martedì 17 marzo 2020

Guerra del Vietnam. Nell’inferno di giungla e risaie


Guerra del Vietnam.
Nell’inferno di giungla e risaie.
A presidio della regione più esposta alle infiltrazioni nemiche in Vietnam i marines combatterono scontri duri e prolungati e subirono le perdite più gravi rispetto a tutti gli altri reparti americani.
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In alto a sinistra soldati nordvietnamiti si preparano all'attacco, a destra soldati americani si preparano a salire su elicotteri Bell UH-1 Iroquois; In basso a sinistra alcune vittime del tragico massacro di My Lai, a destra un'operazione di rastrellamento in un villaggio

Alle 8,45 dell’8 marzo 1965 gli uomini della 9a Marine Expeditionary Brigade sbarcarono in Vietnam e trasformarono l’impegno americano nel Paese, fino ad allora limitato alla presenza di consiglieri militari e ai pesanti bombardamenti nel Vietnam del Nord, in conflitto sul terreno; dieci anni dopo, alle 7,55 del 30 aprile 1975, l’ultimo elicottero dei marines decollò dal tetto dell’ambasciata americana di Saigon e chiuse una drammatica e confusa evacuazione di civili e militari. Tra queste due date si sviluppò la guerra più lunga del XX secolo, forse la più impopolare di sempre, il conflitto che sancì la prima e unica sconfitta degli USA, la potenza che vent’anni prima aveva spazzato via – con l’aiuto della Russia di Stalin – le forze dell’Asse Roma-Berlino-Tokio.

Il comandante in capo Viet MinhVõ Nguyên Giáp

La teoria e la pratica. Tutto era cominciato con ben altre aspettative: 13500 marines che la mattina dell’8 marzo 1965 sbarcarono sul litorale della città portuale di Da Nang, furono accolti da manifestazioni di giubilo della popolazione sud vietnamita. Erano accompagnati da elicotteri, mezzi da sbarco, autocarri e jeep, e al loro arrivo non ci fu opposizione da parte dei guerriglieri. Ufficialmente avrebbero dovuto presidiare l’importante base militare in città, in realtà fu l’inizio dell’escalation, la strategia di Washington per un progressivo incremento dell’impegno militare nel teatro bellico, volta non solo a contenere ma a debellare la minaccia comunista in Indocina.
Il comandante in capo del MACV (Military Assistance Command, Vietnam), il generale William Westmoreland, avrebbe poi utilizzato l’enorme massa di militari a disposizione per dare compimento alla cosiddetta tattica del “search and destroy” (cerca e distruggi) che per quattro anni, con scarsi risultati e a costo di ingenti perdite, impegnò i marines e le altre forze in campo a scovare i reparti nemici nella giungla e tra le risaie indocinesi, proprio dove era più facile per i Vietcong (forze guerrigliere comuniste) sopperire con la guerriglia e la perfetta conoscenza del territorio, allo strapotere americano in quanto a mezzi e uomini. Lo stato maggiore statunitense aveva diviso il territorio sud vietnamita in quattro regioni. Ai marines toccò operare principalmente nella I Tacps Tatcital Zone, quella che comprendeva la zona smilitarizzata sul confine del 17° parallelo, inquadrati nella III MAF (Marine Amphibious Force) irrobustita dall’arrivo della 3a divisione. Sarebbero poi approdate nel teatro di guerra anche la 1a divisione, nel 1966, e successivamente la
5a. Nei primi mesi del conflitto i marines adottarono con successo un approccio difensivo, tuttavia questo piano cambiò quando al III MAF giunsero informazioni riguardo la presenza in zona di un reggimento di Vietcong che stava spostando le sue forze a 30 chilometri a sud della base aerea di Cu Lai. Il piano d’attacco venne perfezionato nel giro di 24 ore e, a partire dal 18 agosto, 5mila marines, con l’appoggio dell’incrociatore lanciamissili Galveston e della nave USS Cabildo, si lanciarono in un attacco anfibio sulla costa sud della penisola di Van Tuong, mentre un altro battaglione venne trasportato sul terreno dagli elicotteri. L’operazione, denominata in codice Starlite, si concluse il 21 agosto l’annientamento della roccaforte nemica. I marines ebbero 45 morti e oltre 150 feriti i Vietcong contarono oltre 600 vittime. Il netto successo americano convinse i guerriglieri dell’impossibilità di accettare combattimenti in campo aperto contro la schiacciante superiorità tecnologica statunitense, lezione di cui fecero tesoro per tutto il resto della guerra.

