martedì 20 ottobre 2020

Operazione Archery Attacco al Reich.

 

Operazione Archery

Attacco al Reich.

Il radi contro l’isola norvegese di Vagsoy con l’intento di alleggerire il peso sul fronte russo fu un grande successo britannico e anche un ottimo banco di prova per saggiare le difese tedesche in vista di futuri sbarchi nel cuore della fortezza nazista.

 


Commando britannici durante il raid su Vågsøy. L'uomo a sinistra impugna un Thompson M1928, arma apprezzata da questi reparti per la sua potenza.

Per le potenze alleate l’autunno del 1941 rappresentò senza dubbio una delle fasi più drammatiche dell’intero Secondo conflitto mondiale. I bollettini di guerra, provenienti dai più disparati teatri d’operazioni, lasciavano ben poco spazio all’ottimismo: l’inarrestabile avanzata delle armate dell’Asse era sul punto di dare una svolta senza ritorno al corso della guerra. Ma era il fronte russo a preoccupare maggiormente: con l’Operazione Barbarossa in pieno svolgimento, sembrava che l’Armata Rossa fosse ormai sul punto di capitolare, con conseguenze inimmaginabili sul futuro andamento del conflitto. Le richieste d’aiuto di uno Stalin sempre più in difficoltà diventavano giorno dopo giorno sempre più pressanti. E fu proprio in questo complesso frangente che l’allora designato comandante per le operazioni Lord Mountbatten, fu indotto, in accordo con il primo ministro Winston Churchill, a studiare un ambizioso piano d’attacco contro l’isola di Vagsoy di fronte alla costa norvegese, tra le città di Bergen e Trondheim. Un’operazione anfibia che avrebbe dovuto mettere in allarme l’intero settore tedesco nell’area e far affluire il maggior numero possibile di forze nemiche, distogliendole dal fronte sovietico. Ma la missione avrebbe avuto anche un secondo fine: saggiare la capacità di reazione dei nazisti e capire fino a che punto l’esercito britannico fosse in grado di portare a termine sbarchi di simile complessità. Un compito per nulla agevole se si considera che un precedente piano, in più grande stile, finalizzato ad attaccare  Trondheim, era stato cancellato all’ultimo minuto proprio per le grandi difficoltà logistiche riscontrate. La nuova operazione, chiamata in codice Archery, prevedeva infatti per la prima volta l’impiego simultaneo di tutte le tre forze armate (esercito, marina e aviazione) per un assalto contro una costa ben difesa. Non suonano per nulla avventate quindi le parole di Mounthbatten alla vigilia della missione.

 


Alcuni dei tedeschi catturati vengono scortati dai commando.

                                           Il ruolo strategico della Norvegia.

La campagna di Norvegia (il primo scontro terrestre tra Alleati e Terzo Reich) combattuta tra il 9 aprile e il 10 giugno del 1940 e conclusosi con l’occupazione tedesca del Paese, fu senza ombra di dubbio il risultato di fattori strategici primari. Non si trattava di un teatro di operazioni minore, bensì essenziale per la futura guerra in Europa. E di questo Hitler, quando prevenne l’attacco inglese deciso da Churchill, era perfettamente conscio. La Germania, infatti, per poter alimentare il suo sforzo bellico, dipendeva in gran parte dal ferro svedese, che arrivava in patria via mare dai porti norvegesi, da quello di Narvik in particolare. Solo assicurandosene il controllo sarebbe stato possibile garantire all’industria tedesca il minerale necessario per continuare il programma di produzione di armamenti. E da questa eventualità gli inglesi furono subito allarmati, vista l’impossibilità di mettere in pratica il Progetto Catherine, ovvero il piano per assicurarsi il controllo del Mar Baltico. Ma il peso strategico della Norvegia era garantito anche dalla possibilità di occupare preziosi basi aeree (come per esempio la Sola Air Station a Stavanger), essenziali per il dominio dell’Atlantico che si stava profilando: i velivoli da ricognizione tedesca infatti potevano controllare un ampio settore dell’oceano evitando d’incorrere nell’attività dei caccia della RAF. Nei fiordi norvegesi furono ricavate importanti basi di U-Boot e trovarono rifugio grandi navi da guerra prima di avventurarsi nell’Atlantico per eludere il blocco navale nemico. Basti ricordare a tale proposito l’episodio della corazzata Tirpitz che rimase a lungo nascosta tra i fiordi norvegesi e rappresentò una vera spada di Damocle sui convogli alleati diretti a Murmansk.


