giovedì 29 ottobre 2020

La rivolta della Vandea

 

La rivolta della Vandea: ribelli alla rivoluzione.

La Vandea, regione nell’Ovest della Francia ultracattolica e devotissima al re, osò sfidare Robespierre e compagni. E fu dura domarla.

Henri de La Rochejaquelein alla battaglia di Cholet.[1]
 

Non c’è più nessuna Vandea. È morta sotto la nostra sciabola … Secondo gli ordini che mi avede dato, ho schiacciato i bambini sotto gli zoccoli dei cavalli e massacrato le donne, così che, almeno quelle non partoriranno più briganti”. È con queste terribili parole che il generale François Joseph Westermann, sul finire del 1793, informò il Comitato di Salute Pubblica circa i progressi della situazione in Vandea, regione francese in rivolta contro il governo rivoluzionario. Il messaggio del ‘macellaio della Vandea’, come fu chiamato soprannominato Westermann, giunse dopo una delle vittorie decisive dell’esercito repubblicano sull’armata vandeana, il 23 dicembre 1793, nel mezzo di una delle guerre civili sanguinose che la Franca si ricordi. Ma come si era arrivati a tanto?

Ovest in subbuglio. Al principio del 1793, la Rivoluzione francese attraversava un momento complicato: dopo la decapitazione di Luigi XVI, eseguita il 21 gennaio, Parigi era finita in guerra contro una coalizione formata da potenze del calibro di Gran Bretagna, Olanda, Austria e Prussia. Per difendersi da questa minaccia, il 24 febbraio la neonata Repubblica reclutò a forza 300mila cittadini. Nei dipartimenti dell’Ovest, il malcontento per la leva obbligatoria si trasformò però in aperta ostilità e la regione più inquieta fu proprio la Vandea Militare, posta a sud della Loira e popolata prevalentemente da artigiani e contadini. “In tali territori l’esecuzione del re era stata accolta senza enfasi e la Rivoluzione era vissuta, almeno fino ad allora, senza conflitti”, spiega Alessandro Guerra docente di Storia moderna all’Università La Sapienza di Roma.

La rabbia dei vandeani covava però sotto la cenere, figlia tra l’altro delle pesanti imposizioni fiscali e dell’introduzione della Costituzione Civile del clero, provvedimento con cui nel 1790 l’Assemblea Nazionale aveva costretto i religiosi a giurare fedeltà alla Costituzione. I preti refrattari, cioè coloro che si erano rifiutati di prestare giuramento, furono sostituiti ed esiliati, circostanza che fu vissuta come un attentato alla libertà religiosa dalla popolazione, profondamente cattolica. “In sostanza, la Rivoluzione, con le sue trasformazioni economiche, sociali e religiose, turbava l’universo di valori dei contadini, ne sovvertiva l’ordine e li spaventava”, continua l’esperto. Quando arrivò anche la coscrizione, la misura era ormai colma.

 

Dipartimenti francesi coinvolti nelle Guerre di Vandea

Jean Cottereau e le sue ultime rivolte.

Jacques Cathelineau

Oltre alla Vandea, si opposero alla Repubblica vari territori del Nord-ovest come la Normandia, la Bretagna e il Bas-Maine. Quest’ultima regione fu l’epicentro di una rivolta che vide affiancati contadini e nobili locali, tra i quali spiccò il popolano Jean Cottereau, detti Jean Chouan (da chat-huant, gufo alla francese). E proprio da lui prese il nome questo capitolo della guerra civile, definita chounnente, nel corso della quale i rivoltosi appoggiarono i vandeani, venendo tuttavia sconfitti nella battaglia di Savenay. Nonostante la morte di Cotterau, avvenuta nel 1794, le bande degli Chouas continuarono a dar filo da torcere ai repubblicani fino al 1800.

SU LA TESTA. Quanto ai vandeani, dopo il tracollo del 1796, rialzarono la testa altre due volte. una prima guerra avvenne nel 1799, durando però pochi mesi, mentre la seconda scoppiò nel 1815, a seguito della cacciata di re Luigi XVIII e del rientro di Napoleone dall’isola d’Elba. Bonaparte ebbe ragione dei rivoltosi guidati, tra gli altri, da Louis de La Rochejaquelein, fratello minore di Henri.

 

All’attacco. Nelle campagne gli insorti iniziarono ad armarsi e a scegliere i loro capi, tra cui il venditore ambulante Jacques Cathelineau, chiamato Santo d’Angiò, per il fervore religioso, e Jean Stofflet, guardiacaccia ex militare. Il 15 marzo 1793, i due, alla testa di 15mila uomini, espugnarono la cittadina di Cholet e da quel momento le città della Vandea si sollevarono una dopo l’altra. Gli insorti non lesinarono massacri: l’11 marzo a Machecoul gli abitanti in rivolta uccisero più di 200 tra guardie e cittadini di simpatie repubblicane. La notizia fece il giro della Francia. Qualce giorno dopo, ebbero la meglio sulle truppe rivoluzione nella battaglia di Pont-Charrault. “Di vittoria in vittoria, i vandeani costrinsero Parigi a prestar loro attenzione, e il partito realista e il clero disperso trovarono in loro una speranza di riscossa, mentre l’Inghilterra garantiva aiuti e denaro”, aggiunge l’esperto. Alla testa dei rivoltosi si posero nobili ed ex ufficiali fedeli alla monarchia, che costituirono l’Esercito Cattolico e Reale. Tra questi, spiccarono strateghi come Charles de Bonchamps e François de Charette, detto ‘il re della Vandea’, e giovani come Henri de la Rochejaquelein, ventenne che compensò l’inesperienza con il carisma, infiammando gli animi con parole a effetto: “Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, si mi uccidono, vendicatemi!”.