Combattenti Viet Cong in una pausa dei combattimenti nella boscaglia vietnamita

Battaglia di Hue, la guerra in città.
Marines statunitensi feriti durante i combattimenti ad Huế


L’antica capitale imperiale Hue, città sacra al popolo vietnamita, cadde in mano all’esercito del Nord e ai Vietcong il 31 gennaio 1968 durante la grande offensiva del Tet. Mentre la cittadella imperiale era già controllata dai comunisti, resistevano agli occupanti il Quartier generale della Prima divisione dell’esercito vietnamita e la base americana. Altri marines, nel pomeriggio del 31 riuscirono a farsi strada, lasciando sul terreno 40 caduti, fino a raggiungere gli assediati all’interno della base. Nei giorni successivi cominciò la riscossa di americani e sud vietnamiti e lo scontro tra fanterie più lungo e sanguinoso di tutta la guerra. Inizialmente il comando americano decise di limitare l’artiglieria e le incursioni aeree per evitare di distruggere gli edifici dell’antica città, ma in breve l’ordine fu ritirato perché ci si rese conto che soltanto un fuoco continuo e pesante poteva stanare le postazioni nemiche annidate in tutta la città. i marines si trovarono a combattere casa per casa, una guerra urbana a cui non erano preparati, soprattutto non lo erano i rimpiazzi, spesso appena giungi da Camp Pendleton, in California, e scaraventati nell’inferno di Hue. Nel progredire della battaglia risultò decisivo l’impiego dei carri M48 e M50, che riuscivano ad aprire corridoi di passaggio nei muri. Tra nuvole basse, pioggia e incendi, infatti, artiglieria pesante e fuoco navale di supporto dimostravano scarsa efficacia; per identificare un gruppo di fuoco nemico era spesso necessario esporsi a micidiali scariche di mitragliatrici; l’assalto a una singola casa doveva essere attentamente pianificato ed eseguito da squadre di 8 uomini, con quattro di supporto alle spalle e altrettanti ai lati. Un salto di qualità nella conduzione della battaglia fu determinato dalla conquista di una stazione di rifornimento Texaco dove i marines si impossessarono di una serie di cartine della città più dettagliate, poi distribuite ai capicarro per coordinare le operazioni isolato dopo isolato. La mattina del 24 febbraio la bandiera vietcong venne ammainata dal pennone sul Palazzo Imperiale, dove aveva sventolato per 25 giorni, e sostituita da quella del Vietnam del Sud. La battaglia venne considerata chiusa soltanto il 3 marzo. L’antica Cittadella era quasi sbriciolata e circa 10mila edifici della città di Hue distrutti o danneggiati. Sotto le macerie erano rimasti non meno di 6mila civili, comprese le vittime delle purghe perpetrate dai Vietcong. I marines persero 147 uomini e più di 800 rimasero feriti, i vietnamiti del sud ebbero 452 caduti e 2123 feriti. Difficile stabilire le vittime sul fronte comunista, anche se una stima abbastanza veritiera si attesa sui 4mila caduti.
 

