La medicina
nell’antica Roma: dall’oracolo al chirurgo estetico.
Nei primi secoli
dell’Urbe le cure erano affidate a preghiere e sacrifici, o al “fai da te” del
pater familias.
Medicina e chirurgia
arrivarono soltanto con i Greci.
Il tempio di Esculapio-salvatore da un dipinto di John William Waterhouse.
«I medici imparano a nostro rischio e pericolo e fanno esperimenti con la morte; soltanto il medico gode di impunità completa quando ha provocato la morte di qualcuno» |
(Plinio, Naturalis Historia, XXIX, 18) |
Il
primo medico dell’antica Roma fu il pater familias. Depositario degli antichi
valori dell’Urbe e detentore del potere di vita e di morte sui consanguinei e
sulle persone alle sue dipendenze, era a lui che ci si rivolgeva in caso di
malanni o piccole invalidità tra i componenti del nucleo familiare. La sua era
una sapienza empirica, trasmessa di generazione in generazione all’interno
delle mura domestiche, e non andava oltre l’uso di erbe medicamentose, infusi e
impacchi. Era fondata su pochi rimedi, tra cui lana, olio e vino, senza
dimenticare il cavolo, considerato un toccasana per guarire molte infermità.
Con questi pochi strumenti a sua disposizione, il pater familias non poteva
miracoli. Nella Roma monarchica, e ancora nei primi secoli della Repubblica,
era invalsa la pratica di portare l’infermo grave al tempio di Esculapio (poi
anche di Iside) perché fosse l’oracolo a guarirlo, o perlomeno ad apparigli in
sogno e indicargli la cura. Alla ricerca di una diagnosi, e soprattutto di una
prodigiosa guarigione, non era raro che il malato fosse accompagnato nei
portici pubblici, nella speranza che tra i passanti ci fosse qualcuno in grado
di proporgli qualche rimedio che lo risanasse. In generale, le malattie erano
ancora viste come una punizione divina per qualche mancanza commessa, e la
guarigione affidata a preghiere e sacrifici.
Pittura romana: intervento chirurgico su un soldato. Da una pittura murale di Pompei.
Il carnefice greco. Un timido embrione di
medicina, intesa come scienza, si sviluppò soltanto con l’arrivo dei Greci,
migrati n gran massa a Roma a seguito della conquista romana della penisola
ellenica, dilaniata e resa poverissima da decenni di guerre. Il primo
professionista di cui si abbia notizia (di lui parlano, seppur malissimo, sia
Plinio il Vecchio che Carone) si chiamava Archagatos ed era approdato a Roma
dal Peloponneso intorno al 219 a.C., ossia all’epoca delle Guerre puniche. Ebbe
un’accoglienza straordinaria: gli venne concessa la cittadinanza e lo Stato si
fece carico dell’affitto del suo ambulatoria, la prima taberna medicinae sorta
in città altre ne verranno costruite, soprattutto accanto ai templi, dove i
malati più gravi erano tenuti sotto osservazione dai medici greci e dai loro
discepoli. Ma la fortuna di Archagatos non durò a lungo. La disinvoltura con la
quale pratica interventi cruenti e amputazioni gli fece ben presto conquistare la
fama di carnifex, carnefice, e il suo atteggiamento ingenerò in certo sospetto
nei confronti della nuove professione, esercitata tra l’altro da stranieri.