 


Charles Melchior Artus de Bonchamps

Il bianco e il blu. La rivolta prese una piega politica: contraddistinti dalla coccarda bianca (il colore della monarchia, contrapposto al blu della divisa dell’esercito rivoluzionario), al grido di “Dieu le Roi” (Dio il Re) una minaccia mortale dal Comitato di Salute Pubblica, in procinto di inaugurare il regime del terrore. “La Vandea è il tizzone che divora il cuore della Rivoluzione” , disse il giacobino Bertrand Barère, promotore con Robespierre della linea dura contro i rivoltosi. Così il 1° agosto un decreto della Convenzione ordinò l’abbattimento delle foreste vandeane e la deportazione di vecchi, donne e bambini. Poi fu inviato sul territorio un contingente di 16mila soldati. Gli ordini impartiti all’armata  erano riassunti da una legge del 1° ottobre: “Stermincare tutti i briganti dell’interno”. A prendere alla lettera queste direttive fu l’ufficiale Jean-Baptiste Carrier, tra i protagonisti più efferati della repressione. “Giunto a Nantes, Carrier imprigionò circa 13mila insorti, ma il tribunale rivoluzionario da lui diretto faticava a eseguire le sentenze di morte, e così decise di ricorrere a un inquietante stratagemma: far imbarcare i prigionieri su dei barconi e poi, al largo della Loira, affondare le imbarcazioni. Solo 3mila sopravvissero, gli altri morirono affogati o fucilati”, racconta Guerra.

 

Carta della Vandea Militare

Colonne infernali. Gli scontri tra ‘blu’ e ‘bianchi’ continuavano intanto senza sosta, ma dopo gli iniziali successi, i ribelli avevano cominciato a perdere i loro capi. Il primo a morire, a giungo, era stato Cathelineau, caduto a Nantes, mentre Bonchamps fu ferito a morte, dopo la terribile socnfitta di Cholet (17 ottobre 1793). Quanto a La Rochejaquelein, ritrovatosi allo sbando e con tre contingenti repubblicani alle calcagna, decise di ritirare i suoi uomini oltre la Loira, sperando in un aiuto inglese. la sua armata, decimata, affamata e provata dalle malattie, fu però annientata il 23 dicembre a Savenay, e poco dopo lo stesso La Rochejaquelein perse la vita in un agguato. fu allora che Westermann poté scrivere al Comitato di Salute Pubblica per informarlo che la missione era compiuta. Ma le violenze non erano terminate. Per soffocare gli ultimi focolati di rivolta, furono organizzate speciali colonne mobili dell’esercito dette “colonne infernali” affidate al generale Louis Marie Turreau, pronto a diramare alle truppe istruzione fin troppo chiare: “Tutti i briganti che saranno trovati armi alla mano … saranno passati a filo di baionetta. Si agirà allo stesso modo con le donne, le ragazze e i bambini … neppure le persone semplicemente sospette devono essere risparmiate”.

 


Stemma dell'armata vandeana. Il motto recitava: Dieu le Roi, in francese "Dio [è] il Re".

Tragico bilancio.  I rastrellamenti continuarono fino alla primavera 1794. A Parigi il clima era intanto cambiato: gli artefici del Terrore erano stati condannati a morte, così come molti responsabili dei massacri in Vandea, dal ‘macellaio’ Westermann a Carrier. Terreau finì invece a processo e fu assolto. La pacificazione con i ribelli giunse con il tratta di La Jaunaye del febbraio 1795, ma durò pochissimo. Stavolta furono i vandeani a rompere gli accordi, approffitando dello sbarco di rinforzi inglesi a loro sostegno. La resistenza degli ultimi irriducibili, Charette e Stofflet fu però vana: entrambi finirono giustiziati nel 1796. “In totale, la guerra causò circa 600mila morti, moltissimi dei quali civili, e fu segnata da continue efferatezze da ambo le parti”, conclude Guerra. Negli anni seguenti la regione avrebbe conosciuto nuovi conflitti, eppure, nel luglio 1796, fu con enorme soddisfazione che il neonato Direttorio dichiarò la fine delle insurrezioni dell’Ovest. La ‘bianca’ Vandea era stata domata.

 

Articolo di Massimo Manzo pubblicato su Focus Storia n. 150 – altri testi e immagini da Wikipedia.  

domenica 25 ottobre 2020

Gerasa: la storia della Siria romana.

 

Gerasa: la storia della Siria romana.

Fondata nell’odierna Giordania dai successori di Alessandro Magno, Gerasa fu un centro di confluenza della cultura semitica e di quella ellenistica. Dopo la conquista romana divenne una delle principali città della Decapoli.

 

La Via Maris (viola), la Via Regia (rosso) e altre antiche vie di commercio del Vicino Oriente antico, ca. 1300 a.C.

In Giordania che ha una strada più di quattromila anni. Se ne parla nell’Antico testamento, ma la sua esistenza può essere fatta risalire all’età del bronzo. Si chiama via Regia non perché la sua realizzazione sia attribuita a qualche monarca specifico, ma per la sua età e importanza. Questo cammino collegava il golfo di Aqaba, nel mar Rosso, con Damasco in Siria, attraversando da sud a nord la regione della Transgiordania. Si trattava di un’area di limitato interesse: le terre a est della valle del Giordano e del Mar Morto non erano altro che una successione di altopiani boscosi seguiti da un immenso deserto. Nessun grande impero era ma i sorto in quella zona.

