sabato 29 giugno 2019

Lo squadrone Folgore e l’operazione Herring.


Lo squadrone Folgore e l’operazione Herring.
Mentre l’esercito italiano usciva a pezzi dalla seconda guerra mondiale, gli uomini di questa unità militare , dopo l’armistizio con gli Alleati, operarono a fianco delle truppe britanniche e si fecero onore durante una pericolosa  missione  dietro le linee nazifasciste. Ecco la loro storia.



Operazione Herring


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Operazione Herring
parte della seconda guerra mondiale
Paracadutisti italiani salgono a bordo di un C-47 all'aeroporto di Rosignano (20 aprile 1945).jpg
Imbarco dei paracadutisti a Rosignano su un C-47
Data20 aprile 1945
LuogoPianura padanaItalia
EsitoVittoria tattica italiana
Schieramenti
Comandanti
Regno Unito Alan Ramsay
Italia Carlo F. Gay
Italia Guerrino Ceiner
Effettivi
intorno a 7000 uomini 200 tra carri e altri veicoli226 paracadutisti italiani
14 C-47 Dakota
gruppi partigiani locali
Perdite
481 morti
1 983 prigionieri
44 veicoli distrutti
31 morti
14 feriti 10 dispersi
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L'operazione Herring (in italiano: Aringa[1]) fu un'operazione di infiltrazione e sabotaggio effettuata dalla notte del 20 aprile al 23 aprile 1945 dalle forze alleate e cobelligeranti nell'Italia settentrionale, a sud del fiume Po, allora nel territorio della Repubblica Sociale Italiana.
L'operazione Herring è ricordata come l'unico aviolancio di guerra effettuato in Italia nella storia dei paracadutisti italiani[2].


L’8 settembre 1943 il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio alle ore 19.42 annuncia alla popolazione italiana l’entrata in vigore dell’armistizio, firmato alcuni giorni prima con gli anglo-americani. Il proclama giunge improvviso non solo per la popolazione, ma anche per i militari che si trovano in quel momento a combattere su numerosi fronti, dall’Africa alla Russia alla Grecia e persino su suolo italiano. È un dramma senza precedenti, nel quale ogni soldato si trova costretto a prendere una decisione che, senza preparazione e conoscenze adeguate, è dettata spesso dal caso e dalla forza della disperazione. Da che parte stare? Rimanere al fianco dei tedeschi oppure schierarsi con gli Anglo-americani? La Divisione Paracadutisti Nembo è divisa su due fronti: il 185° Reggimento in Calabria, pronto a contrastare l’avanzata alleata, e il resto della Divisione dislocato in Sardegna. Le prime forme di resistenza alle truppe nazifasciste, in quei giorni confusi, sono esclusivamente compiute dai militari, soldati che rimangono al loro posto obbedendo agli ordini del governo legittimato dalla presenza del re. In seno alla Divisione Nembo, le scelte dei paracadutisti sono diverse. Alcuni cercano di tornare a casa. Buona parte del III Battaglione del capitano Edoardo Sala, che in quel momento è a Soveria Mannelli in provincia di Catanzaro, decide di proseguire la guerra al fianco dell’alleato tedesco, “per l’onore dell’Italia”e, in Sardegna, opta per la stessa scelta anche il maggiore Mario Rizzatti, mettendo il XII Battaglione al seguito della 90a Panzergrenadier division tedesca. I due diventeranno i più celebri comandanti paracadutisti della Repubblica Sociale Italiana. Guardando a queste scelte, si potrebbe attribuire ai paracadutisti uno spirito mosso da fanatismo politico di stampo fascista, ma sarebbe un giudizio affrettato. Quelli che si arruolarono nella Repubblica di Salò furono solo una parte. Il resto operò da cobelligerante, prima nel Corpo Italiano di Liberazione e successivamente nel Gruppo di Combattimento Folgore, guidato dal generale Giorgio Morigi.


Paracadutisti della Centuria Nembo salgono sull'autocarro diretto all'aeroporto di Rosignano

LA TERZA VIA. Diversa fu invece la posizione assunta dal capitano Carlo Francesco Gay. Classe 1914, Gay ufficiale piemontese di ferrea fede monarchica che proviene dalla Cavalleria, trovandosi in disaccordo con il proprio comandante, il parigrado Edoardo Sala, imbocca una strada molto personale, che solo dopo si dimostrerà essere “intermedia”. Dapprima cerca di raggiungere un comando italiano, presso il deposito o presso lo Stato Maggiore. Trovandosi però nell’impossibilità di spingersi fino a Roma e non ricevendo alcun ordine superiore, decide di lasciare liberi i suoi uomini. Chi vuole lo può seguire, gli altri possono valutare di tornare a casa. Messi di fronte a queste opzioni, alcuni militari tentano la fortuna rimanendo con Gay, mentre la maggior parte rientra al deposito badogliano della Nembo. È da questo momento che si apre la “strada intermedia”. Quelli che decidono di rimanere con Gay sono soldati, ben addestrati e ben armati e, volendo restare tali, si offrono ai canadesi. Non sono né partigiani né più badogliani. Con Gay a Castelfranco in Miscano (provincia di Benevento) il 12 settembre 1943 ci sono solo otto paracadutisti. Pian piano il primo nucleo s’ingrandisce e arriva alla dimensione di un battaglione. Ai primi nove si aggiungono, alla spicciolata, altri militari, arrivando a diciannove uomini che vanno a costituire il 1° Reparto Speciale Autonomo, poi ribattezzato Squadrone F, dove F sta per Folgore, chiamato dagli inglesi F Recce Squadrone.