Sulla sfortuna postuma di Archagatos pesano i giudizi Plinio il Vecchio e
Catone (entrambi contrari all’arrivo dei medici greci); in particolare del
secondo, convinto che essi facessero parte di una congiura antiromana. Tali
giudizi non erano però condivisi da altri medici, tra i quali il romano Celso,
che invece lodarono, anche ad anni di distanza, alcune pratiche introdotte dal
collega greco. Il malanimo di Plinio era rivolto agli epigoni di Archagatos:
una pletora di presunti medici ellenici, molti dei quali si riversarono
nell’Urbe con l’unico intento di fuggire da una vita di stenti o da problemi
politici, e che si preoccupavano soltanto di sbarcare il lunario, spacciando
per medicina pratiche da ciarlatano, che a volte sfioravano la circonvenzione
d’incapace. Nonostante la pessima reputazione che costoro fecero ricadere
sull’intera categoria, ricordando i disastrosi risultati dell’arcaica medicina
fai da te, i Romani non seguirono le sirene dei tradizionalisti e preferirono
l’evoluta scienza straniera alle formule magiche dei loro antenati. Così. I
malati presero a recarsi nelle tabernae medicinaes, luoghi non molto diversi,
per gli arredi spartani, dalle altre tabernae aperte su strade e portici, dove
si mangiava o si acquistavano mercanzie. Il mobilio era essenziale: panche e
sgabelli, un cassettone per gli attrezzi del mestiere, farmaci e bende,
contenitori per acqua e olio, in alcuni casi una brandina. Accanto all’ambulatorio
poteva trovare posto anche un lazzaretto, dove i malati più gravi venivano
ricoverati e seguiti in modo assiduo. Durante le visite e le terapie più
impegnative, il medico era coadiuvato da assistenti, ragazzi di bottega che
imparavano il mestiere e risultavano molto utili quando c’era da tenere fermo
il paziente durante un intervento. Gli anestici erano conosciuti e utilizzati,
ma sul dosaggio c’erano ancora da fare passi in avanti. Soltanto i cittadini
più abbienti potevano permettersi visite a domicilio e spesso mandavano il loro
schiavo più dotato a impratichirsi di nozioni mediche, così da trasformarlo in
medico di famiglia e averlo sempre a disposizione.
Strumenti chirurgici romani trovati a Pompei
Cateteri romani in bronzo.
L’arte medica di Galieno.
Galeno in una litografia di Pierre Roche Vigneron Greco di Pergamo (oggi in
Turchia), Claudio Galeno fu il medico più noto e importante dell’epoca
romana: con le su intuizioni e i suoi scritti condizionò per secoli la
cultura medica occidentale. Visse a Roma nel II secolo d.C. e iniziò la
pratica chirurgica lavorando un una scuola di gladiatori, dove fece
esperienza nella cura di traumi e ferite. Fu medico degli imperatori Marco
Aurelio e Settimio Severo. Al suo genio si deve la comprensione
dell’importanza degli organi interni del corpo umano e del ruolo svolto da
alcuni di essi (per i suoi esperimenti utilizzò la dissezione degli animali).
Ispirandosi agli insegnamenti dello scienziato greco Ippocrate, fondatore
della medicina antica, dimostrò che nelle arterie scorre sangue e non aria,
come si credeva. Inoltre, provò che il sangue viene spinto dal cuore, che
funziona come una pompa. Vivace polemista, fu autore di numerose opere di
argomento medico e filosofico, in gran parte distrutte, nel 191, dal fuoco
divampato nella biblioteca del Tempio della Pace. Il suo libro più influente
fu l’Ars medica, per molti secoli il testo su cui si basò l’insegnamento
della medicina in Europa. |
Divaricatori per ispezioni anali e vaginali. In basso i "pestelli dell'oculista"
Tra pubblico e privato. Il medico romano era un professionista generico. Soltanto in alcune grandi città, a partire dal I secolo d.C., si poterono trovare degli specialisti chirurghi (chirurgi), oculisti (ocularii) e otorinolaringoiatri (auricularii). La nuova scienza, comunque, scontò per secoli un grave lacuna normativa: per i medici non esisteva una formazione istituzionale, di conseguenza nemmeno un certificato o diploma che ne potesse arrestare gli studi. Vigeva un sistema di libero mercato, all’interno del quale operava chiunque si definisse medico, e la cui competenza era testata direttamente sul campo e sulla pelle dei pazienti. Inutile dire che in una rete di selezione a maglie così larghe passassero non pochi ciarlatani o guaritori privi di qualsiasi conoscenza teorica. Restava come unico argine la Lex Aquil, promulgata nel 286 a.C., che riteneva responsabile, in caso di morte del malato, che avesse agito con trascuratezza. Soltanto con Giulio Cesare, alla metà del I secolo a.C., sorsero le prime scuole per l’insegnamento della medicina, istituti privati cui si accedeva volontariamente e che comunque non rilasciavano attestati. Il mestiere si imparava sul campo, seguendo il maestro durante le visite, esercitandosi a tastare il polso, a esplorare gli occhi del paziente, a sentirne il battito del cuore appoggiando l’orecchio sul petto.
