La rivolta dei Boxer
I 55 giorni che sconvolsero Pechino. Per i tumulti di una setta
che voleva scacciare gli stranieri dalla Cina.
Forze Boxer a Tientsin.
La
crisi irreversibile del millenario e anacronistico “impero di mezzo”, l’affondo
del rapace colonialismo europeo e nipponico in un territorio di 400 milioni di
abitanti. Una delle persecuzioni anticristiane più violente della Storia e
l’efferata rappresaglia che cementò un sentimento antioccidentale destinato a
caratterizzare a lungo la politica estera di Pechino. Queste provocate dai
pochi mesi di violenti tumulti, culminati nei celebri “cinquantacinque giorni
di Pechino”, o Rivolta dei Boxer, che squassarono la Cina nell’anno 1900, il
primo di secolo cruento.
Militari delle potenze durante la ribellione dei Boxer, con le proprie bandiere navali, da sinistra a destra: Italia, Stati Uniti, Terza Repubblica francese, Impero austro-ungarico, Impero giapponese, Impero tedesco, Impero britannico, Impero russo. Stampa giapponese, 1900.
L’attacco degli iniziati. Ma chi erano i Boxer?
Il nome, derivato da un erroneo appellativo dato loro dagli europei, è
fuorviante: non si trattava infatti di “pugilatori” nel senso comune della
parola, bensì dei membri di una società segreta chiamata I-Ho-Ch’uan, Pugni di
Giustizia e concordia. Nel loro credo si mescolavano rivendicazioni sociali,
xenofobia e fanatismo intriso di elementi magici e popolari. In quadrati
militarmente e addestrati nelle tecniche delle arti marziali ancora sconosciute
in Occidente (da qui la semplificazione di Boxer), gli adepti venivano
indottrinati al culto dell’obbedienza assoluta e del sacrificio supremo, ma
anche alla fede di spiriti, talismani e forze soprannaturali, al punto da
affrontare a mani nude o con armi bianche avversari muniti di pistole e fucili.
Nata a fine Ottocento come ribellione spontanea ai soprusi dei signori feudali
cinesi, ma anche all’influenza crescente di potenze straniere come Inghilterra,
Germania, Russia, Francia e Giappone, l’iniziativa dei “Pugni” ebbe terreno
fertile nel malcontento diffuso. Aderirono braccianti e artigiani ma anche
disertori, piccoli funzionari e vagabondi. Rancori e umiliazioni si
accumulavano del resto da decenni, nella sostanziale inerzia della dinastia
Qing, già non molto amata poiché di origine mancese e quindi considerata
“straniera” rispetto all’etnia Han della Cina propriamente detta. Con le
disastrose Guerre dell’Oppio (1839-42 e 1856-60), l’impero aveva dovuto cedere
all’Inghilterra Hong Kong, aprire porti al commercio estero, accogliere
missionari e sedi diplomatiche dei “barbari bianchi” (yi), che stravolgevano
tradizioni sociali e religiose. Quanto al Giappone, con la guerra del 1894
aveva strappato ai cinesi Taiwan, parte della Manciuria e la Corea, oltre a
intascare una cospicua indennità bellica. La miccia era dunque molto corta, e
dopo una serie di delitti sporadici, nel maggio 1899 la ribellione esplose con
attacchi mirati nella provincia settentrionale dello Shantung, per poi
allargarsi ad altri territori. Bersagli per antonomasia, i simboli dell’odiato
Occidente: ferrovie, linee telegrafiche, fabbriche e ingegneri, ma soprattutto
i missionari e più ancora i cinesi convertiti al cristianesimo. Considerati dei
traditori, i cristiani vennero massacrati a migliaia, in un delirio di
efferatezze che non risparmiò donne e bambini. Le diplomazie chiesero a gran
voce al governo cinese un intervento deciso, ma le risposte furono evasive. E
non poteva essere altrimenti. Sul trono dei Qing sedeva infatti “il vecchio
Buddha”, l’anziana imperatrice madre Cixi (1835-1908), retriva e
tradizionalista.