La Tirpitz capovolta nel fiordo di Tromsø

Ma gli sforzi per assicurarsi il contro del Parse furono anche causa di un enorme dispendio di risorse: vi furono stanziati oltre 400mila uomini, che sarebbero rimasti l’intero conflitto praticamente inoperosi. E questo a discapito di altri fronti in forte difficoltà

 

Una pianificazione perfetta. Era necessario valutare ogni minimo dettaglio per non incappare in un fallimento che avrebbe potuto dare un colpo definitivo al morale dell’esercito britannico. La scelta del bersaglio fu ponderata con estrema attenzione con la chiara finalità di provocare il maggiore numero di danni possibili alle installazioni tedesche sull’isola e non correre il rischio di essere sopraffatti dall’afflusso di rinforzi. In tale prospettiva l’isola di Vagsoy e il piccolo scoglio di Maaloy, a poca distanza, fornivano tutte le garanzie del caso. Fu possibile appurare tramite la ricognizione aerea e la presenza di collaborazionisti sul posto, che le numerose installazioni presenti erano difese da alcuni reparti della 181a Divisione di fanteria della Wehrmacht, circa duecento uomini, e un solitario carro armato. Forze relativamente esigue che avrebbero comunque potuto contare sulla protezione aerea fornita da quattro squadriglie di caccia e bombardieri (poco meno di quaranta velivoli) dislocati nelle estreme vicinanze. Reparti però ben motivati che se messi in condizioni avrebbero potuto ostacolare seriamente le operazioni. Era pertanto necessario disporre di un contingente d’assalto ben addestrato e affinare l’intesa con marina e aviazione per poter garantire la necessaria copertura durante l’iniziale fase di attacco e il successivo sganciamento. Nulla poteva essere lasciato al caso perché il minimo errore, la più piccola distrazione, avrebbe potuto far precipitare gli eventi. Fu stabilito che il raid sarebbe stato condotto da truppe britanniche e norvegesi: 51 ufficiali e 525 fra soldati semplici e sottoufficiali, selezionati tra le migliori forze disponibili: uomini del Commando numero 2 e 3, esperti in esplosivi del 6, ufficiali sanitari del 4 e infine una dozzina di membri della Kompani Linge (unità composta da soldati norvegesi fuggiti dal Paese dopo l’occupazione tedesca) che avrebbero dovuto fungere da guide e interpreti. Questa forza terrestre si sarebbe avvalsa del supporto di una task force della Royal Navy costituita dall’incrociatore HMS Kenya, dai cacciatorpediniere HMS Onslow, Oribi, Offa e trasporto truppe (HMS Prince Charles e il Prince Leopold). La copertura aerea sarebbe stata fornita invece da bombardieri leggeri o medi del tipo Blenheim e Hampdens e caccia bimotori Beaufighter, messi disposizione dalla Royal Air Force (RAF). Per poter raggiungere tutti gli obiettivi prefissati fu deciso che la forza di incursori avrebbe dovuto agire su bersagli già stabiliti a tavolino per evitare che si potessero verificare fraintendimenti o interferenze. Fu pertanto suddivisa in cinque unità con i seguenti compiti: il Gruppo 1 avrebbe messo in sicurezza l’area di Halnoesvik; il Gruppo 2 attaccato il centro abitato di South Vagsoy; il Gruppo 3 neutralizzato la batteria costiera, i depositi di munizioni e le caserme sull’isolotto di Maaloy; e il Gruppo 5, una volta sbarcato nella costa più a nord dell’isola, avrebbe dovuto tagliare ogni via di comunicazione e impedire ai rinforzi nemici di dare manforte alle truppe dislocate più a sud. il Gruppo 4 sarebbe rimasto in posizione in attesa come riserva. I cinque reparti furono affidati a ufficiali navigati, con alle spalle una certa esperienza di teatri operativi, così suddivisi in base alla successione elencata sopra: il tenente Clement, uk tenente colonnello John Durnfor-Slater, il maggiore Jack Churchill, il capitano Birney e per finre il capitano Hooper.

 

La Kompani Linge.


 Martin Linge, l'ufficiale norvegese che formò ed addestrò il reparto nel 1941.