Paracadutisti in volo verso la zona di lancio dell'operazione Herring


FARSI ONORE. Dall’ottobre al dicembre del 1943 i parà di Gay, divisi in gruppi di soli tre uomini, eseguono operazioni di pattugliamento oltre le linee tedesche, ognuna della durata di alcune giornate, nella linea che va da Campobasso a Ortona. Il gruppo del capitano Gay ottiene la fiducia degli inglesi, tanto che il comandante del XIII Corps, il generale Sidney Kirkman, acconsente alla formazione di uno squadrone di autoblindo. Gay incontra invece grosse resistenze da parte del Regio Esercito Italiano, che ritiene prematura l’istituzione di un gruppo autonomo e per giunta alle dipendenze di un esercito straniero. A fine conflitto, Kirkman confermerà che gli uomini dello Squadrone F furono trattati “con una certa diffidenza e persino con ostilità latente da parte dello Stato Maggiore Italiano”. Il generale ammira i paracadutisti, e di Gay dirà: “Era un comandante capace e determinato che ha avuto la piena fiducia dei suoi uomini. Per un italiano era insolitamente riservato  e privo di quei tratti eccitabili, tipici dei caratteri latini (…). Grazie alle particolari caratteristiche dei suoi uomini e dei compiti a esso affidati, lo Squadrone F ebbe un ruolo ben superiore a quelle che erano le sue effettive proporzioni”.
Gli inglesi intuiscono subito le potenzialità di questo gruppo – tanto da prenderlo in forza con un coordinamento gerarchico che dipende dal comando di corpo d’armata, distaccando le pattuglie che all’esigenza potevano essere aggregate ai battaglioni – e spingono per l’istituzione di un reparto. Gay riceve l’autorizzazione per recarsi al deposito del 185° Nembo nei pressi di Santa Maria di Leuca per cercare di arruolare altri uomini.
Nonostante le proteste del comandante ad interim del 185° Nembo, il maggiore Angelo Massimino, un centinaio di parà si uniscono al capitano Gay. Il 15 gennaio 1944 nasca il 1° Squadrone da Ricognizione Folgore. Costituito da 137 uomini, lo squadrone è composto da paracadutisti del 185° Nembo in buona parte provenienti dall’XI Battiglione Nembo. Nel momento di massimo organico i paracadutisti arrivano a superare di poco le trecento unità.

Prigionieri nazisti catturati dai paracadutisti italiani dell'operazione Herring (Mirandola, aprile 1945)

LE PRIME MISSIONI. In quel periodo gli Alleati hanno superato il fiume Sangro e lo Squadrone, dopo aver frequentato un ciclo di addestramento a Campobasso, si trasferisce a Casoli, in provincia di Chieti. Un plotone si trova da qualche giorno sul fronte della V armata, nella zona di Caserta, per svolgere servizio di pattuglia oltre le linee. È comandato dal tenente Eldo Capanna, uno dei primi volontari di Gay, che cadrà prigioniero e sarà orribilmente torturato nel settembre del 1944. Sulla Maiella il fronte ristagna. I tedeschi, aiutati dalle continue nevicate, riescono a mantenere saldo il controllo. I comandi inglesi vogliono sferrare un attacco mirato a spezzare il fronte che si estende da Roccaraso a Cassino e che ha come punto strategico Pizzoferrato. Il compito di liberare tale paese è affidato al maggiore inglese Lionel Wigram, un tale paese è affidato al maggiore inglese Lionel Wigram, un noto istruttore di tattica militare. Al capitano Gay viene ordinato di mettersi a sua disposizione. La battaglia di Pizzoferrato del 2 e 3 febbraio 1944 è il primo importante combattimento dello Squadrone F e durante questo scontro i parà si trovano a operare al fianco di un altro gruppo autonomo, la Brigata della Maiella. Tra le nevi dell’Abruzzo vengono effettuate numerose operazioni di pattugliamento, soprattutto a Gamberale, dove il 6 febbraio restano sul terreno soprattutto a Gamberale, dove il 6 febbraio restano sul terreno sette caduti e rimase ferito anche Gay. Il ciclo operativo si conclude il 25 marzo 1944. A questo punto lo Squadrone al completo è destinato a un periodo di riposo a Sesto Campano. I paracadutisti pensano di avere alcune giornate di svago e invece scoprono di dover rimanere lì per un mese perché devono frequentare un corso d’istruzione. I militi ricevono la stessa formazione riservata ai SAS britannici (Special Air Service): sabotaggio delle immediate retrovie, colpi di mano, pattuglie a scopo informativo nello schieramento nemico, lezioni teoriche e pratiche sugli esplosivi e sui metodi di demolizioni di opere di interesse militari, lotta corpo a corpo e tecniche di sopravvivenza. I paracadutisti sono per loro natura un reparto di élite, una forza speciale. Una delle caratteristiche che li distingue è la tendenza accentuata all’individualismo: ogni militare deve saper operare da solo e questa caratteristiche da sempre fondamentale si rivela indispensabile e coerente al nuovo modo di combattere. Questo individualismo feroce e autonomo è alla base della formaione impartita durante il corso d’istruzione.

Riesumazione nell'estate 1945 dei quattordici caduti dell'Operazione Herring


Il museo della seconda guerra mondiale del fiume Po.
Il Museo della Seconda guerra mondiale del fiume Po a Felonica, nel mantovano, è un piccolo scrigno per chi s’interessa allo Squadrone. Moderno centro che custodisce la memoria dei fatti bellici, che si sono susseguiti sul territorio lungo il fiume Po durante il Secondo conflitto mondiale, il museo raccoglie filmati, fotografie, documenti e cimeli del periodo che va dalle prime incursioni aeree del 1944 sino al passaggio del fronte nell’aprile del 1945. L’area a ridosso della Linea Gotica ha, infatti, rivestito un importante ruolo nelle vicende della Seconda Guerra mondiale, e il paese di Felonica si trovava in posizione centrale rispetto agli attraversamenti del fiume Po. Nel museo sono raccolti inoltre documenti e materiali dell’Operazione Herring ed è esposta un’uniforme originale, completa dell’armamento e dotata di kit bag, il sacco che i paracadutisti inglesi legavano alla gamba durante i lanci. È possibile vedere inoltre documentazione cartacea e un raro video girato dagli Alleati. Il filmato mostra alcune fasi dell’Operazione Herring, tra cui il momento in cui alcuni paracadutisti raggruppano dei prigionieri tedeschi. per chi voglia trascorrere una giornata sulle tracce dello Squadrone F tra le provincie di Ferrara e Mantova, va ricordati che a pochi chilometri dal Museo di Felonica si raggiunge l’Ara Monumentale di Dragoncello a Poggio Rusco (MN) dove sono riportati nel marmo i nomi dei parà che presero parte all’Operazione Herring. Nelle vicinanze dell’area sorge la Chiesa della Madonna dei Paracadutisti. Sempre all’interno del territorio comunale di Poggio Rusco, nella calma della pianura padana, ci si trova di fronte alla cascina di Ca’ Bruciata, sanguinoso epicentro degli scontri della Centuria Nembo, dove perirono tutti e 14 i paracadutisti italiani coinvolti, assieme a 16 soldati tedeschi e due civili.
I caduti nell'operazione


