sabato 15 agosto 2020

La strada Francigena, Le meraviglie e le inside di una strada millenaria.

 

 

 

La strada Francigena, Le meraviglie e le inside di una strada millenaria.

L’itinerario che dal Nord della Francia portava a Roma era il percorso abituale dei pellegrini verso la città santa e dei mercanti verso le fiere della Champagne. Un tragitto di quasi 1600 km che nella parte italiana ricalcava le antiche strade romane e si collegava al cammino di Santiago de Compostela.

 Mappa Via Francigena.jpg

Il tratto Canterbury-Roma dell'itinerario di Sigerico, uno dei tragitti che componevano la via Francigena

A ridosso dell’anno mille, il monaco inglese Sigerico, appena nominato arcivescovo di Canterbury, prese il bordone, la borraccia, la sacca da viandante e, come un pellegrino qualsiasi, si mise in viaggio per Roma, dove avrebbe ricevuto dalle mani di papa Giovanni XV il pallio, simbolo della sua nuova dignità. Attraversata la Manica, imboccò a Calais la via Francigena, cioè il percorso che dalla Francia portava in Italia, superando le Alpi al colle del Gran San Bernardo e scendendo in Val D’Aosta. Era un tragitto già noto da secoli. Ad Abbadia San salvatore, sul monte Amiata, nella biblioteca dell’antica abbazia, si conserva una pergamena risalente a oltre 100 anni prima che il nostro monaco si mettesse in viaggio e in cui compare il nome di Francigena. Era detta così, come è facile da capire, perché aveva origine in Francia ed era percorsa, oltre che dai pellegrini diretti a Roma provenienti da quel Paese e dall’Inghilterra, dai mercanti che viaggiavano tra le due regioni più ricche d’Europa, cioè le Fiandre e il Nord Italia, e andava a vendere le loro merci nella Champagne, dove si tenevano le fiere più frequentate. Fra i tanti viandanti che si misero in cammino lungo la Francigena, prima e dopo il monaco inglese, perché dunque la strada più battuta del Medioevo è stata chiamata “L’itinerario di Sigerico”? perché lui fu il solo che, oltre a percorrerla, l’abbia anche raccontata. Non durante il viaggio di andata, ma al ritorno. Una volta esauriti gli impegni che lo avevano portato a Roma, ricevuto il pallio dal papa e fatto il giro delle sette grandi basiliche come ogni bravo pellegrino, si rimise in cammino verso l’Inghilterra. Ma stavolta tenne un diario in cui segnò in maniera dettagliata tutte le località che attraversava e in cui faceva sosta. Ne risultò una sorta di guida che fu di grande aiuto a chi si mise in viaggio dopo di lui e che ancora oggi ci permette di individualmente con precisione l’esatto tragitto compiuto del neoarcivescovo.

 

Il guado del Po presso Soprarivo di Calendasco: pellegrini in costume d'epoca.

Quante Francigene?

Il nome di Francigene si applicava a tutte le strade che venivano dal Nord e portavano a Roma. Se quella più frequentata era come si è detto, quella descritta da Sigerico, cioè la via della Fiandra, un altro percorso usato soprattutto dalle popolazioni germaniche, seguiva il corso del Reno fino a Basilea, scendeva in Italia per il passo del San Gottardo e a Piacenza in prossimità del guado del Po, si ritrovavano anche i viandanti che venivano dalla Francia atlantica e che, dopo aver raggiunto Lione, valicavano le Alpi per il colle del Moncenisio o del Monginevro, percorrevano la Val di Susa e raggiungevano il Po a Torino. I pellegrini provenienti dai Paesi dell’Est Europa preferivano invece il valico del Brennero, da dove per Verona e Bologna scendevano a Rimini e di qui raggiungevano Roma percorrendo l’antica via Flaminia. Va pure ricordato che i principali comuni italiani, sempre più ricchi e fiorenti, diventarono presto centri di grande richiamo non solo per i mercanti ma anche per i pellegrini. Così nei primi secoli dopo il Mille buona parte dei viandanti diretti a Roma, una volta giunti a Piacenza, deviavano per Pavia e andavano a Milano, che si stava imponendo come il centro più importante del Nord Italia. Allo stesso modo, da Lucca, invece di proseguire verso Siena lungo il tragitto tradizionale, prendevano la direzione di Firenze, che da città mercantile qual era fece di tutto per attrarre i pellegrini e godere degli stessi vantaggi economici che avevano regalato il benessere alla sua rivale toscana.

La folla del Giubileo.

