martedì 23 giugno 2020

Devotio: sacrificio per la vittoria.

Devotio: sacrificio per la vittoria.

Un rito oscura e quasi dimentica, più simile a un atto magico che a un gesto sacro, poteva dare la vittoria alle legioni. Ma solo a costo della vita.

 

La devotio del console Publio Decio Mure, parte del ciclo di Pieter Paul Rubens sulle Storie di Decio, 1617-1618.

L’anno era il 295 a.C., il campo di battaglia si trovava nelle Marche, a Sentinum (nei pressi dell’odierna Sassoferrato). In lotta, contro Romani e Piceni, una coalizione di Sanniti, Galli Senoni, Etruschi e Umbri. Fu la cosiddetta battaglia delle nazioni dell’antichità e possiamo immaginare che le cose siano andate più o meno così.

 

Il console Publio Decio Mure arrivò al galoppo, seguito dai suoi littori. Sembravano vomitati dagli inferi, completamente lordi di sangue e polvere.

“Non c’è un istante da perdere” urlò al pontefice massimo, “la nostra cavalleria è stata dispersa dai carri da guerra dei Galli e l’intera ala sinistra ha ceduto. Occorre chiedere l’intercessione degli dei per ribaltare le sorti di questa battaglia. dobbiamo fare una devotio”.

Il pontefice scosse il capo, come se volesse rifiutare di aver sentito quelle parole.

“E’ questa la sorte data alla famiglia, siamo vittime espiatorie nei pericoli dello Stato. ora offrirò con me le legioni nemiche in sacrificio alla Terra e agli dei Mani!”.

“Stai per compiere un rituale pubblico, è necessario che tu sia vestito da magistrato, con la tuta toga pretesta”. Il console mise mano a una bisaccia assicurata alla sella del cavallo ed estrasse un fagotto bianco “Devi metterla all’antica maniera, con il cingo Gabino”.

I littori aiutarono il console a indossare la toga. Il pontefice perse una lancia dei triari e la passò a Decio, che la gettò a terra prima di salirvi con entrambi i talloni. Il sacerdote prese la mano sinistra di Mure e la mise sotto il mento del console prima di velargli il capo con un lembo della toga. “Giano, Giove, padre Marte” recitò il pontefice seguito da Mure “Quirino, Bellona, Lari, dei Novensili, dei Indigeti, dei nelle mani ci troviamo noi e i nostri nemici. Dei Mani, io vi invoco, vi imploro e a voi, sicuro di ottenerla, chiedo questa grazia: concedete benigni al popolo romano dei Quiriti la vittoria e la forza necessari e gettare paura, terrore e morte tra i nemici del poplo romano dei Quiriti. Come ha dichiarato con le mie parole, così io agli dei Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti per l’esercito e per le truppe ausiliare del popolo romano dei Quiriti, offro in voto le legioni e le truppe ausiliare del nemico insieme a me stesso”.

 

Un rito sacro. A pronunciare queste pare fu li console Publio Decio Mure, prima di gettarsi da solo nella mischia in cui avrebbe trovato la morte. Il testo della formula di sacrificio ci è stato tramandato nella Storia di Roma (Ad Urbe Condita) da Tito Livio, unico autore a descrivere con dovizia di particolari la devotio. Questo antico rito era praticato in casi estremi, quando le sorti di una battaglia sembravano compromesse e il comandante in capo dell’esercito votava se stesso alle divinità seguente un preciso rituale. Proprio la composizione del testo fa presumere che si trattasse di un rito arcaico a lungo dimenticato, anzi, forse mai messo in pratica in età repubblicana. Non ci sono, infatti, altre testimonianze relative alla devotio, se non quelle che narrano il sacrificio di tre consoli della famiglia plebea dei Decii, che si votarono agli dei per garantire la vittoria alle loro legioni. Il primo fu Publio Decio Mure, morto nel 340 a.C. durante la battaglia del Vesuvio, combattuta contro i Latini. Il figlio, chiamato anch’egli Publio Decio Mure, sacrificò la propria vita nella battaglia del Sentino del 295 a.C., che aprì a Roma la via per l’egemonia sua tutta la penisola. Suo figlio, noto come il terzo Decio Mure, morì infine nella battaglia di Ascoli Satriano, nel 279 a.C., da cui i Romani uscirono sconfitti, ma al termine della quale Pirro pronunciò la famosa frase: “Ancora una vittoria come questa e sarò perduta”. Dal racconto di Tito Livio traspare la sacralità di questo rito pubblico, giuridico e religioso, eseguito con l’assistenza del pontefice (appartenente al più antico collegio sacerdotale romano), che indicava il modo più opportuno per adempiere gli obblighi che garantivano la concordia tra la comunità e gli dei. Fu lui a dare disposizione a Mure di indossare la toga pretesta, bordata di porpora, indumento necessario per i rituali pubblici dei magistrati romani. Un altro indizio dell’origine antica del rito si trova nel fatto che la toga andava annodata con il “cinto Gabino”, cioè indossata in modo da formare una sorta di cintura dopo aver fatto passare un lembo sotto il braccio destro, all’antica maniera degli abitanti di Gabii, città dove la tradizione vuole che Romolo e Remo siano stati educati. Decio Mure indossò la toga e si coprì il capo, come d’uso nei riti sacerdotali. Gli fu poi chiesto di toccarsi il mento con la mano fatta uscire da sotto la toga, come se afferrasse se stesso, vittima sacrificale. Infine, gli venne passato un giavellotto sul quale si erse in piedi, come a favorire, con questo gesto, una sorta di trasferimento di valore dall’arma al devoto (non dimentichiamo che i sacerdoti Salii usavano dichiarare guerra lanciando un giavellotto nel campo nemico).