UNA RESISTENZA INASPETTATA. Gli Alleati erano convinti che una volta sbarcati sulla Penisola tutto sarebbe stato semplice, senza tenere conto delle caratteristiche del territorio e della forza e determinazione dei soldati tedeschi. Solo di fronte alla linea Gustav si scontrano con la durezza della realtà.
In Abruzzo la morfologia del terreno aveva favorito il fedelmaresciallo Albert Kesselring, comandante in capo dello scacchiere Sud, nell’ideazione della guerra del centimetro, la “Zentimeter Krieg”. È una guerra lenta, di logoramento che non conta nessuna battaglia importante, ma tanti e continui scontri a piccoli gruppi. L’idea di Kesselring era stata proprio quella di rallentare il più possibile le truppe alleate. La necessità di modificare il tipo di formazione e di combattimento è evidente al maggiore Lionel Wigram, che per mettere in pratica la sua teoria stava formando la Brigata della Maiella, chiamata in suo onore anche Wigforce. Il maggiore era convinto che i tedeschi avessero macchiato in modo decisivo il successo alleato in Sicilia, riuscendo a ritirarsi con forze quasi intatte. Era così diventato facile per i nazisti tenere in scacco una valle o una collina con pochi uomini. Ma gli inglesi a loro volta avevano imparato la lezione ricevuta in Malesia contro i giapponesi, dove le loro posizioni erano simili a quelle dei tedeschi in Sicilia: in Malesia i giapponesi attaccavano, infatti, con l’impiego di mitragliatori, e s’infilavano nelle linee inglesi durante la notte. Alla spicciolata erano in grado di istituire blocchi stradali, di colpire i posti di osservazione, di distruggere le linee di comunicazione, tanto da costringere i tedeschi a combattere una serie di battaglie di retroguardia, ovunque. L’ideale è che ogni battaglione disponga di alcune pattuglie, che operino in gruppi piccoli anche di soli tre uomini ben armati, tutti volontari disposti a lavorare in completo isolamento.
Per una casualità anche il capitano Gay era convinto della necessità di dover adottare le tecniche della guerriglia. In Croazia, nell’aprile del 1943, la Nembo aveva dovuto contrastare la guerriglia sostenuta dai partigiani nella zona di Postumia e Montenero d’Idria. Gay comandava lì un intero settore dove, secondo l’intelligence italiana, aveva sede il motore dell’attività partigiana. L’operazione anti-partigiani fu particolarmente utile a Gay per studiare e capire a fondo le tattiche della guerriglia. L’attività principale svolta dai paracadutisti dello Squadrone per conto del XIII Corps diventa così quella di operare in pattuglie. Si consideri che, alla data del primo agosto 1944, lo Squadrone aveva già al suo attivo quasi settecento azioni. Nel suo caso, fare pattuglia significa penetrare, in piccoli gruppi di dieci uomini, entro l’area “di nessuno” e nel dispositivo nemico. Le pattuglie possono essere di diverso tipo: da ricognizione, cercando di individuare le posizioni avversarie; di distruzione e sabotaggio per collocare mine nell’area nemica o per colpire siti già individuati; atte a eseguire sabotaggi minori come la rimozione della segnaletica stradale, distruzione degli impianti di trasmissione, rapimenti o sottrazioni di materiali bellici. Bisogna considerare che lo Squadrone agisce raramente in modo unitario. I plotoni e le singole pattuglie lavorano per lunghi periodi separati, vivendo all’addiaccio o in ricoveri di fortuna. In queste condizioni va a cadere buona parte delle convenzioni tipiche di un ambiente militare e lo Squadrone prende le sembianze di una sorta di compagnia di ventura dove, più del grado, contano il mestiere delle armi e il buon senso.
A coronamento dell’attività svolta dai paracadutisti, i vertici alleati, che ne sono soddisfatti, voglio il capitano Carlo Francesco Gay al comando dell’Operazione Herring. Tra il 20 e il 23 aprile 1945 si materializza così quella che nella storia militare è considerata l’ultima missione aerotrasportata del Secondo conflitto mondiale nel Vecchio Continente: una vasta azione di sabotaggio dietro le linee nel territorio ancora in mano alla Repubblica Sociale e ai reparti tedeschi. il piano prevede il lancio di 226 paracadutisti così suddivisi: 117 appartenenti allo Squadrone F e 109 del Reggimento Nembo, inquadrato nel Gruppo di Combattimento Folgore.
Si stabilisce che i lanci avvengano in un’area piuttosto vasta, compresa tra Ferrara, Mirandola, Modena e il Po, alle spalle dell’esercito tedesco arroccato dietro la Linea Gotica. Dopodiché, a terra una volta riunitesi, le squadre hanno l’ordine di penetrare le linee nemiche e, con il supporto di partigiani, provocare il maggior danno possibile, sabotando linee telefoniche, depositi di munizioni, strade e ponti, più tutta una serie di obiettivi sensibili. Il raid nel suo complesso dovrebbe durare trentasei ore, ma ben presto quella che era stata pensata come un’operazione di guerriglia si trasforma in una serie di battaglie senza esclusione di colpi. Molte di queste squadre, infatti, fin dalla tarda serata del 20 aprile, sono costrette a combattere in netta inferiorità numerica, coadiuvate solo da piccoli gruppi di partigiani. Uno degli episodi più drammatici, accorso a una pattuglia della Centuria Nembo, si consuma nelle campagne di Dragoncello, in provincia di Mantova. Qui un reparto di paracadutisti, dopo aver catturato due tedeschi, viene scoperto dal nemico e costretto a rifugiarsi in un’abitazione isolata. Ma inutilmente, anche in questo caso vengono individuati. E nelle ore successive l’edificio è teatro di un battaglia furibonda con un tragico finale: tutti i quattordici parà vengono uccisi, così come due abitanti della casa, insieme a sedici tedeschi. solo dopo tre giorni di scontri gli italiani vengono finalmente raggiunti dalle truppe alleate che, superato il Po, riescono ad alleggerire la pressione e consento ai parà di sganciarsi dal nemico. L’operazione nel suo complesso si conclude, però, in modo lusinghiero. Il nemico accusa 1083 prigionieri, 44 automezzi distrutti, 7 strade di grande traffico minate, 77 linee telefoniche interrotte, un deposito di munizioni sabotato, la messa in sicurezza di tre ponti sul Po che furono poi usati dalle truppe anglo-americane per attraversare il fiume. Lo Squadrone accusa 12 perdite e 6 feriti. L’Operazione Herring era stato il loro capolavoro e un meritato riscatto per l’esercito italiano che usciva distrutto dalla Seconda guerra mondiale.