Se il pellegrinaggio a Roma era già una diffusa pratica religiosa nei secolo dell’Alto Medioevo, contribuendo alla popolarità della via Francigena, nel 1300 diventò per milioni di credenti un’occasione quasi obbligata per visitare la città eterna. In quell’anno papa Bonifacio VIII indisse il primo Giubileo della Storia cristiana, riprendendo una tradizione di perdono e di preghiera che proveniva dalla religione ebraica. Tutti coloro che nel corso di quell’anno avessero visitato per 15 giorni di seguito le basiliche romane dei santi Pietro e Paolo avrebbero ottenuto il perdono dei peccati e l’indulgenza plenaria. Così lo descrive nella sua ‘Nuova Cronica’ il fiorentino Giovanni Villani “Per la qualcosa gran parte de’ Cristiani ch’allora vivevano feciono il detto pellegrinaggio, così femmine come uomini, di lontani e diversi Paesi, e di lungi e d’apresso. E fue la più mirabile cosa che mai si vedesse, ch’al continuo in tutto l’anno durante avea in Roma oltre al popolo romano 200mila pellegrini, senza quegli ch’erano per gli cammini andando a comando”. La Francigena con le sue varianti, resse benissimo la prova di quello straordinario flusso di pellegrini diretti a Roma. Più difficoltoso risultò regolare il traffico in città. Dante, nella Divina Commedia, ricorda quello che vide con i suoi occhi, e cioè che per la grande ressa si dovette istituire il doppio senso di marcia sul ponte di Castel Sant’Angelo: da una parte camminavano i pellegrini che andavano a San Pietro, dall’altra quelli che tornavano.

 

La via Francigena sui monti della Daunia; sullo sfondo l'altura su cui sorgeva il castello di Crepacuore, il forte di valico dei cavalieri Gerosolimitani.

Siena, tappa obbligata. Sigerico ha diviso il suo cammini in 80 tappe che, secondo la tradizione, avrebbe percorso in 80 giorni. Se questo fosse vero, avrebbe dovuto fare 20 km al giorno senza interruzioni per completare i quasi 1600 km che, separavano Roma da Calais: un vero record anche per un atleta di oggi se si tiene conti dei lunghi tratti in salita, dell’attraversamento dei fiumi, delle infinite difficoltà che i viandanti dovevano affrontare in quei tempi remoti. Ad ogni modo, stando al suo diario, Sigerico uscì da Roma e fece la prima sosta nell’attuale località La Storta, per giungere con la decima tappa, dopo aver superato Sutri, Viterbo, Montefiascone, ad Acquapendente. Come si può notare il percorso dei pellegrini coincideva con quello della Cassia, l’antica via consolare che univa Roma a Firenze, e lo seguiva pari pari fini a Siena. Alla Francigena, che la attraversava da Nord a Sud, Siena doveva infatti la sua origine, tanto che questa bellissima città veniva chiama ‘la figlia della strada’.

Ma le doveva anche il grande benessere, grazie alle gabelle, ai pedaggi, alle elemosine che un tale andirivieni portava nelle casse del comune. E non è un caso che qui sia sorto, proprio intorno all’anno Mille il primo vero ospedale della Storia, il Santa Maria della Scala, dove una sala, poi stupendamente affrescata, si chiama ancora oggi il Pellegrinaio perché serviva appunto ad accogliere i pellegrini.

Superata Siena, il percorso abbandonava il tracciato della Cassia e piegava a Ovest, lungo la Val d’Elsa, fino ad arrivare a Lucca di qui a Luni, antica città romana al confine tra Toscana e Liguria, in prossimità dell’attuale Sarzana. Di quella storica località restano solo le rovine, ma nell’Alto Medioevo aveva un porto molto attivo soprattutto per il commercio del marmo delle Apuane, una sede vescovile e la giurisdizione sulla valle che da essa prese il nome, la Lunigiana.

 

In onore di San Michele.

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L'arcangelo Michele schiaccia SatanaGuido Reni1636