Accanto ai medici
privati, che ricevevano in ambulatori propri, ve n’erano altri che operavano
sotto il controllo statale e prestavano il loro servizio nell’esercito, nelle
scuole di gladiatori e nelle corporazioni artigiane. Privati erano anche i
valetudinaria, ricoveri ospitati nelle grandi aziende agricole, dove trovavano
le cure necessarie familiares e schiavi; ci lavoravano medici, infermieri e
anche personale femminile, tendenzialmente nell’ostetricia. Non molto diversi
da quelli moderni erano gli strumenti chirurgici, realizzati in bronzo e ferro.
Oltre a coltelli dritti e curvi, c’erano bisturi (scalpellum), rasoio
(novacula), forbici e pinze vari. Il chirurgo eseguiva molti interventi: la
trapanazione del cranio, già praticata dagli antichi Egizi, era in uso anche a
Roma e si faceva mediante trapani a corona o a trivella. Si interveniva anche
su emorroidi e varici, che venivano legate e cauterizzate.
I valetudinari militari. Tipica struttura di un valetudinarium militare nella fortezza legionaria di Novae nella Mesia inferiore. La riforma dell’esercito, promossa
nel I secolo d.C. dall’imperatore Augusto, introdusse i medici militari,
professionisti che avevano ricevuto una preparazione specifica per il compito
a cui venivano chiamati. Erano arruolati come gli altri soldati e prestavano
servizio nelle legioni per 16 anni, lavorando presso i valetudinaria, veri
ospedali militari. Il capo della struttura era il medicus costrensis,
esentato da ogni altro servizio e assistito da capsani (infermieri),
fricotres (massaggiatori), unguentarii, curatores operis (addetti al servizio
farmaceutico) e optiones valetudinarii (addetti al vitto e all’amministrazione.
La cavalleria romana aveva medici propri (medici alarum) e la marina i medici
triremis. I medici militari erano inquadrati in base a una gerarchia,
corrispondente a quella degli ufficiali: il medicus legionaris era superiore
al medicus coorti, e il medicus ordinarii era simile al centurione, ma
esentato dal comando sui soldati. |
Sterco di topo. I medici riducevano le fratture
con manovre di forza e steccature, ma se erano scomposte difficilmente si
poteva evitare l’amputazione. Anche il tumore al seno poteva essere rimosso, né
mancava la chirurgia plastica: con il bisturi si poteva porre rimedio alle
imperfezioni di palpebre, naso, labbra e orecchi. La pratica d’intervento sul
labbro leperino è rimasta in uso fino ai
nostri giorni. Restava, tuttavia, l’incognita delle infezioni post-operatorie,
spesso letali in mancanza di antibiotici. Il medico detergeva le ferite con una
spugna o un batuffolo di lana imbevuti di acqua fredda, acero oppure vino. In seguito
potevano essere applicati punti di sutura ed emulastri disinfettanti, da
cospargere sulla ferita con una spatola. Per cicatrizzare ci si affidava all’argilla
rossa. Nonostante l’importante sviluppo della farmacopea, i medici producevano
in proprio i medicamenti, perché il mestiere del farmacista era sconosciuto. Per
curare i malanni più lievi, i Romani continuarono a rivolgersi ai mondi
vegetale e animale. La regina delle piante medicamentose era il laserpizio
(genziana bianca), un toccasana ad ampio spettro, utile soprattutto come
digestivo. Per calmare il dolore ai denti si usava la polpa di zucca con
assenzio e sale, o il succo lattiginoso ricavato dallo stelo della senape. Dalla
bile di vipera si otteneva iun collirio per alleviare il bruciore agli occhi.
Un ottimo emostatico si
ricavava da un intruglio composto da sterco di cavallo (o asino) e mosto di
aceto. Infine, non poteva mancare un rimedio per il problema che, allora come
oggi, preoccupava molti uomini maturi: la caduta dei capelli. Tra le diverse
soluzioni proposte dalla farmacopea romana, c’era una lozione ottenuta da un
complicato miscuglio di zafferano, vino, pepe, aceto, l’immancabile laserpizio
e lo sterco di topo. Purtroppo, pare non avesse alcuna reale efficacia.
Articolo di Mario
Galloni pubblicato su Civiltà Romana n. 3 – Sprea editori altri testi e
immagini da Wikipedia.
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