Articolo in gran parte di Daniele Battistella pubblicato su Storie di Guerre e guerrieri n. 2 – altri testi e immagini da Wikipedia 

sabato 22 giugno 2019

Alessandro da conquistatore a despota.


Alessandro da conquistatore a despota.
Nel 331 a.C. Alessandro Magno sconfisse a Gaugamela il sovrano persiano Dario III e gli succedette alla guida del maggior impero dell’epoca. Da allora iniziò ad adottare costumi orientali e a comportarsi sempre più come un autocrate, alienandosi le simpatie dei macedoni e provocando crescenti tensioni.

Nel 330 a.C., nel territorio dell’attuale Afghanistan, si verificò uno degli episodi più oscuri del regno di Alessandro: la condanna a morte del comandante macedone Filota e l’assassinio di suo padre Parmenione, in seguito a una presunta congiur
a contro la vita del grande conquistatore. È una storia terribile, con molti punti oscuri, che vide Alessandro e alcuni dei suoi uomini di fiducia reagire in modo viscerale e con una crudeltà sproporzionata. Ma il “caso Filota” non fu che il primo di una serie di conflitti che avrebbero esacerbato le tensioni tra Alessandro e il corpo di soldati macedoni e greci con il quali nel 334 a.C aveva attaccato il possente impero persiano.

Undici anni di guerra.
Alexander and Bucephalus - Battle of Issus mosaic - Museo Archeologico Nazionale - Naples BW.jpg
334 a.C.
Alessandro Magno invade l’impero persiano, che alla fine viene sconfitte in tre epiche battaglie campali: Granico (334 a.C.), Isso (333 a.C.) e Gaugamela (331 a.C.=.
Impero di Alessandro Magno. È riportato il tragitto compiuto dal conquistatore e le principali battaglie.
330 a.C.
Alessandro giustizia in Drangiana il capo della cavalleria macedone Filota, accusato di una congiura contro di lui, e ne fa assassinare il padre, il generale Parmenione, sospetto di complicità con il figlio.
328 a.C.
Nel corso di un banchetto a Samarcanda Alessandro uccide con un giavellotto Clito il Nero, che oltre ad avere difeso Parmenione gli aveva rimproverato il dispotismo e l’adozione di costumi orientale.
327 a.C.
Vengono giustiziati sette paggi con l’accusa di aver complottato per uccidere Alessandro, che aveva offeso uno di loro. Lo storico Callistene, considerato un istigatore della congiura, è incarcerato e forse ucciso.
323 a.C.
Alessandro muore a Babilonia in seguito a una malattia sconosciuta. Cinque anni più tardi inizia a circolare la voce che sia stato avvelenato.

IL NUOVO SOVRANO DI PERSIA. I primi tre anni della campagna di Alessandro contro il re persiano Dario III si erano concluse con una serie di clamorosi trionfi un Asia Minore e Mesopotamia: sul fiume Granico, a Isso e infine a Gaugamela. Dopo quest’ultimo successo Alessandro aveva conquistato Babilonia, Susa e altre capitali dove nel corso dei secoli l’impero achemenide aveva accumulato enormi tesori. In Egitto il conquistare macedone era stato accolto come un liberatore, aveva fondato la più celebre delle città che portano il suo nome ed era persino stato proclamato figlio del Zeus Amon dai sacerdoti del prestigioso tempio nell’oasi di Siwa.
Se fino ad allora Alessandro era stato solo il re dei macedoni, dopo la morte di Dario III ascese anche al trono persiano. Con le sue conquiste e le sue imprese memorabili avrebbe cambiato a tal punto il volto del mondo conosciuto da meritare l’appellativo di “Magno”. Tuttavia, quando si rese conto che nessuno avrebbe potuto mettere in discussione il suo impero, Alessandro si lasciò tentare dal lusso e dalla magnificenza dei sovrani asiatici.
D’altro canto il condottiero non aveva intrapreso quell’epica spedizione di migliaia di chilometri da solo. Ad accompagnarlo erano stati i suoi amici d’infanzia, come Tolomeo, Cratero, Clito il Nero e soprattutto il fedele Efestione, di cui sempre si disse che era il suo amante.  Ma a rendere veramente possibile il trionfo del giovane re furono alcuni esperti generali macedoni che avevano già servito lealmente alla corte del padre di Alessandro, Filippo II.
Uno di loro, il veterano Parmenione, era un nobile che aveva stretti rapporti con la corte e i militari, in quanto diretto sottoposto del re nel comando dell’esercito. Parmenione aveva 65 anni e vari figli tutti con ruoli importanti. Ma il più in vista era Filota, che svolgeva il prestigioso incarico di comandante in capo degli Eteri, il corpo di cavalleria formato dai membri dell’aristocrazia macedone.

La grande svolta di Babilonia.
Riproduzione (probabilmente ottocentesca) dei Giardini pensili di Babilonia.
Dopo aver sconfitto Dario a Gaugamela, Alessandro fu ricevuto a Babilonia con tutti gli onori dal governatore locale Mazeo. Qui la sua politica prese una nuova direzione; il sovrano fece della città la sede del governo in Asia e permise a Mazeo di conservare la carica di satrapo. Quella nomina era necessaria per rafforzare il suo potere, ma andava a beneficiare una nobiltà barbara sconfitta (Mazeo aveva combattuto a Gaugamela nell’esercito persiano). Questo fatto non fu visto di buon occhio dai macedoni della vecchia guardia, capeggiati da Parmenione e Filota. Da quel momento Alessandro iniziò a creare una nutrita corte parallela di strarapi ed eunuchi, e introdusse nell’etichetta di corte alcuni rituali di origine asiatica che finirono per allontanargli i suoi stessi uomini.
Bagoa, l’amante persiano del conquistatore.
Nel 330 a.C. il giovanissimo eunuco Bagoa conobbe Alessandro a Zadracarta, in Ircania (nel nord dell’attuale Iran). Era stato inviato dal gran visir Nabarzane, che aveva preso parte all’assassinio del re persiano Dario III, suo signore. In quanto successore dei sovrani achemenidi, Alessandro era intenzionato a vendicare Dario, ma il gran visir Nabarzane riuscì a ottenere il perdono proprio grazie all’intercessione di Bagoa. Il conquistatore macedone fu sedotto dall’inebriante bellezza del giovane eunuco, che divenne il suo amante (come già lo era stato di Dario). Si racconta che una volta Alessandro, entusiasmato da una danza di Bagoa, lo abbracciò e lo baciò davanti a tutti, tra gli applausi e le grida delle truppe. L’indiscutibile influenza esercitata sul sovrano valse a Bagoa l’odio dei nobili macedoni, che disprezzavano l’atteggiamento effeminato di Alessandro. La figura di Bagoa ha ispirato un libro famoso: il ragazzo persiano di Mary Renualt pubblicato nel 1922.

