sabato 27 giugno 2020

La rivolta dei Boxer

La rivolta dei Boxer

I 55 giorni che sconvolsero Pechino. Per i tumulti di una setta che voleva scacciare gli stranieri dalla Cina.

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Forze Boxer a Tientsin.

La crisi irreversibile del millenario e anacronistico “impero di mezzo”, l’affondo del rapace colonialismo europeo e nipponico in un territorio di 400 milioni di abitanti. Una delle persecuzioni anticristiane più violente della Storia e l’efferata rappresaglia che cementò un sentimento antioccidentale destinato a caratterizzare a lungo la politica estera di Pechino. Queste provocate dai pochi mesi di violenti tumulti, culminati nei celebri “cinquantacinque giorni di Pechino”, o Rivolta dei Boxer, che squassarono la Cina nell’anno 1900, il primo di secolo cruento.

 

Militari delle potenze durante la ribellione dei Boxer, con le proprie bandiere navali, da sinistra a destra: (Naval ensign of Italy in 1900) Italia(Flag of the United States in 1900) Stati Uniti(Naval ensign of France) Terza Repubblica francese(Naval flag of Austria Hungary in 1900) Impero austro-ungarico(Naval flag of Japan) Impero giapponeseNaval flag of the German Empire Impero tedesco(White Ensign of the United Kingdom) Impero britannico(Naval jack of Russia) Impero russo. Stampa giapponese, 1900.

L’attacco degli iniziati. Ma chi erano i Boxer? Il nome, derivato da un erroneo appellativo dato loro dagli europei, è fuorviante: non si trattava infatti di “pugilatori” nel senso comune della parola, bensì dei membri di una società segreta chiamata I-Ho-Ch’uan, Pugni di Giustizia e concordia. Nel loro credo si mescolavano rivendicazioni sociali, xenofobia e fanatismo intriso di elementi magici e popolari. In quadrati militarmente e addestrati nelle tecniche delle arti marziali ancora sconosciute in Occidente (da qui la semplificazione di Boxer), gli adepti venivano indottrinati al culto dell’obbedienza assoluta e del sacrificio supremo, ma anche alla fede di spiriti, talismani e forze soprannaturali, al punto da affrontare a mani nude o con armi bianche avversari muniti di pistole e fucili. Nata a fine Ottocento come ribellione spontanea ai soprusi dei signori feudali cinesi, ma anche all’influenza crescente di potenze straniere come Inghilterra, Germania, Russia, Francia e Giappone, l’iniziativa dei “Pugni” ebbe terreno fertile nel malcontento diffuso. Aderirono braccianti e artigiani ma anche disertori, piccoli funzionari e vagabondi. Rancori e umiliazioni si accumulavano del resto da decenni, nella sostanziale inerzia della dinastia Qing, già non molto amata poiché di origine mancese e quindi considerata “straniera” rispetto all’etnia Han della Cina propriamente detta. Con le disastrose Guerre dell’Oppio (1839-42 e 1856-60), l’impero aveva dovuto cedere all’Inghilterra Hong Kong, aprire porti al commercio estero, accogliere missionari e sedi diplomatiche dei “barbari bianchi” (yi), che stravolgevano tradizioni sociali e religiose. Quanto al Giappone, con la guerra del 1894 aveva strappato ai cinesi Taiwan, parte della Manciuria e la Corea, oltre a intascare una cospicua indennità bellica. La miccia era dunque molto corta, e dopo una serie di delitti sporadici, nel maggio 1899 la ribellione esplose con attacchi mirati nella provincia settentrionale dello Shantung, per poi allargarsi ad altri territori. Bersagli per antonomasia, i simboli dell’odiato Occidente: ferrovie, linee telegrafiche, fabbriche e ingegneri, ma soprattutto i missionari e più ancora i cinesi convertiti al cristianesimo. Considerati dei traditori, i cristiani vennero massacrati a migliaia, in un delirio di efferatezze che non risparmiò donne e bambini. Le diplomazie chiesero a gran voce al governo cinese un intervento deciso, ma le risposte furono evasive. E non poteva essere altrimenti. Sul trono dei Qing sedeva infatti “il vecchio Buddha”, l’anziana imperatrice madre Cixi (1835-1908), retriva e tradizionalista.

Concubina, poi moglie legittima e infine vedova dell’imperatore Xianfeg, reggente di un figlio e poi di un nipote esautorati da ogni prerogativa, l’unica vera donna di potere nella storia del Celeste impero guardava con nostalgia all’antico isolamento del suo Paese. e da veterana di intrighi di corte qual era, pensò ingenuamente di gestire la situazione col più semplice antidoto alle crisi di palazzo: mettere una fazione contro l’altra. I sovversivi Boxer furono così riabilitati come patrioti in guerra contro gli invasori.

 

Scena del delitto del barone von Ketteler, che ha segnato l'inizio dei «55 giorni di Pechino». Fotografia scattata intorno al 1902.

