioni di 400 uomini, chiamate dagli storici
antichi, usando una terminologia romana, coorti. I loro guerrieri
combattevano con spada, scudo ovale o trapezoidale e giavellotto, e i più
ricchi si proteggevano con un elmo e un pettorale in bronzo, spesso a forma
di tre dischi uniti.
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Le
popolazioni celtiche erano giunte in Italia probabilmente all’inizio del IV
secolo avanti Cristo. Lingoni, Cenomani, Boi e Senoni scavalcarono le Alpe e
invasero la pianura Padana. In particolare, i Boi si spinsero fino ad
occupare la città etrusca di Felsinia, cui cambiarono il nome in Bonomia
(Bologna), mentre i Senoni scesero lungo le coste adriatiche, scacciandone
gli Umbri e fondando Sena (Senigallia). I Galli furono costantemente in
attrito con i loro vicini, ma furono contenuti con discreto successo, in
particolare dai Veneti, che mantennero il controllo della pianura orientale.
Combattenti terribili e più organizzati e ordinati di quanto comunemente si
pensi, erano spesso ingaggiati come mercenari, in particolare dalle colonie
della Magna Grecia. Fu forse per raggiungere il loro committente Agatocle di
Siracusa o un suo progetto strategico in funzione anti-etrusca, oppure per
una semplicei spedizione militare finalizza ala saccheggio, che i Galli
Senoni guidati da Brenno nel 390 si scontrarono con i Romani. Il 18 luglio
un’armata romana riunita in emergenza venne sconfitta sul fiume Allia, a
pochi chilometri a nord di Roma, fuggendo terrorizzata davanti al nemico
senza combattere. Nonostante gli aspetti leggendari, il fatto ha sicuramente
un fondo di verità. Gli studi archeologici tuttavia non mostrano segni di
distruzioni o incendi: sconfitti, i Romani probabilmente pagarono un tributo,
ma la città non venne devastata.
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GLI ETRUSCHI.
Cartina con i maggiori centri etruschi, l'Etruria padana e l'Etruria campana
Gli
Etruschi esercitarono una grande influenza su Roma e i Romani, ma l’ipotesi
che la città sia stata occupata da questo popolo, basata sull’etimologia dei
nomi degli ultimi tre re della città, oggi è messa in dubbio dagli studiosi.
Più probabile che Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo
rappresentino il ricordo di un’élite di origine etrusca, ma comunque romana.
Lo testimonierebbe il fiorire della città proprio nel VI secolo a.C, ovvero
nel periodo durante il quale essi avrebbero regnato, che mal si concilia con
l’idea di una città occupata e sottoposta al dominio di una potenza
straniera. Con al Repubblica, Roma
riprese il conflitto con gli Etruschi, ci cui temeva soprattutto la
numerosità più che il valore guerriero, che pure non era trascurabile: i
Romani infatti molto probabilmente assimilarono elementi dell’esperienza
militare etrusca, a sua volta derivata da quella greca. Questo popolo di
origine non indeuropea era organizzato in leghe abbastanza elastiche formate
da 12 città, e poteva contrapporre a Roma eserciti di coalizione. Non sempre
la solidarietà tra gli Etruschi era però sufficientemente forte e i Romani
seppero approfittarne. Particolarmente importante fu la conquista di Veio,
avvenuto nel 396 a.C. dopo un lungo assedio. Con essa, Roma accrebbe il suo
territorio del 60%, e poté accedere all’ottimo tufo delle cave etrusche, che
verrà utilizzato per l’edificazione delle cosiddette mura Serviane;
accreditate al sesto re di Roma, ma costruite in epoca successiva.
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I Romani alla scoperta
della tattica.
Seppero apprendere molto
dai popoli con i quali entrarono in contatto.
Dettaglio del vaso Chigi, con scontro tra fanterie oplitiche del 650-640 a.C. (Museo nazionale etrusco di Villa Giulia, Roma)
Gli storici romani non hanno dubbi: le armate di Roma adottarono armamento e tattica degli opliti greci, mutandolo dagli Etruschi. Ne sono quasi orgogliosi, ripetendo con insistenza come i Roani fossero capaci di imparare dai propri nemici per superarli al loro stesso gioco. Valorizzare la capacità di un popolo di apprendere per imitazione dagli altri, giungendo a migliorare le stesse prestazioni dei precursori, sembra però essere più una lezione morale che una fondata testimonianza storica.
Gli Etruschi avevano in
effetti instaurato rapporti con il mondo greco già nell’VIII secolo a.C. quando
in Italia comparvero le prime basi greche a Pithecusa e Cuma, anzi avevano
sviluppato un vivo interesse per tutto ciò che era orientale, armi comprese. I
Greci avevano assimilato le tecniche di combattimento della fanteria pesante
dalle popolazioni orientali, innanzitutto Assiri e Sumeri, che per primi
avevano impiegato già nel IX secolo a.C. le lunghe fila ordinate in successione
di guerrieri in formazione serrata, protetti da scudo, elmo e corazza e armati
di combattimento arrivò in Grecia, probabilmente a partire dall’Eubea, i cui
artigiani diventarono presto esperti nella fabbricazione di corazze di bronzo e
di buone spade in ferro. Benché la tribù sia ancora – e rimanga tale – lo
strumento di reclutamento e di organizzazione delle truppe, anche in Grecia si
abbandona la spontaneità della formazione tribale e si comincia a combattere
disponendo i guerrieri in ordinate linee successive, costituendo così una
specie rettangolo, già chiamato falange, di profondità uniforme e sviluppato in
lunghezza per rispondere alle esigenze e sviluppato in lunghezza per rispondere
alle esigenze dell’ampiezza del campo di battaglia e della formazione nemica. A
questi aspetti prettamente tattici, se ne sovrappongono altri tecnologici. Nel
VII secolo a.C. a Corinto viene inventato l’elmo corinzio, che ha la
caratteristica di lasciare solo gli occhi e la bocca scoperti, e da qui si diffonde velocemente nel resto della
Grecia e nelle sue colonie. Più o meno nello stesso periodo, forse nella vicina
Argo, venne inventato l’hoplon, il singolo elemento della panoplia greca che
incontrerà maggiore successo e vita più lunga. Si tratta di uno scudo circolare
di 80-100 chilometri di diametro, con una forma marcatamente convessa ottenuta
lavorando la sua solida struttura in legno, che può essere rinforzata sovrapponendo
su tutta la superficie esterna una sottilissima lamina in bronzo (mezzo
millimetro) che lo conferisce, quando viene lucidata, quasi la lucentezza di un
specchio. Scudi più leggeri ed economici hanno un rinforzo metallico solo lungo
la circonferenza. La sua caratteristica distintiva è data dal modo in cui è
sostenuto dal guerriero. L’impugnatura è costituita da due prese: una centrale
a forma di semicerchio, chiamata porpax, attraverso la quale veniva fatto
passare l’avambraccio sinistro fino al gomito, e un all’estremità dello scudo,
la antilabe, una corda che veniva afferrata dalla mano. Un ulteriore importante
sostegno caratteristico del solo hoplon, però è fornito dalla spalla sinistra,
che può essere utilizzata come appoggio al bordo superiore dello scudo,
marcatamente convesso. Distribuendo il peso tra avambraccio e spalla, il
guerriero può meglio sopportare gli 8 chili di peso medio dellì’hoplon. Insieme
a un elmo in bronzo di varia foggia, e alla dory o doru, una solida lancia
lunga 2,5 metri e più, l’hoplon costituisce il nucleo fondamentale della
panoplia oplitica greca, che poteva essere completata da schinieri e da una
corazza in bronzo, parziale o completa.