L’OBIETTIVO: FILOTA. Filota era un uomo coraggioso e capace di grande generosità verso i suoi amici; ma era anche considerato arrogante e conduceva uno stile di vita che suscitava invidie e sospetti. Inoltre, già in Egitto aveva manifestato la sua contrarietà alle tendenze autocratiche di Alessandro, quando questi si era recato all’oracolo di Siwa per farsi dichiarare figlio di una divinità.
Da quel momento Cratero iniziò a farlo spiare alla ricerca di qualche prova che permettesse di accusarlo di tradimento nei confronti del re macedone. La testimonianza più importante che riuscì a raccogliere fu quella di tradimento nei confronti del re macedone. La testimonianza più importante che riuscì a raccogliere fu quella della cortigiana Antigone, secondo la quale Filota sosteneva che le vittorie di Alessandro erano merito suo e di suo padre Parmenione, e trattava il re come un ragazzino. Inizialmente il sovrano macedone non diede troppo peso a queste accuse, in virtù della fiducia che riponeva in Filota e del prestigio di cui Parmenione godeva tra i macedoni. La situazione degenerò qualche tempo dopo, quando Alessandro si era ormai impossessato di tutta la Persia e nell’opinione dei macedoni aveva ceduto al lusso e alla magnificenza dei sovrano d’Oriente.
Nel 330 a.C., mentre l’esercito svernava a Frada (odierna Farah, nell’Afghanistan occidentale), Alessandro ricevette la denuncia di un complotto in cui era coinvolto Limno, uno degli Eteri. La cospirazione venne alla luce per caso, quando questi cercò di convincere il suo amante Nicomaco a unirsi ai congiurati. Il giovane si spaventò e rivelò i particolari del piano a suo fratello Cebalino. Fu a  quel punto che Filota fu coinvolto, perché Cebalino lo informò dalla trama in due occasioni, ma il comandante non ritenne opportuno prendere provvedimenti né a riferire la cosa ad Alessandro. Alla fine Cebalino si recò personalmente dal sovrano per denunciare Limno, che secondo Quinto Curzio Rufo si suicidò prima di essere arrestato. Il suo cadavere fu esposto pubblicamente mentre venivano resi noti i motivi del suo gesto. A quel punto Alessandro convocò Filota, chiedendogli perché non l’avesse informato della congiura e insinuando che potesse esserne la mente. Ovviamente Filta respinse ogni accusa e dichiarò di non aver avvisato nessuno perché non aveva dato credito alle parole di Cebalino, convinto che fossero il frutto di una lite tra amanti. Così lo riporta Quinto Curzio Rufo, che mette in bocca a Filota queste parole: “Io, infelice, ho creduto di aver ascoltato un alterco tra un’amante e un effeminato, e ho ritenuto sospetta la testimonianza, perché non me l’aveva riferita lui (Nicomaco) in persona, bensì aveva spinto suo fratello a farlo”. Dato che gli autori della denuncia insistevano con le accuse, Alessandro decise di convocare l’assemblea dei macedoni. Cratero ribadì pubblicamente che Filota non si era limitato a occultare la congiura, ma ne era il promotore. Tra i mormorii di indignazione nessuno dubitò più della colpevolezza del comandante. In seguito intervenne Efestione, che sostenne la necessità di sottoporre a tortura il reo prima di giustiziarlo, per fare chiarezza una volta per tutte sull’intera vicenda. Efestione, Cratero e altri militari (tra cui Ceno, che aveva sposato la sorella dello stesso Filota) si accanirono sul sospetto tutta la notte, fino a che questi non poté sopportare oltre il dolore delle ferite inferte al suo corpo, “Cratero, dimmi: cos’altro vuoi che confessi?”, lo supplicò Filota, prima di fornirgli i nomi dei presunti complici. Il giorno successivo il figlio di Parmenione e gli altri sospetti furono lapidati secondo le usanze macedoni.
Non ci furono ulteriori processi, ma nelle file dell’esercito si susseguirono le purghe e le degradazioni per mettere in chiaro che non sarebbe stata tollerata nessuna forma di slealtà. Ci furono anche delle promozioni, come quella di Efestione, che da quel momento condivise con Clito il Nero il comando supremo della cavalleria macedone, in precedenza sotto il controllo esclusivo di Filota. Clito era un uomo di fiducia del re – gli aveva salvato la vita nella battaglia del Granico – ed era in buoni rapporti con la vecchia guardia che aveva servito sotto Filippo; dal canto suo, Efestione fu ricompensato per la sua fedeltà ottenendo il primo incarico militare di un certo rilievo. Da quella posizione poteva anche tenere sott’occhio Clito, che si era dimostrato contrario come Filota alle aspirazioni autocratiche del sovrano.

Rilievo di un presunto sarcofago di Alessandro (Musei archeologici di Istanbul).