Punto di rottura. In seguito all’allarme delle proprie ambasciate, intanto, 8 nazioni – tra cui l’Italia, con un corpo di spedizione di oltre 2mila militari salpato da Napoli – formalizzarono un’alleanza e decisero un’azione dimostrativa: navi europee, giapponesi e americane sbarcarono dal porto di Taku nei pressi di Tientsin, geograficamente lo scalo più prossimo alla capitale, un contingente internazionale di circa 20mila uomini al comando dell’ammiraglio inglese Edward Hobart Seymour (1840-1929) e intimarono al governo di agire contro i ribelli. A quel punto l’imperatrice Cixi ruppe gli indugi e dichiarò guerra agli stranieri formalizzando l’alleanza con la setta, le cui milizie erano intanto giunte alle porte di Pechino. La rivolta dei Boxer era ormai un conflitto internazionale. Pierre Loti (1850-1923), pseudonimo dello scrittore e ufficiale di Marina Julien Viaud, si era imbarcato a bordo della corazzata Redoutable per partecipare alla grande spedizione punitiva. Nel suo libro Gli ultimi giorni di Pechino, scritto nel 1902, la rabbia dei Boxer viene illustrata con terribili immagini di cadaveri dissepolti e bruciati, “per distruggere, secondo le credenze cinesi, tutto ciò che potrebbe ancora essere rimasto delle loro anime”, e di cisterne  per l’acqua riempite “fino all’orlo con i corpi mutilati di ragazzini presi dalla scola dei religiosi e dalle famiglie cristiane del vicinato. I cani venivano a mangiare dall’orribile mucchio”. L’ufficiale francese si dilungava sconvolto su dettagli di mani senza unghie e cadaveri di donne con i seni strappati e infilati nelle loro bocche. Il 21 giugno 1900, come rappresaglia per l’esecuzione immotivata di un giovane presunto Boxer, l’ambasciatore tedesco Clemens von Ketteler fu ucciso. Il Kaiser Guglielmo II, furioso, arringò i rinforzi in partenza per l’Estremo Oriente conl celebre e violentissimo “Discorso degli Unni”, in cui esortava i suoi soldati a comportarsi in Cina come i barbari di Attila. Nel frattempo a Pechino la furia della setta divampava mentre il personale diplomatico – sostenuto solo dal piccolo contingente alleato di 2500 uomini che era riuscito a raggiungere la capitale prima dell’inizio degli scontri – restava asserragliato nel “Quartiere delle legazioni”. Subirono un duro assedio anche il Pe-tang, la cattedrale cattolica di Pechino, e l’adiacente missione, difese da marinai italiani e francesi. “Soprattutto di notte le palle di cannone cadevano come grandine al suono delle trombe dei Boxer e dei loro gong spaventosi, e per tutto il tempo le loro grida di morte, ‘Cha, cha’ (uccidiamo, uccidiamo) o ‘Chao! Chao’ (bruciamo, bruciamo), riempivano la città come gli ululati di un enorme branco di cani da caccia”, scrive Loti.

 

Esecuzione di Boxer dopo la ribellione.

I giapponesi decapitano un presunto Boxer.


La repressione. Impegnate in furiosi combattimenti a Taku e Tientsin, le truppe straniere riuscirono a muovere verso Pechino e a occuparla solamente il giorno di ferragosto; nel settembre dell’anno successivo il governo cinese avrebbe dovuto firmare l’umiliante “Protocollo dei Boxer” che ai vincitori concedeva tra le altre cose un enorme indennizzo di guerra, la gestione delle entrate fiscali e nuovi possedimenti coloniali, come la Concessione italiana di Tientsin durata fino al 1943. Ormai screditata, la dinastia feudale Qing pochi anni più tardi sarebbe stata consegnata alla Storia dalla rivoluzione repubblicana del 1911. Ma tutto questo sarebbe venuto dopo: nel presente drammatico che chiudeva i “cinquantacinque giorni”, l’imperatrice Cixi fuggiva dai suoi palazzi vestita da contadina e dietro di lei si scatenava la durissima rappresaglia di europei e giapponesi, in un crescendo di saccheggi ed esecuzioni sommarie di chiunque fosse anche solo sospettato di simpatizzare con i ribelli. “Tutte le bandiere d’Europa fluttuano tra le rovine di Tientsin, spartita tra gli eserciti alleati”, scrive ancora Loti, in una babele di uniformi d’ogni genere. Sugli eccessi di violenza dei vincitori, però, il tono del francese si fa duro nel deplorare una barbarie condivisa da tutti. E il suo diventa un j’accuse non diverso per obiettività da quello di Luigi Barzini, corrispondente del Corriere della Sera, che scriveva sconcertato: “E’ la guerra che apre le valvole a tutta la perversità naturale che portiamo compressa in fondo all’anima… Così soltanto si può spiegare quanto le truppe delle nazioni civili compirono e compiono in Cina”. Quella che era nata come un’operazione di peacekeeping, la prima della Storia, si era conclusa nei fatti come una guerra qualsiasi, spietata e sanguinaria.

 Subito dopo la liberazione degli assediati, le forze internazionali procedettero alla spartizione della capitale. I partecipanti all'alleanza delle otto nazioni furono responsabili del saccheggio di molti manufatti storici di origine cinese, come quelli che si trovavano nel Palazzo d'Estate, e istigarono l'incendio di molti importanti edifici cinesi nel tentativo di sbaragliare i ribelli Boxer:

«A seguito della presa di Pechino, truppe della forza internazionale, eccetto italiani e austriaci, saccheggiarono la capitale e persino la Città Proibita, così che molti tesori cinesi trovarono la loro via per l'Europa.»

(Kenneth G. Clark THE BOXER UPRISING 1899 - 1900. Russo-Japanese War Research Society)

In questa fase, secondo tutte le fonti, il comportamento dei vincitori toccò il culmine della crudeltà. Così riferiscono Marianne Bastide, Marie-Claire Bergère e Jean Chesneaux:

«Ha allora inizio una carneficina e un saccheggio sistematici che superano di gran lunga tutti gli eccessi compiuti dai boxer. A Pechino migliaia di uomini vengono massacrati in un'orgia selvaggia: le donne e intere famiglie si suicidano per non sopravvivere al disonore; tutta la città è messa al sacco, il Palazzo imperiale, occupato dalle truppe straniere, viene spogliato della maggior parte dei suoi tesori.»

(Marianne Bastide, Marie-Claire Bergère e Jean Chesneaux, La Cina, vol. II, Dalla guerra franco-cinese alla fondazione del Partito comunista cinese, 1885-1921, Einaudi, Torino 1974, pagina 118.)