L’esigenza strategica d’intralciare l’attività delle truppe d’occupazione tedesche in Norvegia fu affrontata dagli Alleati favorendo la formazione di un’unità militare speciale composta esclusivamente da uomini provenienti dal Paese e fuggiti in Inghilterra dopo la conquista nazista del giugno 1940. Fu pertanto costituita la Lingekomaniet (chiamata anche Norwegian Indipendent Company 1 o Linge’s Company) sotto l’organizzazione del SOE (Special Operations Executive), l’organismo segreto voluto direttamente dal primo ministro Winston Churchill per operazioni dietro le linee nemiche. Uomini altamente addestra e motivati, che si specializzarono nella conduzione di attacchi e sabotaggi in tutta la Norvegia, in particolare lungo le zone costiere, fornendo supporto militare alla resistenza e mettendo in piedi un fatta rete di informatori. Attività che si sarebbero dimostrate estremamente preziose nel corso del conflitto. La Kompani Linge nel 1941 fu affidata al capitano Martin Linge e sottoposta a un pesante addestramento che implicava la capacità di destreggiarsi in operazioni aerotrasportate, anfibie e nell’uso di esplosivi. Il battesimo di fuoco avvenne con l’Operazione Claymore, nel marzo 1941, contro le isole Lofoten, ma il vero salto di qualità fu l’Operazione Archery, nella quale si registrò la morte proprio di Linge. A discapito delle perdite patite, l’organico dell’unità non soffrì grazie al continuo afflusso di nuove reclute. Un’altra missione che la consacrò alla stira è stata il celebre raid di Telemark, la complessa operazione finalizzata al sabotaggio degli impianti della Norsk Hydro, azienda a cui era stata affidata al produzione di acqua pesante nell’ambito del programma di ricerca atomica nazista. In ambito spionistico fu possibile organizzare una complessa rete di operatori radio clandestini in grado di fornire informazioni sulla disposizione delle forze di occupazione ei loro spostamenti. Nel complesso fecero parte dell’unità oltre cinquecento uomini e i caduti furono cinquantasette.

 

Commandos all’attacco. Alla Vigilia di Natale del 1941, dopo un lungo e meticoloso addestramento, la squadra navale al completo salpò dalla base di Skapa Flow (Orcadi) poco dopo le dieci di sera, arrivando alle isole Shetland, posizionate a metà strada tra la Gran Bretagna e la Norvegia, poco dopo l’una del pomeriggio. Se fino a quel punto il tempo si era mantenuto buono, un’improvvisa tempesta si abbatté sul convoglio, provocando forti danni alle due unità di trasporto. L’Ammiragliato fu pertanto costretto a posticipare l’ultima parte della traversata di circa 24 ore. Solo dopo aver effettuato le riparazioni necessarie, le unità ripresero il mare, arrivando di fronte alle coste nemiche alle prime ore del 27 dicembre. La sorpresa fu totale: nessuna unità navale nemica si profilò all’orizzonte e non vi furono sorvoli di velivoli da ricognizione. Fu pertanto dato ordine alla forza d’assalto di preparare armi ed equipaggiamenti e salire sui mezzi da sbarco che nel frattempo venivano messi in mare. Alle 8.50 le principali unità da guerra incominciarono un pesante cannoneggiamento delle difese costiere tedesche e dei centri nevralgici dell’isola, alcune squadriglie di bombardieri del Bomber Command decollati dalle basi aeree di Wick in Scozia e dalle isole Shetland. alcuni Hampden a volo radente provvidero a sganciare fumogeni e bombe al fosforo per creare una cortina di protezione che celasse la navigazione dei mezzi da sbarco, mentre nel contempo i Beaufighter fornivano protezione aerea nel caso comparissero velivoli della Luftwaffe tedesca. Come da copione, e senza che si verificassero particolari incidenti, il Gruppo 1 toccò terra nella posizione assegnata, e si prodigò per mettere in sicurezza l’area di Halnoesvik, dopodiché si mise in cammino per ricongiungersi con il Gruppo 2, anch’esso in perfetta tabella di marcia. Il compito più delicato, quello del Gruppo 3, fu portato a termine con relativa tranquillità: bastarono poco più di venti minuti per mettere a tacere la batteria costiera e la guarnigione dislocata sull’isolotto di Maaloy. Anche se in realtà gran parte del lavoro era già stato fatto dai cannoni dell’incrociatore Kenya con il pesante bombardamento avvenuto venti minuti prima dello sbarco sulla spiaggia dei 105 uomini della forza d’assalto. Pertanto, dopo la resa delle forze tedesche scampate, furono portate a termine le ultime operazioni di demolizione delle infrastrutture militari ancora utilizzabili. Dopodiché gli uomini del maggiore Jack Churchill, dopo aver attraversato lo specchio di mare che li divideva dal continente, distrussero la fabbrica d’olio di aringhe in località Mortenens. Nel complesso, sebbene fosse stata presa completamente di sorpresa, la fanteria tedesca, dopo un primo momento di disorientamento, reagì con prontezza e si dimostrò un osso duro da eliminare. E i problemi più grossi furono causati proprio alla principale forza d’attacco, il Gruppo 4, al comando di Slater, da un’accanita resistenza nel villaggio di South Vagsoy per mano di una cinquantina di fanti tedeschi, che si difesero fino all’ultimo uomo combattendo casa per casa. Nella furibonda sparatoria che si protrasse per varie ore si registrarono gravi perdite tra i britannici. Alle 10,20 anche il Gruppo 5, sbarcato nella parte centro-nord dell’isola, sotto la protezione dei cacciatorpediniere HMS Oribis e Onslow, si prodigò per impedire l’afflusso di rinforzi tedeschi che stavano cercando di farsi strada verso il lato meridionale dell’isola. Liberi di muoversi per l’assenza di truppe nemiche, scavarono numerose buche sull’unica via di comunicazione per renderla inagibile ai mezzi di trasporto. Nel corso dell’operazione furono localizzate anche alcune navi mercantile all’ancora e un peschereccio armato, che fu subito assaltato nella speranza potesse contenere documenti riservati o codici di trasmissione radio. Dopo aver portato a termine anche questo compito, il gruppo si diresse verso il villaggio di South Vagsoy, dove la resistenza nemica non era stata ancora neutralizzata.