Queste armi, in
particolare l’hoplon, sono state rinvenute in Etruria, e sono databili a
partire dalla metà del VII secolo a.C.,
e nello stesso periodo appaiono anche immagini che ritraggono guerrieri
equipaggiati con l’hoplon. Tuttavia, sia i ritrovamenti archeologici sia le
immagini ci hanno restituito anche guerrieri con l’hoplon ma armati di
giavellotti o altre armi, come le tipiche asce etrusche, e persistono guerrieri
con scudi ovali, assai diffusi in Italia. Ci sono dunque sufficienti prove che
almeno una parte dei ceti più abbienti della società etrusca abbia adottato il
costoso hoplon, ma non possiamo dire come combattessero. La stessa tattica
oplitica in Grecia conobbe un lungo periodo elaborazione e di maturazione che
giunse al culmine solo con le Guerre persiane e con quella del Peloponneso, nel
V secolo a.C., ben un secolo e mezzo dopo l’arrivo in Etruria della panoplia
oplitica. Nel periodo precedente la falange greca è ancora lontana dallo
strumento perfezionato che compirà complicate evoluzioni sul campo di
battaglia, caricherà a passo veloce mantenendo ordine e compattezza tra gli
uomini, consentirà loro di proteggersi reciprocamente con l’hoplon, li farà
combattere con le lance come dietro un muro di scudi, ed è anche capace di
agire come un rullo compressore che travolte gli avversari con una spinta
corale e irresistibile.
Tra Grecia ed Etruria,
inoltre, corre una sostanziale differenza sociale e politica che rende
problematica l’adozione letterale dell’oplitismo: questo, infatti, presuppone
una società omogenea perché la falange oplitica è una comunità di eguali in
armi, idealmente ispirata ai precetti del leggendario legislatore spartano
Licurgo, mentre gli Etruschi sono fortemente segmentati in classi sociali, e se
in Grecia si calcola che almeno la metà della popolazione maschile potesse
permettersi la costosa panoplia oplitica, è una comunità sono i nobili locali
che armano i loro clienti in caso di guerra. È molto probabile dunque che in
Italia non sia mai stato adottato un modello oplitico puro, bensì un ibrido che
adattava e reinterpretava in qualche modo le tattiche oplitiche greche al
contesto sociale e alle tradizioni militari itali anche. In che cosa è
consistito, dunque, il passaggio di conoscenza tra Grecia e Etruria, che
successivamente influenzò anche Roma? Un indizio illuminante lo possiamo
trovare nell’opera I Deipnosofisti di Ateneo di Naucrati, filosofo greco del II
secolo d.C.: “E dai Tirreni (gli
Etruschi) essi (i Romani) derivarono la pratica di far avanzare in battaglia
l’intero esercito in falange chiusa”. Fu questa, forse, la rivelazione
decisiva: l’esistenza stessa della techne taktlike, l’arte tattica.
Etruschi prima e Romani
poi scoprirono non solo e non tanto i vantaggi di combattere in modo ordinato,
ma come si doveva fare per riuscirci. Vedere marciare sul campo di battaglia
per centinaia di metri una formazione precisamente allineata era uno spettacolo
mai apparso su un campo di battaglia italico. Veder passare quella formazione
da una colonna di marcia a una linea di combattimento senza esitazioni, senza
confusione, conservando precise geometrie tra i ranghi, doveva provocare
ammirazione mista a timore. Per riuscirci bisogna imparare delle metodologie e
addestrarsi a un combattimento collettivo, molto più efficace di quelli fino ad
allora praticati. La parola greca taktike deriva da taktikos, che vuol dire
ordinato, e significa “mettere in ordine”, al di là dell’adozione di uno scudo
rotondo o di uno stile di combattimento, fu proprio questo “mettere ordine”
nell’azione militare e nel combattimento, la possibilità di disciplinare
l’entusiastico furore guerriero dei Romani, che sicuramente li meravigliò
indicando loro la strada da percorrere.
La riforma serviana.
Attribuendo maggiori
doveri ai cittadini più ricchi, rivoluzionò l’organizzazione di stato ed
esercito.
I
Romani
attribuiscono al re Servio Tullio (578-534 a.C.) un’importante riforma dello
Stato romano che ha interessanti similitudini con quella della costituzione
ateniese che Solone aveva introdotto nella città greca qualche decennio prima.