Inviato di Le Figaro in Cina, il celebre scrittore Pierre Loti confermava nei suoi articoli «la smania di distruzione e la furia omicida» contro l'infelice «Città della Purezza»:

«Ci sono venuti i giapponesi, eroici piccoli soldati di cui non vorrei parlar male, ma che distruggono e uccidono come in altri tempi le orde barbare. Ancora meno vorrei sparlare dei nostri amici russi, ma hanno spedito qui cosacchi provenienti dalla vicina regione tartara, siberiani mezzo mongoli, tutta gente abilissima a sparare, ma che concepisce ancora la battaglia alla maniera asiatica. Poi sono arrivati qui gli spietati cavalieri d'India, delegati dalla Gran Bretagna. L'America ha inviato i suoi mercenari. Non c'era più nulla di intatto quando sono arrivati, nella prima eccitazione della vendetta contro le atrocità cinesi, gli italiani, i tedeschi, gli austriaci, i francesi.»

(Pierre LotiLes Dernièrs jours de Pékin, Calmann-Lévy, Parigi 1901, pagine 75-76.)

Il generale Chaffee, dal canto suo, riferiva ai giornalisti che si poteva seriamente affermare

«che dopo la presa di Pechino, per ogni boxer che è stato ucciso sono stati trucidati quindici innocenti portatori o braccianti di campagna, compresi non poche donne e bambini.»

(Peter FlemingLa rivolta dei boxers, Dall'Oglio, Varese 1965, pagina 359.)

Articolo di Adriano Monti Buzzetti Colella pubblicato su Focus Storia n. 150 – altri testi e immagini da Wikipedia.


martedì 23 giugno 2020

Devotio: sacrificio per la vittoria.

Devotio: sacrificio per la vittoria.

Un rito oscura e quasi dimentica, più simile a un atto magico che a un gesto sacro, poteva dare la vittoria alle legioni. Ma solo a costo della vita.

 

La devotio del console Publio Decio Mure, parte del ciclo di Pieter Paul Rubens sulle Storie di Decio, 1617-1618.

L’anno era il 295 a.C., il campo di battaglia si trovava nelle Marche, a Sentinum (nei pressi dell’odierna Sassoferrato). In lotta, contro Romani e Piceni, una coalizione di Sanniti, Galli Senoni, Etruschi e Umbri. Fu la cosiddetta battaglia delle nazioni dell’antichità e possiamo immaginare che le cose siano andate più o meno così.

 

Il console Publio Decio Mure arrivò al galoppo, seguito dai suoi littori. Sembravano vomitati dagli inferi, completamente lordi di sangue e polvere.

“Non c’è un istante da perdere” urlò al pontefice massimo, “la nostra cavalleria è stata dispersa dai carri da guerra dei Galli e l’intera ala sinistra ha ceduto. Occorre chiedere l’intercessione degli dei per ribaltare le sorti di questa battaglia. dobbiamo fare una devotio”.

Il pontefice scosse il capo, come se volesse rifiutare di aver sentito quelle parole.

“E’ questa la sorte data alla famiglia, siamo vittime espiatorie nei pericoli dello Stato. ora offrirò con me le legioni nemiche in sacrificio alla Terra e agli dei Mani!”.

“Stai per compiere un rituale pubblico, è necessario che tu sia vestito da magistrato, con la tuta toga pretesta”. Il console mise mano a una bisaccia assicurata alla sella del cavallo ed estrasse un fagotto bianco “Devi metterla all’antica maniera, con il cingo Gabino”.

I littori aiutarono il console a indossare la toga. Il pontefice perse una lancia dei triari e la passò a Decio, che la gettò a terra prima di salirvi con entrambi i talloni. Il sacerdote prese la mano sinistra di Mure e la mise sotto il mento del console prima di velargli il capo con un lembo della toga. “Giano, Giove, padre Marte” recitò il pontefice seguito da Mure “Quirino, Bellona, Lari, dei Novensili, dei Indigeti, dei nelle mani ci troviamo noi e i nostri nemici. Dei Mani, io vi invoco, vi imploro e a voi, sicuro di ottenerla, chiedo questa grazia: concedete benigni al popolo romano dei Quiriti la vittoria e la forza necessari e gettare paura, terrore e morte tra i nemici del poplo romano dei Quiriti. Come ha dichiarato con le mie parole, così io agli dei Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti per l’esercito e per le truppe ausiliare del popolo romano dei Quiriti, offro in voto le legioni e le truppe ausiliare del nemico insieme a me stesso”.

 