Nonostante tutto si procedette a far saltare diverse infrastrutture civili e militari: la centrale elettrica, la stazione radio, le difese costiere e il vicino faro. Nel complesso il raid si protrasse fino alle 13,45, prima che la breve luce invernale artica lasciasse spazio alle tenebre.

British Commandos.

Lo stemma delle Combined Operations


A partire da  giugno 1940, a seguito della catastrofica ritirata di Dunkerque e del pessimo stato in cui versavano le forze britanniche, il primo ministro inglese Winston Churchill volle a tutti i costi che si provvedesse alla costituzione di reparti d’assalto per poter operare nei territori occupati dai tedeschi. Soprattutto per due ragioni: ostacolare l’attività nemica e ridare morale ad un esercito fino ad allora in grande difficoltà. Si rivelò una mossa azzeccata, capace di avere un forte impatto sull’andamento delle operazioni militari. Se inizialmente queste unità erano costituite da volontari provenienti dal resto dell’esercito, a lungo andare, e in virtù dei successi ottenuti, si trasformarono in reparti autonomi impiegati da tutte le forze armate britanniche (non mancarono anche volontari di nazionalità straniera). Alla fine del conflitto si contavano oltre tenta unità con compiti distinti e una lunga storia di successi alle spalle. Nel 1941 9 commando subirono una profonda riorganizzazione: ogni battaglione della Special Service Brigade era costituito da due unità, divise in sei gruppi forti di tre ufficiali e sessantadue uomini, effettivi pensati per poter essere imbarcati sui nuovi mezzi anfibi denominati LCA. Fu solo a partire dal 1942 che vennero istituiti anche i primi reparti della Royal Navy: nove unità di Royal Marines con il compito di aprire teste di ponte e difenderle nel corso di operazioni anfibie. E per ultima anche la

RAF si dotò di Royal Air Force Commando, per operazioni di cattura e controllo di aeroporti militari. Il nucleo della forza terrestre che condusse l’assalto all’isola di Vagsoy, proprio nel corso dell’Operazione Archery, era costituito essenzialmente da uomini provenienti dal Commando numero 2 e 3, due delle più titolate unità, che si sarebbero distinti nel corso dell’intero conflitto operando nei più disparati teatri operativi (sbarchi in Sicilia e in Normandia compresi.

Landing craft assault.


