La strada Francigena, Le
meraviglie e le inside di una strada millenaria.
L’itinerario che dal
Nord della Francia portava a Roma era il percorso abituale dei pellegrini verso
la città santa e dei mercanti verso le fiere della Champagne. Un tragitto di
quasi 1600 km che nella parte italiana ricalcava le antiche strade romane e si
collegava al cammino di Santiago de Compostela.
Il tratto Canterbury-Roma dell'itinerario di Sigerico, uno dei tragitti che componevano la via Francigena
A
ridosso
dell’anno mille, il monaco inglese Sigerico, appena nominato arcivescovo di
Canterbury, prese il bordone, la borraccia, la sacca da viandante e, come un
pellegrino qualsiasi, si mise in viaggio per Roma, dove avrebbe ricevuto dalle
mani di papa Giovanni XV il pallio, simbolo della sua nuova dignità.
Attraversata la Manica, imboccò a Calais la via Francigena, cioè il percorso
che dalla Francia portava in Italia, superando le Alpi al colle del Gran San
Bernardo e scendendo in Val D’Aosta. Era un tragitto già noto da secoli. Ad
Abbadia San salvatore, sul monte Amiata, nella biblioteca dell’antica abbazia,
si conserva una pergamena risalente a oltre 100 anni prima che il nostro monaco
si mettesse in viaggio e in cui compare il nome di Francigena. Era detta così,
come è facile da capire, perché aveva origine in Francia ed era percorsa, oltre
che dai pellegrini diretti a Roma provenienti da quel Paese e dall’Inghilterra,
dai mercanti che viaggiavano tra le due regioni più ricche d’Europa, cioè le
Fiandre e il Nord Italia, e andava a vendere le loro merci nella Champagne,
dove si tenevano le fiere più frequentate. Fra i tanti viandanti che si misero
in cammino lungo la Francigena, prima e dopo il monaco inglese, perché dunque
la strada più battuta del Medioevo è stata chiamata “L’itinerario di Sigerico”?
perché lui fu il solo che, oltre a percorrerla, l’abbia anche raccontata. Non
durante il viaggio di andata, ma al ritorno. Una volta esauriti gli impegni che
lo avevano portato a Roma, ricevuto il pallio dal papa e fatto il giro delle
sette grandi basiliche come ogni bravo pellegrino, si rimise in cammino verso
l’Inghilterra. Ma stavolta tenne un diario in cui segnò in maniera dettagliata
tutte le località che attraversava e in cui faceva sosta. Ne risultò una sorta
di guida che fu di grande aiuto a chi si mise in viaggio dopo di lui e che
ancora oggi ci permette di individualmente con precisione l’esatto tragitto
compiuto del neoarcivescovo.
Il guado del Po presso Soprarivo di Calendasco: pellegrini in costume d'epoca.
Quante Francigene?
Il nome di Francigene si applicava a
tutte le strade che venivano dal Nord e portavano a Roma. Se quella più
frequentata era come si è detto, quella descritta da Sigerico, cioè la via
della Fiandra, un altro percorso usato soprattutto dalle popolazioni
germaniche, seguiva il corso del Reno fino a Basilea, scendeva in Italia per
il passo del San Gottardo e a Piacenza in prossimità del guado del Po, si
ritrovavano anche i viandanti che venivano dalla Francia atlantica e che,
dopo aver raggiunto Lione, valicavano le Alpi per il colle del Moncenisio o
del Monginevro, percorrevano la Val di Susa e raggiungevano il Po a Torino. I
pellegrini provenienti dai Paesi dell’Est Europa preferivano invece il valico
del Brennero, da dove per Verona e Bologna scendevano a Rimini e di qui
raggiungevano Roma percorrendo l’antica via Flaminia. Va pure ricordato che i
principali comuni italiani, sempre più ricchi e fiorenti, diventarono presto
centri di grande richiamo non solo per i mercanti ma anche per i pellegrini.
