giovedì 6 giugno 2019

Legionari romani


Legionari romani. 
Alle radice della grandezza militare di Roma.

Roma centro strategico d’Italia.
In un panorama variegato, dove numerosi popoli lottavano per la sopravivenza, la futura città eterna riuscì a emergere sopra tutte le altre. Distinguere tra storia e mito, però, non è facile.
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 Rappresentazione di un legionario romano del I secolo d.C.
Chi può essere tanto stolto o pigro da non sentire il desiderio di sapere come e sotto quale forma di governo i Romani, in meno di 53 anni – fatto senza precedenti nella storia – abbiano conquistato quasi tutta la terra abitata?”. Così lo storico greco Polibio introduce al lettore il tema centrale delle sue Storie: quei 53 anni dal 221 al 168 a.C. durante i quali Roma si affermò come potenza egemone nel Mediterraneo, sconfiggendo Cartagine, sua mortale nemica.
C’è però un’altra domanda che meriterebbe una risposta: come ha fatto Roma a proporsi per una simile sfida? 0vvero, quale percorso ha compiuto nei cinque secoli che precedono gli eventi narrati da Polibio, tanto da essere pronta a diventare la padrona “di quasi tutta la terra abitata”?
Roma non fu propriamente fondata, ma nacque, probabilmente anche prima dell’VIII secolo a.C. dalla fusione di due centri abitati che dominavano il guado più meridionale del Tevere dall’alto delle due cime del colle Palatino, il Palatius e il Cermalus: il loro perimetro era protetto da una palizzata e da qui il nome saepti montes (colli circondati da palizzata), che con il tempo venne equivocato in “sette colli”. Roma invece deriva il suo nome, forse, da Rumon o Rumen, nome arcaico del Tevere. E a questo fiume è legato anche il destino della città. perché quel guado ne faceva un luogo di importanza strategica per i traffici tra il Centro e il Meridione d’Italia. Alla foce del Tevere, infatti, vi erano delle preziose saline, mentre il corso del fiume e del suo affluente Anio (Aniene) conducevano al mercato di Roma il bestiame che veniva allevato negli Appennini. L’Agro Romano (area rurale intorno alla città), poi era molto fertile, e capace di sostenere una popolazione proporzionalmente più numerosa che in molte altre zone limitrofe. Questa serie di fattori concomitanti faceva dunque di Roma la chiave di volta dell’intera Italia centrale, in una condizione privilegiata, ma allo stesso tempo critica. La città era infatti circondata da popolazioni bellicose che la consideravano niente altro che una ricca preda: una condizione naturale in un’epoca in cui la guerra era endemica e rientrava nelle normali attività economiche di una comunità. Roma, naturalmente, non era da meno: la sua sopravvivenza, ancora prima che i suoi successi era strettamente legata alla forza militare, e l’intreccio tra strutture militari – tattiche comprese – e istituzioni civili fu per forza di cose indissolubile. La risposta che cercavamo, o almeno un’idea di essa, deve essere trovata in questo connubio.
Tipico elmo villanoviano utilizzato dagli Etruschi. Venne introdotto anche nel primo periodo regio di Roma nel primo esercito romuleo. (Museo etrusco Guarnacci di Volterra).

                                           
L’Italia antica.

Oltre il Tevere, a nord-ovest, i Romani fronteggiavano la popolosa ed evoluta comunità etrusca, di origine non indoeuropea, la cui esponente più meridionale, Veil (Isola Farnese), aveva un proprio avamposto addirittura a Fidenae, a soli 9 chilometri in linea d’aria dal Campidoglio. Poco più a nord c’erano Falisci e Umbri, a nord-est i Sabini, che avevano intrattenuto stretti rapporti con i Romani e si erano spinti fino alle sue porte, ad Antemnae. Gli Appennini a est di Roma erano abitati dagli Aequi e dagli Hernici. A sud, nelle pianure che conducono alla Campania, risiedevano i Latini, della stessa etnia dei Romani ma gelosissimi della propria indipendenza; poi i Volsci che dagli Appennini del Lazio meridionale erano scesi fino ad occupare il territorio dell’Agro Pontino. Lungo la costa della Campania c’erano le intraprendenti colonie della Magna Grecia, che contendevano ance territori nell’interno alle popolazioni Campane, così come gli Etruschi, che avevano cercato di stabilirsi sulle coste del Tirreno meridionale. Infine, non immediatamente gravitanti su Roma, ma comunque attori di primo piano della scienza geopolitica italiana, incombevano a su i Sanniti, una federazione di varie tribù che avevano in comune la lingua, l’osco, e la religione, e a nord i Galli Senoni. Tutte queste popolazioni, purtroppo, non ci hanno lasciato una storia autonoma: abbiamo loro notizie praticamente solo quando incrociano il cammino con quello dei Romani, e non conosciamo la loro versione dei fatti. Sono rarissime le informazioni relative a conflitti fra popolazioni italiche, che pure non dovevano mancare, quando non coinvolgono anche i Romani.

Tra mito e realtà

Colonna Traiana, rilievo XV. Alcuni exploratores conducono un prigioniero dace al cospetto dell'imperatore, per essere interrogato. Traiano, dall'alto di un accampamento fortificato, affiancato da due collaboratori, ispeziona lo status dei lavori sottostante, dove numerosi legionari stanno costruendo un nuovo ponte fisso su di un fiume, mentre altri legionari sono intenti a scavare un profondo fossato, utilizzando delle ceste per il trasporto del materiale.

Le fonti della storia di Roma dagli albori almeno fino alla maturità della Repubblica sono a dir poco problematiche. Gli storici romani svilupparono estese narrazioni, il cui corpo principale è confluito in due opere che ci sono pervenute in modo quasi completo, scritte entrambe alla fine del I secolo a.C. da Tito Livio e dal greco Dionigi di Alicarnasso: Storia di Roma dalla sua fondazione, il primo, e Antichità romane il secondo. A Roma la scrittura storica aveva mosso i suoi primi incerti passi solo nella seconda metà del III secolo a.C. e non c’è dubbio che per i secoli precedenti, e in particolare per l’epoca di racconti variamente ritoccati, nella quale è difficile discernere la realtà dei fatti storici originari. A partire dalla costituzione della Repubblica, nel 509, il pontefice massimo redigeva annualmente una sintesi degli eventi notevoli, ma in epoche successive questi documenti vennero rielaborati, in parte distorti, in parte completati da ricostruzioni arbitrarie quando mancavano. Livio e Dionigi sono dunque intermediari tra noi e le le loro assai poco affidabili fonti, e la loro distanza temporale dai fatti che  raccontano è tale da rendere molto difficile interpretarli. I ritrovamenti archeologici contribuiscono notevolmente a tratteggiare un quadro storico più dettagliato, ma non senza difficoltà e zone d’ombra. Fino al III secolo a.C., per esempio, praticamente non abbiamo armi riconosciute come romane e dobbiamo dunque affidarci ai rinvenimenti in zone collegate o affini e compiere un ragionamento per analogia. Ogni ricostruzione storica è così ampiamente congetturale e tanto più fondata quanto più riesce a conciliare in una logica unitaria le singole tessere di un mosaico tanto ampio.

La legione “tribale”
Fin dagli albori, a fare la differenza fu l’alto valore civico che veniva attribuito all’eroismo in battaglia: la gloria conquistata da un soldato sul campo era tale perché andava anche a beneficio di tutta la comunità.