LCA britannico durante lo sbarco in Normandia

La riuscita dell’operazione Archery si basava sull’attacco anfibio in grande stile con l’impiego di una cospicua forza terrestre che avrebbe dovuto essere sbarcata direttamente sulle spiagge nemiche. Non essendo possibile prevedere l’impiego di unità di grandi tonnellaggio per gli ovvi limiti di pescaggio, furono progettati mezzi speciali a sfondo piatto, denominati LCA (Landing CRAF Assault). Con un dislocamento di circa 10 tonnellate e una propulsione fornita da due motori a benzina da 130 cavalli vapore potevano raggiungere i sette noti di velocità; prestazioni che li rendevano simili ai contemporanei LCVP statunitensi. Erano stati ideati specificatamente per operazioni di questo tipo e potevano condurre sull’obbiettivo trentacinque soldati perfettamente equipaggiati e circa 350 chilogrammi di carico a cui si dovevano aggiungere i quattro uomini d’equipaggio e un armamento leggero (di norma mitragliatrici Bren o Lewis); alcuni modelli potevano alloggiare due mortai. L’attacco all’isola di Vagsoy fu una sorta di battesimo del fuoco che, in virtù del successo, sarebbe stato replicato nel corso dell’intero conflitto, tanto da far diventare gli LCA un mezzo standard per questo tipo di operazioni. Il loro impiego doveva essere pianificato con largo anticipo e l’avvicinamento alla costa era preceduto da un pesante fuoco di sbarramento per eliminare possibili ostacoli e mettere a tacere l’artiglieria avversaria. Per effetto della blindatura leggera infatti gli LCA potevano sopportare il fuoco di armi leggere, ma erano impotenti se bersagliati dal fuoco di pezzi di grosso calibro o mortai.

 

Un successo oltre le aspettative. Per l’Alto Commando alleato l’Operazione Archery fu un notevole successo che in qualche misura ridava la morale alle truppe e dimostrava la validità di questo tipo di missioni coordinate: aviazione, marina ed esercito avevano collaborato egregiamente senza che si verificassero imprevisti di sorta. Un ottimo inizio per future operazioni in grande stile. Il prezzo pagato fu comunque abbastanza alto: venti commando risultarono uccisi e altri cinquantasette feriti. Tra le perdite più gravi si annoverava il capitano Martin Linge, comandante della Kompani Lige, il cui ruolo fu essenziale  e difficilmente sarebbe stato rimpiazzato in breve tempo. Anche la RAF registrò l’abbattimento di undici velivoli (sette Blenheim, due Hampden e due Beaufighter) con la morte di trentun membri d’equipaggio, mentre per la Royal Navy furono tutto sommato leggere: due caduti e una mezza dozzina di feriti e non si registrarono particolari danni al naviglio. Un ulteriore dato positivo fu l’arruolamento di settantasette civili norvegesi che decisero di unirsi agli Alleati, andando ad ingrossare il contingente delle forze norvegesi libere. Per i tedeschi, colti totalmente di sorpresa, si registrarono centoventi caduti e un centinaio di prigionieri. Per non parlare delle gravi perdite in termini di infrastrutture civili (fabbriche di vario genere, centri radio, stazioni elettriche e così via), militari (una batteria costiera, caserme, depositi di munizioni e carburante) e naviglio per quasi 15mila tonnellate.

Al lungo elenco vanno aggiunti anche quattro veicoli della Luftwaffe. Ma sicuramente il colpo più duro fu quello psicologico: l’attacco si rivelò un vero fulmine a ciel sereno che allarmò l’Alto comando tedesco e fece andare su tutte le furie Hitler. Come conseguenza, nel tentativo di evitare il ripetersi di simili raid, il Fuhrer decise di dirottare in Norvegia altri 30mila uomini e una discreta forza navale, sguarnendo o indebolendo altri teatri di combattimento. Si è calcolato che alla fine del conflitto le forze tedesche presenti in Norvegia ammontassero a quasi 440mila unità: un grande dispendio di risorse per mantenere un fronte che nel proseguo si dimostrò decisamente poco attivo. L’intero corso dei combattimenti fu documentato da un’unità fotografica che immortalò gli eventi, fornendo alcune delle più interessanti e drammatiche foto del conflitto. E furono proprio queste testimonianze di prima mano a diventare un incredibile arma propagandistica che fu utilizzata per ridare morale a una nazione ormai sull’orlo di una crisi di nervi.

 

Articolo di Enrico Cattapani pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 6. Altri testi e immagini da Wikipedia.

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