Un rito sacro. A pronunciare queste pare fu li console Publio Decio Mure, prima di gettarsi da solo nella mischia in cui avrebbe trovato la morte. Il testo della formula di sacrificio ci è stato tramandato nella Storia di Roma (Ad Urbe Condita) da Tito Livio, unico autore a descrivere con dovizia di particolari la devotio. Questo antico rito era praticato in casi estremi, quando le sorti di una battaglia sembravano compromesse e il comandante in capo dell’esercito votava se stesso alle divinità seguente un preciso rituale. Proprio la composizione del testo fa presumere che si trattasse di un rito arcaico a lungo dimenticato, anzi, forse mai messo in pratica in età repubblicana. Non ci sono, infatti, altre testimonianze relative alla devotio, se non quelle che narrano il sacrificio di tre consoli della famiglia plebea dei Decii, che si votarono agli dei per garantire la vittoria alle loro legioni. Il primo fu Publio Decio Mure, morto nel 340 a.C. durante la battaglia del Vesuvio, combattuta contro i Latini. Il figlio, chiamato anch’egli Publio Decio Mure, sacrificò la propria vita nella battaglia del Sentino del 295 a.C., che aprì a Roma la via per l’egemonia sua tutta la penisola. Suo figlio, noto come il terzo Decio Mure, morì infine nella battaglia di Ascoli Satriano, nel 279 a.C., da cui i Romani uscirono sconfitti, ma al termine della quale Pirro pronunciò la famosa frase: “Ancora una vittoria come questa e sarò perduta”. Dal racconto di Tito Livio traspare la sacralità di questo rito pubblico, giuridico e religioso, eseguito con l’assistenza del pontefice (appartenente al più antico collegio sacerdotale romano), che indicava il modo più opportuno per adempiere gli obblighi che garantivano la concordia tra la comunità e gli dei. Fu lui a dare disposizione a Mure di indossare la toga pretesta, bordata di porpora, indumento necessario per i rituali pubblici dei magistrati romani. Un altro indizio dell’origine antica del rito si trova nel fatto che la toga andava annodata con il “cinto Gabino”, cioè indossata in modo da formare una sorta di cintura dopo aver fatto passare un lembo sotto il braccio destro, all’antica maniera degli abitanti di Gabii, città dove la tradizione vuole che Romolo e Remo siano stati educati. Decio Mure indossò la toga e si coprì il capo, come d’uso nei riti sacerdotali. Gli fu poi chiesto di toccarsi il mento con la mano fatta uscire da sotto la toga, come se afferrasse se stesso, vittima sacrificale. Infine, gli venne passato un giavellotto sul quale si erse in piedi, come a favorire, con questo gesto, una sorta di trasferimento di valore dall’arma al devoto (non dimentichiamo che i sacerdoti Salii usavano dichiarare guerra lanciando un giavellotto nel campo nemico).

 

L’ombra del sacrificio umano.

La devotio era un antichissimo rito religioso in cui il comandante dell’esercito si rivolgeva direttamente agli dei, offrendo la propria vita in cambio della morte delle schiere nemiche e della vittoria delle sue legioni. Il sacrificio supremo (in cui è possibile riconoscere la traccia di antichi sacrifici umani) era sostenuto dalla ferma convinzione che le divinità accettassero lo scambio, perché, a differenza di altre pratiche religiose, il risultato della devotio era richiesto agli dei in anticipo, mettendoli nella condizione di non poter rifiutare. Elementi caratteristici della formula erano il nome della divinità a cui ci si rivolgeva, quello di cui chi lo invocava, l’esposizione dell’evento e l’indicazione della ricompensa promessa al dio o agli dei interpellati.

Sebbene la devotio fosse un rito di natura mistica, aveva anche una forte ripercussione psicologica sulle legioni. Assistere al sacrificio del proprio comandante, che si immolava per il bene comune e per la patria, innescava nei combattenti una potente carica emozionale, che generava un profondo senso di coesione fra i soldati. Questo, unita alla convinzione che l’esercito per cui combattevano fosse protetto dagli dei, esaltava gli animi dei militari, spingendoli a battersi con estremo coraggio fino al raggiungimento della vittoria, contro un avversario che veniva intimidito da tanta veemenza nemica.

 

Un uomo, un popolo. Solo a quel punto Decio Mure pronunciò la formula sacra, nella quale si chiedeva a una serie di divinità di concedere la vittoria ai Romani e di seminare terrore, paura e morte tra i nemici. Il primo dio a essere invocato è Giano, protettore degli inizi e dei passaggi, seguito da Giove, Marte e Quirino, la triade capitolina più arcaica (altro indizio sull’antichità della formula), e poi da Bellona, divinità della guerra legata a Marte e ai Lari, spiri protettori degli antenati defunti. La formula prosegue con l’indicazione di tutte le divinità che hanno autorità sui Romani e sui loro nemici, per concludersi con il richiamo agli dei Mani, le divinità dell’Oltretomba, e alla Terra, dei morti. Il popolo dei Quiriti, nome che i Romani davano a se stessi, viene citato ben quattro volte, per evitare qualsiasi ambiguità sui destinatari degli effetti del sacrificio: vittoria per i Romani e morta al nemico. A questo punto, al console non restava che salire a cavallo e gettarsi contro le orde avversarie per ottenere l’intervento divino, garantito da un’altra frase della formula: “Vi imploro, e a voi, sicuro di ottenerla, chiedo questa grazia”. Quel “sicuro di ottenerla” obbligava le divinità ad accettare il patto in anticipo, senza poterlo rifiutare. A duemila anni di distanza, si può sorridere di fronte a queste parole, ma i fatti ci dicono che la dedizione dei consoli alla res publica, per la quale compirono gesta di estremo coraggio, fu premiata, e Roma uscì vincitrice da tutti e tre i conflitti.

 

Articolo di Massimiliano Colombo, autore del romanzo Stirpe di eroi pubblicato su Civiltà Romana n. 3 – altri testi e immagini da Wikipedia.  


sabato 20 giugno 2020

L’educazione nell’antica Grecia: la Paideia.

L’educazione nell’antica Grecia: la Paideia.

Nell’Ellade dell’Età classica i giovani venivano formati per diventare cittadini e soldati al servizio dello stato. Oggi si ritiene che il sistema educativo fosse aperto anche alle donne.

 

Recita di poesie da parte di un giovane accompagnato da un musico (rilievo funerario risalente all'incirca al 420 a.C., Gliptoteca di Monaco). Per molto tempo una delle forme di trasmissione della cultura fu la recitazione poetica.