Una società inclusiva.
Roma fin dalla sua nascita fu un centro di comunicazione e di scambi, un crocevia di culture, e questo pesò in modo decisivo sulla sua struttura sociale e politica. Sorta da popoli diversi, con il tempo Roma rafforzò questa propria originaria vocazione multietnica, coltivando uno spirito e un’identità fortemente unitarie. Roma crebbe per inclusione, accogliendo e assimilando chi voleva farne parte e sviluppando anche un’aristocrazia aperta ad altre etnie, ma autenticamente romana. La lista dei re vede nomi latini, sabini ed etruschi: a cominciare dal sabino Tito Tazio, che seppure per breve tempo, condivise con Romolo il trono di Roma. Leader eletti dal Senato, il cui carattere identitario romano, un tempo messo in discussione è testimoniato dalla stessa espansione della città, che nel periodo regio non conobbe le asprezze e il peso di un dominio straniero (nella fattispecie, come spesso viene affermato, etrusco), ma fu al contrario arricchita di prestigiosi edifici pubblici religiosi e civili, e intraprendente, attiva e fortunata nelle sue azioni belliche. Analogamente, quando Roma iniziò il proprio cammino egemonico sulla penisola, la sua strategia fu altrettanto inclusiva e sempre attenta alla politica delle alleanze, coinvolgendo nei propri progetti altri popoli e condividendo con questi i medesimi interessi e obiettivi. Forza e persuasione, convenienza e coercizione furono leve manovrate dalle élite romane nei confronti dei Socii (alleati) con sapiente realismo politico e con straordinaria coerenza durante i secoli. Senza questa capacità di coalizione, senza i contingenti alleati schierati al fianco dei legionari romani, la Città Eterna non avrebbe raggiunto i suoi ambiziosi obiettivi di conquista. L’integrazione dei contingenti alleati nel dispositivo militare fu un’operazione assai complessa, ma fondamentale e perfezionata nel corso dei secoli, riunendo e facendo agire in modo coordinato e organizzato un grande numero di truppe di entità, etnia e tradizioni militari molto diverse tra loro.
L’esercito arcaico romano rifletteva fedelmente la multi etnicità originaria di Roma. La sua prima forma organizzata di cui si ha notizia viene fatta risalire a Romolo ed è costituita sulla base di 3 tribus (la terza parte del popolo), i cui i nomi, Ramnes, Tities (o Titienses) e Luceres, derivano secondo gli storici antichi dalle tre componenti la cui fusione diede origine a Roma: la prima da Romolo, i Latini, la seconda da Tazio, i Sabini, la terza dagli “abitanti dei boschi sacri”, probabilmente gli Etruschi. Ciascuna tribus era divisa in 10 curie letteralmente assemblee di uomini in armi, che dunque erano allo stesso tempo alla base dell’organizzazione politica e di quella militare. Ogni tribus doveva scegliere mille uomini, cento per ogni curia, creando così una “legione” (letteralmente: selezione, scelta) di tremila uomini suddivisi in trenta centurie. Da questo momento in poi le centurie divennero l’unità di base della legione romana, rimanendo tali per secoli e secoli. Inoltre ogni tribus conferiva anche cento cavalieri, formando così un piccolo corpo di cavalleria di trecento uomini, suddiviso in trenta decurie di dieci uomini. L’opinione prevalente tra gli storici moderni ritiene che questa organizzazione non sia stata introdotta dal leggendario re e fondatore, ma verso la fine del VII secolo a.C., quando Roma si stava configurando come una città stato. In questa fase del proprio sviluppo, Roma doveva avere l’esigenza di acquisire il monopolio dell’uso della forza dotandosi di un’autonoma forza militare, riducendo la propria dipendenza dalle truppe reclutate e organizzate da privati cittadini.
Nei primi secoli di vita di Roma sono infatti frequenti i riferimenti storici a eserciti riuniti da clan (in latino gentes) di famiglie nobili che di propria iniziativa incominciavano guerre o venivano incaricate dal Senato di porvi fine, oppure dovevano presidiare un obiettivo strategico per periodi di tempo proibitivi al normale miliziano-contadino-romano, vincolata alla stagionalità dei lavori agricoli. Queste armate private sono testimoniate finanche nel periodo repubblicano: una delle più antiche iscrizioni latine, databile attorno alla fine del VI secolo a.C., nota come pietra di Satricum (Ferriere di Conca nell’Agro Pontino), dice “… posero di Publio Valerio i compagni in Marte”: chiara indicazione di una comunità di guerrieri che celebra il ricordo del proprio capo, forse lo stesso Publio Valerio Publicola che fu tra i fondatori della Repubblica romana. Gli eserciti arcaici (non solo a Roma) costituivano con il proprio capo un legame simile a quello feudale del Medioevo e anche le tattiche di combattimento non dovevano essere molto dissimili. Il comandate (o li capoclan) raccoglieva attorno a sé i propri familiari e clienti (ovvero persone con cui aveva stretti legami di amicizia, economici e politici) e combatteva con loro al centro della formazione, guidandone le azioni in prima linea, affiancato dai propri compagni più valori ed esperiti e da un’insegna personale, il cui valore era allo stesso tempo militare e mistico. I vari contingenti di truppe marciavano incolonnati e si schieravano in battaglia uno di fianco all’altro mantenendo la formazione più ordinata possibile. In attacco le unità assumevano spontaneamente la forma di un cuneo, guidato dal capo, ma in difesa e durante i combattimenti prolungati si allineava in modo altrettanto spontaneo in modo che i fianchi di ogni guerriero fossero protetti da un compagno. I ritrovamenti archeologici suggeriscono che l’arma principale dei guerrieri di questa epoca fosse una lancia con una punta imponente, in alcuni casi quasi una spada con un manico allungato, ma sono stati rinvenuti anche giavellotti, spade, asce; mentre come armamento protettivo abbiamo pettorali e corazze metalliche, elmi di varia foggia, scudi ovali o circolari. Data la prevalenza di questo particolare tipo di lancia, inadatta a essere scagliata, ciascun guerriero combatteva singolarmente, con una scherma fatta di continui movimenti avanti e indietro per piazzare un affondo o allontanarsi dall’avversario. Le linee delle formazioni dovevano essere distanziate in profondità per fornire lo spazio necessario, e mentre la prima linea combatteva, le successive contribuivano scagliando armi da lancio, con incitamenti, aiutando i feriti, sostituendo le perdite.
Con la legione suddivisa in tribus, dunque, Roma crea una forza organizzata e propriamente romana, ovviando all’aleatorietà delle armate dei privati, e riesce a disciplinare l’individualismo portandolo al servizio di un interesse collettivo: non si negano le differenze etniche delle tribù, ma vengono armonizzate nella stessa unità affinché si inneschi un meccanismo collaborativo/competitivo. Si valorizza il contributo dei singoli, ma lo si mette al servizio di un successo che è in eguale misura personale e collettivo: anzi, è personale proprio perché è anche collettivo. Alla diversità, per etnia o censo, fa da potente contrappeso la comune condizione di cittadino romano. Ogni guerriero combatteva per se stesso e per la comunità ristretta cui apparteneva e che poi gli avrebbe riconosciuto e condiviso con lui la gloria guadagnata sul campo, ma anche per Roma. E proprio in questo periodo prende forma tra i Romani uno spirito guerriero fatto di un’epica del tutto simile a quella di altre civiltà, con eroi romani non diversi da quelli omerici o delle saghe nordiche, ma che assume la caratteristica unica del valore civico dell’azione eroica: si onora l’individuo e la famiglia cui appartiene in quanto le sue virtù personali portano un beneficio alla comunità più ampia della città.
Roma sta affinando una peculiare cultura civica unitaria che avrà un grande peso non tanto nelle vittorie, ma soprattutto quando dovette riprendersi dalle sconfitte, dando prova di una coesione, di una capacità di sacrificio e di una resistenza alle difficoltà senza precedenti nella storia umana.

I nemici di Roma.
L’Italia antica non era una terra pacifica, ma un luogo dove le guerre erano endemiche, e le popolazioni numerose quanto bellicose e indomabili. La conquista della Penisola da parte di Roma fu lenta proprio perché le difficoltà che dovette affrontare furono enormi, nessuna vittoria fu facile, nessuna guerra senza rischi. Le guerre rispondevano a esigenze di tipo economico, a crisi demografiche, o erano l’unica, disperata risorsa per risolvere emergenze drammatiche come una carestia. Il loro esito poteva esser catastrofico: intere popolazioni potevano estinguersi ed essere assimilate, in schiavitù dai vincitori.