Con un’orografia accidentata e una limitata disponibilità d’acqua dolce, la Transgiordania non aveva molto da offrire all’agricoltura. Ma nonostante la povertà di risorse, la regione era molto ambita per la sua posizione , in quanto si trovava al centro di un crocevia straordinario. A oriente si estendeva la Mesopotamia, a sud-ovest la valle del Nilo e a sud la penisola araba, attraversata dalle carovane dei nabatei (i signori del deserto) cariche d’incenso dello Yemen, perle del mar Rosso e spezie dell’India. Uno dei modi migliori per percorrere questo asporto territorio era seguire l’antica via Regia.

Intorno al IX secolo a.C. la Transgiordania era abitata da alcune popolazioni tribali dedite all’allevamento, come gli ammoniti e i moabiti, spesso citati nella Bibbia. Ma l’intera regione era interessata da profonde trasformazioni. L’attività carovaniera si espanse grazie all’addomesticamento del cammello, e i nabatei cominciarono a spostarsi sempre più verso  nord. Una delle loro capitali, Petra, sorgeva lungo la via Regia, inoltre alla fine del IV secolo a.C. il Vicino Oriente entrò a far parte dell’impero del re macedone Alessandro Magno e dopo la sua morte, avvenuta nel 321 a.C., fu spartito tra i suoi generali.

 

il sito visto dall'alto. 

Cronologia: Greci, ebrei e romani.

334 a.C.

La tradizione attribuisce la fondazione di Gerasa a Percidda, generale di Alessandro.

102-78 a.C.

Il re di Giudea Alessandro Ianneo conquista Geresa sconfiggendo il tiranno Teodoro di Filadelfia.

63 a.C.

Pompeo assoggetta la regione e Gerasa viene inglobata nella provincia romana di Siria.

106 d.C.

Traiano annette il regno nabateo, la cui capitale era Petra, e avvia a Gerasa un grande programma edilizio.

129 d.C.

L’imperatore Adriano visita la città. Gerasa raggiunge il suo massimo splendore.

 

 
la Decapoli. 



L’origine mitica di Gerasa. La Transgiordania divenne un territorio conteso tra l’Egitto tolemaico e l’impero seleucide, entrambi governati da discendenti dell’aristocrazia macedone per duecento anni la cultura greca si diffuse nella regione, mescolandosi con le tradizioni semitiche e la lingua aramaica e favorendo così lo sviluppo di un’epoca di splendore: l’ellenismo. Gli antichi regni ammoniti e moabiti cedettero il posto a un gruppo di prospere città-stato a carattere commerciale e di cultura ellenistica, una formula che meglio si adattava all’aspra geografia della zona e al crescente flusso di carovane. Una di queste città era Gerasa. I suoi abitanti amavano raccontare una storia curiosa sull’origine del nome. Affermavano con orgoglio che il toponimo Gerasa era dovuto al fatto che la città era stata fondata dai veterani (gerenontes) delle campagne di Alessandro. Dopo aver combattuto contro i persiani questi soldati coraggiosi sarebbero stati ricompensati con degli appezzamenti di terra sulle colline che separano la valle del Giordano dal deserto. Questa storia è sicuramente un falso, che come tanti miti fondativi mirava ad accrescere il prestigio della località. Sembra che il nome originale della città non fosse Gerasa, toponimo semitico, ma Antiochia ad Chrysorrhoma (Antiochia sul fiume d’oro), che rimanderebbe la sia fondazione a qualche re seleucide, forse Antioco IV (che regnò dal 175 al 164 a.C.). La nascita della città si inserì probabilmente in un contesto di dispute territoriali con l’Egitto, e vide la fusione tra i coloni greci e la popolazione di un insediamento locale abitato fin dal Neolitico. Questa prima Gerasa, cinta di mura e situata su una collina vicino a un corso d’acqua, cominciò rapidamente a svilupparsi. Come il resto delle nuove città-stato della Transgiordania, Gerasa era un’entità politica indipendente, gelosa della sua autonomia. Probabilmente aveva stretti rapporti con altre località della regione, come Filadefia (l’attuale Amman, così chiamata dal nome del re egizio Tolomeo Filadelfo), che affidò al tempio di Zeus di Gerasa la custodia del proprio tesoro comunale. Era anche un importante centro commerciale e aveva una popolazione multietnica: coloni greci, autoctoni aramei e mercanti nabatei si mescolavano a commercianti di origine più esotica – persiani, parti e indiani. Queste aree di provenienza appartenevano alla sfera ellenistica: molte erano state fondate da Alessandro (o per lo meno si vantavano di ciò) o da uno dei suoi successori; il greco e l’aramaico erano usati come lingue comuni, e i monumenti erano costruiti secondo canoni greci. La benestante gioventù locale frequentava probabilmente il ginnasio e l’efebion, due istituzioni destinante all’educazione fisica e morale dei ragazzi, mentre i genitori facevano sfoggio della loro ricchezza nelle prime file del teatro. Ma un esame più attento rivela la sopravvivenza di costumi più arcaici. Nelle iscrizioni i nomi greci si alternano a quelli semitici. Per l’orrore dei più ellenizzate la circoncisone rimase una pratica comune, e sotto i pomposi riti dedicate alle divinità ellenistiche sopravviveva il culto degli antichi dèi semitici.

 

Nasce la Decapoli. L’impero seleucide scomparve nel I secolo a.C. e i territori della Transgiordania finirono nelle mani della repubblica romana. A portare a termine la conquista fu Pompeo, che riorganizzò politicamente l’intera regione e nel 63 a.C. raggruppò le città dell’area più settentrionale della via Regia in una lega dipendente dalla provincia di Siria e amministrata da un prefetto romano. La coalizione fu denominata Decapoli (dieci città). curiosamente, Plinio il Vecchio riferisce nel suo Naturalis Historia che, a dispetto del nome, c’erano opinioni discordanti in merito a quali e quante città facessero effettivamente parte della lega. Plinio stabilì che la Decapoli iniziava a Damasco e terminava a Filadelfia, e ne facevano parte località come Scitopli (a ovest del Giordano). Gadara, Ippo, Dio, Pella, Canata. Rafana e, naturalmente, Gerasa.