Servio abolì il sistema di discendenza tribale e divise il corpo cittadino in
centurie a seconda di cinque classi censuarie, più quella degli equites che
riuniva l’aristocrazia romana. Vennero anche create nuove tribù in modo che la
cittadinanza dipendesse esclusivamente dalla residenza. Ogni classe censuaria
comprendeva un numero di centurie proporzionato innanzitutto al reddito e, in
una certa misura, anche alla popolosità. In questo modo i ceti più abbienti
avevano un numero maggiore di centurie e dunque un maggiore peso politico. Roma
si trasformò in una timocrazia, ovvero in un governo dei possidenti. I più
poveri, coloro che non avevano nemmeno un reddito sufficiente per entrare nella
quinta e ultima fascia di reddito, non godevano di diritti politici, ma non
avevano nemmeno l’obbligo del servizio militare o di pagare le tasse. Il
sistema centuriato si sarebbe evoluto nel corso del tempo, e avrebbe avuto una grande importanza politica
come base per le assemblee di voto (i comitia centuriata), ma quando venne
introdotto, nel tardo VI secolo a.C., le sue motivazioni dovevano essere
principalmente militari. La popolazione romana era cresciuta grazie a nuovi
immigrati, che però non prestavano servizio militare perché non inclusi in
nessuna tribù. Un primo scopo della riforma serviana fu quindi quello di
accrescere la base nella quale poter effettuare la leva delle truppe. Livio e
Dionigi di Alicarnasso ci hanno lasciato precise descrizioni di questo sistema,
per il quale, una volta suddivisa la popolazione in cinque fasce censuarie,
ciascun cittadino era tenuto ad armarsi in modo corrispondente alla propria
disponibilità economica. Le tre prime classi dovevano combattere con una lancia
come fanti pesanti, ma con il rimanente armamento diverso e meno completo in
base alle disponibilità economiche accertate, e le ultime due come fanteria
leggera. Per questo motivo compare la distinzione tra classis (classe) e infra
classem (sotto la classe): dove i primi sono la fanteria pesante e i secondo
quella leggera. Il termine classis fu probabilmente usato per indicare
l’esercito nel suo complesso, generando qualche confusione negli storici
antichi dei secoli successivi, quando ormai la parola latina classis
significava “flotta”.
L’importanza della
riforma serviana è dovuta alla nuova idea di cittadinanza che ne costituisce il
fulcro. Anziché avere uno status politico individuale mediato attraverso il
potere e il prestigio del proprio clan originario, il cittadino ora è messo in
relazione diretta con la sua comunità e gli vengono assegnati diritti e doveri
in quanto individuo e non più come membro di un gruppo. Il dovere comune che
tutti i cittadini devono rispettare è quello di combattere per la patria, ma
hanno anche responsabilità crescenti proporzionate alla loro ricchezza: gli
appartamenti alla prima fascia di reddito, per esempio, dovevano dotarsi di un
armamento completo di corazza, schiinieri e di scudo oplitico, e dovevano
combattere in prima linea, davanti a tutti. Nel complesso il sistema serviano
raccoglieva 60 centurie di fanteria pesante di uomini in età militare (tra i 17
e i 46 anni) e altre 60 di uomini più anziani. I primi avrebbero costituito
l’esercito da campagna, mentre i secondi erano destinati alla difesa della
città. In questo modo i Romani raddoppiarono gli effettivi del proprio esercito
rispetto a quello tribale: disponevano di una legione da seimila uomini – o più
probabilmente, in periodo repubblicano, due da tremila – alla quale poteva
essere aggiunto un analogo contingente di alleati. Non abbiamo descrizioni
dettagliate su come combattevano le legioni serviane, tuttavia è immaginabile
che le classi schierassero in battaglia per linee omogenee, la prima (i meglio
armati e i più ricchi), come anticipato, in avanti, e quindi le successive.
Questo faceva dunque gravare il peso maggiore del combattimento sulla prima
classe, mentre quelle successive partecipavano al combattimento in modo
sicuramente minore. Roma divenne una Repubblica, secondo la tradizione, nel 509
a.C., cacciando l’ultimo re Tarquinio il Superbo, ma mantenne per lunghi secoli
questa struttura statuale-militare, modificandola e adattandola secondo il
mutare delle circostanze e delle proprie esigenze, ma confermandone i principi
di fondo che l’avevano resa una macchina pronta alla guerra.
Una rappresentazione grafica di
un’organizzazione militare affine alla legione romana “serviana” è illustrata
nella cosiddetta “situla della Certosa”, un’anfora di bronzo celebrativa
realizzata a sbalzo e a cesello dalla cultura etrusco-veneta insediata a
Bologna Certosa, risalente alla datazione di circa un secolo successiva,
verso il primo quarto del V, quindi tra il 500 e il 475 a.C.
La particolarità storico-militare
della situla della Certosa è nella fascia alta, dove è rappresentata una
parata militare di truppe che riflette probabilmente l’organizzazione in
classi di un esercito etrusco o di cultura affine. I guerrieri che
partecipano alla parata sono infatti di 5 tipi marcatamente diversi: in testa
vi è la cavalleria, rappresentata da due cavalieri armati di un’ascia di tipo
villanoviano, quella immanicata in un legno a forma di L rovesciata. Non è
dotata di scudo, e quindi probabilmente non combatte smo. Ma ja iu una
fanteria “da prima linea” come quella della I classe serviana. Indossano un
elmo a punta circondato da un disco decorato di borchie e hanno un grande
scudo ovale e convesso che sembra avere una presa simile a quella dell’hoplon
greco, su due punti di appoggio. Infine vi sono 3 gruppi distinti di 4
guerrieri ciascuno: i primi due sono armati di lancia lunga oltre due metri,
hanno lo stesso elmo a calotta crestata (forse il tipo di Negau) e
differiscono soltanto per la forma dello scudo, quadrangolare con i bordi
arrotondati i primi, tondo i secondi. L’ultimo gruppo di guerrieri porta un
elmo conico o forse un cappuccio, è senza scudo, e armato della stessa ascia
villanoviana a forma di L rovesciata e sembra indossare la stessa tunica
trapuntata della cavalleria.
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La battaglia dell’Alla.
La sconfitta che portò
all’umiliazione di versare un tributo ai Galli Senoni e spinse anche i Romani a
costruire le imponenti mura serviane.