 

L’ombra del sacrificio umano.

La devotio era un antichissimo rito religioso in cui il comandante dell’esercito si rivolgeva direttamente agli dei, offrendo la propria vita in cambio della morte delle schiere nemiche e della vittoria delle sue legioni. Il sacrificio supremo (in cui è possibile riconoscere la traccia di antichi sacrifici umani) era sostenuto dalla ferma convinzione che le divinità accettassero lo scambio, perché, a differenza di altre pratiche religiose, il risultato della devotio era richiesto agli dei in anticipo, mettendoli nella condizione di non poter rifiutare. Elementi caratteristici della formula erano il nome della divinità a cui ci si rivolgeva, quello di cui chi lo invocava, l’esposizione dell’evento e l’indicazione della ricompensa promessa al dio o agli dei interpellati.

Sebbene la devotio fosse un rito di natura mistica, aveva anche una forte ripercussione psicologica sulle legioni. Assistere al sacrificio del proprio comandante, che si immolava per il bene comune e per la patria, innescava nei combattenti una potente carica emozionale, che generava un profondo senso di coesione fra i soldati. Questo, unita alla convinzione che l’esercito per cui combattevano fosse protetto dagli dei, esaltava gli animi dei militari, spingendoli a battersi con estremo coraggio fino al raggiungimento della vittoria, contro un avversario che veniva intimidito da tanta veemenza nemica.

 

Un uomo, un popolo. Solo a quel punto Decio Mure pronunciò la formula sacra, nella quale si chiedeva a una serie di divinità di concedere la vittoria ai Romani e di seminare terrore, paura e morte tra i nemici. Il primo dio a essere invocato è Giano, protettore degli inizi e dei passaggi, seguito da Giove, Marte e Quirino, la triade capitolina più arcaica (altro indizio sull’antichità della formula), e poi da Bellona, divinità della guerra legata a Marte e ai Lari, spiri protettori degli antenati defunti. La formula prosegue con l’indicazione di tutte le divinità che hanno autorità sui Romani e sui loro nemici, per concludersi con il richiamo agli dei Mani, le divinità dell’Oltretomba, e alla Terra, dei morti. Il popolo dei Quiriti, nome che i Romani davano a se stessi, viene citato ben quattro volte, per evitare qualsiasi ambiguità sui destinatari degli effetti del sacrificio: vittoria per i Romani e morta al nemico. A questo punto, al console non restava che salire a cavallo e gettarsi contro le orde avversarie per ottenere l’intervento divino, garantito da un’altra frase della formula: “Vi imploro, e a voi, sicuro di ottenerla, chiedo questa grazia”. Quel “sicuro di ottenerla” obbligava le divinità ad accettare il patto in anticipo, senza poterlo rifiutare. A duemila anni di distanza, si può sorridere di fronte a queste parole, ma i fatti ci dicono che la dedizione dei consoli alla res publica, per la quale compirono gesta di estremo coraggio, fu premiata, e Roma uscì vincitrice da tutti e tre i conflitti.

 

Articolo di Massimiliano Colombo, autore del romanzo Stirpe di eroi pubblicato su Civiltà Romana n. 3 – altri testi e immagini da Wikipedia.  


Nessun commento:

Posta un commento

I vichinghi, gli eroi delle sagre.

  I   vichinghi gli eroi delle saghe. I popoli nordici vantano un tripudio di saghe che narrano le avventure di eroi reali o di fantasia. ...