 

Una città cosmopolita.


La porta meridionale

L’incorporazione nei domini romani inaugurò il periodo di maggior splendore di Gerasa. La città visibile oggi fu in gran parte costruita in Età alto imperiale (fine del I secolo a.C.-II secolo d.C.). l’enclave era molto prospera: aveva miniere di ferro ed enormi potenziale agricolo. Si estendeva su due colline, tra le quali scorreva un fiume (oggi poco più che un ruscello), ed era circondata da un territorio fertile, ricoperto di ulivi, alberi da frutto e colture di ogni tipo. Gerosa era situata in un punto chiave della via Regia, lungo il tratto che collegava Petra con Damasco. Questo carattere carovaniero si ritrova nell’assetto urbano dell’insediamento: l’ingresso principale era costituito dalla porta meridionale, che conduceva direttamente a una grande piazza e al cardo maximus. Questo impressionante viale, lungo 800 metri e fiancheggiato da 500 colonne, attraversava l’intera città da nord a sud e fu modificato in varie occasioni. La sua costruzione risale al I secolo d.C., la stessa epoca in cui fu creato il foro ovale. Vi transitavano presumibilmente veicoli di ogni tipo, che potevano invertire la direzione all’altezza dei due tetrapili, delle specie di rotatorie monumentali che connettevano il cado con i decumani (le strade che attraversano la città a est a ovest).

L’arco di Adriano.



Le città della decapoli si trovavano in una pericolosa zona di confine tra il regno nabateo a sud e il gigantesco impero parto a est. La città di Gerasa era protetta da una cinta muraria di quasi 3,5 chilometri di lunghezza con 101 torri e cinque porte, e ospitava un importante presidio militare. Nel 106 d.C. l’imperatore Traiano conquistò il regno nabateo e un decennio più tardi inflisse una sonora sconfitta all’impero parto. Al termine delle operazioni militari Traiano riorganizzò il territorio, riunendo il regno nabateo e la Decapoli nella provincia romana d’Arabia. La via Regia, che costituiva la spina dorsale della nuova provincia, venne selciata e assunse il nome di via Traiana Nova. Parallelamente fu intraprese la costruzione di una rete stradale che collegava le città della Decapoli. I lavori si protrassero a lungo, ed erano ancora in corso quando l’imperatore Adriano visitò la città e vi trascorse parte del’’inverno 129-130, facendo di Gersasa il centro dell’impero per alcuni mesi. Adriano volle commemorare il suo soggiorno erigendo un enorme arco trionfale davanti all’accesso meridionale della città. Il monumento fu costruito fuori dalle mura, vicino all’ippodromo, e probabilmente segnava il limite di un progetto di espansione esterna della località.

Il teatro meridionale.

La scena del teatro meridionale


A Gerasa c’erano due teatri. Quello meridionale è forse il più bello di tutta la Siria. Entrambi gli edifici erano molto frequentati dai visitatori in occasione delle feste religiose ed erano un simbolo dello splendore della città. Il teatro era uno dei principali svaghi del mondo ellenistico, non solamente per gli spettacoli che offriva, ma anche perché rappresentava un’occasione per mettersi in mostra.

Il teatro meridionale sorgeva nei pressi del tempio di Zeus. L’altro, di dimensioni inferiori, era situato nella parte settentrionale della città. Con una capacità di cinquemila spettatori, il teatro meridionale fu costruito alla fine del I secolo d.C., durante il regno dell’imperatore Domiziano, e fu poi decorato e ristrutturato dai suoi successori, Traiano e Adriano. La tribuna, dove gli spettatori sedevano in base al loro status sociale, era uno dei luoghi prediletti dai cittadini per sfoggiare potere e ricchezza. Non sorprende che una parte importante del costo del teatro di Gerasa fosse stata sostenuta da privati, che si assicuravano così i posti migliori e un ingresso esclusivo attraverso le porte (vomitoria) che si apriva accanto al palcoscenico. La plebe dal canto suo doveva accedere al complesso salendo sulla terrazza del tempio di Zeus e percorrendo il passaggio che collegava il teatro alla cinta muraria.

Il foro ovale.



L’ingresso di Gerasa era un complesso spettacolare formato dal foro ovale dal tempio di Zeus e dal teatro meridionale. Questo gruppo di edifici accuratamente collegati tra loro ben esemplifica un’arte in cui le città ellenistiche eccellevano: costruire prospettive monumentali. Ai piedi della collina si trovava l’enorme foro ovale costruito nel I secolo d.C., probabilmente il centro della vita economica e civica di Gerasa. Aveva una disposizione accuratamente studiata. La sua forma ellittica non solo sfruttava al meglio l’avvallamento tra due collinette, ma collegava visivamente l’asse del tempio di Zeus con quello del Cardo maximus.

Le sue dimensioni imponenti e la magnifica pavimentazione realizzata con pietre disposte in forma concentrica gli conferivano un aspetto solenne, per quanto vi si svolgessero anche le normali attività quotidiane. Il foro era dominato dal grande tempio di Zeus, che era stato fatto erigere da Marco Aurelio (161-180). La sua struttura a due terrazze lo rendeva visibile da ogni punto della città e rievocava l’aspetto degli antichi templi semitici.  

Il tempio di Artemide.