Così nei primi secoli dopo il Mille buona parte dei viandanti diretti a Roma,
una volta giunti a Piacenza, deviavano per Pavia e andavano a Milano, che si
stava imponendo come il centro più importante del Nord Italia. Allo stesso
modo, da Lucca, invece di proseguire verso Siena lungo il tragitto
tradizionale, prendevano la direzione di Firenze, che da città mercantile
qual era fece di tutto per attrarre i pellegrini e godere degli stessi
vantaggi economici che avevano regalato il benessere alla sua rivale toscana.
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La folla del Giubileo.
Se il pellegrinaggio a Roma era già
una diffusa pratica religiosa nei secolo dell’Alto Medioevo, contribuendo
alla popolarità della via Francigena, nel 1300 diventò per milioni di
credenti un’occasione quasi obbligata per visitare la città eterna. In
quell’anno papa Bonifacio VIII indisse il primo Giubileo della Storia
cristiana, riprendendo una tradizione di perdono e di preghiera che proveniva
dalla religione ebraica. Tutti coloro che nel corso di quell’anno avessero
visitato per 15 giorni di seguito le basiliche romane dei santi Pietro e
Paolo avrebbero ottenuto il perdono dei peccati e l’indulgenza plenaria. Così
lo descrive nella sua ‘Nuova Cronica’ il fiorentino Giovanni Villani “Per la
qualcosa gran parte de’ Cristiani ch’allora vivevano feciono il detto
pellegrinaggio, così femmine come uomini, di lontani e diversi Paesi, e di
lungi e d’apresso. E fue la più mirabile cosa che mai si vedesse, ch’al
continuo in tutto l’anno durante avea in Roma oltre al popolo romano 200mila
pellegrini, senza quegli ch’erano per gli cammini andando a comando”. La
Francigena con le sue varianti, resse benissimo la prova di quello
straordinario flusso di pellegrini diretti a Roma. Più difficoltoso risultò
regolare il traffico in città. Dante, nella Divina Commedia, ricorda quello
che vide con i suoi occhi, e cioè che per la grande ressa si dovette
istituire il doppio senso di marcia sul ponte di Castel Sant’Angelo: da una
parte camminavano i pellegrini che andavano a San Pietro, dall’altra quelli
che tornavano.
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La via Francigena sui monti della Daunia; sullo sfondo l'altura su cui sorgeva il castello di Crepacuore, il forte di valico dei cavalieri Gerosolimitani.
Siena, tappa obbligata. Sigerico ha diviso il
suo cammini in 80 tappe che, secondo la tradizione, avrebbe percorso in 80
giorni. Se questo fosse vero, avrebbe dovuto fare 20 km al giorno senza
interruzioni per completare i quasi 1600 km che, separavano Roma da Calais: un
vero record anche per un atleta di oggi se si tiene conti dei lunghi tratti in
salita, dell’attraversamento dei fiumi, delle infinite difficoltà che i
viandanti dovevano affrontare in quei tempi remoti. Ad ogni modo, stando al suo
diario, Sigerico uscì da Roma e fece la prima sosta nell’attuale località La
Storta, per giungere con la decima tappa, dopo aver superato Sutri, Viterbo,
Montefiascone, ad Acquapendente. Come si può notare il percorso dei pellegrini
coincideva con quello della Cassia, l’antica via consolare che univa Roma a
Firenze, e lo seguiva pari pari fini a Siena. Alla Francigena, che la
attraversava da Nord a Sud, Siena doveva infatti la sua origine, tanto che
questa bellissima città veniva chiama ‘la figlia della strada’.
Ma le doveva anche il
grande benessere, grazie alle gabelle, ai pedaggi, alle elemosine che un tale
andirivieni portava nelle casse del comune. E non è un caso che qui sia sorto,
proprio intorno all’anno Mille il primo vero ospedale della Storia, il Santa
Maria della Scala, dove una sala, poi stupendamente affrescata, si chiama
ancora oggi il Pellegrinaio perché serviva appunto ad accogliere i pellegrini.