Il
giorno dello sconto sul fiume Allia, il 19 luglio (probabilmente del 387 a.C.),
rimase nella storia di Roma come infausto: una sconfitta di quelle che non si
dimenticano. Nella storia dell’arte militare, almeno secondo l’interpretazione
che alcuni studiosi danno di accenni di Livio, nelle Storie, e di Plutarco,
nella Vita di Camillo, avrebbe poi anche portato alla riforma delle forze
armate romane con l’introduzione della Legione manipolare e delle sue tattiche,
e delle armi che a esse vennero associate, lo scutum ovale e il pilum (un
giavellotto). I dubbi, però, sono tanti. A cominciare dal tipo di battaglia che
fu quella dell’Allia. I Galli Senoni guidati da Brenno erano guidati da Brenno
ed erano impegnati in una guerra contro gli Etruschi, che chiamarono i Romani
ad agire da mediatori. Gli ambasciatori romani, però, imbracciarono le armi al
fianco degli Etruschi e i Galli decisero di vendicarsi con una spedizione
punitiva. Brenno e forse 20miila uomini puntarono contro Roma. I Romani furono
presi di sopresa dalla repentina mossa contro di loro decisa da Brenno e
reagirono, pare, senza prenderla veramente sul serio. Radunarono
frettolosamente le forze disponibili che, data l’epoca, dovevano corrispondere
a una legione “serviana” di 60 centurie e circa seimila legionari, ai quali possiamo
aggiungere altrettanti alleati, per complessivi 12 mila uomini. Con queste
truppe raccoglitrice si predisposero a sbarrare la strada ai ben più
organizzati e numerosi invasori.
Questi già affollavano
la campagna quando i Romani giunsero a 11 miglia da Roma (circa 15 chilometri),
là dove il fiume Allia incrocia la Salaria poco oltre la città di Crustumerium.
Secondo Livio i motivi della sconfitta
che si sarebbe delineata derivarono dalla trascuratezza dei tribuni militari che disposero le loro
truppe “incuranti del loro dovere verso
gli dèi, per non parlare di quello verso l’uomo, senza prendere auspici o
offrire sacrifici”. Per coprire l’estensione del fronte nemico, la linea
romana dovette essere assottigliata e, c’erano anche varchi tra una formazione
e l’altra: seguendo il corso dell’Allia, la linea romana doveva apparire
inclinata, estendendosi dai monti Crustumeri fin quasi al Tevere, Brenno notò
che l’unico pericolo proveniva proprio dalla posizione più avanzata, quella
collinare, e contro questa incominciò il suo attacco. Ai Galli fu sufficiente
alzare il loro grido di guerra e assestare pochi primi colpi per scatenare il
panico tra i Romani che scapparono in massa, a cominciare proprio dalle prime
linee, chi verso Roma e chi cercando rifugio nella vicina Veio, da poco
conquistata, oltre il Tevere: molti morirono travolti nella fuga o affogati nel
fiume. Roma era indifesa: probabilmente fu saccheggiata e dovette anche pagare
un tributo per liberarsi dagli invasori. I difetti evidenziati dalla sconfitta
sull’Allia non riguardavano tanto un sistema tattico, perché non ci fu una vera
e propria battaglia, durante la quale potesse manifestare la sia inefficacia,
ma in primo luogo la difesa di Roma stessa, che venne presto completamente
cinta di mura.
La facilità con la quale Brenno
poté saccheggiare Roma dopo averne sconfitto l’esercito alla battaglia
dell’Allia ci permette di sospettare che la città all’epoca non fosse
protetta dalle cosiddette mura serviane. Molto probabilmente le difese di
Roma all’inizio del IV secolo a.C. consistevano esclusivamente in un sistema
non continuo di terrapieni sormontati da palizzate o, in alcuni casi, da mura
vere e proprie, e completati da un antistante fossato. Gli archeologi hanno
individuato indizi di un simile terrapieno a nord della città, a cavallo
della via Salaria.
Fino alla conquista di Veio, il
materiale da costruzione disponibile ai Romani era un mediocre tufo di tipo
detto “cappellaccio”, troppo fragile per dare garanzie di sufficiente
solidità per una costruzione abbastanza alta e imponente da rappresentare per
gli assedianti un ostacolo temibile. Dopo l’annessione della città etrusca,
Roma ebbe facile accesso al tufo della cava di Grotta Oscura, di qualità
molto migliore: ed è infatti questo il materiale con il quale sono state
costruite le mura serviane di cui ancora oggi rimangono i resti in alcune
zone della città, compreso una imponente sezione che riceve i viaggiatori
transitanti per la stazione Termini e un frammento molto più piccolo incluso
nel locale di un noto fasto food nel piano interrato della stazione stessa.
È molto probabile, quindi, che le
mura serviane siano state costruite nella prima metà del IV secolo a.C. (non
nel VI a.C., l’epoca di Servio Tullio). Il loro circuito murario si sviluppava
per circa 11 chilometri, alzandosi per 10 metri e con una larghezza alla base
di 3,60: una vera garanzia di sicurezza per i cittadini di Roma, tanto che
l’unico nemico ad avvicinarsi abbastanza da vedere quelle mura fu Annibale
nel 211 a.C., quando si presentò con il suo esercito sotto la città per
provocare i Romani e indurli ad abbandonare un altro assedio, quello di
Capua.
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L’introduzione della
tattica manipolare.
Su come avvenne il
passaggio dall’organizzazione serviana a questa nuova ed efficace suddivisione
si possono solo fare delle ipotesi: ma proprio grazie a questo Roma fu pronta a
conquistare l’Italia e il mondo.