Le undici colonne del tempio di Artemide


La costruzione del tempio di Artemide iniziò nel 150 d.C., sotto il regno di Antoniono Pio. La dea della caccia era la patrona di Gerasa e gli abitanti della città vollero onorarla dedicandole uno dei santuari più imponenti del Vicino Oriente. L’ingresso principale del complesso si trovava sul cardo maximus, un portico sorretto da quattro enormi colonne corinzie fiancheggiava l’accesso alla scalinata che conduceva in cima alla collina. La prima terrazza ospitava un altare per i sacrifici: la seconda, il tempio e il suo recinto sacro, il temenos. Chi lasciava il trambusto della strada per affrontare la fatica della salita era ricompensato dalla silenziosa contemplazione di un edificio delicato ed elegante, circondato da colonne corinzie e rivestito di marmo.

Il santuario è anche una testimonianza dell’inizio della decadenza di Gerasa, che andò di pari passo con quella dell’impero romano. Il progetto era così ambizioso che non poté essere portato a termine. Accanto al tempio si possono ancora vedere i dispositivi idraulici utilizzati per tagliare le pietre durante la fase di costruzione. In epoca bizantina sorse nell’aerea un laboratorio di ceramica: con l’arrivo dei musulmani le mura di una fortezza. Quando all’inizio del XII secolo il re crociato Baldovino II di Gerusalemme conquistò Gerasa, questa era ormai ridotta a una cittadella in rovina.

 

Articolo di Eva Tobalina Oraà dell’Università internazionale della Rioja pubblicato su Storica National Geographic n. 120 – altri testi e immagini da Wikipedia.

martedì 20 ottobre 2020

Operazione Archery Attacco al Reich.

 

Operazione Archery

Attacco al Reich.

Il radi contro l’isola norvegese di Vagsoy con l’intento di alleggerire il peso sul fronte russo fu un grande successo britannico e anche un ottimo banco di prova per saggiare le difese tedesche in vista di futuri sbarchi nel cuore della fortezza nazista.

 


Commando britannici durante il raid su Vågsøy. L'uomo a sinistra impugna un Thompson M1928, arma apprezzata da questi reparti per la sua potenza.

Per le potenze alleate l’autunno del 1941 rappresentò senza dubbio una delle fasi più drammatiche dell’intero Secondo conflitto mondiale. I bollettini di guerra, provenienti dai più disparati teatri d’operazioni, lasciavano ben poco spazio all’ottimismo: l’inarrestabile avanzata delle armate dell’Asse era sul punto di dare una svolta senza ritorno al corso della guerra. Ma era il fronte russo a preoccupare maggiormente: con l’Operazione Barbarossa in pieno svolgimento, sembrava che l’Armata Rossa fosse ormai sul punto di capitolare, con conseguenze inimmaginabili sul futuro andamento del conflitto. Le richieste d’aiuto di uno Stalin sempre più in difficoltà diventavano giorno dopo giorno sempre più pressanti. E fu proprio in questo complesso frangente che l’allora designato comandante per le operazioni Lord Mountbatten, fu indotto, in accordo con il primo ministro Winston Churchill, a studiare un ambizioso piano d’attacco contro l’isola di Vagsoy di fronte alla costa norvegese, tra le città di Bergen e Trondheim. Un’operazione anfibia che avrebbe dovuto mettere in allarme l’intero settore tedesco nell’area e far affluire il maggior numero possibile di forze nemiche, distogliendole dal fronte sovietico. Ma la missione avrebbe avuto anche un secondo fine: saggiare la capacità di reazione dei nazisti e capire fino a che punto l’esercito britannico fosse in grado di portare a termine sbarchi di simile complessità. Un compito per nulla agevole se si considera che un precedente piano, in più grande stile, finalizzato ad attaccare  Trondheim, era stato cancellato all’ultimo minuto proprio per le grandi difficoltà logistiche riscontrate. La nuova operazione, chiamata in codice Archery, prevedeva infatti per la prima volta l’impiego simultaneo di tutte le tre forze armate (esercito, marina e aviazione) per un assalto contro una costa ben difesa. Non suonano per nulla avventate quindi le parole di Mounthbatten alla vigilia della missione.

 


Alcuni dei tedeschi catturati vengono scortati dai commando.

                                           Il ruolo strategico della Norvegia.

La campagna di Norvegia (il primo scontro terrestre tra Alleati e Terzo Reich) combattuta tra il 9 aprile e il 10 giugno del 1940 e conclusosi con l’occupazione tedesca del Paese, fu senza ombra di dubbio il risultato di fattori strategici primari. Non si trattava di un teatro di operazioni minore, bensì essenziale per la futura guerra in Europa. E di questo Hitler, quando prevenne l’attacco inglese deciso da Churchill, era perfettamente conscio. La Germania, infatti, per poter alimentare il suo sforzo bellico, dipendeva in gran parte dal ferro svedese, che arrivava in patria via mare dai porti norvegesi, da quello di Narvik in particolare. Solo assicurandosene il controllo sarebbe stato possibile garantire all’industria tedesca il minerale necessario per continuare il programma di produzione di armamenti. E da questa eventualità gli inglesi furono subito allarmati, vista l’impossibilità di mettere in pratica il Progetto Catherine, ovvero il piano per assicurarsi il controllo del Mar Baltico. Ma il peso strategico della Norvegia era garantito anche dalla possibilità di occupare preziosi basi aeree (come per esempio la Sola Air Station a Stavanger), essenziali per il dominio dell’Atlantico che si stava profilando: i velivoli da ricognizione tedesca infatti potevano controllare un ampio settore dell’oceano evitando d’incorrere nell’attività dei caccia della RAF. Nei fiordi norvegesi furono ricavate importanti basi di U-Boot e trovarono rifugio grandi navi da guerra prima di avventurarsi nell’Atlantico per eludere il blocco navale nemico. Basti ricordare a tale proposito l’episodio della corazzata Tirpitz che rimase a lungo nascosta tra i fiordi norvegesi e rappresentò una vera spada di Damocle sui convogli alleati diretti a Murmansk.