Superata Siena, il
percorso abbandonava il tracciato della Cassia e piegava a Ovest, lungo la Val
d’Elsa, fino ad arrivare a Lucca di qui a Luni, antica città romana al confine
tra Toscana e Liguria, in prossimità dell’attuale Sarzana. Di quella storica
località restano solo le rovine, ma nell’Alto Medioevo aveva un porto molto
attivo soprattutto per il commercio del marmo delle Apuane, una sede vescovile
e la giurisdizione sulla valle che da essa prese il nome, la Lunigiana.
In
onore di San Michele. L'arcangelo Michele schiaccia Satana, Guido Reni, 1636
Un’altra
frequentata via dei pellegrini, che per la parte centrale ricalcava la
Francigena ma se ne differenziava nel primo tratto e con l’ultimo proseguiva
oltre Roma fino al promontorio del Gargano, era quella che collegava i tre
principali santuari europei dedicatati a San Michele arcangelo, molto
venerato in quei tempi di guerra e violenze. Partiva da Mont-Saint-Michel, lo spettacolare
isolotto sulla costa della Normandia su cui sorge un’antica abbazia dedicata
a San Michele, e scendendo per Rouen arrivava a Parigi, da dove andava a
incrociare la Francigena nella Champagne, oppure scendendo verso Lione,
puntava al passo del Moncenisio e sbucava in Val di Susa. Qui, a una
quarantina di chilometri da Torino, si incontrava il secondo santuario, forse
meno noto ma altrettanto suggestivo di quello francese, costruito intorno
all’anno Mille. È il convento al quale si ispirò Umberto Eco per ambientarvi
‘Il nome della Rosa’. Il pellegrinaggio proseguiva poi sullo stesso tracciato
della Francigena fino a Roma. Quindi si dirigeva verso l’Abruzzo per scendere
in Puglia e puntare su Gargano. A Monte Sant’Angelo si trovava l’ultimo dei
santuari dedicati a San Michele, ma il primo ad essere costruito, in ricordo
di un antico prodigio. Qui infatti, nel 490, l’arcangelo era apparso dentro
una grotta scava nella roccia, a san Lorenzo Maiorano. Quel luogo e
quell’evento diventarono subito oggetto di una vasta e intensa devozione,
grazie all’opera dei Longobardi, appena convertiti al cristianesimo, che
dell’arcangelo Michele fecero quasi un eroe nazionale. Proprio a cavallo
dell’anno Mille, pochi anni dopo la morte di Sigerico, al santuario sul
Gargano si presentò un illustre pellegrino, l’imperatore Ottone III di
Sassonia, sceso dal Brennero e da Rimini. Era venuto a chiedere l’aiuto del
santo prima di andare a Roma per imporvi il suo contributo con la forza di un
potente esercito. Il santuario di monte Sant’Angelo era, infine, una tappa
obbligata dei ‘palmieri’, cioè dei pellegrini che, provenendo da Roma o da
Rimini, scendevano in Puglia e arrivavano fino a Brindisi per imbarcarsi alla
volta di Gerusalemme.
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Palmieri
o Romei?
Non tutti i pellegrini erano
uguali. C’erano quelli ricchi, che andavano a cavallo ed erano accompagnati
da una schiera di servitori, e quelli poveri, che potevano contare solo sulle
loro gambe e sulla carità della gente. C’erano i grandi prelati che
viaggiavano con apparati principeschi e i poveri monaci che trovavano
ospitalità in eremi sperduti. Ma la differenza, oltre che nella condizione
sociale, stava anche nel loro nome, che cambiava a seconda della
destinazione. A dircelo è Dante, niente di meno, che nella sua ‘Vita Nova’
racconta di avere incontrato alcuni pellegrini e spiega perché era improprio
chiamarli genericamente così. “Ché peregrini si possono intendere in due
modi, uno in largo e un stretto: in largo, in quanto è peregrino chiunque e
fuori della sua patria, in modo stretto non s’intende peregrino se non chi va
a la casa di san Iacopo (di Compostela) o riede. È però è da sapere che in
tre modi si chiamano propriamente le genti che vanno al servigio de
l’Altissimo: chiamarsi palmieri in quanto vanno oltremare (cioè a
Gerusalemme), in onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini in
quanto vano a la casa di Galizia, però che la sepoltura di san Jacopo fue più
lontana de la sua patria che d’alcuno altro apostolo; chiamansi romei quelli
che vanno a Roma”.