GLI ITALICI.
I Latini condividevano con i Romani la stessa lingua, la stessa religione, la stessa etnia, ma non si piegavano alle loro mire egemoniche. Riuscire a sconfiggerli nella battaglia del Lago di Regillo, nel 496 a.C., fu fondamentale per Roma che non solo respinse il tentativo del suo ulti re Tarquinio il Superbo, che era stato scacciato e si alleò con i Latini, di rientrarvi, ma dopo altri tre anni di conflitti riuscì alla fine a stringere con trenta città della Lega Latina il Foedus Cassianum, un patto firmato dal console Spurio Cassio Vecellino che sanciva un’alleanza militare e forme di parità giuridica tra i Latini e i Romani. Su entrambi incombeva la minaccia dei Volsci che, provenienti dai monti del Lazio meridionale, avevano occupato l’Agro Pontino strappandolo ai Latini. Come Ernici ed Equi, anch’esse bellicose popolazioni appenniniche, i Volsci compivano periodiche razzie e ruberie, agendo come feroci truppe leggere, abituate a combattere tra i boschi e i monti, ma potevano dare luogo a spedizioni di più ampio respiro quando erano sottoposti a pressioni demografiche. Questa esigenza era stata istituzionalizzata con la pratica religiosa del Ver Sacrum (La Primavera sacra), mediante la quale interi gruppi generazionali nati nei mesi primaverili venivano dedicati a una divinità e obbligati a conquistarsi con le armi un nuovo insediamento, guidati da un animale totemico, di norma rappresentato in effige, ma presente come segnale divino nelle leggende. I Latini entrarono definitivamente nella sfera di influenza romana solo nel 338, quando furono sconfitti e la Lega Latina venne sciolta.
I SANNITI.

Il Sannio secondo l'Historical Atlasdi William R. Shepherd (1911)
Per la loro bellicosità, la loro tenacia e il loro profondo senso di indipendenza, i Sanniti furono sicuramente i più pericolosi nemici di Roma. Erano una federazione di quattro tribù accomunate dalla stessa lingua, l’osco, e da comuni santuari religiosi come quello sito a Bovianum: Pentri, Caudini, Hirpini e CAraceni. Benché questa federazione avesse vincoli non particolarmente stringenti, in caso di pericolo poteva reagire mettendo in campo eserciti considerevoli: Livio, per esempio, attesta che riuscirono a schierare un’armata di ben 40mila uomini. Insediati nelle aspre regioni dell’Appennino meridionale, entrarono in conflitto con Roma a partire dal 343 a.C., ma il loro spirito indomito li portò a combattere contro l’egemonia romana appena se ne presentava l’occasione. Abili anche a intessere relazioni diplomatiche, si fecero promotori di un’alleanza tra Etruschi, Umbri e Galli Senoni che lanciò una pericolosissima sfida ai Romani alla battaglia di Sentinum nel 295. La loro resistenza cessò nell’82 a.C., quando Silla compì una vera e propria pulizia etnica ai loro danni, massacrando chi si opponeva e disperdendo la popolazione. Le loro armate erano prevalentemente composte da fanterie organizzate in formazioni di 400 uomini, chiamate dagli storici antichi, usando una terminologia romana, coorti. I loro guerrieri combattevano con spada, scudo ovale o trapezoidale e giavellotto, e i più ricchi si proteggevano con un elmo e un pettorale in bronzo, spesso a forma di tre dischi uniti.
I GALLI.

Le popolazioni della Gallia cisalpina(391-192 a.C.)

Le popolazioni celtiche erano giunte in Italia probabilmente all’inizio del IV secolo avanti Cristo. Lingoni, Cenomani, Boi e Senoni scavalcarono le Alpe e invasero la pianura Padana. In particolare, i Boi si spinsero fino ad occupare la città etrusca di Felsinia, cui cambiarono il nome in Bonomia (Bologna), mentre i Senoni scesero lungo le coste adriatiche, scacciandone gli Umbri e fondando Sena (Senigallia). I Galli furono costantemente in attrito con i loro vicini, ma furono contenuti con discreto successo, in particolare dai Veneti, che mantennero il controllo della pianura orientale. Combattenti terribili e più organizzati e ordinati di quanto comunemente si pensi, erano spesso ingaggiati come mercenari, in particolare dalle colonie della Magna Grecia. Fu forse per raggiungere il loro committente Agatocle di Siracusa o un suo progetto strategico in funzione anti-etrusca, oppure per una semplicei spedizione militare finalizza ala saccheggio, che i Galli Senoni guidati da Brenno nel 390 si scontrarono con i Romani. Il 18 luglio un’armata romana riunita in emergenza venne sconfitta sul fiume Allia, a pochi chilometri a nord di Roma, fuggendo terrorizzata davanti al nemico senza combattere. Nonostante gli aspetti leggendari, il fatto ha sicuramente un fondo di verità. Gli studi archeologici tuttavia non mostrano segni di distruzioni o incendi: sconfitti, i Romani probabilmente pagarono un tributo, ma la città non venne devastata.
GLI ETRUSCHI.
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Cartina con i maggiori centri etruschi, l'Etruria padana e l'Etruria campana

Gli Etruschi esercitarono una grande influenza su Roma e i Romani, ma l’ipotesi che la città sia stata occupata da questo popolo, basata sull’etimologia dei nomi degli ultimi tre re della città, oggi è messa in dubbio dagli studiosi. Più probabile che Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo rappresentino il ricordo di un’élite di origine etrusca, ma comunque romana. Lo testimonierebbe il fiorire della città proprio nel VI secolo a.C, ovvero nel periodo durante il quale essi avrebbero regnato, che mal si concilia con l’idea di una città occupata e sottoposta al dominio di una potenza straniera.  Con al Repubblica, Roma riprese il conflitto con gli Etruschi, ci cui temeva soprattutto la numerosità più che il valore guerriero, che pure non era trascurabile: i Romani infatti molto probabilmente assimilarono elementi dell’esperienza militare etrusca, a sua volta derivata da quella greca. Questo popolo di origine non indeuropea era organizzato in leghe abbastanza elastiche formate da 12 città, e poteva contrapporre a Roma eserciti di coalizione. Non sempre la solidarietà tra gli Etruschi era però sufficientemente forte e i Romani seppero approfittarne. Particolarmente importante fu la conquista di Veio, avvenuto nel 396 a.C. dopo un lungo assedio. Con essa, Roma accrebbe il suo territorio del 60%, e poté accedere all’ottimo tufo delle cave etrusche, che verrà utilizzato per l’edificazione delle cosiddette mura Serviane; accreditate al sesto re di Roma, ma costruite in epoca successiva.  

I Romani alla scoperta della tattica.
Seppero apprendere molto dai popoli con i quali entrarono in contatto.
          
Dettaglio del vaso Chigi, con scontro tra fanterie oplitiche del 650-640 a.C. (Museo nazionale etrusco di Villa GiuliaRoma)