La Tirpitz capovolta nel fiordo di Tromsø

Ma gli sforzi per assicurarsi il contro del Parse furono anche causa di un enorme dispendio di risorse: vi furono stanziati oltre 400mila uomini, che sarebbero rimasti l’intero conflitto praticamente inoperosi. E questo a discapito di altri fronti in forte difficoltà

 

Una pianificazione perfetta. Era necessario valutare ogni minimo dettaglio per non incappare in un fallimento che avrebbe potuto dare un colpo definitivo al morale dell’esercito britannico. La scelta del bersaglio fu ponderata con estrema attenzione con la chiara finalità di provocare il maggiore numero di danni possibili alle installazioni tedesche sull’isola e non correre il rischio di essere sopraffatti dall’afflusso di rinforzi. In tale prospettiva l’isola di Vagsoy e il piccolo scoglio di Maaloy, a poca distanza, fornivano tutte le garanzie del caso. Fu possibile appurare tramite la ricognizione aerea e la presenza di collaborazionisti sul posto, che le numerose installazioni presenti erano difese da alcuni reparti della 181a Divisione di fanteria della Wehrmacht, circa duecento uomini, e un solitario carro armato. Forze relativamente esigue che avrebbero comunque potuto contare sulla protezione aerea fornita da quattro squadriglie di caccia e bombardieri (poco meno di quaranta velivoli) dislocati nelle estreme vicinanze. Reparti però ben motivati che se messi in condizioni avrebbero potuto ostacolare seriamente le operazioni. Era pertanto necessario disporre di un contingente d’assalto ben addestrato e affinare l’intesa con marina e aviazione per poter garantire la necessaria copertura durante l’iniziale fase di attacco e il successivo sganciamento. Nulla poteva essere lasciato al caso perché il minimo errore, la più piccola distrazione, avrebbe potuto far precipitare gli eventi. Fu stabilito che il raid sarebbe stato condotto da truppe britanniche e norvegesi: 51 ufficiali e 525 fra soldati semplici e sottoufficiali, selezionati tra le migliori forze disponibili: uomini del Commando numero 2 e 3, esperti in esplosivi del 6, ufficiali sanitari del 4 e infine una dozzina di membri della Kompani Linge (unità composta da soldati norvegesi fuggiti dal Paese dopo l’occupazione tedesca) che avrebbero dovuto fungere da guide e interpreti. Questa forza terrestre si sarebbe avvalsa del supporto di una task force della Royal Navy costituita dall’incrociatore HMS Kenya, dai cacciatorpediniere HMS Onslow, Oribi, Offa e trasporto truppe (HMS Prince Charles e il Prince Leopold). La copertura aerea sarebbe stata fornita invece da bombardieri leggeri o medi del tipo Blenheim e Hampdens e caccia bimotori Beaufighter, messi disposizione dalla Royal Air Force (RAF). Per poter raggiungere tutti gli obiettivi prefissati fu deciso che la forza di incursori avrebbe dovuto agire su bersagli già stabiliti a tavolino per evitare che si potessero verificare fraintendimenti o interferenze. Fu pertanto suddivisa in cinque unità con i seguenti compiti: il Gruppo 1 avrebbe messo in sicurezza l’area di Halnoesvik; il Gruppo 2 attaccato il centro abitato di South Vagsoy; il Gruppo 3 neutralizzato la batteria costiera, i depositi di munizioni e le caserme sull’isolotto di Maaloy; e il Gruppo 5, una volta sbarcato nella costa più a nord dell’isola, avrebbe dovuto tagliare ogni via di comunicazione e impedire ai rinforzi nemici di dare manforte alle truppe dislocate più a sud. il Gruppo 4 sarebbe rimasto in posizione in attesa come riserva. I cinque reparti furono affidati a ufficiali navigati, con alle spalle una certa esperienza di teatri operativi, così suddivisi in base alla successione elencata sopra: il tenente Clement, uk tenente colonnello John Durnfor-Slater, il maggiore Jack Churchill, il capitano Birney e per finre il capitano Hooper.

 

La Kompani Linge.


 Martin Linge, l'ufficiale norvegese che formò ed addestrò il reparto nel 1941.



L’esigenza strategica d’intralciare l’attività delle truppe d’occupazione tedesche in Norvegia fu affrontata dagli Alleati favorendo la formazione di un’unità militare speciale composta esclusivamente da uomini provenienti dal Paese e fuggiti in Inghilterra dopo la conquista nazista del giugno 1940. Fu pertanto costituita la Lingekomaniet (chiamata anche Norwegian Indipendent Company 1 o Linge’s Company) sotto l’organizzazione del SOE (Special Operations Executive), l’organismo segreto voluto direttamente dal primo ministro Winston Churchill per operazioni dietro le linee nemiche. Uomini altamente addestra e motivati, che si specializzarono nella conduzione di attacchi e sabotaggi in tutta la Norvegia, in particolare lungo le zone costiere, fornendo supporto militare alla resistenza e mettendo in piedi un fatta rete di informatori. Attività che si sarebbero dimostrate estremamente preziose nel corso del conflitto. La Kompani Linge nel 1941 fu affidata al capitano Martin Linge e sottoposta a un pesante addestramento che implicava la capacità di destreggiarsi in operazioni aerotrasportate, anfibie e nell’uso di esplosivi. Il battesimo di fuoco avvenne con l’Operazione Claymore, nel marzo 1941, contro le isole Lofoten, ma il vero salto di qualità fu l’Operazione Archery, nella quale si registrò la morte proprio di Linge. A discapito delle perdite patite, l’organico dell’unità non soffrì grazie al continuo afflusso di nuove reclute. Un’altra missione che la consacrò alla stira è stata il celebre raid di Telemark, la complessa operazione finalizzata al sabotaggio degli impianti della Norsk Hydro, azienda a cui era stata affidata al produzione di acqua pesante nell’ambito del programma di ricerca atomica nazista. In ambito spionistico fu possibile organizzare una complessa rete di operatori radio clandestini in grado di fornire informazioni sulla disposizione delle forze di occupazione ei loro spostamenti. Nel complesso fecero parte dell’unità oltre cinquecento uomini e i caduti furono cinquantasette.

