Donne al lavoro nel
Medioevo
Al contrario di quanto
si potrebbe credere, nel Medioevo erano molte le donne che lavoravano.
Non
solo tessitrici e filatrici casalinghe o, al massimo, aiutanti nelle botteghe
dei mariti. Nel Medioevo le donne venivano impiegate in tutti i possibili
settori, compresi l’edilizia, le miniere e le saline. Vi erano imprenditrici
che si autofinanziavano con propri capitali ottenuti dalla vendita di abiti e
gioielli. Alcune donne col proprio col proprio lavoro riuscivano a mantenere sé
stesse e i propri familiari in difficoltà, o a saldare i debiti dei mariti in
un momento in cui le retribuzioni erano commisurate alle capacità e quindi non
dipendenti dal genere. Dal canto loro le nobildonne erano impegnate nelle
attività più varie: dall’organizzazione di laboratori per il ricamo, alla
gestione di miniere, alla direzione di opere di bonifica, all’impianto di
caseifici, fino alla gestione di miniere, alla direzione di opere di bonifica,
all’impianto di caseifici, fino alla gestione di alberghi. Lucrezia Borgia, ad
esempio, era un’abilissima imprenditrice agricola impegnata in lavori di
bonifica e in svariate attività, tra cui la produzione di mozzarelle di bufala
(di cui tra l’altro era golosa). Non raramente finanziava i suoi affari
vendendo i propri gioielli: sacrificando una catena d’oro costruì l’argine di
un fiume. Analogamente la madre di Lucrezia, Vanozza Cattanei, con la vendita
dei propri monili sovvenzionò la ristrutturazione di un albergo nel centro di
Roma, garantendosi in tal modo una cospicua rendita.
Battuta di caccia: le donne al centro stanno tirando una freccia con l'arco, quella a sinistra suona un olifante per guidare le cacciatrici verso la preda (1407-09 circa).
Salari personalizzati.
Nel Medioevo i salari erano
determinati dalla resa, indipendentemente dal genere. Nei lavori di
precisione in cui rendevano maggiormente, le donne prendevano più degli
uomini, come in Francia nel ‘300 chi rivestiva l’interno delle armature, e
nel ‘500 le fabbricanti di passamanerie d’oro.
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Donne e corporazioni, un rapporto
difficile.
Contrariamente a quanto si pensa,
nel Medioevo erano le corporazioni a rifiutare l’accesso alle donne, ma
succedeva il contrario. Motivi di carattere economico, o di tutela della
collettività, portavano – solo quando strettamente necessario – le
istituzioni cittadine e le associazioni professionali a esigere che anche le
donne fossero sottoposte alla giurisdizione corporativa in cui esse non
avevano alcun interesse a entrare. Preferivano infatti organizzarsi da sole,
cosa che consentiva loro di lavorare in nero, evitando le tasse e di non
avere obblighi di alcun tipo. Questo scatenava a volte liti feroci con la
corporazione: ad esempio nel 1306 le autorità cittadine e corporative
veneziane si misero a cercare casa per casa le sarte, per obbligarle a pagare
le tasse e a lavorare nel rispetto dei regolamenti.
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Settori femminilizzati. Nonostante la sua
capillare diffusione c’erano settori, come quello tessile, in cui il lavoro
femminile prevaleva, dando vita a manifatture ben organizzate gestite di donne.
Persino per la filature della lana, ritenuta tradizionalmente un’occupazione di
basso profilo svolta a domicilio, esistevano delle professioniste, proprietarie
della materia prima, che agivano autonomamente: a Barcellona alla fine del
trecento alcune di loro davano vita a piccole aziende in cui assumevano
apprendiste e giungevano a commercializzare direttamente il prodotto,
vendendolo al mercato settimanale sulla piazza cittadina.
Tre settori
esclusivamente femminili erano caratterizzati da notevoli e autonome capacità
organizzative: le fasi preliminari alla trattura (che include l’avvolgimento del
filo sul rocchetto); la filatura dell’oro; la confezione di veli e cuffie o di
acconciature di seta e di cotone. Articoli, questi ultimi, destinati alle donne
e che richiedevano un gusto prettamente femminile nell’ideazione. Perciò in
tutta Europa veniva lasciata loro la gestione dell’intero ciclo produttivo
(dalla realizzazione dei modelli, alla tessitura e alla commercializzazione),
compreso il conferimento del capitale necessario ad avviare l’attività. Donne
imprenditrici dotate di propri capitali commissionavano ad altre donne che
lavoravano a domicilio (spesso, a loro volta, con delle apprendiste), la
tessitura dei manufatti. Nella maggior parte delle attività spicca il massiccio
coinvolgimento delle nobildonne come finanziatrici e come imprenditrici: nella
Venezia d’inizio cinquecento le aristocratiche avevano fatto un business
persino di un’attività prettamente casalinga con la confezione dei merletti
intuendo la possibilità di successo di un prodotto raffinato ma di semplice
manutenzione.