Gli storici romani non hanno dubbi: le armate di Roma adottarono armamento e tattica degli opliti greci, mutandolo dagli Etruschi. Ne sono quasi orgogliosi, ripetendo con insistenza come i Roani fossero capaci di imparare dai propri nemici per superarli al loro stesso gioco. Valorizzare la capacità di un popolo di apprendere per imitazione dagli altri, giungendo a migliorare le stesse prestazioni dei precursori, sembra però essere più una lezione morale che una fondata testimonianza storica.
Gli Etruschi avevano in effetti instaurato rapporti con il mondo greco già nell’VIII secolo a.C. quando in Italia comparvero le prime basi greche a Pithecusa e Cuma, anzi avevano sviluppato un vivo interesse per tutto ciò che era orientale, armi comprese. I Greci avevano assimilato le tecniche di combattimento della fanteria pesante dalle popolazioni orientali, innanzitutto Assiri e Sumeri, che per primi avevano impiegato già nel IX secolo a.C. le lunghe fila ordinate in successione di guerrieri in formazione serrata, protetti da scudo, elmo e corazza e armati di combattimento arrivò in Grecia, probabilmente a partire dall’Eubea, i cui artigiani diventarono presto esperti nella fabbricazione di corazze di bronzo e di buone spade in ferro. Benché la tribù sia ancora – e rimanga tale – lo strumento di reclutamento e di organizzazione delle truppe, anche in Grecia si abbandona la spontaneità della formazione tribale e si comincia a combattere disponendo i guerrieri in ordinate linee successive, costituendo così una specie rettangolo, già chiamato falange, di profondità uniforme e sviluppato in lunghezza per rispondere alle esigenze e sviluppato in lunghezza per rispondere alle esigenze dell’ampiezza del campo di battaglia e della formazione nemica. A questi aspetti prettamente tattici, se ne sovrappongono altri tecnologici. Nel VII secolo a.C. a Corinto viene inventato l’elmo corinzio, che ha la caratteristica di lasciare solo gli occhi e la bocca scoperti, e da  qui si diffonde velocemente nel resto della Grecia e nelle sue colonie. Più o meno nello stesso periodo, forse nella vicina Argo, venne inventato l’hoplon, il singolo elemento della panoplia greca che incontrerà maggiore successo e vita più lunga. Si tratta di uno scudo circolare di 80-100 chilometri di diametro, con una forma marcatamente convessa ottenuta lavorando la sua solida struttura in legno, che può essere rinforzata sovrapponendo su tutta la superficie esterna una sottilissima lamina in bronzo (mezzo millimetro) che lo conferisce, quando viene lucidata, quasi la lucentezza di un specchio. Scudi più leggeri ed economici hanno un rinforzo metallico solo lungo la circonferenza. La sua caratteristica distintiva è data dal modo in cui è sostenuto dal guerriero. L’impugnatura è costituita da due prese: una centrale a forma di semicerchio, chiamata porpax, attraverso la quale veniva fatto passare l’avambraccio sinistro fino al gomito, e un all’estremità dello scudo, la antilabe, una corda che veniva afferrata dalla mano. Un ulteriore importante sostegno caratteristico del solo hoplon, però è fornito dalla spalla sinistra, che può essere utilizzata come appoggio al bordo superiore dello scudo, marcatamente convesso. Distribuendo il peso tra avambraccio e spalla, il guerriero può meglio sopportare gli 8 chili di peso medio dellì’hoplon. Insieme a un elmo in bronzo di varia foggia, e alla dory o doru, una solida lancia lunga 2,5 metri e più, l’hoplon costituisce il nucleo fondamentale della panoplia oplitica greca, che poteva essere completata da schinieri e da una corazza in bronzo, parziale o completa.
Queste armi, in particolare l’hoplon, sono state rinvenute in Etruria, e sono databili a partire dalla metà del VII secolo  a.C., e nello stesso periodo appaiono anche immagini che ritraggono guerrieri equipaggiati con l’hoplon. Tuttavia, sia i ritrovamenti archeologici sia le immagini ci hanno restituito anche guerrieri con l’hoplon ma armati di giavellotti o altre armi, come le tipiche asce etrusche, e persistono guerrieri con scudi ovali, assai diffusi in Italia. Ci sono dunque sufficienti prove che almeno una parte dei ceti più abbienti della società etrusca abbia adottato il costoso hoplon, ma non possiamo dire come combattessero. La stessa tattica oplitica in Grecia conobbe un lungo periodo elaborazione e di maturazione che giunse al culmine solo con le Guerre persiane e con quella del Peloponneso, nel V secolo a.C., ben un secolo e mezzo dopo l’arrivo in Etruria della panoplia oplitica. Nel periodo precedente la falange greca è ancora lontana dallo strumento perfezionato che compirà complicate evoluzioni sul campo di battaglia, caricherà a passo veloce mantenendo ordine e compattezza tra gli uomini, consentirà loro di proteggersi reciprocamente con l’hoplon, li farà combattere con le lance come dietro un muro di scudi, ed è anche capace di agire come un rullo compressore che travolte gli avversari con una spinta corale e irresistibile.
Tra Grecia ed Etruria, inoltre, corre una sostanziale differenza sociale e politica che rende problematica l’adozione letterale dell’oplitismo: questo, infatti, presuppone una società omogenea perché la falange oplitica è una comunità di eguali in armi, idealmente ispirata ai precetti del leggendario legislatore spartano Licurgo, mentre gli Etruschi sono fortemente segmentati in classi sociali, e se in Grecia si calcola che almeno la metà della popolazione maschile potesse permettersi la costosa panoplia oplitica, è una comunità sono i nobili locali che armano i loro clienti in caso di guerra. È molto probabile dunque che in Italia non sia mai stato adottato un modello oplitico puro, bensì un ibrido che adattava e reinterpretava in qualche modo le tattiche oplitiche greche al contesto sociale e alle tradizioni militari itali anche. In che cosa è consistito, dunque, il passaggio di conoscenza tra Grecia e Etruria, che successivamente influenzò anche Roma? Un indizio illuminante lo possiamo trovare nell’opera I Deipnosofisti di Ateneo di Naucrati, filosofo greco del II secolo d.C.: “E dai Tirreni (gli Etruschi) essi (i Romani) derivarono la pratica di far avanzare in battaglia l’intero esercito in falange chiusa”. Fu questa, forse, la rivelazione decisiva: l’esistenza stessa della techne taktlike, l’arte tattica.
Etruschi prima e Romani poi scoprirono non solo e non tanto i vantaggi di combattere in modo ordinato, ma come si doveva fare per riuscirci. Vedere marciare sul campo di battaglia per centinaia di metri una formazione precisamente allineata era uno spettacolo mai apparso su un campo di battaglia italico. Veder passare quella formazione da una colonna di marcia a una linea di combattimento senza esitazioni, senza confusione, conservando precise geometrie tra i ranghi, doveva provocare ammirazione mista a timore. Per riuscirci bisogna imparare delle metodologie e addestrarsi a un combattimento collettivo, molto più efficace di quelli fino ad allora praticati. La parola greca taktike deriva da taktikos, che vuol dire ordinato, e significa “mettere in ordine”, al di là dell’adozione di uno scudo rotondo o di uno stile di combattimento, fu proprio questo “mettere ordine” nell’azione militare e nel combattimento, la possibilità di disciplinare l’entusiastico furore guerriero dei Romani, che sicuramente li meravigliò indicando loro la strada da percorrere.

La riforma serviana.
Attribuendo maggiori doveri ai cittadini più ricchi, rivoluzionò l’organizzazione di stato ed esercito.

I Romani attribuiscono al re Servio Tullio (578-534 a.C.) un’importante riforma dello Stato romano che ha interessanti similitudini con quella della costituzione ateniese che Solone aveva introdotto nella città greca qualche decennio prima. Servio abolì il sistema di discendenza tribale e divise il corpo cittadino in centurie a seconda di cinque classi censuarie, più quella degli equites che riuniva l’aristocrazia romana. Vennero anche create nuove tribù in modo che la cittadinanza dipendesse esclusivamente dalla residenza. Ogni classe censuaria comprendeva un numero di centurie proporzionato innanzitutto al reddito e, in una certa misura, anche alla popolosità. In questo modo i ceti più abbienti avevano un numero maggiore di centurie e dunque un maggiore peso politico. Roma si trasformò in una timocrazia, ovvero in un governo dei possidenti. I più poveri, coloro che non avevano nemmeno un reddito sufficiente per entrare nella quinta e ultima fascia di reddito, non godevano di diritti politici, ma non avevano nemmeno l’obbligo del servizio militare o di pagare le tasse. Il sistema centuriato si sarebbe evoluto nel corso del tempo, e  avrebbe avuto una grande importanza politica come base per le assemblee di voto (i comitia centuriata), ma quando venne introdotto, nel tardo VI secolo a.C., le sue motivazioni dovevano essere principalmente militari. La popolazione romana era cresciuta grazie a nuovi immigrati, che però non prestavano servizio militare perché non inclusi in nessuna tribù. Un primo scopo della riforma serviana fu quindi quello di accrescere la base nella quale poter effettuare la leva delle truppe. Livio e Dionigi di Alicarnasso ci hanno lasciato precise descrizioni di questo sistema, per il quale, una volta suddivisa la popolazione in cinque fasce censuarie, ciascun cittadino era tenuto ad armarsi in modo corrispondente alla propria disponibilità economica. Le tre prime classi dovevano combattere con una lancia come fanti pesanti, ma con il rimanente armamento diverso e meno completo in base alle disponibilità economiche accertate, e le ultime due come fanteria leggera. Per questo motivo compare la distinzione tra classis (classe) e infra classem (sotto la classe): dove i primi sono la fanteria pesante e i secondo quella leggera. Il termine classis fu probabilmente usato per indicare l’esercito nel suo complesso, generando qualche confusione negli storici antichi dei secoli successivi, quando ormai la parola latina classis significava “flotta”.
L’importanza della riforma serviana è dovuta alla nuova idea di cittadinanza che ne costituisce il fulcro. Anziché avere uno status politico individuale mediato attraverso il potere e il prestigio del proprio clan originario, il cittadino ora è messo in relazione diretta con la sua comunità e gli vengono assegnati diritti e doveri in quanto individuo e non più come membro di un gruppo. Il dovere comune che tutti i cittadini devono rispettare è quello di combattere per la patria, ma hanno anche responsabilità crescenti proporzionate alla loro ricchezza: gli appartamenti alla prima fascia di reddito, per esempio, dovevano dotarsi di un armamento completo di corazza, schiinieri e di scudo oplitico, e dovevano combattere in prima linea, davanti a tutti. Nel complesso il sistema serviano raccoglieva 60 centurie di fanteria pesante di uomini in età militare (tra i 17 e i 46 anni) e altre 60 di uomini più anziani. I primi avrebbero costituito l’esercito da campagna, mentre i secondi erano destinati alla difesa della città. In questo modo i Romani raddoppiarono gli effettivi del proprio esercito rispetto a quello tribale: disponevano di una legione da seimila uomini – o più probabilmente, in periodo repubblicano, due da tremila – alla quale poteva essere aggiunto un analogo contingente di alleati. Non abbiamo descrizioni dettagliate su come combattevano le legioni serviane, tuttavia è immaginabile che le classi schierassero in battaglia per linee omogenee, la prima (i meglio armati e i più ricchi), come anticipato, in avanti, e quindi le successive. Questo faceva dunque gravare il peso maggiore del combattimento sulla prima classe, mentre quelle successive partecipavano al combattimento in modo sicuramente minore. Roma divenne una Repubblica, secondo la tradizione, nel 509 a.C., cacciando l’ultimo re Tarquinio il Superbo, ma mantenne per lunghi secoli questa struttura statuale-militare, modificandola e adattandola secondo il mutare delle circostanze e delle proprie esigenze, ma confermandone i principi di fondo che l’avevano resa una macchina pronta alla guerra.