 

Commandos all’attacco. Alla Vigilia di Natale del 1941, dopo un lungo e meticoloso addestramento, la squadra navale al completo salpò dalla base di Skapa Flow (Orcadi) poco dopo le dieci di sera, arrivando alle isole Shetland, posizionate a metà strada tra la Gran Bretagna e la Norvegia, poco dopo l’una del pomeriggio. Se fino a quel punto il tempo si era mantenuto buono, un’improvvisa tempesta si abbatté sul convoglio, provocando forti danni alle due unità di trasporto. L’Ammiragliato fu pertanto costretto a posticipare l’ultima parte della traversata di circa 24 ore. Solo dopo aver effettuato le riparazioni necessarie, le unità ripresero il mare, arrivando di fronte alle coste nemiche alle prime ore del 27 dicembre. La sorpresa fu totale: nessuna unità navale nemica si profilò all’orizzonte e non vi furono sorvoli di velivoli da ricognizione. Fu pertanto dato ordine alla forza d’assalto di preparare armi ed equipaggiamenti e salire sui mezzi da sbarco che nel frattempo venivano messi in mare. Alle 8.50 le principali unità da guerra incominciarono un pesante cannoneggiamento delle difese costiere tedesche e dei centri nevralgici dell’isola, alcune squadriglie di bombardieri del Bomber Command decollati dalle basi aeree di Wick in Scozia e dalle isole Shetland. alcuni Hampden a volo radente provvidero a sganciare fumogeni e bombe al fosforo per creare una cortina di protezione che celasse la navigazione dei mezzi da sbarco, mentre nel contempo i Beaufighter fornivano protezione aerea nel caso comparissero velivoli della Luftwaffe tedesca. Come da copione, e senza che si verificassero particolari incidenti, il Gruppo 1 toccò terra nella posizione assegnata, e si prodigò per mettere in sicurezza l’area di Halnoesvik, dopodiché si mise in cammino per ricongiungersi con il Gruppo 2, anch’esso in perfetta tabella di marcia. Il compito più delicato, quello del Gruppo 3, fu portato a termine con relativa tranquillità: bastarono poco più di venti minuti per mettere a tacere la batteria costiera e la guarnigione dislocata sull’isolotto di Maaloy. Anche se in realtà gran parte del lavoro era già stato fatto dai cannoni dell’incrociatore Kenya con il pesante bombardamento avvenuto venti minuti prima dello sbarco sulla spiaggia dei 105 uomini della forza d’assalto. Pertanto, dopo la resa delle forze tedesche scampate, furono portate a termine le ultime operazioni di demolizione delle infrastrutture militari ancora utilizzabili. Dopodiché gli uomini del maggiore Jack Churchill, dopo aver attraversato lo specchio di mare che li divideva dal continente, distrussero la fabbrica d’olio di aringhe in località Mortenens. Nel complesso, sebbene fosse stata presa completamente di sorpresa, la fanteria tedesca, dopo un primo momento di disorientamento, reagì con prontezza e si dimostrò un osso duro da eliminare. E i problemi più grossi furono causati proprio alla principale forza d’attacco, il Gruppo 4, al comando di Slater, da un’accanita resistenza nel villaggio di South Vagsoy per mano di una cinquantina di fanti tedeschi, che si difesero fino all’ultimo uomo combattendo casa per casa. Nella furibonda sparatoria che si protrasse per varie ore si registrarono gravi perdite tra i britannici. Alle 10,20 anche il Gruppo 5, sbarcato nella parte centro-nord dell’isola, sotto la protezione dei cacciatorpediniere HMS Oribis e Onslow, si prodigò per impedire l’afflusso di rinforzi tedeschi che stavano cercando di farsi strada verso il lato meridionale dell’isola. Liberi di muoversi per l’assenza di truppe nemiche, scavarono numerose buche sull’unica via di comunicazione per renderla inagibile ai mezzi di trasporto. Nel corso dell’operazione furono localizzate anche alcune navi mercantile all’ancora e un peschereccio armato, che fu subito assaltato nella speranza potesse contenere documenti riservati o codici di trasmissione radio. Dopo aver portato a termine anche questo compito, il gruppo si diresse verso il villaggio di South Vagsoy, dove la resistenza nemica non era stata ancora neutralizzata.

Nonostante tutto si procedette a far saltare diverse infrastrutture civili e militari: la centrale elettrica, la stazione radio, le difese costiere e il vicino faro. Nel complesso il raid si protrasse fino alle 13,45, prima che la breve luce invernale artica lasciasse spazio alle tenebre.

British Commandos.