Concubina, poi moglie
legittima e infine vedova dell’imperatore Xianfeg, reggente di un figlio e poi
di un nipote esautorati da ogni prerogativa, l’unica vera donna di potere nella
storia del Celeste impero guardava con nostalgia all’antico isolamento del suo
Paese. e da veterana di intrighi di corte qual era, pensò ingenuamente di
gestire la situazione col più semplice antidoto alle crisi di palazzo: mettere
una fazione contro l’altra. I sovversivi Boxer furono così riabilitati come
patrioti in guerra contro gli invasori.
Scena del delitto del barone von Ketteler, che ha segnato l'inizio dei «55 giorni di Pechino». Fotografia scattata intorno al 1902.
Punto di rottura. In seguito all’allarme
delle proprie ambasciate, intanto, 8 nazioni – tra cui l’Italia, con un corpo
di spedizione di oltre 2mila militari salpato da Napoli – formalizzarono
un’alleanza e decisero un’azione dimostrativa: navi europee, giapponesi e
americane sbarcarono dal porto di Taku nei pressi di Tientsin, geograficamente
lo scalo più prossimo alla capitale, un contingente internazionale di circa
20mila uomini al comando dell’ammiraglio inglese Edward Hobart Seymour
(1840-1929) e intimarono al governo di agire contro i ribelli. A quel punto
l’imperatrice Cixi ruppe gli indugi e dichiarò guerra agli stranieri
formalizzando l’alleanza con la setta, le cui milizie erano intanto giunte alle
porte di Pechino. La rivolta dei Boxer era ormai un conflitto internazionale.
Pierre Loti (1850-1923), pseudonimo dello scrittore e ufficiale di Marina
Julien Viaud, si era imbarcato a bordo della corazzata Redoutable per
partecipare alla grande spedizione punitiva. Nel suo libro Gli ultimi giorni di
Pechino, scritto nel 1902, la rabbia dei Boxer viene illustrata con terribili
immagini di cadaveri dissepolti e bruciati, “per
distruggere, secondo le credenze cinesi, tutto ciò che potrebbe ancora essere
rimasto delle loro anime”, e di cisterne
per l’acqua riempite “fino
all’orlo con i corpi mutilati di ragazzini presi dalla scola dei religiosi e
dalle famiglie cristiane del vicinato. I cani venivano a mangiare dall’orribile
mucchio”. L’ufficiale francese si dilungava sconvolto su dettagli di mani
senza unghie e cadaveri di donne con i seni strappati e infilati nelle loro
bocche. Il 21 giugno 1900, come rappresaglia per l’esecuzione immotivata di un
giovane presunto Boxer, l’ambasciatore tedesco Clemens von Ketteler fu ucciso.
Il Kaiser Guglielmo II, furioso, arringò i rinforzi in partenza per l’Estremo
Oriente conl celebre e violentissimo “Discorso degli Unni”, in cui esortava i
suoi soldati a comportarsi in Cina come i barbari di Attila. Nel frattempo a
Pechino la furia della setta divampava mentre il personale diplomatico –
sostenuto solo dal piccolo contingente alleato di 2500 uomini che era riuscito
a raggiungere la capitale prima dell’inizio degli scontri – restava
asserragliato nel “Quartiere delle legazioni”. Subirono un duro assedio anche
il Pe-tang, la cattedrale cattolica di Pechino, e l’adiacente missione, difese
da marinai italiani e francesi. “Soprattutto
di notte le palle di cannone cadevano come grandine al suono delle trombe dei
Boxer e dei loro gong spaventosi, e per tutto il tempo le loro grida di morte,
‘Cha, cha’ (uccidiamo, uccidiamo) o ‘Chao! Chao’ (bruciamo, bruciamo),
riempivano la città come gli ululati di un enorme branco di cani da caccia”,
scrive Loti.
Esecuzione di Boxer dopo la ribellione.
I giapponesi decapitano un presunto Boxer.