Efestione il compagno fedele.
Amico d’infanzia di Alessandro, Efestione faceva parte del ristretto gruppo che aveva assistito alle lezioni del filosofo Aristotele in compagnia di Alessandro (forse anche di natura sessuale), al punto che questi lo considerava pubblicamente il suo alter ego, e a volte i sudditi persiani confondevano l’uno con l’altro. Dopo la condanna a morte di Filota, Efestione ascese al ruolo di comandante della cavalleria. Alcuni anni più tardi Alessandro lo nominò gran visir in Asia incaricandolo delle questioni tecniche (rifornimenti e comunicazioni). Quando nel 324 a.C. Efestione morì improvvisamente a Ecbatana, il sovrano macedone organizzò in suo onore un magnifico funerale. 
La lapidazione di Filota.
Quando Filota fu accusato di tradimento, Alessandro ordinò che fosse condotto davanti all’assemblea generale dell’esercito. I membri di quest’organismo invidiavano le ricchezze e la posizione di Filota, che in alcune occasioni li aveva anche disprezzati e insultati pubblicamente. Non sorprende quindi che al termine dell’assemblea “le guardie iniziarono a gridare che volevano fare a pezzi il traditore con le loro mani”, secondo quanto riportato da Quinto Curzio Rufo nelle Storie di Alessandro Magno. Quindi Filota fu torturato dai compagni del re macedone perché confessasse. Curzio Rufo riferisce “finche Filota aveva negato il delitto, torturarlo era parsa una crudeltà, dopo la sua confessione non suscitò neppure la compassione degli amici”. Una volta che ebbe dichiarato la sua colpevolezza, fu condotto davanti all’assemblea insieme ad altri accusati, poi tutti “vennero lapidati a un segnale convenuto secondo il costume macedone”.
L’alcotellamento di Parmenione.
Alessandro doveva chiudere i conti anche con Parmenione, prima che questi venisse a sapere del destino del figlio. Il sovrano inviò a Ecbatana una lettera con l’ordine di ucciderlo, del cui trasporto Polidamente. Dato che questi era una amico del generale, Alessandro tenne in ostaggio i suoi fratelli e le famiglie dei due arabi che dovevano accompagnarlo. Il gruppo partì in direzione di Ecbatana in sella a dei veloci cammelli e percorse oltre mille chilometri in undici giorni. Giunto a destinazione Polidamante consegnò gli ordini del re agli ufficiali di Parmenione – Cleandro, Sitalce e Menida -, quindi andò con loro a cercare l’amico, che era nel giardino della sua abitazione e lo accolse con gioia. A quel punto gli ufficiali diedero al generale una falsa lettera del figlio Filota e lo pugnalarono a morte mentre era intento a leggere. Successivamente invaiarono la sua testa ad Alessandro. 
La morte di Filota e Parmenione.
Dopo la condanna a morte di Filta in quanto presunto organizzatore di una congiura, Alessandro doveva sbarazzarsi immediatamente del padre di questi Parmenione, che custodiva nella remota Ecbatana l’immenso tesoro sottratto ai sovrani persiani. Parmenione era anche l’ultimo maschio della famiglia, dato che i due fratelli di Filota erano morti durante la campagna: Ettore era annegato nel Nilo, mentre Nicanore era deceduto in seguito a una malattia. 


L’ASSASSINIO DI PARMENIONE. Per Alessandro la congiura rappresentava un’ottima scusa per liberarsi di Parmenione, con cui aveva delle divergenze politiche sempre più insanabili. Parmenione godeva da sempre di grande influenza a corte e nell’esercito, ma aveva anche un temperamento cauto, frutto di lunghi anni di servizio che contrastava con la genialità frenetica e lungimirante di Alessandro. Queste circostanze avevano generato frequenti scontri tra i due in merito a questioni tattiche e strategiche. Parmenione era anche totalmente all’oscuro di quanto avvenuto a suo figli Filota, dato che era rimasto a Ecbatana per svolgere con le truppe straniere. E così, se l’esecuzione di Filota era stata ammantata di una parvenza di legalità. La fine di Parmenione non fu altro che un omicidio a tradimento dettato da ragioni di pura convenienza politica.
Deciso una volta per tutte a ribadire la sua autorità personale, Alessandro inviò un manipoli di uomini a Ecbatana con l’ordine di eliminare Parmenione e soffocare qualsiasi tentativo di ribellione delle sue truppe. Successivamente il sovrano incaricò Clito di andare ad assumere il comando di quei distaccamenti e riportagli il più rapidamente possibile, per proseguire la campagna in Battriana e Sogidana. Prima di riprendere l’avanzata, alla fine del 330 a.C., Alessandro decise di cambiare nome alla città di Frada, ribattezzandola Proftasia (in greco “anticipiazione”), perché  lì aveva anticipato la congiura di Filota.

La congiura dei paggi.
Due anni e mezzo dopo le morti di Filota e Parmenione avvenute nel 330 a.C., fu sventata la cosiddetta “congiura dei paggi”. Questa cospirazione dei servitori del sovrano fu provocata probabilmente dall’umiliazione inflitta da Alessandro a uno dei suoi giovani servitori, frustato per aver commesso un errore durante una battuta di caccia. Il ragazzo cercò dei complici per uccidere Alessandro, ma la trama fu portata alla luce da una denuncia. Lo storico Callistene, che era parente di Aristotele ed era la persona responsabile dell’educazione dei paggi, venne accusato di essere tra gli organizzatori della congiura.
Callistenie aveva spesso preso posizione contro le tendenze dispotiche di Alessandro e l’imposizione della proskynesis, il gesto che i persiani tributavano al sovrano (i nobili chinavano il capo verso il re inviandogli un bacio con le mani a giumella, mentre il popolo si inginocchiava fino a toccare il suolo con la testa). I paggi furono uccisi, di Callistene si ignora invece se fu giustiziato oppure morì in prigione.

IL PREZZO DEL POTERE. La folgorante campagna svoltasi tra il 334 e il 331 a.C., e culminata con la conquista di Babilonia, Susa e Persepoli aveva convinto Alessandro di essere imbattibile. Il conquistatore è stato descritto da alcuni storici come una sorta di re-filosofo, che mirava a promuovere l’ellenizzazione dell’Asia attraverso la fondazione di nuove colonie. Senza il controllo di Parmenione e degli altri esponenti della vecchia guardia, la condotta del sovrano iniziò a somigliare sempre più a quella degli autocrati orientali che aveva rovesciato. Anche i banchetti, che in Grecia erano lo specchio di una civiltà raffinata (nonché teatro di conversazioni politiche e filosofiche), presso la corte alessandrina degeneravano spesso in risse e discussioni offensive, in cui l’eccessivo consumo di vino faceva prevalere la passione sulla ragione. Fu proprio nel corso di un convivio tenutosi a Samarcanda nel 328 a.C. che Alessandro, in preda all’ebbrezza, uccise Clito il Nero trapassandolo con una spada, perché questi gli rimproverava senza riserve il suo atteggiamento e le recenti politiche orientalizzanti. Si racconta, però, che all’indomani, resosi conto dell’accaduto, Alessandro si pentì e pianse l’amico assassinato.
A partire da quel momento il minimo sospetto di opposizione interna o esterna provocò ondate di repressioni e massacri indiscriminati. All’inizio del 327 a.C. fu sventato un altro complotto per uccidere il sovrano macedone, che vide coinvolti diversi servitori del re e forse anche il cronista ufficiale di corte Callistene, parente di Aristotele (che era stato il maestro di Alessandro). Callistene si era in precedenza rifiutato di salutare Alessandro con la proskynesis, un gesto di riverenza di tradizione persiana che i greci e i macedoni consideravano non solo umiliante per un uomo libero, ma anche fuori luogo, in quanto equivaleva a riconoscere ai sovrani una natura divina. Anche in questo caso il re non esitò a spargere il sangue dei suoi uomini. Alessandro fu un immenso condottiero, ma aveva quell’incapacità di sopportare il dissenso tipica di chi accumula su di sé un potere eccessivo. E il potere del signore dell’Asia era ormai pressoché totale.