La situla della Certosa.

Una rappresentazione grafica di un’organizzazione militare affine alla legione romana “serviana” è illustrata nella cosiddetta “situla della Certosa”, un’anfora di bronzo celebrativa realizzata a sbalzo e a cesello dalla cultura etrusco-veneta insediata a Bologna Certosa, risalente alla datazione di circa un secolo successiva, verso il primo quarto del V, quindi tra il 500 e il 475 a.C.
La particolarità storico-militare della situla della Certosa è nella fascia alta, dove è rappresentata una parata militare di truppe che riflette probabilmente l’organizzazione in classi di un esercito etrusco o di cultura affine. I guerrieri che partecipano alla parata sono infatti di 5 tipi marcatamente diversi: in testa vi è la cavalleria, rappresentata da due cavalieri armati di un’ascia di tipo villanoviano, quella immanicata in un legno a forma di L rovesciata. Non è dotata di scudo, e quindi probabilmente non combatte smo. Ma ja iu una fanteria “da prima linea” come quella della I classe serviana. Indossano un elmo a punta circondato da un disco decorato di borchie e hanno un grande scudo ovale e convesso che sembra avere una presa simile a quella dell’hoplon greco, su due punti di appoggio. Infine vi sono 3 gruppi distinti di 4 guerrieri ciascuno: i primi due sono armati di lancia lunga oltre due metri, hanno lo stesso elmo a calotta crestata (forse il tipo di Negau) e differiscono soltanto per la forma dello scudo, quadrangolare con i bordi arrotondati i primi, tondo i secondi. L’ultimo gruppo di guerrieri porta un elmo conico o forse un cappuccio, è senza scudo, e armato della stessa ascia villanoviana a forma di L rovesciata e sembra indossare la stessa tunica trapuntata della cavalleria.

La battaglia dell’Alla.
La sconfitta che portò all’umiliazione di versare un tributo ai Galli Senoni e spinse anche i Romani a costruire le imponenti mura serviane.

Il giorno dello sconto sul fiume Allia, il 19 luglio (probabilmente del 387 a.C.), rimase nella storia di Roma come infausto: una sconfitta di quelle che non si dimenticano. Nella storia dell’arte militare, almeno secondo l’interpretazione che alcuni studiosi danno di accenni di Livio, nelle Storie, e di Plutarco, nella Vita di Camillo, avrebbe poi anche portato alla riforma delle forze armate romane con l’introduzione della Legione manipolare e delle sue tattiche, e delle armi che a esse vennero associate, lo scutum ovale e il pilum (un giavellotto). I dubbi, però, sono tanti. A cominciare dal tipo di battaglia che fu quella dell’Allia. I Galli Senoni guidati da Brenno erano guidati da Brenno ed erano impegnati in una guerra contro gli Etruschi, che chiamarono i Romani ad agire da mediatori. Gli ambasciatori romani, però, imbracciarono le armi al fianco degli Etruschi e i Galli decisero di vendicarsi con una spedizione punitiva. Brenno e forse 20miila uomini puntarono contro Roma. I Romani furono presi di sopresa dalla repentina mossa contro di loro decisa da Brenno e reagirono, pare, senza prenderla veramente sul serio. Radunarono frettolosamente le forze disponibili che, data l’epoca, dovevano corrispondere a una legione “serviana” di 60 centurie e circa seimila legionari, ai quali possiamo aggiungere altrettanti alleati, per complessivi 12 mila uomini. Con queste truppe raccoglitrice si predisposero a sbarrare la strada ai ben più organizzati e numerosi invasori.
Questi già affollavano la campagna quando i Romani giunsero a 11 miglia da Roma (circa 15 chilometri), là dove il fiume Allia incrocia la Salaria poco oltre la città di Crustumerium. Secondo Livio  i motivi della sconfitta che si sarebbe delineata derivarono dalla trascuratezza  dei tribuni militari che disposero le loro truppe “incuranti del loro dovere verso gli dèi, per non parlare di quello verso l’uomo, senza prendere auspici o offrire sacrifici”. Per coprire l’estensione del fronte nemico, la linea romana dovette essere assottigliata e, c’erano anche varchi tra una formazione e l’altra: seguendo il corso dell’Allia, la linea romana doveva apparire inclinata, estendendosi dai monti Crustumeri fin quasi al Tevere, Brenno notò che l’unico pericolo proveniva proprio dalla posizione più avanzata, quella collinare, e contro questa incominciò il suo attacco. Ai Galli fu sufficiente alzare il loro grido di guerra e assestare pochi primi colpi per scatenare il panico tra i Romani che scapparono in massa, a cominciare proprio dalle prime linee, chi verso Roma e chi cercando rifugio nella vicina Veio, da poco conquistata, oltre il Tevere: molti morirono travolti nella fuga o affogati nel fiume. Roma era indifesa: probabilmente fu saccheggiata e dovette anche pagare un tributo per liberarsi dagli invasori. I difetti evidenziati dalla sconfitta sull’Allia non riguardavano tanto un sistema tattico, perché non ci fu una vera e propria battaglia, durante la quale potesse manifestare la sia inefficacia, ma in primo luogo la difesa di Roma stessa, che venne presto completamente cinta di mura.

Le mura serviane.

La facilità con la quale Brenno poté saccheggiare Roma dopo averne sconfitto l’esercito alla battaglia dell’Allia ci permette di sospettare che la città all’epoca non fosse protetta dalle cosiddette mura serviane. Molto probabilmente le difese di Roma all’inizio del IV secolo a.C. consistevano esclusivamente in un sistema non continuo di terrapieni sormontati da palizzate o, in alcuni casi, da mura vere e proprie, e completati da un antistante fossato. Gli archeologi hanno individuato indizi di un simile terrapieno a nord della città, a cavallo della via Salaria.
Fino alla conquista di Veio, il materiale da costruzione disponibile ai Romani era un mediocre tufo di tipo detto “cappellaccio”, troppo fragile per dare garanzie di sufficiente solidità per una costruzione abbastanza alta e imponente da rappresentare per gli assedianti un ostacolo temibile. Dopo l’annessione della città etrusca, Roma ebbe facile accesso al tufo della cava di Grotta Oscura, di qualità molto migliore: ed è infatti questo il materiale con il quale sono state costruite le mura serviane di cui ancora oggi rimangono i resti in alcune zone della città, compreso una imponente sezione che riceve i viaggiatori transitanti per la stazione Termini e un frammento molto più piccolo incluso nel locale di un noto fasto food nel piano interrato della stazione stessa.
È molto probabile, quindi, che le mura serviane siano state costruite nella prima metà del IV secolo a.C. (non nel VI a.C., l’epoca di Servio Tullio). Il loro circuito murario si sviluppava per circa 11 chilometri, alzandosi per 10 metri e con una larghezza alla base di 3,60: una vera garanzia di sicurezza per i cittadini di Roma, tanto che l’unico nemico ad avvicinarsi abbastanza da vedere quelle mura fu Annibale nel 211 a.C., quando si presentò con il suo esercito sotto la città per provocare i Romani e indurli ad abbandonare un altro assedio, quello di Capua.