Non
sappiamo nulla di certo sull’introduzione di questa tattica nella legione
romana. Lo storico greco Polibio ci fornisce una descrizione, seppure
incompleta e non priva di contraddizioni, della legione manipolare che egli
conobbe a metà del II secolo a.C., ma nessuno spiega attraverso quali passaggi
si sia giunti dalla legione serviana a quella manipolare. Probabilmente questa
transizione avvenne nel corso del IV secolo a.C. e fu un processo molto lungo,
ancora in corso quando i Romani affrontarono la guerra contro Pirro, re
dell’Epiro tra il 280 e il 275 a.C. E’ possibile, invece, avanzare ipotesi sui
motivi che indussero i Romani a elaborare una tattica tanto singolare, senza
precedenti noti nella storia dell’arte militare, e che li porterà, come osservò
Polibio, alla conquista “di quasi tutta la terra abitata”. Il più importante
vantaggio marginale dei Romani rispetto alle altre popolazioni italiche
consisteva nella loro numerosità e nella possibilità di raddoppiare le proprie
forze grazie al contributo dei patti di mutua assistenza sottoscritti con i
propri alleati. Per sfruttare questa superiorità relativa, la tattica oplitica
greca non offre soluzioni perché risolve lo scontro in un’unica azione frontale
e non contempla l’uso di riserve. Inoltre lo schieramento serviano faceva
gravare il peso maggiore del combattimento sempre e solo sulla prima classe,
lasciando praticamente inattive le altre due, e questo non era certo modo
efficiente per impiegare le proprie forze e per tenere alta la combattività
complessiva della popolazione, soprattutto in una città-stato come Roma che
scendeva tanto frequentemente in guerra. Il sistema serviano probabilmente con
il tempo evidenziò anche altri difetti. In primo luogo l’appartenenza alla
prima classe garantiva un migliore armamento del legionario, ma non una sua
maggiore combattività o forza fisica. Il fatto poi che fosse soprattutto questa
stessa classe impegnata in battaglia non solo contraddiceva il principio della
comune responsabilità e della condivisione dei rischi nella difesa di Roma, ma
aveva anche un risvolto sociale, perché combattere era un modo per mettersi in
evidenza, per guadagnare prestigio e perfino per arricchirsi: provare di questa
possibilità una parte consistende della popolazione significava quindi
limitarne le capacità di ascesa sociale.
Il processo di
innovazione tattica fu sperimentale e per fasi successive. Con una prima
modifica, gli uomini della seconda classe serviana vennero spostati in avanti,
assumendo forse proprio per questo motivo il nome di principes: i primi. A
questa riforma seguì, non sappiamo dopo quanto tempo, un secondo passaggio
innovativo. La terza classe serviana venne dotata di hasta velitaria, ovvero di
giavellotto, e schierata in prima linea davanti ai principesse. Definiti
hastati proprio perché armati di hasta velitaria, erano così diventati una
fanteria pesante molto versatile, e particolarmente efficace nell’indebolire il
nemico in previsione dell’intervento delle linee successive, in special modo
dei principes. Era una specie di ritorno alle origini e al combattimento
tribale individuale, ma inserito in un contesto molto più organizzato, che
venne ulteriormente perfezionato fornendo agli hastati un giavellotto pesante,
il pilum. Quest’arma migliorava di molto la preparazione al combattimento con
la spada perché aveva un’enorme capacità di penetrazione. Dopo questi
cambiamenti, però, la prima classe di reddito era arretrata in terza linea
(assumendo così il nome di trarii) e la legione aveva completamente ribaltato
l’ordine serviano, rendendo superato il sistema delle tre classi reddituali. Ci
voleva una nuova organizzazione, più razionale , che collocasse gli uomini
ciascuno nella propria linea, più razionale, che collocasse gli uomini ciascuno
nella propria linea. Venne adottato così un sistema di reclutamento misto, ma
che privilegiava l’età rispetto al reddito. In questo modo i più giovani
avrebbero combattuto per primi, seguiti dagli uomini nel fiore dell’età e
infine dai più anziani. Una specie di scala basata sull’esperienza crescente,
che contava sulla solidità dei veterani, i quali avevano già alle spalle anni
di guerre, per fornire basi sicure all’azione e alle spalle anni di guerre, per
fornire basi sicure all’azione e all’emulazione dei più giovani.
Per sfruttare appieno
la giovanile combattività degli hastati e l’esperienza dei principes, però, si
doveva fare in modo che i primi potessero ritirarsi, permettendo ai secondi di
subentrare al loro posto, oltre a prevedere la spiacevole eventualità che si
dovesse ricorrere ai trarii, riparandosi dietro al loro muro di lance: e il
detto latino res ad trarios rediit, si è arrivati ai trarii, è rimasto a
indicare per i Latini una situazione giunta a un punto disperato.
La linea continua della
falange oplitica non poteva essere attraversata da truppe, pena la disorganizzazione. La soluzione era in
teoria abbastanza semplice: si doveva dividere la falange in porzioni più
piccole, lasciando degli spazi vuoti tra l’una e l’altra, in modo che avessero
libertà di movimento e soprattutto potessero essere utilizzati da una linea di
truppe per ripiegare o avanzare attraverso un’altra, a seconda delle necessità.
I vantaggi di questa
soluzione, da cui presero origine i manipoli, rigardavano anche la fase dello
schieramento in battaglia, perché i manipoli stessi, formati da due centure
incolonnate, si muovevano in appena nove metri di spazio, potendo evitare gli
ostacoli senza disordinarsi e soprattutto con grande velocità perché un’unità
così piccola è molto più agile e marcia più speditamente di una lunga linea di
uomini preoccupati di non perdere l’ordine.
La tattica manipolare
era sufficientemente semplice da poter essere insegnata anche ai
contadini-miliziani romani, che non potevano dedicare molto tempo
all’addestramento, perché non richiedeva grandi spazi ed era sufficiente
riunire i 120-160 uomini di cui era composto di manipolo per provarla.
Consentiva inoltre un uso graduale delle truppe, realizzando il principio
dell’arte militare dell’economia di forze, e un impiego molto razionale delle
proprie pur numerose risorse belliche: Roma era pronta a conquistare l’Italia e
poi il mondo.
La legione manipolare.