Gli antichi greci definivano paideia il lungo processo di formazione dei futuri cittadini, che prevedeva l’apprendimento di determinate conoscenze e l’acquisizione di specifiche attitudini. Il principio di base era che senza educazione non potesse esserci cultura, e che la cultura fosse fondamentale per un esercizio della cittadinanza che prevedeva la partecipazione agli organi politici democratici e un servizio militare praticamente permanente. L’obiettivo ideale della paideia era conseguire l’aretè, un’eccellenza pubblicamente riconosciuta sotto vari aspetti, soprattutto la forma fisica e il perfezionamento dello spirito. In termini competitivi, l’aretè cui mirava la paideia rappresentava il fondamento della leadership. Tuttavia l’importanza dell’istruzione nella vita politica delle città greche non va sopravvalutata. Non era per esempio necessario essere in grado di leggere e scrivere per avere diritto a partecipare all’assemblea, essere eletti nel consiglio, esercitare una magistratura o essere membri di una giuria popolare. Secondo il principio cardine delle democrazia ateniese le cariche statali erano estratte a sorte tra i cittadini e in alcuni casi erano retribuite, una misura volta a incentivarne l’esercizio. Per la redazione e la lettura dei documenti si poteva pur sempre fare affidamento sui segretari, che erano dei servitori pubblici, cioè dei lavoratori permanenti. E per proporre l’esilio di un concittadino bastava farsi aiutare a scriverne il nome sull’ostrakon da qualche conoscente alfabetizzato. Inoltre molte persone erano costrette a far lavorare i propri figli fin da piccoli e non erano in grado di sostenere i costi degli studi.

Anche se non esistono dati sulla scolarizzazione nella Grecia antica, è molto probabile che la paideia lasciasse fuori la maggior parte dei cittadini. Il livello economico era forse ancor più importante del genere nel determinare l’accesso all’istruzione.


Lezione di un maestro ad uno studente (coppa attica di Duride, 500 a.C., Berlino

Formare futuri cittadini.

Uno scolaro assistito da un pedagogo, dettaglio da La scuola di Atene di Raffaello (1509)


 

Forse IX secolo a.C.

Fin dalla sua nascita, Sparta si occupa di educare i bambini come futuri soldati e cittadini.

VIII secolo a.C.

Omero compone l’Iliade e l’Odissea, due poemi che successivamente diventano la base dell’educazione greca.

VII secolo a.C.

Con le opera e i giorni, Esiodo inaugura un tipo di poesia mirato più all’istruzione che all’intrattenimento.

VI secolo a.C.

I presocratici introducono la matematica nella formazione, che per loro deve procedere per gradi.

VI-V secolo a.C.

I sofisti insegnano materie che non si studiano a scuola: fisica, astronomia, medicina, oratoria e altre.

IV secolo a.C.

Platone promuove un metodo d’insegnamento pensato per formare i nuovi governanti tramite metodi filosofici.

 

Scena di simposio tra un'etera con aulos e un giovane uomo. Kylix attico a figure rosse, conservato alla Yale University.


I primi anni. Fino a sette anni circa la prole veniva educata nell’ambiente domestico, sotto la responsabilità delle donne di casa, di qualche servo e del nonno paterno, ormai libero da ogni altro dovere civico. Il capofamiglia era il padre, un cittadino maggiore di 30 anni che di fatto partecipava poco alla vita familiare. Di solito era fuori a lavorare, a occuparsi di questioni pubbliche o a prestare servizio in qualche campagna militare. In un modello omosociale in cui le donne stavano con le donne e gli uomini con gli uomini, questi ultimi trascorrevano anche il tempo libero all’esterno della casa o nell’andron, la parte dell’abitazione loro riservata.

Se le femmine crescevano all’ombra della madre, ai maschi mancava invece la figura paterna. L’istituto della pederastia aveva lo scopo di supplire alla funzione iniziatica del padre nei confronti dei figli. L’adolescente si legava a un uomo adulto che gli faceva da mentore e protettore e lo introduceva nell’ambito civile e militare, all’interno di una relazione di amante e amato. Va comunque detto che nella democrazia ateniese la pederastia non era sempre ben vista, in quanto considerata un fenomeno di origine aristocratica. Sebbene l’educazione fosse principalmente rivolta alla formazione del cittadino, non era organizzata né finanziata dalla polis (tranne che a Sparta). Non esistono programmi scolastici né libri di testo, anche se le attività svolte erano oggetto di ispezioni. Non c’erano esami, ma ci si misurava in continue competizioni. Lo spirito agonistico e la lotta per il primato costituivano l’asse portante di un sistema educativo che comunque era improntato a una certa durezza. Una delle più antiche testimonianze relative alla scuola greca è una coppa attica della fine del VI secolo a.C. conservata a Monaco di Baviera. Qui appare il didaskalos (maestro), un termine che indicava anche il direttore di un coro di canto e danza, come quello rappresentato su un altro celebre reperto, un vaso unguentario spartano. Forse proprio nell’insegnamento del canto e della danza è possibile ritrovare l’origine delle scuole, in virtù del valore formativo generalmente riconosciuto a queste attività.

 

L’erastes maestro e amante.

Ritrosia di un eromenos (ragazzo) di fronte agli approcci di un erastès (adulto), nella tomba del tuffatore

Nell’antica Grecia le relazioni omosessuali avevano una funzione educativa e di integrazione sociale. Ecco perché dovevano attenersi a regole molto specifiche che nessuno poteva violare.

L’erastes, l’amante, doveva essere un uomo adulto di più di 30 anni, cittadino a pieno titolo. Sceglieva il suo amato, l’eromenos, al di fuori della propria cerchia familiare, tra i giovani (meirakia) di almeno 15 anni impegnati nel percorso educativo.

Il rapporto poteva durare fino a quando il giovane raggiungeva l’età adulta, occasione che veniva celebrata dall’erastes con un dono simbolico, come per esempio l’equipaggiamento militare. I  genitori del ragazzo vedevano favorevolmente il fatto che l’erastes fosse un personaggio prestigioso e dotato di buoni contatti che sarebbero potuti tornare utili alla successiva carriera del figlio.

Omero, il maestro della Grecia.

Molti greci imparavano a memoria i 28mila esametri che compongono l’Iliade e l’Odissea, perché durante tutta l’antichità i poemi omerici erano considerati i testi base della paideia.