Un’altra frequentata via dei pellegrini, che per la parte centrale ricalcava la Francigena ma se ne differenziava nel primo tratto e con l’ultimo proseguiva oltre Roma fino al promontorio del Gargano, era quella che collegava i tre principali santuari europei dedicatati a San Michele arcangelo, molto venerato in quei tempi di guerra e violenze. Partiva  da Mont-Saint-Michel, lo spettacolare isolotto sulla costa della Normandia su cui sorge un’antica abbazia dedicata a San Michele, e scendendo per Rouen arrivava a Parigi, da dove andava a incrociare la Francigena nella Champagne, oppure scendendo verso Lione, puntava al passo del Moncenisio e sbucava in Val di Susa. Qui, a una quarantina di chilometri da Torino, si incontrava il secondo santuario, forse meno noto ma altrettanto suggestivo di quello francese, costruito intorno all’anno Mille. È il convento al quale si ispirò Umberto Eco per ambientarvi ‘Il nome della Rosa’. Il pellegrinaggio proseguiva poi sullo stesso tracciato della Francigena fino a Roma. Quindi si dirigeva verso l’Abruzzo per scendere in Puglia e puntare su Gargano. A Monte Sant’Angelo si trovava l’ultimo dei santuari dedicati a San Michele, ma il primo ad essere costruito, in ricordo di un antico prodigio. Qui infatti, nel 490, l’arcangelo era apparso dentro una grotta scava nella roccia, a san Lorenzo Maiorano. Quel luogo e quell’evento diventarono subito oggetto di una vasta e intensa devozione, grazie all’opera dei Longobardi, appena convertiti al cristianesimo, che dell’arcangelo Michele fecero quasi un eroe nazionale. Proprio a cavallo dell’anno Mille, pochi anni dopo la morte di Sigerico, al santuario sul Gargano si presentò un illustre pellegrino, l’imperatore Ottone III di Sassonia, sceso dal Brennero e da Rimini. Era venuto a chiedere l’aiuto del santo prima di andare a Roma per imporvi il suo contributo con la forza di un potente esercito. Il santuario di monte Sant’Angelo era, infine, una tappa obbligata dei ‘palmieri’, cioè dei pellegrini che, provenendo da Roma o da Rimini, scendevano in Puglia e arrivavano fino a Brindisi per imbarcarsi alla volta di Gerusalemme.

Palmieri o Romei?

Non tutti i pellegrini erano uguali. C’erano quelli ricchi, che andavano a cavallo ed erano accompagnati da una schiera di servitori, e quelli poveri, che potevano contare solo sulle loro gambe e sulla carità della gente. C’erano i grandi prelati che viaggiavano con apparati principeschi e i poveri monaci che trovavano ospitalità in eremi sperduti. Ma la differenza, oltre che nella condizione sociale, stava anche nel loro nome, che cambiava a seconda della destinazione. A dircelo è Dante, niente di meno, che nella sua ‘Vita Nova’ racconta di avere incontrato alcuni pellegrini e spiega perché era improprio chiamarli genericamente così. “Ché peregrini si possono intendere in due modi, uno in largo e un stretto: in largo, in quanto è peregrino chiunque e fuori della sua patria, in modo stretto non s’intende peregrino se non chi va a la casa di san Iacopo (di Compostela) o riede. È però è da sapere che in tre modi si chiamano propriamente le genti che vanno al servigio de l’Altissimo: chiamarsi palmieri in quanto vanno oltremare (cioè a Gerusalemme), in onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini in quanto vano a la casa di Galizia, però che la sepoltura di san Jacopo fue più lontana de la sua patria che d’alcuno altro apostolo; chiamansi romei quelli che vanno a Roma”.

Dunque, Sigerico, come tutti coloro che percorrevano la via Francigena per andare a Roma, era, in modo stretto per dirla con Dante, un ‘romeo’.

 

 

 La via Francigena presso Ariano Irpino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


La Sacra di S. Michele (TO), tappa della Via in Valsusa, con lo sfondo delle Alpi e del Colle del Moncenisio 

Attraverso monti e valli. A Luni, la Francigena incrociava un altro grande itinerario dei pellegrinaggi medievali, la strada che percorreva tutta la Liguria ricalcando l’antica via Aurelia, attraversava la Provenza e andava a congiungersi prima dei Pirenei con il cammino di Santiago de Compostela.