La legione manipolare liviana al tempo della guerra latina (340-338 a.C.).[37]
In un momento che purtroppo, allo
stato attuale delle nostre conoscenze, è ancora sconosciuto (l’ipotesi più
accreditata è che si fosse alla vigilia delle guerre contro Pirro), la
legione romana assunse una conformazione molto vicina a quella rappresentata
in questo schema. Possiamo considerarla la fotografia di un processo
evolutivo che durò più di un secolo. Come in precedenza nella legione
serviana, il fronte della fanteria pesante è protetto nella fase iniziale
della battaglia da truppe leggere, in numero di 1200, che assumeranno prima
il nome di rorari, dal termine per “rugiada”, a causa della pioggia di
giavellotti che facevano cadere sul nemico, e poi velites, probabilmente
“veloci” o “agili”: sono i più giovani e i più poveri tra i Romani. Segue la
prima linea di fanteria pesante, 1200 hastati, che derivano il loro nome
dall’essere armati con l’hasta velitaria, ovvero una lancia leggera come
quella dei veliti, e successivamente saranno i primi a essere dotati del
pilum (un tipo di giavellotto pesante). Sono sufficientemente abbienti da
potersi permettere una spada, uno scutum ovale e una corazza leggera. In
seconda linea i 1200 principes: gli uomini nel fiore degli anni, più anziani,
più esperti di guerra e più ricchi degli hastati: in un primo tempo furono
ancora amati con una lancia (hasta) ma a un certo momento, dopo la guerra
contro Pirro, ricevettero anch’essi il pilum. Chiudono la legione i veterani
più anziani, i 600 triarii, nome che significa in terza posizione: sono
armati di hasta e la manterranno anche dopo la conclusione delle guerre
puniche. Originariamente venivano chiamati “pilani”, non perché fossero
dotati di pilum, ma in quanto attendevano “incolonnati” il loro turno per
combattere.
|
Il manipolo.
Era naturalmente l’unità fondamentale
della tattica manipolare. Ciascun manipolo era costituito da due centurie di
60-80 uomini. Queste due centurie venivano distinte in prior e posterior,
ovvero anteriore e posteriore, per evidenziare la loro collocazione nello
schieramento iniziale.
Secondo il poeta Ovidio il termine
manipulos usato per indicare questa unità deriva dall’insegna di cui erano
dotati, ovvero un semplice pugno di ferro issato su un palo. Varrone conferma
almeno in parte l’ipotesi, sostenendo che il manipolo fosse la più piccola
unità della legione romana dotata di un’insegna.
Nonostante la povertà dell’oggetto
in sé, esso era non solo necessario, ma persino venerato dai soldati, come
furono le insegne distintive delle legioni e, più tardi, le aquile imperiali.
Responsabili della sua custodia era due signifer per manipolo. Il centurione
più anziano in grado era il centurio senior e guidava la prima centuria,
mentre il centurio junior guidava la seconda, entrambi combattendo in prima
linea tra i loro uomini, i loro uomini. I centurioni erano assistiti da un
optio, un soldato scelto, che controllava la centuria dall’ultimo rango.
|
il pilum.
Il gigante Golia, narra la Bibbia,
era armato con un giavellotto completamente di bronzo. In sé, quindi, l’idea
di un giavellotto pesante non è rivoluzionaria: anche nell’Iliade gli eroi
hanno giavellotti di metallo, gli iberici hanno la fabbrica o, in greco,
saunion, con un lungo puntale metallico. I Galli chiamano invece gaesum uno
spiedo con un manico di legno sul quale venne innestato un puntuale con un
cannone molto lungo. Nella tomba del guerriero latino di Lanuvio, del V
secolo, è stata riconosciuta la punta di un antenato del pilum. Anche gli
Etruschi ci appaiono ritratti con un’arma che sembra proprio un pilum, e i
Sanniti avevano un’arma che i Greci accumunavano al saunion, ma questo
riferimento è più dubbio. Sia stato dai Galli, dagli Etruschi o dai Sanniti,
i Romani comunque assunsero il pilum in sostituzione dell’hasta. I legionari
ne disponevano di due o tre, uno o due leggeri – di lunghezza variabile tra
1,2 e 2 metri, con peso medio di 1,3-1,8 chili – che venivano scagliati a
circa 35 metri di distanza dal nemico, e uno pesante – lungo 2,10 metri, di
cui un terzo circa di puntale metallico e il resto di manico, per un paio di
chili di peso – lanciato subito dopo, per preparare il contatto con il
nemico. Moderni esperimenti hanno mostrato che quest’ultimo era capace di
trapassare tavole spesse 2 centimetri di legno compensato e di 3 centimetri
di legno di abete, con un lancio da 5 metri. Sono così in qualche modo
confermate le testimonianze storiche che raccontano di scudi perforati e resi
inutilizzabili, e di uomini passati da parte a parte.
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La tattica manipolare.
simbolo del manipolo
Uno degli aspetti più controversi
e dibattuti da parte degli storici militari riguarda le modalità dello
scambio tra i manipoli che costituiva la caratteristica principale della
tattica manipolare.
|
Un esercito
professionale.
Ulteriori riforme rendono
le armate romane ancora più inarrestabili grazie alla fedeltà a un comandante:
un elemento di forza e coesione, che contribuirà anche alla fine della
repubblica e all’emergere di uomini forti che prenderanno il potere assoluto.
Busto in marmo di Gaio Mario(Museo Chiaramonti)
Struttura della legione imperiale dopo la riforma mariana.
Le
radici della potenza militare di Roma affondano profondamente nella sua storia
più antica. Le legioni percorreranno nei secoli un continuo percorso evolutivo,
conoscendo momenti innovativi di maggiore e minore importanza, ma rimanendo
legate al principio dell’economia di forze che si era concretizzato per la
prima volta nella struttura manipolare. Le legioni subiranno dunque diversi
mutamenti organizzativi, anche radicali, ma in guerra manterranno
un’impostazione basata su una razionale e consapevole ripartizione dello
sforzo. Un principio che l’introduzione della legione coortale, basata su 10
coorti e non più su 30 manipoli, rispetta con una soluzione adeguata a nuove
sfide.