La guerra di Troia era uno scenario molto remoto per l’età classica, come potrebbe essere oggi il Medioevo. Ma quel conflitto leggendario fungeva l’attitudine a sacrificarsi in favore della comunità. Omero mostrò ai greci come raggiungere la kalokagathia, quell’ideale di bellezza fisica e morale che avrebbe rappresentato il valore assoluto nel successivo sviluppo della cultura ellenica.

 

L’educazione dei ragazzi. In ogni caso, l’istruzione elementare coniugava l’apprendimento delle lettere (grammata), lo studio di diverse varietà musicale e la pratica sportiva. Una tavoletta votiva ritrovata a Corinto mostra dei fanciulli che suonano la lira e il flauto durante un rito, e alcune testimonianze del politico ateniese Alcibiade indicano che a scuola si praticava la lotta. a ciò si aggiungeva l’iniziazione alla matematica, che si divideva in due rami: l’aritmetica, ovvero lo studio dei numeri, e la geometria, che si occupava delle relazioni spaziali. Il bambino veniva accompagnato a scuola da uno dei servi di casa, di solito un anziano non più in grado di svolgere lavori fisici pesanti, che lo attendeva fino all’ora del ritorno. Si trattava del paidagogos, responsabile di garantire l’integrità del ragazzo e di controllare che svolgesse i compiti. Il pedagogo insegnava anche le buone maniere: camminare per strada tenendo gli occhi bassi, indossare correttamente il mantello, sedersi senza incrociare le gambe e senza appoggiare il mento sulla mano, rimanere in silenzio, mangiare in maniera controllata durante i pasti. Nelle rappresentazioni dell’epoca il pedagogo è di solito raffigurato con tratti e l’abbigliamento dei servi di origine straniera, e impugna il caratteristico bastone che gli permette di esercitare la sua autorità tramite la minaccia o la concreta punizione fisica.

A 18 anni l’adolescente diventava ephebos (giovane) e riceveva l’addestramento militare necessario a diventare hoplites (soldato). Questa formazione durava 36 mesi, fino al compimento dei 21 anni, che segnavano l’ingresso nell’età adulta. L’istruzione veniva completata dallo studio di retorica, letteratura, musica e geometria. Chi poteva permetterselo prendeva anche lezione dai sofisti, molto più costosi degli insegnamenti tradizionali. Nell’Atene classi l’efebia era un’istituzione strettamente regolata che prevedeva obblighi specifici, come la partecipazione a determinati riti religiosi. Costituiva la fase d’integrazione la cittadinanza con la quale si concludeva una paideia ben riuscita e riforniva di nuova linfa il corpo e l’anima della città.

 

La sapienza delle donne.

Che in Grecia le donne non fossero totalmente escluse dall’educazione è dimostrato dall’esistenza di un buon numero di filosofe. Per esempio si conoscono i nomi di due allieve che nel IV secolo frequentarono l’accademia di Atene: Arete di Cirene, figlia del filosofo Arispippo, e Assiotea di Fliunte.

Quest’ultima sarebbe stata così colpita dalla lettura della Repubblica di Platone da trasferirsi ad Atene per diventare sua discepola. Nelle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio racconta che Assiotea doveva travestirsi da uomo per poter assistere alle lezioni del maestro.

Platone e l’educazione civica.

L'Accademia platonica in una xilografia di Carl Wahlbom (1879)

Platone concepì una nuova paideia, un sistema educativo uguale per entrambi i sessi che doveva essere imposto dallo stato, secondo l’esempio di Sparta.

Si trattava di una formazione permanente, perché durava tutta la vita, ed era strutturata per gradi. Si cominciava con la musica e la ginnastica, per proseguire con la matematica e la retorica. Il processo culminava con l’apprendimento della dialettica.

Platone riteneva che colui il quale fosse stato in grado di arrivare all’ultimo livello avrebbe potuto contemplare l’idea del bene, che implicava la conoscenza della verità e la trasformazione della propria anima. Queste persone avrebbero raggiunto la felicità e sarebbero conseguentemente state le uniche legittimate a governare.

 

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Aspasia conversa con Alcibiade e Socrate, dipinto di Nicolas André Monsiau.


Il ruolo delle donne. Non è del tutto chiaro in che misura l’educazione e l’esercizio della cultura fossero aperti anche alle donne, in quanto non c’è molta documentazione a riguardo. All’epoca non era normale trattare la condizione femminile, né per gli uomini né per le donne, e i pochi testi elaborati sono stati accolti con scarso interesse nelle epoche successive, finendo per andare perduti. Una felice eccezione è l’opera di Saffo, poeta nata a Lesbo nel VII secolo a.C. Si sono conservati appena seicento dei circa diecimila versi lirici da lei composti, che suscitarono grande ammirazione tra i suoi contemporanei. Saffo era forse sposata e dirigeva una scuola che si occupava di educare le adolescenti e prepararle al matrimonio. Ciò avveniva tramite l’insegnamento di poesia, musica e danza in un ambiente esclusivamente femminile, analogamente a quanto avveniva con la pederastia maschile. Un altro caso è quello di Aspasia di Mileto. La bella e colta compagna di Pericle apparteneva probabilmente a uno specifico gruppo di donne, le etère, che frequentavano gli uomini nei simposi dell’élite culturale ateniese. Nel dialogo platonico Menesseno, Socrate esalta le abilità retoriche di Aspasia definendole superiori a quelle dei Pericle e le attribuisce la composizione di un importante discorso del compagno. È vero che le etère non erano costrette nel limitato ruolo sociale che veniva riservato alle spose legittime, le uniche i cui figli potevano godere della piena cittadinanza. Ma lo è anche il fatto che il campo di azione delle mogli era meno ristretto di quello che si ritiene abitualmente. Nell’Economico di Senofonte, una sorta di trattato sull’amministrazione della casa scritto nel IV secolo a.C., un ricco cittadino si vanta del fatto di poter delegare alla sua giovane sposa la gestione della sfera domestica, in virtù delle grandi doti da lei dimostrate.