Ufficiali statunitensi della 101ª divisione aviotrasportata conferiscono durante un'operazione Search and Destroy nel 1966

Cerca e distruggi. Se nell’operazione Starlite i marines poterono in parte muoversi sul loro terreno preferito, sul finire del 1965 la volontà del presidente americano Lyndon Johnson di saggiare l’impiego di truppe terrestri, e la necessità dello Stato Maggiore di sottoporre a un test probante la tattica del “cerca e distruggi”, impose al Corpo di spostarsi in uno scenario per niente conosciuto: le risaie dell’interno del Paese, 37 chilometri a nord ovest di Cu Lai, dove da tempo era stata segnalata la presenza del 1° Battaglione Vietcong. L’operazione Harvest Moon si sviluppò tra il 8 e il 20 dicembre 1965 su un terreno acquitrinoso inadatto all’impiego dei blindati. I marines arrivarono a bordo degli elicotteri e presero il controllo di Quota 43, una collina poi difesa strenuamente durante tutta la notte. Il giorno dopo altre truppe chiusero l’unica via di fuga al nemico e il 18 dicembre lo scontro decisivo si risolse a favore degli statunitensi, dopo quattro ore di cruente schermaglie, grazie al massiccio intervento dell’artiglieria. I marines contarono 45 morti, almeno dieci volte superiori le vittime Vietcong. Harvest Moon inaugurò l’infinta teoria di vittorie tattiche delle truppe Usa in Vietnam, incapaci però di coglierne una decisiva che spezzasse la resistenza dei guerriglieri. Il nemico era sfuggente, preferiva l’imboscata allo scontro frontale e appariva indifferente all’enorme numero di vittime che lasciava sul campo.
Nel 1966 la tattiche del “search and destroy” entrò nel vivo e coinvolse in particolare l’aerea geografica affidata ai marines. Da subito emersero prepotenti i distinguo tattici che dall’inizio del conflitto avevano visto gli ufficiali dei marines mal sopportare le aggressive indicazioni di Westmoreland. Il Corpo era, infatti, poco interessato ad un approccio unicamente militare, preferendo invece procedere attraverso un’azione di coinvolgimento delle forze sud vietnamite e la progressiva pacificazione del territorio. Ma lo Stato Maggiore e la politica, esigevano invece azioni eclatanti e risolutive. Tra luglio e agosto durante l’operazione Hasting, combattuta per oltre un mese in un territorio brullo e inospitale, i marines liberarono il terreno da un’intera divisione nord vietnamita penetrata a sud dalla zona smilitarizzata.
L’azione costò 128 morti agli americano e oltre 800 alle truppe comuniste e permise agli statunitensi di approntare una serie di capisaldi sulle colline (quota 400 e 484), tra le quali la più importante, denominata Rockpile, divenne una base di fuoco dalla quale controllare i movimenti in un’ampia sezione della zona smilitarizzata. Ma i reparti del Nord non avevano smobilitato, erano semplicemente arretrati per riorganizzarsi, i primi di agosto tornarono all’assalto e la spallata fu tale da sottrarre agli americani quota 400 e 484, le due basi dominanti sulla più importante Rockpile. Nonostante le rinnovate perplessità degli ufficiali, lo Stato maggiore pretese che i marines uscissero allo scoperto e lanciassero l’operazione Prairie per la riconquista palmo a palmo dell’intera catena montuosa. Cominciata come un sistematico rastrellamento del territorio e pochi e sporadici scontri, la battaglia in quota fu uno dei momenti più cruenti dell’intero conflitto. Dietro ogni cespuglio o asperità del terreno poteva nascondersi un cecchino vietnamita; la giungla, che rallentava il passo verso la sommità delle colline, pullulava di trabocchetti e mine. Alla riconquista della strategica quota 400 si dedicarono gli uomini del tenente colonnello William Masterpool, comandante del battaglione del 4° Marines, che cominciarono l’ascesa il 27 settembre guidati dalla compagnia K del capitano James J. Caroll. I vietnamiti trincerati nei loro bunker martoriarono a più riprese i soldati americani costringendoli ad arretrare, alternando i colpi di mortaio alla ricerca dei sanguinosi combattimenti corpo a corpo. L’impasse si risolse con l’intervento massiccio delle forze aeree: bombardamenti a tappeto sulle postazioni nemiche – anche con ordini al napalm – permisero ai marines di riprendere l’avanzata. Il 28 settembre, quel che restava della Compagnia di Carrol, con un ultimo sforzo obbligò i vietnamiti alla ritirata e raggiunse la vetta. In un territorio ormai devastato dalle bombe, sempre supportati da aviazione e artiglieria, il 5 ottobre i marines si riportarono anche su quota 484, la collina poi ribattezzata Camp Carrol, in omaggio al valoroso capitano rimasto ucciso dal fuoco amico proprio all’ultima ascesa. Westmoreland, però, giudicò non ancora sufficiente lo sforzo compiuto e provvide ad alzare ulteriormente l’asticella della difficoltà ordinando ai marines di costruire una base nello sperduto avamposto di Khe Sanh, ai confini con il Laos.