Dunque,
Sigerico, come tutti coloro che percorrevano la via Francigena per andare a
Roma, era, in modo stretto per dirla con Dante, un ‘romeo’.
La via Francigena presso Ariano Irpino
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La Sacra di S. Michele (TO), tappa della Via in Valsusa, con lo sfondo delle Alpi e del Colle del Moncenisio
Attraverso monti e valli. A Luni, la Francigena
incrociava un altro grande itinerario dei pellegrinaggi medievali, la strada che
percorreva tutta la Liguria ricalcando l’antica via Aurelia, attraversava la
Provenza e andava a congiungersi prima dei Pirenei con il cammino di Santiago
de Compostela.
L’Aurelia arrivava a
Luni da Roma attraversando la “Marittima”, come si diceva allora, cioè la Maremma,
con un tragitto più breve di quello che passava per Siena. Ma quel percorso
lungo loa costa era ampiamente coperto da paludi e infestato dalla malaria, per
cui si preferiva evitarlo per percorrere la più lunga e agevole via Francigena.
L’arcivescovo Sigerico proseguì il suo cammino risalendo la Lunigiana lungo il
Magra fino al valico della Cisa. Allora si chiamava monte Bardone, contrazione
del nome latino Mons Longobardum, cioè monte dei Longobardi, che di qui
transitavano per passare nella Tuscia. Dal valico Sigerico scese seguendo il corso
del Taro, attraversò Fornovo, raggiunse Fidenza per arrivare a Piacenza. Pochi chilometri
a monte della città emiliana, in una località che oggi si chiama Calnendasco,
guadò il Po con una barca per puntare poi su Pavia, Vercelli, Ivrea e
finalmente Aosta. Ad Aosta cominciava il tratto più duro del viaggio, con la
salita al Gran San Bernardo e la lunga discesa che passando per la valle del
Rodano arrivava a Losanna, sul lago di Ginevra. Va detto che il valico del Gran
San Bernardo non era il solo. C’era già chi allora, soprattutto chi veniva
dalla Francia occidentale, preferiva superare le Alpi passando per il colle del
Moncenisio, scendendo poi per la Val di Susa verso Torino e andando a incrociare
la Francigena a Vercelli, o più giù a Piacenza. Anzi, con l’andar del tempo,
diventerà questo l’itinerario più battuto, non solo dai pellegrini ma anche
dagli eserciti. È da qui che, alla fine del Quattrocento, scenderà in Italia il
re di Francia Carlo VIII, aprendo la strada alle conquiste straniere (e a
Fornovo, sempre sulla Francigena, sarà sconfitto dalla tardiva reazione delle
signorie italiane mentre tornava da Napoli, diretto al suo Paese). Va aggiunto
che tutta questa regione a cavallo delle Alpi faceva parte del ducato di
Savoia, i cui signori, futuri re d’Italia, dovevano proprio al controllo dei
passi alpini la loro potenza e ricchezza. A Losanna cominciava l’ultimo tratto
della Francigena, lungo ma più agevole della parte italiana lasciando il lago
di Ginevra, Sigerico risalì la cosiddetta via della Fiandra, scavalcò i monti
del Giura, superò la Franca Contea con Besançon, la Borgogna con la grande
abbazia benedettina di Cluny edificata neanche un secolo prima (neanche un
secolo dopo avrebbe avuto come abate Ildebrando di Soana, futuro papa Gregorio
VII, proveniente dalla Toscana pure attraversata dalla Francigena) la Champagne
con Reims, l’Artois con Arras e finalmente giunse il canale della Manica, in
prossimità di Calais. Dalla riva, mentre aspettava di imbarcarsi, poteva vedere
le bianche scogliere di Dover e la sospirata Inghilterra, dove lo aspettava la
prestigiosa sede arcivescovile di Cantembury. L’avrebbe occupata per
non più di 4 anni – giusto il tempo per riposarsi dal lungo viaggio –
quanti ne passarono dal suo ritorno in patria alla morte, avvenuta il 28
ottobre del 994, a neppure 45 anni di età.