La repressione. Impegnate in furiosi combattimenti a Taku e Tientsin, le truppe straniere riuscirono a muovere verso Pechino e a occuparla solamente il giorno di ferragosto; nel settembre dell’anno successivo il governo cinese avrebbe dovuto firmare l’umiliante “Protocollo dei Boxer” che ai vincitori concedeva tra le altre cose un enorme indennizzo di guerra, la gestione delle entrate fiscali e nuovi possedimenti coloniali, come la Concessione italiana di Tientsin durata fino al 1943. Ormai screditata, la dinastia feudale Qing pochi anni più tardi sarebbe stata consegnata alla Storia dalla rivoluzione repubblicana del 1911. Ma tutto questo sarebbe venuto dopo: nel presente drammatico che chiudeva i “cinquantacinque giorni”, l’imperatrice Cixi fuggiva dai suoi palazzi vestita da contadina e dietro di lei si scatenava la durissima rappresaglia di europei e giapponesi, in un crescendo di saccheggi ed esecuzioni sommarie di chiunque fosse anche solo sospettato di simpatizzare con i ribelli. “Tutte le bandiere d’Europa fluttuano tra le rovine di Tientsin, spartita tra gli eserciti alleati”, scrive ancora Loti, in una babele di uniformi d’ogni genere. Sugli eccessi di violenza dei vincitori, però, il tono del francese si fa duro nel deplorare una barbarie condivisa da tutti. E il suo diventa un j’accuse non diverso per obiettività da quello di Luigi Barzini, corrispondente del Corriere della Sera, che scriveva sconcertato: “E’ la guerra che apre le valvole a tutta la perversità naturale che portiamo compressa in fondo all’anima… Così soltanto si può spiegare quanto le truppe delle nazioni civili compirono e compiono in Cina”. Quella che era nata come un’operazione di peacekeeping, la prima della Storia, si era conclusa nei fatti come una guerra qualsiasi, spietata e sanguinaria.
«A seguito della presa di Pechino, truppe della forza internazionale, eccetto italiani e austriaci, saccheggiarono la capitale e persino la Città Proibita, così che molti tesori cinesi trovarono la loro via per l'Europa.» |
(Kenneth G. Clark THE BOXER UPRISING 1899 - 1900. Russo-Japanese War Research Society) |
In questa fase, secondo tutte le fonti, il comportamento dei vincitori toccò il culmine della crudeltà. Così riferiscono Marianne Bastide, Marie-Claire Bergère e Jean Chesneaux:
«Ha allora inizio una carneficina e un saccheggio sistematici che superano di gran lunga tutti gli eccessi compiuti dai boxer. A Pechino migliaia di uomini vengono massacrati in un'orgia selvaggia: le donne e intere famiglie si suicidano per non sopravvivere al disonore; tutta la città è messa al sacco, il Palazzo imperiale, occupato dalle truppe straniere, viene spogliato della maggior parte dei suoi tesori.» |
(Marianne Bastide, Marie-Claire Bergère e Jean Chesneaux, La Cina, vol. II, Dalla guerra franco-cinese alla fondazione del Partito comunista cinese, 1885-1921, Einaudi, Torino 1974, pagina 118.) |
Inviato di Le Figaro in Cina, il celebre scrittore Pierre Loti confermava nei suoi articoli «la smania di distruzione e la furia omicida» contro l'infelice «Città della Purezza»:
«Ci sono venuti i giapponesi, eroici piccoli soldati di cui non vorrei parlar male, ma che distruggono e uccidono come in altri tempi le orde barbare. Ancora meno vorrei sparlare dei nostri amici russi, ma hanno spedito qui cosacchi provenienti dalla vicina regione tartara, siberiani mezzo mongoli, tutta gente abilissima a sparare, ma che concepisce ancora la battaglia alla maniera asiatica. Poi sono arrivati qui gli spietati cavalieri d'India, delegati dalla Gran Bretagna. L'America ha inviato i suoi mercenari. Non c'era più nulla di intatto quando sono arrivati, nella prima eccitazione della vendetta contro le atrocità cinesi, gli italiani, i tedeschi, gli austriaci, i francesi.» |
(Pierre Loti, Les Dernièrs jours de Pékin, Calmann-Lévy, Parigi 1901, pagine 75-76.) |
Il generale Chaffee, dal canto suo, riferiva ai giornalisti che si poteva seriamente affermare
«che dopo la presa di Pechino, per ogni boxer che è stato ucciso sono stati trucidati quindici innocenti portatori o braccianti di campagna, compresi non poche donne e bambini.» |
(Peter Fleming, La rivolta dei boxers, Dall'Oglio, Varese 1965, pagina 359.) |
Articolo di Adriano
Monti Buzzetti Colella pubblicato su Focus Storia n. 150 – altri testi e
immagini da Wikipedia.
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