Ci sono anche svariate testimonianze di donne che amministravano il patrimonio familiare, un’attività che richiedeva come minimo di saper leggere e scrivere. Fortunatamente le decorazioni della ceramica attica a figure rosse riportano numerosi esempi di vita quotidiana femminile all’interno e all’esterno dell’oikos (la casa). Su un piccolo vaso per la conservazione di oli profumati e unguenti (lèkythos) è rappresentato una moglie che esamina un papiro estratto dal baule davanti a lei, presumibilmente per controllare la contabilità domestica. Alcune brocche utilizzate per il trasporto dell’acqua (idrie) raffigurano gruppi di donne nel gineceo – la parte della casa a loro riservata – intente a leggere o a recitare poesie con l’accompagnamento di vari strumenti.

 

Un’educazione analoga? Sembra chiaro che le ragazze di un certo livello economico, destinate al matrimonio legittimo e al controllo della famiglia, ricevevano un’istruzione di base simile a quella dei ragazzi. Meno noto è cosa avvenisse al di fuori della sfera domestica. Le donne greche infatti uscivano spesso di casa per svolgere varie attività, ma sempre accompagnate da altre donne, a meno che non fossero anziane. Questo consente di ipotizzare che il motivo decorativo di una famosa kylix del Metropolitan Museo di New York rappresenti una scuola femminile e che la donna raffigurata al centro sia un’adolescente accompagnata a lezione da una pedagoga. Per quanto riguarda la pratica sportiva, su alcuni vasi di ceramica sono raffigurate delle ragazze intente a lavarsi nella fontana di un ginnasio a detergersi il corpo con uno strigile. La composizione e gli elementi di tali scene corrispondono punto per punto alle rappresentazioni maschili. Si tratta sicuramente di ambiente omosociali femminili, ma non è possibile dedurre che fossero riservati alle etère. La conclusione più ovvia è che esistessero delle palestre destinate alle donne in generale. È risaputo d’altronde che in città come Sparta l’esercizio fisico era considerato molto salutare per affrontare la maternià.

 

Articolo di Raquel Lopez Melero docente ordinaria di storia antica università nazionale di educazione a distanza (Madrid) pubblicato su Storica National Geograpich del mese di febbraio 2019 – altri testi e immagini da Wikipedia.


lunedì 15 giugno 2020

Le mistiche.

Le mistiche.

Nel Medioevo la religione era il motore di tutto: anche delle ribellioni. Come raccontano la storia di cinque donne che, in nome di Dio, non piegarono mai il capo.

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Giovanna d'Arco all'incoronazione del re Carlo VII nella cattedrale di Reimsolio su tela di Jean-Auguste-Dominique Ingres, 1854, Museo del LouvreParigi

Giovanna d’Arco: l’eroina di Francia. Protagonista nella letteratura e al cinema, Giovanna d’Arco (1412-1431) era una giovane contadina di 13 anni quando annunciò che messaggeri celesti l’avevano esortata ad agire per la fede cristiana e per liberare la terra francese dagli invasori inglesi. Si era, infatti, nel pieno della Guerra dei Cent’anni (1337-1453), tra Inghilterra e Francia, e Giovanna abbandonò ben presto la casa paterna per presentarsi di fronte a re Carlo VII ed esortarlo alla battaglia. Il sovrano, spinto probabilmente dalla disperazione per una guerra che sembrava persa, accettò che la ragazza si ponesse alla testa delle sue truppe e che le guidasse con indosso un’armatura bianca.

Morte di Giovanna d'Arco, quadro di Jules Eugène Lenepveu (1886-1890) esposto al Panthéon de Paris

Sacrificata. L’ardore mistico di Giovanna spinse i francesi a rialzare la testa ma Carlo VII, che non era certo un ‘cuor di leone’, ottenuto qualche successo sui nemici decise di abbandonare la ‘Pulzella d’Orleans’ al suo destino. Le lasciò pochi cavalieri con cui Giovanna andò in battaglia e continuò a essere la spina nel fianco dell’Inghilterra fino a che non cadde prigioniera. Fu sottoposta a processo e accusata di eresia, ma Giovanna davanti ai giudici non rinnegò né le visioni celesti, né il  suo desiderio di liberare la Francia dagli invasori. Finì sul rogo, però il suo esempio restituì l’orgoglio e la voglia di combattere ai francesi.

 

Ildegarda di Bingen: un talento universale. Scrittrice, musicista, pensatrice, naturalista, scienziata e veggente: la tedesca Ildegarda von Bingen (1098-1179) è stata questo e non solo. Il suo destino fin da bambina fu il monastero, ma grazie alle nobili origini poté contare su molta autonomia. Divenne ben presto badessa e fondò monasteri all’interno dei quali, con grande scandalo per l’epoca, desiderava che le monache indossassero abiti sfarzosi e gioielli per rendere maggiore omaggio a Dio durante le cerimonie. Altro scandalo venne dal fatto che amava predicare in pubblico e comporre musica, attività fino a quel momento riservate agli uomini. Inoltre, da tutta la Germania si rivolgevano a lei per avere medicamenti contro le malattie più disparate, dato che fu una delle maggiori esperte di farmacologia dell’epoca. Erano, infine, famose le sue doti profetiche, legate alle visioni mistiche e ebbe dall’età di sei anni.

Santa Ildegarda e la sua comunità di monache in una miniatura del XIII secolo.