Molte di loro, poi,
come mercantesse pubbliche, controllavano tutto il ciclo di lavorazione
dell’oro filato (durante il XIV e il XV secolo) è il caso della “mercantessa”
Pasqua Zantani, in carriera per trent’anni all’inizio del quattrocento; oppure
partecipavano in prima persona a società commerciali per l’esportazione dei
tessuti in tutta Europa. Altre operavano nella nascente arte della stampa (fino
al XV secolo) firmando come editrici le pubblicazioni, come la nobildonna greca
Anna Notaras, che aprì una tipografia a Venezia all’inizio del cinquecento per
diffondere nella città lagunare la cultura della madrepatria. Altre ancora,
soprattutto a Roma (come Vanozza Cattanel), erano attivamente impegnate nella
gestione di alberghi e locande, vere miniere d'oro negli anni santi, oppure
armavano navi (a Marsiglia nel trecento e nel quattrocento) e assoldavano
pescatori per cercare il corallo nel mare della Sardegna, che facevano poi
lavorare in perle da manodopera femminile alle loro dipendenze.
Aspetti di vita quorìtidiana femminile; la lavorazione del lino (Tacuina sanitatis, XIV secolo).
Le vie di finanziamento.
Per le donne di ogni ceto sociale
la prassi abituale per mettersi in affari era quella di autofinanziarsi con
la propria dote, o con la vendita di abiti e monili preziosi. Talvolta le
donne utilizzavano i propri capitali, anziché in prima persona, per finanziare
operazioni di microcredito, soprattutto a favore di aziende femminili.
L’usanza era tanto diffusa che, tra il trecento e il cinquecento ovunque (da
Roma, alla Germania, alla Spagna) esistevano apposite figure professionali,
le “imperatrici”, dotate delle competenze tecniche necessarie a valutare i
preziosi che altre donne cedevano in pegno, per ottenere somme da investire
in attività manifatturiere.
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Edilizia e miniere. Le donne medievali
erano attivissime anche in attività molto faticose, nell’edilizia e nelle
miniere: a Siena e a Pavia scavavano acquedotti e canali (dei 640 lavoratori
reclutati nel 1474 a Pavia 284 erano donne, tra cui anche alcune bambine). Nel
XIV e XV secolo in Francia e in Spagna le donne partecipavano come manovalanza
alla costruzione delle cattedrali mentre a Messina nel XIII secolo avevano
costruito le mura cittadine.
In Francia le donne
occupavano un ruolo importante soprattutto nelle miniere di sale. In quelle di
Salins (Jura), tra il quattrocento e il seicento le operaie svolgevano compiti di
primaria importanza come maestranze specializzate, occupando ruoli chiave
all’interno del contesto produttivo, con incarichi di fiducia tramandati di
madre in figlia. Nelle loro mani si trovava la maggior parte dell’attività, e
godevano (alla pari degli uomini), di indennizzi in caso d’infortuni o di
malattia, e di una pensione d’invalidità o di vecchia accordata dal consiglio
direttivo della salina, su richiesta dell’interessata che avesse lavorato a
lungo (38-40 anni) e fosse ormai troppo debole e anziana o impossibilitata a
lavorare.
Così, nel 1476,
un’operaia ormai attempata che lavorava da 38 anni chiese e ottenne la pensione
settimanale che “era consuetudine assegnare ai lavoratori della salina”, come
raccontano i documenti amministrative delle miniere. E come lei molte altre
sessantenni che lavoravano da una ventina di anni. Non tutte chiedevano però la
pensione: secondo gli stessi documenti alla fine del quattrocento un’operaia di
80 anni lavorava ancora insieme alla figlia. Sorprendente poi la longevità
delle impiegate nelle saline: alcune raggiungevano i 110 anni, e non si
trattava di casi isolati. Neppure in questo settore mancava l’imprenditoria
femminile: a Milano, ai primi del cinquecento, alcune fornaci che rifornivano
di laterizi i cantieri delle principali costruzioni civili e religiose erano di
proprietà e gestite da donne; a Gaeta, tra il 1449 e il 1453, con le proprie
imbarcazioni un’imprenditrice riforniva di materiale da costruzione il cantiere
reale del castello, come rivelano i libri mastri. Nel Lazio, negli anni novanta
del quattrocento la nobildonna romana Cristofora Margani, vedova del mercante
pisano Alfonso Gaetani ed erede delle importantissime miniere di allume di
Tolfa (Civitavecchia), gestiva in prima persona l’attività occupandosi delle
relazioni con i minatori, dei rapporti con il mondo mercantile e della consegna
dell’allume alla Camera apostolica. Era cioè il fulcro di un universo in cui
confluivano forze ecnomico-sociali diverse. In tutta l’Europa medievale,
insomma, i documenti dimostrano uno straordinario brulicare di attività
femminili del tutto impensate.
Articolo in gran parte
di Maria Paola Zanoboni pubblicato su Storica National Geographic di gennaio
2019
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