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Il generale Westmoreland durante il suo comando in Vietnam

Assedi continui. La postazione di Rockpile si trovava al centro di un luogo e articolato sistema difensivo sotto il controllo dei marines, una serie di avamposti disseminati lungo il tracciato della Route 9, strada per larghi tratti impraticabile, che correva dalla costa fino al confine con il Laos. Basi come quella di Con Thien, al limite della zona demilitarizzata, la stessa Rockpile e successivamente quella di Khe Sanh, erano considerate da Westmoreland strategiche teste di ponte da cui far partire spedizioni contro guerriglieri e truppe regolari nord vietnamite che si infiltravano attraverso la zona demilitarizzata, oppure passando il confine dal Laos. Così, nella prima metà del 1967, il Corpo fu impegnato in continue offensive per impedire gli sconfinamenti, operazioni logoranti che seguendo il criterio di valutazione adottato dallo Stato maggiore, cioè la conta dei corpi al termine delle battaglie, si risolsero sempre con la vittoria tattica americana, ma non permisero di alleggerire la pressione sulle basi esposte agli attacchi.
Infatti, nella seconda metà dell’anno le forze vietnamite, tutt’altro che fiaccate dalle enormi perdite subite, si lanciarono in una temeraria offensiva su tutti i capisaldi statunitensi. Attorno a Con Thien l’attacco iniziò con un fitto tiro di cecchini contro una compagnia di marines e proseguì con il martellamento delle posizioni americane da parte dell’artiglieria. L’assedio si prolungò fino a settembre e il mantenimento delle posizioni costò ai marines – a corto di rifornimenti – gravissime perdite (1419 morti). Poi, complice il maltempo, l’azione si esaurì. In breve, tutte le basi Usa a sud della zona demilitarizzata subirono lo stesso destino di Con Thien. Il generale Westmoreland interpretò la controffensiva comunista come l’ultimo colpo di coda del nemico, il disperato tentativo di gettare il cuore oltre all’ostacolo, di sottrarsi alla sconfitta. Facendo seguito a questa convinzione, gli Usa concentrarono in zona ulteriori truppe, in questo modo cadendo nella trappola tesa dal generale Vo Ngyeyn Giap, comandante delle truppe del Nord, al quale premeva attirare più forze nemiche possibili intorno a un falso obiettivo e avere campo libero per la progettata offensiva del Tet, tutta mirata alla conquista dei grandi centri nel sud del Paese. westmoreland non fu l’unica vitta del boccone avvelenato servito da Giap: il comandante trascinò nell a sua disfatta il presidente Johnson e l’intero Paese, avviato a perdere la sua prima guerra. Emblematico dello stato di confusione americano fu l’inutile sacrificio dei marines nella battaglia di Khe Sanh, sperduto avamposto ai confini con il Laos dove il Corpo nel 1966 aveva trasformato la piccola base delle forze speciali Usa in una roccaforte militare, prima difesa a ogni costo e poi frettolosamente abbandonata. Quando sul finire del 1967 nei dintorni della base l’intellingence Usa cominciò a registrare imponenti manovre nemiche, Westmoreland si convinse di poter finalmente ingaggiare con il grosso del nemico uno scontro convenzionale dove gli Usa avrebbero potuto dispiegare tutta la loro potenza e superiorità tecnologica. Ma al primo facile entusiasmo fece seguito il comparire di uno spettro destinato ad agitare per mesi lo Stato Maggiore e la Casa Bianca: il timore che Khe Sanh potesse trasformarsi nella Dien Bien Phu americana, la clamorosa vittoria campale ottenuta da Giap contro i francesi, disfatta che chiuse la stagione dell’imperialismo d’Oltralpe.
Impedire che ciò si realizzasse fu l’imperativo categorico degli States nei mesi successivi, anche perché intorno alla sorte dei marines di Khe Sanh si era acceso l’interesse della stampa Usa e di un’opinione pubblica sempre più divisa sull’opportunità stessa della guerra. L’attacco vietnamita scattò poco dopo la mezzanotte del 21 gennaio 1968: la base americana fu scossa da una pioggia di razzi e missili che rase al suolo gran parte degli edifici e fece esplodere un deposito di munizioni. Sottoposti al continuo fuoco d’artiglieria e a sporadici attacchi di fanteria, concentrati soprattutto sulle alture introno alla base, gli assediati non poterono più essere approvvigionati via terra e anche la pista d’atterraggio, battuta incessantemente dai mortai dei nord vietnamiti, divenne inutilizzabile. Gli aerei preferivano evitare di scendere a terra e scaricavano il carico direttamente sulla pista utilizzando dei paracadute. A pochi metri dal perimetro della base le forze comuniste presero a scavare un complesso sistema di tunnel sotterranei per evitare i bombardamenti americani e dai quali colpire gli assediati e preparare l’assalto finale.