L’introduzione della tattica manipolare.
Su come avvenne il passaggio dall’organizzazione serviana a questa nuova ed efficace suddivisione si possono solo fare delle ipotesi: ma proprio grazie a questo Roma fu pronta a conquistare l’Italia e il mondo.

Non sappiamo nulla di certo sull’introduzione di questa tattica nella legione romana. Lo storico greco Polibio ci fornisce una descrizione, seppure incompleta e non priva di contraddizioni, della legione manipolare che egli conobbe a metà del II secolo a.C., ma nessuno spiega attraverso quali passaggi si sia giunti dalla legione serviana a quella manipolare. Probabilmente questa transizione avvenne nel corso del IV secolo a.C. e fu un processo molto lungo, ancora in corso quando i Romani affrontarono la guerra contro Pirro, re dell’Epiro tra il 280 e il 275 a.C. E’ possibile, invece, avanzare ipotesi sui motivi che indussero i Romani a elaborare una tattica tanto singolare, senza precedenti noti nella storia dell’arte militare, e che li porterà, come osservò Polibio, alla conquista “di quasi tutta la terra abitata”. Il più importante vantaggio marginale dei Romani rispetto alle altre popolazioni italiche consisteva nella loro numerosità e nella possibilità di raddoppiare le proprie forze grazie al contributo dei patti di mutua assistenza sottoscritti con i propri alleati. Per sfruttare questa superiorità relativa, la tattica oplitica greca non offre soluzioni perché risolve lo scontro in un’unica azione frontale e non contempla l’uso di riserve. Inoltre lo schieramento serviano faceva gravare il peso maggiore del combattimento sempre e solo sulla prima classe, lasciando praticamente inattive le altre due, e questo non era certo modo efficiente per impiegare le proprie forze e per tenere alta la combattività complessiva della popolazione, soprattutto in una città-stato come Roma che scendeva tanto frequentemente in guerra. Il sistema serviano probabilmente con il tempo evidenziò anche altri difetti. In primo luogo l’appartenenza alla prima classe garantiva un migliore armamento del legionario, ma non una sua maggiore combattività o forza fisica. Il fatto poi che fosse soprattutto questa stessa classe impegnata in battaglia non solo contraddiceva il principio della comune responsabilità e della condivisione dei rischi nella difesa di Roma, ma aveva anche un risvolto sociale, perché combattere era un modo per mettersi in evidenza, per guadagnare prestigio e perfino per arricchirsi: provare di questa possibilità una parte consistende della popolazione significava quindi limitarne le capacità di ascesa sociale.
Il processo di innovazione tattica fu sperimentale e per fasi successive. Con una prima modifica, gli uomini della seconda classe serviana vennero spostati in avanti, assumendo forse proprio per questo motivo il nome di principes: i primi. A questa riforma seguì, non sappiamo dopo quanto tempo, un secondo passaggio innovativo. La terza classe serviana venne dotata di hasta velitaria, ovvero di giavellotto, e schierata in prima linea davanti ai principesse. Definiti hastati proprio perché armati di hasta velitaria, erano così diventati una fanteria pesante molto versatile, e particolarmente efficace nell’indebolire il nemico in previsione dell’intervento delle linee successive, in special modo dei principes. Era una specie di ritorno alle origini e al combattimento tribale individuale, ma inserito in un contesto molto più organizzato, che venne ulteriormente perfezionato fornendo agli hastati un giavellotto pesante, il pilum. Quest’arma migliorava di molto la preparazione al combattimento con la spada perché aveva un’enorme capacità di penetrazione. Dopo questi cambiamenti, però, la prima classe di reddito era arretrata in terza linea (assumendo così il nome di trarii) e la legione aveva completamente ribaltato l’ordine serviano, rendendo superato il sistema delle tre classi reddituali. Ci voleva una nuova organizzazione, più razionale , che collocasse gli uomini ciascuno nella propria linea, più razionale, che collocasse gli uomini ciascuno nella propria linea. Venne adottato così un sistema di reclutamento misto, ma che privilegiava l’età rispetto al reddito. In questo modo i più giovani avrebbero combattuto per primi, seguiti dagli uomini nel fiore dell’età e infine dai più anziani. Una specie di scala basata sull’esperienza crescente, che contava sulla solidità dei veterani, i quali avevano già alle spalle anni di guerre, per fornire basi sicure all’azione e alle spalle anni di guerre, per fornire basi sicure all’azione e all’emulazione dei più giovani.
Per sfruttare appieno la giovanile combattività degli hastati e l’esperienza dei principes, però, si doveva fare in modo che i primi potessero ritirarsi, permettendo ai secondi di subentrare al loro posto, oltre a prevedere la spiacevole eventualità che si dovesse ricorrere ai trarii, riparandosi dietro al loro muro di lance: e il detto latino res ad trarios rediit, si è arrivati ai trarii, è rimasto a indicare per i Latini una situazione giunta a un punto disperato.
La linea continua della falange oplitica non poteva essere attraversata da truppe, pena  la disorganizzazione. La soluzione era in teoria abbastanza semplice: si doveva dividere la falange in porzioni più piccole, lasciando degli spazi vuoti tra l’una e l’altra, in modo che avessero libertà di movimento e soprattutto potessero essere utilizzati da una linea di truppe per ripiegare o avanzare attraverso un’altra, a seconda delle necessità.
I vantaggi di questa soluzione, da cui presero origine i manipoli, rigardavano anche la fase dello schieramento in battaglia, perché i manipoli stessi, formati da due centure incolonnate, si muovevano in appena nove metri di spazio, potendo evitare gli ostacoli senza disordinarsi e soprattutto con grande velocità perché un’unità così piccola è molto più agile e marcia più speditamente di una lunga linea di uomini preoccupati di non perdere l’ordine.
La tattica manipolare era sufficientemente semplice da poter essere insegnata anche ai contadini-miliziani romani, che non potevano dedicare molto tempo all’addestramento, perché non richiedeva grandi spazi ed era sufficiente riunire i 120-160 uomini di cui era composto di manipolo per provarla. Consentiva inoltre un uso graduale delle truppe, realizzando il principio dell’arte militare dell’economia di forze, e un impiego molto razionale delle proprie pur numerose risorse belliche: Roma era pronta a conquistare l’Italia e poi il mondo.

La legione manipolare.

La legione manipolare liviana al tempo della guerra latina (340-338 a.C.).[37]
In un momento che purtroppo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, è ancora sconosciuto (l’ipotesi più accreditata è che si fosse alla vigilia delle guerre contro Pirro), la legione romana assunse una conformazione molto vicina a quella rappresentata in questo schema. Possiamo considerarla la fotografia di un processo evolutivo che durò più di un secolo. Come in precedenza nella legione serviana, il fronte della fanteria pesante è protetto nella fase iniziale della battaglia da truppe leggere, in numero di 1200, che assumeranno prima il nome di rorari, dal termine per “rugiada”, a causa della pioggia di giavellotti che facevano cadere sul nemico, e poi velites, probabilmente “veloci” o “agili”: sono i più giovani e i più poveri tra i Romani. Segue la prima linea di fanteria pesante, 1200 hastati, che derivano il loro nome dall’essere armati con l’hasta velitaria, ovvero una lancia leggera come quella dei veliti, e successivamente saranno i primi a essere dotati del pilum (un tipo di giavellotto pesante). Sono sufficientemente abbienti da potersi permettere una spada, uno scutum ovale e una corazza leggera. In seconda linea i 1200 principes: gli uomini nel fiore degli anni, più anziani, più esperti di guerra e più ricchi degli hastati: in un primo tempo furono ancora amati con una lancia (hasta) ma a un certo momento, dopo la guerra contro Pirro, ricevettero anch’essi il pilum. Chiudono la legione i veterani più anziani, i 600 triarii, nome che significa in terza posizione: sono armati di hasta e la manterranno anche dopo la conclusione delle guerre puniche. Originariamente venivano chiamati “pilani”, non perché fossero dotati di pilum, ma in quanto attendevano “incolonnati” il loro turno per combattere.