L’Aurelia arrivava a Luni da Roma attraversando la “Marittima”, come si diceva allora, cioè la Maremma, con un tragitto più breve di quello che passava per Siena. Ma quel percorso lungo loa costa era ampiamente coperto da paludi e infestato dalla malaria, per cui si preferiva evitarlo per percorrere la più lunga e agevole via Francigena. L’arcivescovo Sigerico proseguì il suo cammino risalendo la Lunigiana lungo il Magra fino al valico della Cisa. Allora si chiamava monte Bardone, contrazione del nome latino Mons Longobardum, cioè monte dei Longobardi, che di qui transitavano per passare nella Tuscia. Dal valico Sigerico scese seguendo il corso del Taro, attraversò Fornovo, raggiunse Fidenza per arrivare a Piacenza. Pochi chilometri a monte della città emiliana, in una località che oggi si chiama Calnendasco, guadò il Po con una barca per puntare poi su Pavia, Vercelli, Ivrea e finalmente Aosta. Ad Aosta cominciava il tratto più duro del viaggio, con la salita al Gran San Bernardo e la lunga discesa che passando per la valle del Rodano arrivava a Losanna, sul lago di Ginevra. Va detto che il valico del Gran San Bernardo non era il solo. C’era già chi allora, soprattutto chi veniva dalla Francia occidentale, preferiva superare le Alpi passando per il colle del Moncenisio, scendendo poi per la Val di Susa verso Torino e andando a incrociare la Francigena a Vercelli, o più giù a Piacenza. Anzi, con l’andar del tempo, diventerà questo l’itinerario più battuto, non solo dai pellegrini ma anche dagli eserciti. È da qui che, alla fine del Quattrocento, scenderà in Italia il re di Francia Carlo VIII, aprendo la strada alle conquiste straniere (e a Fornovo, sempre sulla Francigena, sarà sconfitto dalla tardiva reazione delle signorie italiane mentre tornava da Napoli, diretto al suo Paese). Va aggiunto che tutta questa regione a cavallo delle Alpi faceva parte del ducato di Savoia, i cui signori, futuri re d’Italia, dovevano proprio al controllo dei passi alpini la loro potenza e ricchezza. A Losanna cominciava l’ultimo tratto della Francigena, lungo ma più agevole della parte italiana lasciando il lago di Ginevra, Sigerico risalì la cosiddetta via della Fiandra, scavalcò i monti del Giura, superò la Franca Contea con Besançon, la Borgogna con la grande abbazia benedettina di Cluny edificata neanche un secolo prima (neanche un secolo dopo avrebbe avuto come abate Ildebrando di Soana, futuro papa Gregorio VII, proveniente dalla Toscana pure attraversata dalla Francigena) la Champagne con Reims, l’Artois con Arras e finalmente giunse il canale della Manica, in prossimità di Calais. Dalla riva, mentre aspettava di imbarcarsi, poteva vedere le bianche scogliere di Dover e la sospirata Inghilterra, dove lo aspettava la prestigiosa sede arcivescovile di Cantembury. L’avrebbe occupata  per  non più di 4 anni – giusto il tempo per riposarsi dal lungo viaggio – quanti ne passarono dal suo ritorno in patria alla morte, avvenuta il 28 ottobre del 994, a neppure 45 anni di età.

 

Ghino di Tacco, il brigante terapeuta.

Ghino di Tacco davanti a Bonifacio VIII Boccaccio, in una immagine contenuta in un'edizione francese del Decameron risalente al XV secolo

Il rilievo collinare che separa la Val d’Orcia dalla Valle del Pagli, nel sud della Toscana, viene adesso facilmente superato grazie a una comoda galleria stradale sulla Cassia. Nel Medioevo, invece, il tracciato dell’antica via romana saliva sulla sommità dello spartiacque, dove, a 800 m sul livello del mar, sorge il borgo di Radicofani, dominando dalla mole imponente di una fortezza sulla quale svetta un’alta ed elegante torre merlata. Verso la fine del Duecento, questo castello fu il dominio e il rifugio del brigante Ghino di Tacco, un bandito di strada diventato presto popolare come una sorte di Robin Hood nostrano, Ghino apparteneva ad una famiglia della piccola nobiltà di campagna che, in mancanza di altre risorse, aveva pensato bene di procacciarsi da vivere rubando e rapinando. Catturato insieme al padre e allo zio, lui venne risparmiato per la giovane età mentre i suoi due parenti furono condannati a morte e giustiziati in piazza del Campo a Siena. Nel 1290 Ghino decise di riprendere la lucrosa attività di fuorilegge e, messa insieme una brigata di gente come lui, si impossessò della fortezza di Radiconfani, che faceva parte dello Stato pontificio, ma era al confine con la repubblica senese. Da lassù poteva controllare il tratto sottostante della Francigena e catturare i ricchi viandante, i mercanti o pellegrini, che poi tratteneva prigionieri nella torre fino a quando avessero pagato un buon riscatto. Stanarlo era praticamente impossibile: Siena non poteva farlo perché il castello era fuori del suo territorio, il papa non voleva farlo perché aveva ben altri grattacapi. Sicuro della sua impunità, Ghino arrivò al punto di andare a Roma con qualche centinaio di uomini, salire al Campidoglio, entrare nella sala dove si amministrava la giustizia e, come ricorda Dante, decapitare il giudice Benincansa da Laterina, che quando stava a Siena aveva condannato a morte suo padre e suo zio. Poi, infilzata la testa sulla punta di una picca, se ne tornò a Radicofani, senza che nessuno potesse fermarlo. Il macabro trofeo rimase esposto molti giorni sulla torre del castello, a feroce ammonimento di podestà e giudici temerari. In una novella del Decamerone si racconta che l’abate di Cluny, mentre tornava da Roma sofferente di lancinanti dolori allo stomaco, pensò di andarsi a curare alle vicine terme di San Casicano. Ma, sequestrato da Ghino di Tacco, guarì del suo male grazie alla dieta impostagli dal bandito durante la prigionia, che era composta di pane, fave secche e Vernaccia di San Gimignano. L’abate fu così soddisfatto che chiese e ottenne il perdono per il brigante terapeuta.  

Fortezza di Radicofani, 02.jpg

L'entrata e il dongione

 

Articolo di Marcello Riccardi, giornalista e ricercatore storico, pubblicato su BBC History del mese di maggio 2019. Altri testi e immagini da Wikipedia.

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