La battaglia di Khe Sanh

Nel villaggio di Khe Sanh, a soli 9 chilometri dal confine  con il Laos, gli americani erano arrivati una prima volta nel 1962, quando i Berretti Verdi (le forze speciali dell’esercito statunitense) avevano costruito una pista d’atterraggio sulle rovine di un vecchio forte francese. Quattro anni dopo, nel tentativo di interrompere il flusso di guerriglieri comunisti provenienti dal Laos, il generale Westmoreland ordinò di fare del piccolo avamposto una vera e propria base, la Khe Sanh Combat Base (KSBC), da quel momento presidiata da due reggimenti dei marines. Tra il 21 gennaio e il 9 luglio del 1968 (con un sanguinoso prologo tra aprile e maggio dell’anno precedente) nella zona si combatté una delle più cruente battaglie di tutta la guerra e la base dei marines subì un assedio che per oltre due mesi la isolò completamente dal resto dell’esercito americano. A difesa degli assediata fu scatenata una delle più importanti azioni di bombardamento aereo (operazione Niagara) sulle postazioni nord vietnamite e una spedizione di soccorso via terra che permise la rottura dell’assedio in aprile. Nella strenua difesa di Khe Sanh l’esercito americano perse oltre 1200 uomini, in gran parte componenti del Corpo dei marines, e quando finalmente le forze comuniste sembravano debellate, lo Stato Maggiore decise di abbandonare la base.

FASE 1: COMBATTIMENTI DI APRILE MAGGIO 1967
Il 24 aprile 1967 una pattuglia di marines entrò in contatto con il nemico intorno a Hill 861, una delle colline a nord della base. I combattimenti che seguirono rappresentarono il primo tentativo nord vietnamita di conquistare l’avamposto americano, le cui truppe furono irrobustite dall’arrivo del 2° e 3° Battaglione del 3° Reggimento marines. L’ordine per i marines era di conquistare tutte le alture intorno alla base (861, 881 nord e 881 sud) in modo che al nemico non rimanessero posti di osservazione e di tiro sul campo d’atterraggio. L’operazione fu portata a termine entro maggio, a conclusione di una sanguinosa battaglia che lasciò le colline prive di vegetazione, ricoperte di crateri e cosparse di macerie dei bunker dove erano ancora sepolti i corpi dei soldati nord vietnamiti. In agosto un’imboscata sulla Route 9 interruppe l’ultimo tentativo di fornire approvvigionamenti alla base americana via terra.
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Lancio con il paracadute di rifornimenti alle truppe americane assediate a Khe Sanh

FASE 2: BATTAGLIA E ASSEDIO ALLA BASE.