Il manipolo.
Era naturalmente l’unità fondamentale della tattica manipolare. Ciascun manipolo era costituito da due centurie di 60-80 uomini. Queste due centurie venivano distinte in prior e posterior, ovvero anteriore e posteriore, per evidenziare la loro collocazione nello schieramento iniziale.
Secondo il poeta Ovidio il termine manipulos usato per indicare questa unità deriva dall’insegna di cui erano dotati, ovvero un semplice pugno di ferro issato su un palo. Varrone conferma almeno in parte l’ipotesi, sostenendo che il manipolo fosse la più piccola unità della legione romana dotata di un’insegna.
Nonostante la povertà dell’oggetto in sé, esso era non solo necessario, ma persino venerato dai soldati, come furono le insegne distintive delle legioni e, più tardi, le aquile imperiali. Responsabili della sua custodia era due signifer per manipolo. Il centurione più anziano in grado era il centurio senior e guidava la prima centuria, mentre il centurio junior guidava la seconda, entrambi combattendo in prima linea tra i loro uomini, i loro uomini. I centurioni erano assistiti da un optio, un soldato scelto, che controllava la centuria dall’ultimo rango.

il pilum.


Il gigante Golia, narra la Bibbia, era armato con un giavellotto completamente di bronzo. In sé, quindi, l’idea di un giavellotto pesante non è rivoluzionaria: anche nell’Iliade gli eroi hanno giavellotti di metallo, gli iberici hanno la fabbrica o, in greco, saunion, con un lungo puntale metallico. I Galli chiamano invece gaesum uno spiedo con un manico di legno sul quale venne innestato un puntuale con un cannone molto lungo. Nella tomba del guerriero latino di Lanuvio, del V secolo, è stata riconosciuta la punta di un antenato del pilum. Anche gli Etruschi ci appaiono ritratti con un’arma che sembra proprio un pilum, e i Sanniti avevano un’arma che i Greci accumunavano al saunion, ma questo riferimento è più dubbio. Sia stato dai Galli, dagli Etruschi o dai Sanniti, i Romani comunque assunsero il pilum in sostituzione dell’hasta. I legionari ne disponevano di due o tre, uno o due leggeri – di lunghezza variabile tra 1,2 e 2 metri, con peso medio di 1,3-1,8 chili – che venivano scagliati a circa 35 metri di distanza dal nemico, e uno pesante – lungo 2,10 metri, di cui un terzo circa di puntale metallico e il resto di manico, per un paio di chili di peso – lanciato subito dopo, per preparare il contatto con il nemico. Moderni esperimenti hanno mostrato che quest’ultimo era capace di trapassare tavole spesse 2 centimetri di legno compensato e di 3 centimetri di legno di abete, con un lancio da 5 metri. Sono così in qualche modo confermate le testimonianze storiche che raccontano di scudi perforati e resi inutilizzabili, e di uomini passati da parte a parte.
La tattica manipolare.

simbolo del manipolo
Uno degli aspetti più controversi e dibattuti da parte degli storici militari riguarda le modalità dello scambio tra i manipoli che costituiva la caratteristica principale della tattica manipolare.
  
Un esercito professionale.
Ulteriori riforme rendono le armate romane ancora più inarrestabili grazie alla fedeltà a un comandante: un elemento di forza e coesione, che contribuirà anche alla fine della repubblica e all’emergere di uomini forti che prenderanno il potere assoluto.

Busto in marmo di Gaio Mario(Museo Chiaramonti)


Struttura della legione imperiale dopo la riforma mariana.
Le radici della potenza militare di Roma affondano profondamente nella sua storia più antica. Le legioni percorreranno nei secoli un continuo percorso evolutivo, conoscendo momenti innovativi di maggiore e minore importanza, ma rimanendo legate al principio dell’economia di forze che si era concretizzato per la prima volta nella struttura manipolare. Le legioni subiranno dunque diversi mutamenti organizzativi, anche radicali, ma in guerra manterranno un’impostazione basata su una razionale e consapevole ripartizione dello sforzo. Un principio che l’introduzione della legione coortale, basata su 10 coorti e non più su 30 manipoli, rispetta con una soluzione adeguata a nuove sfide.
Fino almeno alla Seconda guerra punica contro i Cartaginesi (218-202 a.C.), infatti, la coorte era stata una semplice unità amministrativa e non tattica: un manipolo di hastati, di principes e di triarii, per esempio, venivano considerati un’unica entità quando si trattava di distribuire loro le vettovaglie. Già a partire dalla guerra contro gli alleati iberici di Annibale (209 a.C.), però, potrebberoo aver avuto inizio i primi esperimenti per inserire la coorte ne meccanismi tattici romani, trasformandola, quindi, in una nuova unità impiegabile in battaglia. tra il 210 e il 195 a.C. lo storico Livio, infatti, cita per 17 volte le coorti in Iberia, mentre continua a usare il termine “manipoli” quando riferisce dei combattimenti in Grecia. Publio Cornelio Scipione, che sconfiggerà Annibale a Zama nel 202 meritandosi il titolo di Africanus, fronteggia dal 209 in Spagna i Cartaginesi e le bellicose tribù della penisola iberica, loro alleate. Le tattiche di guerriglia che esse impiegano con eccezionale abilità, i loro attacchi impetuosi condotti con armi di ottima fattura e il loro territorio disseminato di innumerevoli piazzeforti richiedono interventi tempestivi e dispersione di forze. Per questo compito operativo un’intera legione è troppo grande e troppo lenta, metre gruppi di manipoli possono essere non solo rapidi negli interventi, ma anche avere il necessario e dalle sue prime vittorie sul suolo iberico – a Baecula (208) e a Ilipa (206) – Scipione manovrò la legione in modo più elastico, facendo compiere a gruppi di manipoli aggiramenti e altri movimenti tattici difficili da concepire senza un addestramento specifico per unità superiori al manipolo. La stessa famosa disposizione dei manipoli che Scipione adottò a Zama, incolonnati l’uno dietro l’altro per costituire corridoi lungo i quali far scorrere gli elefanti di Annibale, sembra un’anticipazione della struttura coortale.

LA RIFORMA DI GAIO MARIO. Per circa un secolo sentiremo ancora parlare di “manipoli”: l’ultima occasione sarà durante le Guerre giugurtine in Africa durante la battaglia sul fiume Muthl, vinta da Quinto Cecilio Metello (circa 160-91 a.C.). E proprio alle guerre contro Giugurta, re della Numidia, risale anche l’ultima citazione dei velites, perché il definitivo affermarsi della legione coortale portò alla loro scomparsa. Gaio Mario (157-89 a.C.), avversario politico successore di Metello, stava infatti per farsi promotore della riforma più incisiva e densa di conseguenze della storia delle armate romane, così radicale che è lecito dubitare che Mario ne avesse previsto le implicazioni strutturali di lungo periodo.
Console per la prima volta nel 107, Mario non disponeva di truppe sufficienti per sconfiggere definitivamente Giugurta e quindi aprì l’arruolamento alle masse che non possedevano alcuna proprietà terriera, chiamati capite censis perché nei censimenti venivano semplicemente “contati a teste”, e che fino ad allora, come abbiamo visto, erano esentati dal dovere di prestare servizio militare. Poiché questi cittadini nullatenenti non potevano permettersi di acquistare le proprie armi e armature, Mario stabilì che dovesse essere lo stato ad armarli. Era la professionalizzazione di fatto dell’esercito romano, un passo decisivo per il futuro di Roma, nelle sue fortune militari, come nei suoi guai politici. La ferma sarebbe durata 16 anni, innalzati a 20 sotto Augusto, durante i quali essi non solo avrebbero avuto un “posto fisso” con paghe regolari, ma anche la possibilità di avanzamento, di premi, di condividere il bottino di guerra e di conoscere una sensibile promozione sociale. Per molti proletari si trattò di un’occasione imperdibile ed essi la colsero in massa. A ulteriore incremento della base di arruolamento, Mario concesse piena cittadinanza romana agli alleati italici, come Etruschi, Marsi e Umbri, al completamento del periodo di ferma. Il Senato, riottoso a concedere agli italici un simile privilegio, fu convinto da Mario che si dichiarò incapace di distinguere le varie origini dei suoi uomini nel corso di una battaglia. la costituzione di un esercito professionale e permanente permetteva di standardizzare armamento e addestramento delle unità e portò, come anticipato, alla scomparsa dei velite, perché tutti i cittadini romani indistintamente venivano arruolati nelle coorti legionari. Un preciso sistema di avanzamento di carriera, con remunerazioni proporzionate a premi crescenti a seconda delle responsabilità e dei meriti garantiva al legionario prospettive economiche che nella vita civile non avrebbe conosciuto, e agli ufficiali occasioni di acquisire fama, onori e soprattutto relazioni spendibili in una futura carriera politica.