Fino almeno alla
Seconda guerra punica contro i Cartaginesi (218-202 a.C.), infatti, la coorte
era stata una semplice unità amministrativa e non tattica: un manipolo di
hastati, di principes e di triarii, per esempio, venivano considerati un’unica
entità quando si trattava di distribuire loro le vettovaglie. Già a partire
dalla guerra contro gli alleati iberici di Annibale (209 a.C.), però,
potrebberoo aver avuto inizio i primi esperimenti per inserire la coorte ne
meccanismi tattici romani, trasformandola, quindi, in una nuova unità
impiegabile in battaglia. tra il 210 e il 195 a.C. lo storico Livio, infatti,
cita per 17 volte le coorti in Iberia, mentre continua a usare il termine
“manipoli” quando riferisce dei combattimenti in Grecia. Publio Cornelio
Scipione, che sconfiggerà Annibale a Zama nel 202 meritandosi il titolo di Africanus,
fronteggia dal 209 in Spagna i Cartaginesi e le bellicose tribù della penisola
iberica, loro alleate. Le tattiche di guerriglia che esse impiegano con
eccezionale abilità, i loro attacchi impetuosi condotti con armi di ottima
fattura e il loro territorio disseminato di innumerevoli piazzeforti richiedono
interventi tempestivi e dispersione di forze. Per questo compito operativo
un’intera legione è troppo grande e troppo lenta, metre gruppi di manipoli
possono essere non solo rapidi negli interventi, ma anche avere il necessario e
dalle sue prime vittorie sul suolo iberico – a Baecula (208) e a Ilipa (206) –
Scipione manovrò la legione in modo più elastico, facendo compiere a gruppi di
manipoli aggiramenti e altri movimenti tattici difficili da concepire senza un
addestramento specifico per unità superiori al manipolo. La stessa famosa
disposizione dei manipoli che Scipione adottò a Zama, incolonnati l’uno dietro
l’altro per costituire corridoi lungo i quali far scorrere gli elefanti di
Annibale, sembra un’anticipazione della struttura coortale.
LA RIFORMA DI GAIO MARIO. Per circa un secolo
sentiremo ancora parlare di “manipoli”: l’ultima occasione sarà durante le
Guerre giugurtine in Africa durante la battaglia sul fiume Muthl, vinta da
Quinto Cecilio Metello (circa 160-91 a.C.). E proprio alle guerre contro
Giugurta, re della Numidia, risale anche l’ultima citazione dei velites, perché
il definitivo affermarsi della legione coortale portò alla loro scomparsa. Gaio
Mario (157-89 a.C.), avversario politico successore di Metello, stava infatti
per farsi promotore della riforma più incisiva e densa di conseguenze della storia
delle armate romane, così radicale che è lecito dubitare che Mario ne avesse
previsto le implicazioni strutturali di lungo periodo.
Console per la prima
volta nel 107, Mario non disponeva di truppe sufficienti per sconfiggere
definitivamente Giugurta e quindi aprì l’arruolamento alle masse che non
possedevano alcuna proprietà terriera, chiamati capite censis perché nei
censimenti venivano semplicemente “contati a teste”, e che fino ad allora, come
abbiamo visto, erano esentati dal dovere di prestare servizio militare. Poiché
questi cittadini nullatenenti non potevano permettersi di acquistare le proprie
armi e armature, Mario stabilì che dovesse essere lo stato ad armarli. Era la
professionalizzazione di fatto dell’esercito romano, un passo decisivo per il
futuro di Roma, nelle sue fortune militari, come nei suoi guai politici. La
ferma sarebbe durata 16 anni, innalzati a 20 sotto Augusto, durante i quali
essi non solo avrebbero avuto un “posto fisso” con paghe regolari, ma anche la
possibilità di avanzamento, di premi, di condividere il bottino di guerra e di
conoscere una sensibile promozione sociale. Per molti proletari si trattò di un’occasione
imperdibile ed essi la colsero in massa. A ulteriore incremento della base di
arruolamento, Mario concesse piena cittadinanza romana agli alleati italici,
come Etruschi, Marsi e Umbri, al completamento del periodo di ferma. Il Senato,
riottoso a concedere agli italici un simile privilegio, fu convinto da Mario
che si dichiarò incapace di distinguere le varie origini dei suoi uomini nel
corso di una battaglia. la costituzione di un esercito professionale e
permanente permetteva di standardizzare armamento e addestramento delle unità e
portò, come anticipato, alla scomparsa dei velite, perché tutti i cittadini
romani indistintamente venivano arruolati nelle coorti legionari. Un preciso
sistema di avanzamento di carriera, con remunerazioni proporzionate a premi
crescenti a seconda delle responsabilità e dei meriti garantiva al legionario
prospettive economiche che nella vita civile non avrebbe conosciuto, e agli
ufficiali occasioni di acquisire fama, onori e soprattutto relazioni spendibili
in una futura carriera politica.
Tradizionalmente tutti i cittadini
romani maschi di età compresa tra i 17 e i 46 anni erano ritenuti reclutabili
per il servizio militare. La maggior parte delle reclute delle legioni era
però di età compresa tra i 17 e i 23 anni, con una concentrazione intorno ai
20, ma sono noti casi di reclute di 13-14 anni così come di 36. Dai registri
di arruolamento rinvenuti dagli archeologi sappiamo che la maggior parte dei
legionari sosteneva di provenire da un paese o da una città, ma pochi in
realtà sembra avessero effettivamente trascorso gli anni da civile in un
centro urbano. Molto più probabile che essi appartenessero al contesto rurale
che gravitava su una cittadina di una certa importanza. Fino al tardo impero
la principale fonte di arruolamento delle legioni romane fu quella della
tradizione: il semplice contadino, abituato a una vita all’aria aperta e
frugale, fisicamente forte, capace di affrontare le fatiche, le privazioni e
la dura disciplina della vita militare. Basti pensare che il solo peso di
armi, attrezzi e armature trasportato dal legionario raggiungeva i 42 chili,
ai quali vanno aggiunti quelli di provviste e altri bagagli. Inoltre chi
proveniva dal mondo rurale era capace di cavarsela in innumerevoli situazioni
– non ultimo per il fatto di sapersi cibare di qualsiasi cosa fosse
disponibile – e abile in altrettanto numerose attività di cui aveva avuto
esperienza nella vita civile, e che erano assai utili anche in quella
militare: tagliare alberi, scavare fossati, costruire oggetti, innalzare
palizzate e così via. Queste ultime competenze, maturate nei trascorsi
rurali, erano preziose negli assedi, nella costruzione degli accampamenti e
dei forti e in tante altre attività connesse con la guerra, nelle quali i
legionari romani dimostrarono di eccellere, tanto da poter essere considerati
dei precursori dei moderni genieri d’assalto. La costituzione fisica e il
portamento del legionario era tale da renderlo riconoscibile anche se non
indossava armi e armature. Vegezio afferma che la sua altezza ideale era di 6
piedi romani, ovvero 177 centimetri, e per la prima coorte, la più importante
della legione, venivano scelti uomini di almeno 172. La I Legio Italica era,
per esempio, un’unità considerata d’élite non solo perché i suoi uomini erano
tutti di provenienza italiana, ma anche perché dovevano essere alti almeno
177 centimetri, ma è molto probabile che tra i ranghi dei legionari romani vi
fossero anche uomini di qualche centimetro più bassi, perché è comunque
difficile che l’altezza media della popolazione rurale dell’epoca si
discostasse dai 165.
|
La legione coortale.