Marines caricano un obice M118 durante l'assedio di Khe Sanh.

Il 20 gennaio 1968, era da poco passata la mezzanotte, quando Hill 861, la base principale e il villaggio di Khe Sanh vennero contemporaneamente attaccate dalle truppe nord vietnamite che potevano contare su una forza stimata intorno alle 20mila unità. Nella base americana era arrivato anche il resto del 2° Battaglio, 26° Reggimento Marines: per la prima volta dalla battaglia di Iwo Jima (Seconda guerra mondiale) i tre battaglioni del 26° si ritrovarono a combattere insieme. Gli americani erano venuti a conoscenza del piano dettagliato dell’attacco grazie a un disertore vietnamita, ma la straordinaria potenza di fuoco del nemico – pezzi d’artiglieria con gittata maggiore rispetto a quelli in dotazione ai marines erano stati piazzati anche oltre il confine del Laos – rese impossibile ogni contrattacco. La base sopportò una pioggia incessante di colpi di artiglieria e di mortaio che fecero esplodere munizioni e un deposito di gas lacrimogeno. I marines asserragliati resistettero per oltre due mesi completamente isolati dal resto dell’esercito. La situazione più drammatica la vissero le compagnie distaccate sulle alture, difficili da raggiungere dai rifornimenti e dal personale medico. In soccorso ai marines di Khe Sanh, già alla fine di gennaio, venne lanciata l’operazione Niagara: durante tutto il tempo della battaglia sulle postazioni vietnamite ogni giorno vennero sganciate 1300 tonnellate di bombe.

FASE 3: ATTACCHI ALLA BASE E OPERAZIONE PEGASUS.

Uomini della 1ª Divisione di cavalleria aerea in azione durante l'operazione Pegasus, organizzata per sbloccare la guarnigione di Khe Sanh.

Nel febbraio del 1968 la base americana sopportò gli attacchi più intensi e sventò un tentativo di penetrare all’interno del perimetro difensivo. Il giorno 23 fu bersagliata da oltre 1300 proiettili, durante un attacco ininterrotto di 8 ore. Due giorni dopo furono individuate le trincee scavate dal nemico per portarsi a ridosso del perimetro senza essere centrato dai bombardieri. Il 1° aprile iniziò l’operazione Pegasus: due battaglioni di marines con l’appoggio di una Divisione di Cavalleria aerea partirono da Ca Lu (16 chilometri a est di Khe Sanh) forzando il blocco della Route 9 per raggiungere la base e rompere l’assedio. La marcia delle truppe americane non incontrò particolari resistenze e raggiunse la base la mattina dell’8 aprile. L’operazione scatenò numerose polemiche in seno all’esercito Usa: accusati di non aver difeso meglio la base, i marine sostennero a loro volta che Pegasus fosse stata organizzata soltanto per porli in cattiva luce e di non aver mai richiesto un soccorso via terra.
Il conflitto in Vietnam.
Soldati dell'esercito nordvietnamita pronti a passare all'attacco