Articolo in gran parte di Juan Pablo Sanchez, storico pubblicato su Storica National Geographic del mese di dicembre 2018 altri testi e immagini da Wikipedia. 

domenica 16 giugno 2019

Le insulae antichi grattacieli.


Le insulae antichi grattacieli.
In una città sempre più popolata e dove gli spazi edificabili diventavano ogni giorno più rari, gli architetti romani ebbero un’idea destinata a durare: creare i primi condomini.


Una città cosparsa di caseggiati a molti piani dove un’umanità litigiosa e rumorosa si stipava, suo malgrado, in una promiscuità forzata. Questa visione, per noi abituale, era invece sconvolgente per gli antichi, perché al di fuori di Roma e di pochissime altre città non esisteva nulla del genere. L’insula, il caseggiato con appartamenti in affitto, fu infatti un’invenzione dell’Urbe, legata alle sue caratteristiche peculiari. La civiltà romana era fondata sulla città come unità base dell’organizzazione politica e amministrativa, poiché in essa si trovavano i luoghi in cui si esercitava il potere. questo trasformò le città romane in poli di attrazione irresistibili che, soprattutto nel caso dell’Urbe, presero presto l’aspetto di vere metropoli.

Strada con insulae a Ostia antica

FAME DI SPAZIO. La superficie di Roma all’interno delle Mura Aureliane è di poco inferiore ai 1400 ettari (circa 2000 campi di calcio), insufficienti per una popolazione che già all’epoca di Augusto, era stimata in circa 1 milione di abitanti. Parte di essa, inoltre, non era edificabile, come il Palatino, la zona dei magazzini sul Tevere o il Campo Marzio.
Le città moderne hanno ovviato al problema creando le periferie, ma anticamente non era possibile vivere lontani dalla propria attività, perché in assenza ldi trasporto pubblico e mezzi veloci sarebbe stato impensabile fare i pendolari tra casa e lavoro. A Roma, la questione fu risolta estendendo l’area residenziale non in larghezza, ma in altezza. L’esigenza di sfruttare in maniera ottimale gli spazi edificabili emerse già durante la Repubblica. Tito Livio racconta un episodio avvenuto nell’inverno del 218-217 a.C.: un toro fuggito dal mercato del Foro Boario cercò rifugio in un edificio arrampicandosi per le scale fino al terzo piano. Ciò significa che già a quell’epoca esistevano case a più piani. Due secoli più tardi, Ciceroni si lamentava che Roma, per la singolare posizione delle abitazioni, fosse come sollevata e sospesa nell’aria, con vincoli strettissimi, mentre Capua era tutta armonicamente in pianura. All’epoca di Augusto, la preoccupazione per l’altezza delle costruzioni era tale che il sovrano pose un limite massimo di 70 piedi  (21 metri) per gli edifici privati, pari a circa sei o sette piani. Ma la legge non ne fermò l’ascesa un secolo dopo, Traiano dovette emanare una nuova normativa con limiti ancora più restrittivi, riducendo l’altezza a 60 piedi.



GRATTACIELI, INCENDI E CROLLI. Come spesso accade, gli sforzi dei legislatori furono inutili. Sotto i Severi, nel II secolo, venne costruito quello che può essere considerato il primo “grattacielo” della Storia, l’insula di Felicula, che superava di parecchio i limiti di Traiano. I Regionari (elenchi di monumenti delle quattordici “regioni” in cui era divisa Roma) la collocano nella Regio IX, detta “del Circo Flaminio”, non lontana dalla Colonna di Marco Aurelio, con cui rivaleggiava in altezza. Poiché la colonna è alta 29 mm. è possibile che il caseggiato di Felicula contasse nove o dieci piani. Ciò lo rese subito leggendario, tanto da provocare una sorta di turismo per andare ad ammirare un simile portento. Due secoli più tardi quell’insula era ancora tanto famosa (o miracolosamente in piedi) che lo scrittore cristiano Tertulliano la utilizzò come metafora dell’arroganza degli eretici Valentiniani. Ma quanto erano sicuri questi edifici? Per non mangiarsi troppa superficie di base, sempre scarsa, i costruttori tendevano a realizzare muratori dagli spessori ridotti. Secondo Vitruvio, la legge proibiva che i muri perimetrali superassero il piede e mezzo (circa 45 cm), anche se a Ostia i muri maestri erano spessi fino a 60 cm. A Roma, però, la fame di terreno edificabile spingeva spesso a soluzioni estreme, se non addirittura criminali. La Forma Urbis, la grande pianta di Roma di età severiana, indica che nel II secolo le insulae avevano una superficie di circa 300 o 400 mq. Un muro di 45 cm non era sufficiente a garantire la stabilità di sei o sette piani, men che meno se di spessore inferiore. Se a questo si aggiunge la malafede dei costruttori, che spesso per risparmiare utilizzavano materiali scadenti, non sorprende che il rischio di crolli fosse assai concreto. Di conseguenza, alle case venivano spesso aggiunti rinforzi e sostegni, come testimonia Giovenale: “Viviamo in un’Urve che si sostiene su esili puntelli”.
Anche un edificio ben costruito correva comunque il rischio degli incendi. I caseggiati erano divisi in cenacula (appartamenti), con tramezzi di legno precursori del nostro cartongesso, comodi da spostare per dare un nuovo aspetto agli spazi e ottenere, eventualmente, più appartamenti da affittare. Il pericolo di questi materiali infiammabili, unito all’utilizzo di bracieri per riscaldare o cucinare, era reso più grave dalla mancanza dell’acqua. Benché i Romani fossero maestri nel creare condotte idriche anche in situazioni molto complesse, non esistono prove di un sistema per portare l’acqua ai piani superiori delle abitazioni. Le insulae in cui sono state rinvenute tubature connesse agli acquedotti cittadini potevano, al limite, avere una fontana nel cortile centrale a disposizione degli inquilini, che dovevano portare l’acqua a mano ai piani superiori. Facile immaginare che chi abitava al sesto piano non ne avesse molta voglia, e in caso di incendio non avesse acqua per contrastarlo. Nerone, dopo il grande incendio del 64 d.C., tentò di imporre norme basilari di sicurezza, prescrivendo che ogni edificio avesse muri indipendenti da quelli vicini e utilizzasse materiali ignifughi, come il tufo di Gabii. Fece anche allargare i vicoli, per distanziare le facciate delle abitazioni, ma senza molto successo. I cenacula presentavano anche altre scomodità: legata al problema dell’acqua era, per esempio, la mancanza di servizi igienici. Nelle insulae più eleganti poteva esistere una latrina condominiale, al pianoterra, ma di solito gli inquilini dovevano accontentarsi di contenitori, svuotati a volte, in un grande recipiente per le orine posto fuori dal portone.