Riformata da Gaio Mario, era
articolata in 10 coorti di 6 centurie ciascuna. Ogni centuria era composta in
linea teorica da 80 uomini, portando così l’organico della coorte a 480 e
quello complessivo di una legione a 4800. A queste truppe di fanterie
andavano aggiunti poco più di 120 cavalieri che svolgevano però soprattutto
altri ruoli di collegamento e di osservazione. Ogni centuria era a sua volta
composta da 10 contubernia di 8 uomini che condividevano la stessa tenda,
alla cui testa era un decanus. Le coorti non avevano un vero e proprio
comandante, ma probabilmente a questo compito suppliva in qualche modo la
gerarchia dei centurioni, che poneva al grado più alto il centurione primus
pilus, il primo della prima coorte, e poi a seguire gli altri, assegnando
quindi a ogni coorte un centurione con anzianità più elevata. Accompagnavano
una legione numerosi non combattenti, probabilmente oltre 1500: funzionari,
amministrativi, attendenti e un paio di servi per ogni contebernium. In
campagna la legione era assista da altre truppe arruolate stabilmente tra i
non Romani: ali auxilia di fanteria e le alae di cavalleria, ai quali potevano
aggiungersi occasionalmente truppe alleate o mercenarie.
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Schieramento in battaglia dell'esercito consolare polibiano nel III secolo a.C., con al centro le legioni e sui fianchi le Alae Sociorum (gli alleati italici) e la cavalleria legionaria e alleata.[82]
LA POTENTE LEGIONE ROMANA. Il legionario era un soldato pesante armato di spada e pilum e ottimamente protetto dallo scutum, prima di forma ovale e dal I secolo d.C. a forma di tegola, da una corazza, non sempre del famoso modello segmentato di fasce metalliche, e da un elmo tecnicamente molto perfezionato. L’addestramento lo rendeva capace di una notevole varietà di impieghi, compresi quelli delle truppe leggere, ma per quest’ultimo compito si iniziò di rivolgersi a contingenti etnici specializzati, organizzati in coorti di auxilia (ausiliari), anch’essi professionalizzati e integrati nella struttura delle armate legionarie, ma composti da non romani, o in alcuni casi da mercenari o alleati. In breve, con l’addestramento gli auxilia divennero trippe capaci di molti impieghi come i legionari, non meno combattivi e disciplinati di loro.
La complessiva
professionalizzazione dell’esercito romano consentiva, anzi rendeva
ineludibile, un addestramento costante, distribuito lungo tutto l’arco
dell’anno e non solo in occasione o nell’imminenza di conflitti. La disciplina,
lo spirito di corpo, la fiducia nel proprio comandante e, non ultima, la
perfezione delle manovre tattiche così raggiungibili fecero dell’esercito
romano una forza senza paragoni nel periodo antico e, almeno sotto questi
aspetti, con pochi simili nella storia militare di ogni epoca.
Un’altra riforma
introdotta da Mario fu la concessione da parte del comandante ai legionari
congedati con onore di una specie di liquidazione, sotto forma di un
appezzamento di terreno nelle regioni conquistate. Già intensamente fedeli per
disciplina e frequentazione al proprio comandante, la prospettiva di un sereno
futuro da possidente terriero rappresentava per i legionari un ulteriore motivo
per sentirsi legati a lui fino a condividerne e sostenerne le ambizioni
politiche: un legame che già con l’avversario e successore di Mario, Lucio
Cornelio Silla (circa 138-81 a.C.), mostrò tutto il suo potenziale politico
sovversivo. Le legioni romane infatti sfuggirono al controllo del Senato per
divenire le protagoniste di decenni di guerre civili e di disordini che si
conclusero con l’ascesa al potere imperiale di Ottaviano, cui il senato conferì
il titolo di “Augusto” il 16 gennaio del 27 avanti Cristo.
Le legioni romane, che
con Giulio Cesare e con la Repubblica aveva esteso il dominio di Roma dal
Mediterrano all’Oceano Atlantico, con l’impero lo portarono a est fino al Mar
Nero e al Golfo Persico e a sud fino al Mar Rosso. Affrontarono i nemici più
diversi per etnia e per tattiche, subirono vittorie e sconfitte, ma anche in
quest’ultima eventualità si dimostrarono competitive, riuscendo quasi sempre a
riscattarsi. Nel corso dei secoli subirono altri mutamenti organizzativi e
tattici, di maggiore o minore rilevanza: la necessità di nuove reclute, i costi
crescenti di un’armata professionale e la necessità di aumentare gli organici
di cavalleria portarono all’arruolamento prima e all’integrazione poi di elementi
estrani alla comunità romana, provenienti da oltre i confini imperiali. Il
passo successivo fu la “barbarizzazione” delle forze armante romane, in
particolare nell’Impero Romano d’Occidente. Intere popolazioni guerriere
combattevano per Roma come federati, con comandanti propri, senza alcuna
integrazione organizzativa strutturale. Il sistema militare e politico romano
aveva irrimediabilmente perso quell’equilibrio interno che lo aveva reso grande
e la conseguenza fu il suo conseguente declino. Gli imperatori non detenevano
più il potere politico nel vero senso della parola, quello capace di mantenere
e coltivare il monopolio dell’uso della forza, ed era inevitabile che quello
stesso potere politico passasse di mano.
Articolo in gran parte
di Nicola Zotti pubblicato su Storie di Guerre e guerrieri extra n. 1 Sprea
Editori, altri testi e immagini da Wikipedia.
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