Il legionario.

 
Schema di un accampamento di marcia romano del II secolo a.C., descritto da Polibio.

Tradizionalmente tutti i cittadini romani maschi di età compresa tra i 17 e i 46 anni erano ritenuti reclutabili per il servizio militare. La maggior parte delle reclute delle legioni era però di età compresa tra i 17 e i 23 anni, con una concentrazione intorno ai 20, ma sono noti casi di reclute di 13-14 anni così come di 36. Dai registri di arruolamento rinvenuti dagli archeologi sappiamo che la maggior parte dei legionari sosteneva di provenire da un paese o da una città, ma pochi in realtà sembra avessero effettivamente trascorso gli anni da civile in un centro urbano. Molto più probabile che essi appartenessero al contesto rurale che gravitava su una cittadina di una certa importanza. Fino al tardo impero la principale fonte di arruolamento delle legioni romane fu quella della tradizione: il semplice contadino, abituato a una vita all’aria aperta e frugale, fisicamente forte, capace di affrontare le fatiche, le privazioni e la dura disciplina della vita militare. Basti pensare che il solo peso di armi, attrezzi e armature trasportato dal legionario raggiungeva i 42 chili, ai quali vanno aggiunti quelli di provviste e altri bagagli. Inoltre chi proveniva dal mondo rurale era capace di cavarsela in innumerevoli situazioni – non ultimo per il fatto di sapersi cibare di qualsiasi cosa fosse disponibile – e abile in altrettanto numerose attività di cui aveva avuto esperienza nella vita civile, e che erano assai utili anche in quella militare: tagliare alberi, scavare fossati, costruire oggetti, innalzare palizzate e così via. Queste ultime competenze, maturate nei trascorsi rurali, erano preziose negli assedi, nella costruzione degli accampamenti e dei forti e in tante altre attività connesse con la guerra, nelle quali i legionari romani dimostrarono di eccellere, tanto da poter essere considerati dei precursori dei moderni genieri d’assalto. La costituzione fisica e il portamento del legionario era tale da renderlo riconoscibile anche se non indossava armi e armature. Vegezio afferma che la sua altezza ideale era di 6 piedi romani, ovvero 177 centimetri, e per la prima coorte, la più importante della legione, venivano scelti uomini di almeno 172. La I Legio Italica era, per esempio, un’unità considerata d’élite non solo perché i suoi uomini erano tutti di provenienza italiana, ma anche perché dovevano essere alti almeno 177 centimetri, ma è molto probabile che tra i ranghi dei legionari romani vi fossero anche uomini di qualche centimetro più bassi, perché è comunque difficile che l’altezza media della popolazione rurale dell’epoca si discostasse dai 165.
La legione coortale.
Riformata da Gaio Mario, era articolata in 10 coorti di 6 centurie ciascuna. Ogni centuria era composta in linea teorica da 80 uomini, portando così l’organico della coorte a 480 e quello complessivo di una legione a 4800. A queste truppe di fanterie andavano aggiunti poco più di 120 cavalieri che svolgevano però soprattutto altri ruoli di collegamento e di osservazione. Ogni centuria era a sua volta composta da 10 contubernia di 8 uomini che condividevano la stessa tenda, alla cui testa era un decanus. Le coorti non avevano un vero e proprio comandante, ma probabilmente a questo compito suppliva in qualche modo la gerarchia dei centurioni, che poneva al grado più alto il centurione primus pilus, il primo della prima coorte, e poi a seguire gli altri, assegnando quindi a ogni coorte un centurione con anzianità più elevata. Accompagnavano una legione numerosi non combattenti, probabilmente oltre 1500: funzionari, amministrativi, attendenti e un paio di servi per ogni contebernium. In campagna la legione era assista da altre truppe arruolate stabilmente tra i non Romani: ali auxilia di fanteria e le alae di cavalleria, ai quali potevano aggiungersi occasionalmente truppe alleate o mercenarie.



Schieramento in battaglia dell'esercito consolare polibiano nel III secolo a.C., con al centro le legioni e sui fianchi le Alae Sociorum (gli alleati italici) e la cavalleria legionaria e alleata.[82]

LA POTENTE LEGIONE ROMANA. Il legionario era un soldato pesante armato di spada e pilum e ottimamente protetto dallo scutum, prima di forma ovale e dal I secolo d.C. a forma di tegola, da una corazza, non sempre del famoso modello segmentato di fasce metalliche, e da un elmo tecnicamente molto perfezionato. L’addestramento lo rendeva capace di una notevole varietà di impieghi, compresi quelli delle truppe leggere, ma per quest’ultimo compito si iniziò di rivolgersi a contingenti etnici specializzati, organizzati in coorti di auxilia (ausiliari), anch’essi professionalizzati e integrati nella struttura delle armate legionarie, ma composti da non romani, o in alcuni casi da mercenari o alleati. In breve, con l’addestramento gli auxilia divennero trippe capaci di molti impieghi come i legionari, non meno combattivi e disciplinati di loro.
La complessiva professionalizzazione dell’esercito romano consentiva, anzi rendeva ineludibile, un addestramento costante, distribuito lungo tutto l’arco dell’anno e non solo in occasione o nell’imminenza di conflitti. La disciplina, lo spirito di corpo, la fiducia nel proprio comandante e, non ultima, la perfezione delle manovre tattiche così raggiungibili fecero dell’esercito romano una forza senza paragoni nel periodo antico e, almeno sotto questi aspetti, con pochi simili nella storia militare di ogni epoca.
Un’altra riforma introdotta da Mario fu la concessione da parte del comandante ai legionari congedati con onore di una specie di liquidazione, sotto forma di un appezzamento di terreno nelle regioni conquistate. Già intensamente fedeli per disciplina e frequentazione al proprio comandante, la prospettiva di un sereno futuro da possidente terriero rappresentava per i legionari un ulteriore motivo per sentirsi legati a lui fino a condividerne e sostenerne le ambizioni politiche: un legame che già con l’avversario e successore di Mario, Lucio Cornelio Silla (circa 138-81 a.C.), mostrò tutto il suo potenziale politico sovversivo. Le legioni romane infatti sfuggirono al controllo del Senato per divenire le protagoniste di decenni di guerre civili e di disordini che si conclusero con l’ascesa al potere imperiale di Ottaviano, cui il senato conferì il titolo di “Augusto” il 16 gennaio del 27 avanti Cristo.
Le legioni romane, che con Giulio Cesare e con la Repubblica aveva esteso il dominio di Roma dal Mediterrano all’Oceano Atlantico, con l’impero lo portarono a est fino al Mar Nero e al Golfo Persico e a sud fino al Mar Rosso. Affrontarono i nemici più diversi per etnia e per tattiche, subirono vittorie e sconfitte, ma anche in quest’ultima eventualità si dimostrarono competitive, riuscendo quasi sempre a riscattarsi. Nel corso dei secoli subirono altri mutamenti organizzativi e tattici, di maggiore o minore rilevanza: la necessità di nuove reclute, i costi crescenti di un’armata professionale e la necessità di aumentare gli organici di cavalleria portarono all’arruolamento prima e all’integrazione poi di elementi estrani alla comunità romana, provenienti da oltre i confini imperiali. Il passo successivo fu la “barbarizzazione” delle forze armante romane, in particolare nell’Impero Romano d’Occidente. Intere popolazioni guerriere combattevano per Roma come federati, con comandanti propri, senza alcuna integrazione organizzativa strutturale. Il sistema militare e politico romano aveva irrimediabilmente perso quell’equilibrio interno che lo aveva reso grande e la conseguenza fu il suo conseguente declino. Gli imperatori non detenevano più il potere politico nel vero senso della parola, quello capace di mantenere e coltivare il monopolio dell’uso della forza, ed era inevitabile che quello stesso potere politico passasse di mano.

Articolo in gran parte di Nicola Zotti pubblicato su Storie di Guerre e guerrieri extra n. 1 Sprea Editori, altri testi e immagini da Wikipedia.  

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