Ghino
di Tacco, il brigante terapeuta. Ghino di Tacco davanti a Bonifacio VIII Boccaccio, in una immagine contenuta in un'edizione francese del Decameron risalente al XV secolo
Il
rilievo collinare che separa la Val d’Orcia dalla Valle del Pagli, nel sud
della Toscana, viene adesso facilmente superato grazie a una comoda galleria
stradale sulla Cassia. Nel Medioevo, invece, il tracciato dell’antica via
romana saliva sulla sommità dello spartiacque, dove, a 800 m sul livello del
mar, sorge il borgo di Radicofani, dominando dalla mole imponente di una
fortezza sulla quale svetta un’alta ed elegante torre merlata. Verso la fine
del Duecento, questo castello fu il dominio e il rifugio del brigante Ghino
di Tacco, un bandito di strada diventato presto popolare come una sorte di
Robin Hood nostrano, Ghino apparteneva ad una famiglia della piccola nobiltà
di campagna che, in mancanza di altre risorse, aveva pensato bene di
procacciarsi da vivere rubando e rapinando. Catturato insieme al padre e allo
zio, lui venne risparmiato per la giovane età mentre i suoi due parenti
furono condannati a morte e giustiziati in piazza del Campo a Siena. Nel 1290
Ghino decise di riprendere la lucrosa attività di fuorilegge e, messa insieme
una brigata di gente come lui, si impossessò della fortezza di Radiconfani,
che faceva parte dello Stato pontificio, ma era al confine con la repubblica
senese. Da lassù poteva controllare il tratto sottostante della Francigena e
catturare i ricchi viandante, i mercanti o pellegrini, che poi tratteneva
prigionieri nella torre fino a quando avessero pagato un buon riscatto. Stanarlo
era praticamente impossibile: Siena non poteva farlo perché il castello era
fuori del suo territorio, il papa non voleva farlo perché aveva ben altri
grattacapi. Sicuro della sua impunità, Ghino arrivò al punto di andare a Roma
con qualche centinaio di uomini, salire al Campidoglio, entrare nella sala dove
si amministrava la giustizia e, come ricorda Dante, decapitare il giudice
Benincansa da Laterina, che quando stava a Siena aveva condannato a morte suo
padre e suo zio. Poi, infilzata la testa sulla punta di una picca, se ne
tornò a Radicofani, senza che nessuno potesse fermarlo. Il macabro trofeo
rimase esposto molti giorni sulla torre del castello, a feroce ammonimento di
podestà e giudici temerari. In una novella del Decamerone si racconta che l’abate
di Cluny, mentre tornava da Roma sofferente di lancinanti dolori allo
stomaco, pensò di andarsi a curare alle vicine terme di San Casicano. Ma, sequestrato
da Ghino di Tacco, guarì del suo male grazie alla dieta impostagli dal
bandito durante la prigionia, che era composta di pane, fave secche e
Vernaccia di San Gimignano. L’abate fu così soddisfatto che chiese e ottenne
il perdono per il brigante terapeuta. L'entrata e il dongione
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Articolo di Marcello
Riccardi, giornalista e ricercatore storico, pubblicato su BBC History del mese
di maggio 2019. Altri testi e immagini da Wikipedia.