Insula e domus. La differenza è già nel nome.

L’origine del termine insula, “isola”, sembra in contrasto con le fonti che ne offrono le fonti antiche e le evidenze archeologiche: un agglomerato brulicante di umanità, tanto strettamente connesso al tessuto urbano da causare incendi tremendi se il fuoco sfuggiva al controllo anche in un singolo appartamento. In realtà, in origine questi edifici svettavano in solitudine, a causa dell’inusuale altezza e per il lato di essere delimitati tutt’intorno da strade o giardini su cui si affacciavano con porte e finestre. Queste caratteristiche allontanavano del tutto l’insula dalla struttura abitativa tradizionale, la domus, sviluppata su un solo piano e quasi invisibile dall’esterno perché circondata da mura senza finestre e orientata verso un giardino o un cortile interno. Mentre l’insula era destinata all’utilizzo simultaneo (e spesso temporaneo) di persone non si conoscevano fra loro, la domus suggeriva già nel nome un “dominio” privato, trasferito per eredità all’interno di un’unica famiglia.

Quante erano e dove.

Gli elenchi di edifici dell’Urbe compilati nel IV secolo di quasi 47 mila insulae: un numero così impressionante che alcuni studiosi lo riferiscono ai singoli cenacula e non agli edifici. Le insulae erano comunque molte. Elio Aristide, nel II secolo, scrive che se le abitazioni fossero portate tutte al livello terreno l’Urbe si estenderebbe fino all’Adriatico. Solo l’insula dell’Ara Coeli, ai piedi del Campidoglio, è giunta fino a noi: databile al II secolo, si stima potesse ospitare circa 380 persone su almeno cinque piani, con botteghe al pianoterra.
A Ostia, parecchie insulae sono sopravvissute fino al primo piano: spesso più eleganti di quelle romane, hanno soffitti affrescati e muri decorati a imitazione dei marmi più pregiati. A Pompei la presenza di simili edifici è assai inferiore, forse perché la diffusione fu bloccata dalla distruzione della città. Case di grandi dimensioni, persino più alte di quelle di Roma, erano presenti, secondo Strabone, anche a Tiro, in Fenicia (l’attuale Libano).

   

CASA, DOLCE MA SCOMODA CASA. I liquami garantivano ulteriori guadagni al padrone dell’edificio, perché il liquido veniva venduto a conciatori e tintori. Analogo metodo di eliminazione, tramite un pozzo nero, avevano le altre deiezioni. Molti inquilini dei piani alti, però, per evitare il trasporto del secchio olezzante fino al punto di raccolta, con il favore della notte lo svuotavano nella strada sottostante. Anche la temperatura domestica era difficile da gestire. Come si è accennato, l’unico sistema di riscaldamento era costituito da bracieri, solitamente di metallo, accesi nelle stanze. Alto era il rischio di morte per esalazioni di anidride carbonica, perché gli ambienti non erano ben areati e per impedire che il caldo sfuggisse, le finestre, prive di vetri, venivano sigillate con sportelli di legno o pelli di animali. Anche per cucinare si ricorreva allo stesso sistema, ma chi se lo poteva permettere preferiva mangiare in una delle tante taverne che servivano cibo pronto a prezzi ragionevoli. Di intimità, ovviamente, neanche a parlarne: attraverso i tramezzi di legno passava qualsiasi rumore.
Data la scarsa comodità, ci si aspetterebbe che queste abitazioni fossero almeno economiche. Tutt’altro: gli affitti erano così esorbitanti che Tolomeo VI, re d’Egitto in esilio a Roma nel 164 a.C. dovette farsi ospitare da un pittore di Alessandria nel suo misero appartamento ai piani alti, non potendo pagarsene uno di tasca propria.
IL VERO PREGIO DELLE INSULAE. Se abitare in un’insula costringeva a un tenore di vita molto modesto, possederne una era tutt’altra faccenda. Questi edifici, infatti, assicuravano rendite fruttuose. Di solito l’insula apparteneva al proprietario del terreno (spesso il costruttore). Questi però, non lo amministrava personalmente. Quasi sempre l’edificio veniva affittato per intero a un’altra persona, che pagava un canone complessivo, affittando poi i singoli cenacula o anche sezione dell’edificio (uno o più piani, oppure gruppi di appartamenti) ad altri locatari. Una volta versato il dovuto al proprietario delle mura, tutto il resto era guadagno. Ecco perché i cenacula erano moltissimi, piccoli, stipati di abitanti e con affitti esosi. Altri profitti potevano venire dalle attività commerciali al piano della strada: si poteva sia riscuotere il normale canone, sia partecipare all’impresa con capitali propri, incassando poi una parte degli utili.
La proprietà urbana garantiva una rendita più alta di quella agricola, anche se era poco onorevole ammetterlo: il patrizio romani, infatti, basava la sua ricchezza sulla terra. In realtà, i ceti abbienti ricavavano vere fortune dalle proprietà immobiliari. Cicerone, ogni anno, si metteva in tasca circa 80mila sesterzi solo con gli affitti delle insulae, equivalenti a una cifra vicina ai 480mila euro, secondo una plausibile valutazione del sesterzio. Ma perché sottoporsi a tante scomodità e rischi concreti a così caro prezzo? In verità, gli inquilini delle insulae non passavano molto tempo in casa. La vita si volgeva per le strade, dove c’erano le terme per lavarsi, taverne per nutrirsi, piazze per portare avanti i propri commerci. Soprattutto, fuori c’era Roma, la città più bella e grande del mondo.

Articolo in gran parte di Francesca Garello pubblicato su Civiltà Romana n. 3 Sprea edizioni – altri testi e immagini da wikipedia.

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