Lo stemma delle Combined Operations


A partire da  giugno 1940, a seguito della catastrofica ritirata di Dunkerque e del pessimo stato in cui versavano le forze britanniche, il primo ministro inglese Winston Churchill volle a tutti i costi che si provvedesse alla costituzione di reparti d’assalto per poter operare nei territori occupati dai tedeschi. Soprattutto per due ragioni: ostacolare l’attività nemica e ridare morale ad un esercito fino ad allora in grande difficoltà. Si rivelò una mossa azzeccata, capace di avere un forte impatto sull’andamento delle operazioni militari. Se inizialmente queste unità erano costituite da volontari provenienti dal resto dell’esercito, a lungo andare, e in virtù dei successi ottenuti, si trasformarono in reparti autonomi impiegati da tutte le forze armate britanniche (non mancarono anche volontari di nazionalità straniera). Alla fine del conflitto si contavano oltre tenta unità con compiti distinti e una lunga storia di successi alle spalle. Nel 1941 9 commando subirono una profonda riorganizzazione: ogni battaglione della Special Service Brigade era costituito da due unità, divise in sei gruppi forti di tre ufficiali e sessantadue uomini, effettivi pensati per poter essere imbarcati sui nuovi mezzi anfibi denominati LCA. Fu solo a partire dal 1942 che vennero istituiti anche i primi reparti della Royal Navy: nove unità di Royal Marines con il compito di aprire teste di ponte e difenderle nel corso di operazioni anfibie. E per ultima anche la

RAF si dotò di Royal Air Force Commando, per operazioni di cattura e controllo di aeroporti militari. Il nucleo della forza terrestre che condusse l’assalto all’isola di Vagsoy, proprio nel corso dell’Operazione Archery, era costituito essenzialmente da uomini provenienti dal Commando numero 2 e 3, due delle più titolate unità, che si sarebbero distinti nel corso dell’intero conflitto operando nei più disparati teatri operativi (sbarchi in Sicilia e in Normandia compresi.

Landing craft assault.


LCA britannico durante lo sbarco in Normandia

La riuscita dell’operazione Archery si basava sull’attacco anfibio in grande stile con l’impiego di una cospicua forza terrestre che avrebbe dovuto essere sbarcata direttamente sulle spiagge nemiche. Non essendo possibile prevedere l’impiego di unità di grandi tonnellaggio per gli ovvi limiti di pescaggio, furono progettati mezzi speciali a sfondo piatto, denominati LCA (Landing CRAF Assault). Con un dislocamento di circa 10 tonnellate e una propulsione fornita da due motori a benzina da 130 cavalli vapore potevano raggiungere i sette noti di velocità; prestazioni che li rendevano simili ai contemporanei LCVP statunitensi. Erano stati ideati specificatamente per operazioni di questo tipo e potevano condurre sull’obbiettivo trentacinque soldati perfettamente equipaggiati e circa 350 chilogrammi di carico a cui si dovevano aggiungere i quattro uomini d’equipaggio e un armamento leggero (di norma mitragliatrici Bren o Lewis); alcuni modelli potevano alloggiare due mortai. L’attacco all’isola di Vagsoy fu una sorta di battesimo del fuoco che, in virtù del successo, sarebbe stato replicato nel corso dell’intero conflitto, tanto da far diventare gli LCA un mezzo standard per questo tipo di operazioni. Il loro impiego doveva essere pianificato con largo anticipo e l’avvicinamento alla costa era preceduto da un pesante fuoco di sbarramento per eliminare possibili ostacoli e mettere a tacere l’artiglieria avversaria. Per effetto della blindatura leggera infatti gli LCA potevano sopportare il fuoco di armi leggere, ma erano impotenti se bersagliati dal fuoco di pezzi di grosso calibro o mortai.

 

Un successo oltre le aspettative. Per l’Alto Commando alleato l’Operazione Archery fu un notevole successo che in qualche misura ridava la morale alle truppe e dimostrava la validità di questo tipo di missioni coordinate: aviazione, marina ed esercito avevano collaborato egregiamente senza che si verificassero imprevisti di sorta. Un ottimo inizio per future operazioni in grande stile. Il prezzo pagato fu comunque abbastanza alto: venti commando risultarono uccisi e altri cinquantasette feriti. Tra le perdite più gravi si annoverava il capitano Martin Linge, comandante della Kompani Lige, il cui ruolo fu essenziale  e difficilmente sarebbe stato rimpiazzato in breve tempo. Anche la RAF registrò l’abbattimento di undici velivoli (sette Blenheim, due Hampden e due Beaufighter) con la morte di trentun membri d’equipaggio, mentre per la Royal Navy furono tutto sommato leggere: due caduti e una mezza dozzina di feriti e non si registrarono particolari danni al naviglio. Un ulteriore dato positivo fu l’arruolamento di settantasette civili norvegesi che decisero di unirsi agli Alleati, andando ad ingrossare il contingente delle forze norvegesi libere. Per i tedeschi, colti totalmente di sorpresa, si registrarono centoventi caduti e un centinaio di prigionieri. Per non parlare delle gravi perdite in termini di infrastrutture civili (fabbriche di vario genere, centri radio, stazioni elettriche e così via), militari (una batteria costiera, caserme, depositi di munizioni e carburante) e naviglio per quasi 15mila tonnellate.

Al lungo elenco vanno aggiunti anche quattro veicoli della Luftwaffe. Ma sicuramente il colpo più duro fu quello psicologico: l’attacco si rivelò un vero fulmine a ciel sereno che allarmò l’Alto comando tedesco e fece andare su tutte le furie Hitler. Come conseguenza, nel tentativo di evitare il ripetersi di simili raid, il Fuhrer decise di dirottare in Norvegia altri 30mila uomini e una discreta forza navale, sguarnendo o indebolendo altri teatri di combattimento. Si è calcolato che alla fine del conflitto le forze tedesche presenti in Norvegia ammontassero a quasi 440mila unità: un grande dispendio di risorse per mantenere un fronte che nel proseguo si dimostrò decisamente poco attivo. L’intero corso dei combattimenti fu documentato da un’unità fotografica che immortalò gli eventi, fornendo alcune delle più interessanti e drammatiche foto del conflitto. E furono proprio queste testimonianze di prima mano a diventare un incredibile arma propagandistica che fu utilizzata per ridare morale a una nazione ormai sull’orlo di una crisi di nervi.

 

Articolo di Enrico Cattapani pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 6. Altri testi e immagini da Wikipedia.

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