Fuori dal coro. Il suo misticismo e la sua fama erano tali che nel 1169 diventò la prima donna a praticare l’esorcismo. Creò, come se non bastasse, una lingua artificiale, la “lingua ignota”, che lei utilizzava per parlare direttamente con Dio. Fedele al suo nome, che in tedesco significa “protettrice delle battaglie”, non si tirò mai indietro quando c’erano da affrontare vescovi, papi e re, ed ebbe uno scontro durissimo con l’imperatore Federico Barbarossa quando il sovrano divenne il più fiero avversario del papa. Insomma, in personaggio ribelle, a modo suo. E probabilmente per questo ha dovuto aspettare il 2012, cioè quasi mille anni, per essere proclamata santa.

 

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Santa Caterina da Siena, dipinto situato al Brooklyn MuseumBrooklyn.

Caterina da Siena: l’analfabeta che parlava con papi e re.  La prima ribellione fu contro il padre che desiderava per lei un matrimonio vantaggioso per la famiglia. Però, Caterina da Siena (1347-1380) dall’età di sei anni aveva estesasi mistiche e il suo unico desiderio era la vita religiosa. I familiari la segregarono in casa ma non riuscirono a piegare la sua volontà e all’età di 16 anni Caterina divenne una monaca domenicana. Nel Medioevo per le donne il monastero voleva dire preghiera e clausura ma anche qui la giovane volle fare di testa propria.


Testarda e risoluta. Alla vita traPietro di Francesco degli OrioliCaterina dona la veste al povero - Cristo in visione mostra a Caterina la veste ornata di pietre preziosesec. XVSienaPinacoteca nazionale. le mura monastiche Caterina preferì il servizio all’aperto, tra poveri e malati. Ben presto si formò attorno a lei un gruppo di seguaci denominata la “Bella Brigata”: uomini e donne che l’aiutavano nelle sue attività e la sorvegliavano durante i momenti di estasi. Soprattutto mettevano per iscritto le lunghe lettere che Caterina indirizzava a papi, vescovi e sovrani, bacchettandoli per i loro comportamenti. Venne accusata di protagonismo perché diceva apertamente quello che pensava, nonostante fosse una donna e per di più illetterata, e le gerarchie dei domenicani le misero accanto un sacerdote perché la controllasse da vicino. Nonostante questo, Caterina continuò imperterrita le sue attività e si recò anche ad Avignone per convince papa Gregorio XI a tornare finalmente a Roma. Fu proprio lei, con la sua testardaggine, a convincere il pontefice a tornare nella Città eterna nel 1376.

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Santa Chiara, affresco di Giotto

Chiara: la ragazza ricca che voleva essere povera. Chiara d’Assisi (1193-1253) era di famiglia nobile e per lei era previsto un matrimonio prestigioso. A dodici anni però sulla piazza di Assisi, vide un giovane, Francesco, che si spogliava dei suoi abiti e rinunciava ai beni del padre per vivere in assoluta povertà. Da quel momento Chiara decise di seguire il sentiero tracciato da Francesco. Poco tempo dopo fuggì da casa e si unì ai seguaci del futuro santo ma i famigliari la rapirono per costringerla a tornare sulle sue scelte o almeno ad accettare di entrare in un ricco monastero. A nulla valsero però minacce e percosse e Chiara alla fine poté unirsi alla comunità francescana. A questo punto furono le autorità ecclesiastiche a intervenire perché non era accettabile che donne e uomini stessero a braccetto, seppure nella preghiera.

In mezzo alla gente. Venne chiesto a Chiara e alle compagne che si erano ormai riunite attorno a lei di entrare in monastero ma la risposta fu netta: Chiara voleva stare tra la gente e vivere in assoluta povertà come facevano i frati di Francesco. Iniziò così un lungo braccio di ferro con le gerarchie della Chiesa che si protrasse per decenni. Alla fine Chiara decise di scrivere una propria Regola monastica, la prima redatta da una donna, all’interno della quale venne riaffermato che le clarisse (le monache di Chiara) dovevano essere povere e libere dalla clausura.

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Chiesa e monastero di San Damiano Assisi

Una regola che venne però approvata solo per un unico monastero, San Damiano ad Assisi.

 


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Santa Brigida di Svezia 


Brigida: il genio let ùterario della Svezia medievale. Ascesi e misticismo furono sempre parte della vita di Brigida di Svezia (1303-1373) che cominciò ad avere visioni all’età di sette anni. Per venire incontro alle esigenza della sua famiglia, appartenente all’alta aristocrazia, si sposò ed ebbe otto figli, senza abbandonare mai le attività di assistenza ai poveri e soprattutto gli studi, circondandosi dei grandi letterati della Svezia dell’epoca. Rimasta vedova nel 1344, si dedicò totalmente all’ascesi e alla carità ma non volle rinchiudersi tra le mura di un monastero. Fondò invece un proprio ordine, che venne approvato nel 1370, e si dedicò a lunghi viaggi a Roma e in Terrasanta.

Santa? Negli ultimi anni della sua vita aumentarono le estasi mistiche. Brigida era convinta di dialogare con Cristo e mise per iscritto le rivelazioni avute in quei momenti. Spesso is trattava di ammonimenti nei confronti del genere umano, in particolare contro i potenti della Terra, papa incluso. Questi ammonimenti gli procurarono molte critiche in seno alla Chiesa tanto che venne proclamata santa nel 1391 ma poi, per ben due volte, fu avviata una discussione rituale per annullare la sua canonizzazione. Su una cosa però tutti sono stati sempre d’accordo: i suoi scritti sono la massima espressione letteraria in lingua svedese del Medioevo.

 

Articolo di Roberto Roveda pubblicato su Focus Storia n. 150 – altri testi e immagini da Wikipedia


I vichinghi, gli eroi delle sagre.

  I   vichinghi gli eroi delle saghe. I popoli nordici vantano un tripudio di saghe che narrano le avventure di eroi reali o di fantasia. ...