Il Vietnam si affrancò dal protettorato francese al termine della Guerra d’Indocina (1946—1954). Nel 1954 la conferenza di Ginevra sancì l’abbandono del Paese da parte dei francesi e la temporanea suddivisione del Vietnam in due parti lungo il 17° parallelo: a nord la Repubblica comunista di Ho Chi Min, a sud uno stato legato all’occidente e agli aiuti americani, capeggiato dal presidente Ngo Dinh Diem. Al rifiuto di quest’ultimo di tenere le previste elezioni generali, a cominciare dal 1957 nel sud cominciò la guerriglia comunista che complice la corruzione e l’autoritarismo del governo, conobbe una crescita numerica e organizzativa. Nel 1963 un colpo di stato con il placet degli Usa depose e uccise Diem e nello stesso anno John F. Kennedy allargò il contingente di consiglieri militari nel Paese fino a 30000 uomini. Il pretesto che permise agli americani di entrare definitivamente in guerra fu il controverso attacco del Vietnam del Nord (agosto 1964) alla marina degli Stati Uniti, stanziata presso il Golfo di Tonchino. L’anno dopo, sotto la presidenza Johnson, le prime truppe sbarcarono nel Vietnam del Sud e cominciarono i bombardamenti contro il Vietnam del Nord. L’incremento progressivo di forze in campo si rivelò tuttavia insufficiente contro la resistenza dei Vietcong. Nel 1960 l’offensiva comunista del Tet dimostrò al mondo e in particolare all’Amercia, dove cresceva l’avversione popolare verso la guerra, quanto la vittoria in Vietnam fosse ben lontana dall’essere colta. Il successore di Johnson, Richard Nixon, cominciò a negoziare la pace e da allora la presenza americana nel Paese iniziò a ridursi, anche se Nixon diede avvio a contemporanee operazioni militari nei paesi confinanti, Laos e Cambogia. Nel 1973 gli Stati Uniti e il Vietnam del Nord firmarono un armistizio a Parigi, ma la guerra sarebbe finita soltanto due anni dopo, il 30 aprile del 1975, quando Vietcong e truppe nord vietnamite entrarono a Saigon. Nel 1976 i due stati si riunirono nella Repubblica Socialista del Vietnam.


Guerrigliero Viet Cong armato di AK-47 nel 1973 durante i lavori della Four Power Joint Military Commission.


Sacrifici e rabbia. Westmoreland prese in considerazione anche l’opzione di un bombardamento nucleare, poi scartata e sostituita dall’operazione Niagara, la più intensa dimostrazione di fuoco aereo di tutta la guerra: sulle postazioni nord vietnamite furono sganciate 100mila tonnellate di esplosivo. Per soccorrere i marines intrappolati a Khe Sanh, il primo aprile scattò l’operazione Pegasus, il tentativo di raggiungere la base via terra liberando la Route 9. Scarsamente ostacolate dai nord vietnamiti, le nuove truppe americane ruppero l’assedio e si riunirono ai marines la mattina dell’8 aprile. Lo stesso mese venne lanciata una nuova manovra di rastrellamento e inseguimento del nemico, ma a giugno la base così tenacemente difesa, la cui sopravvivenza era costata la vita di tanti soldati e un dispendio di mezzi colossale, benne abbandonata. Nella coscienza di molti americani diventò il simbolo di un sacrificio inutile, sull’altare di una strategia confusa e perdente.
Infatti, tra il 30 e il 31 gennaio, la notte del Capodanno vietnamita, mentre l’attenzione dell’America era ancora rivolta a Khe Sanh, nel sud del Paese era stata lanciata una formidabile offensiva contro tutti maggiori centri: l’attacco a sorpresa che Giap aveva dissimulato dietro la cortina fumogena delle operazioni lungo la linea demilitarizzata. L’offensiva del Tet colse impreparate le truppe americane e sudvietnamite e fu inizialmente un successo per i comunisti. Soltanto dopo violenti scontri e gravi perdite gli statunitensi riuscirono a riprendere il controllo della situazione. Dappertutto, ma non a Hué: nella vecchia città imperiale i combattimenti andarono avanti fino ai primi di marzo e i marines, giunti in soccorso del contingente sud vietnamita, dovettero ingaggiare una sanguinosa lotta strada per strada.
Nonostante la pronta reazione statunitense, l’offensiva del Tet impose al conflitto una nuova direzione: rese evidente quanto la sbandierata vittoria a portata di mano, di cui si era nutrita la propaganda occidentale, era ben lontana dal realizzarsi e lo choc scosse l’America, dove le manifestazioni contro la guerra si fecero sempre più frequenti e partecipate. Ulteriori richieste di nuove truppe, fatte recapitare a Washington dal generale Westmoreland, questa volta furono respinte e lo stesso Comandante in capo delle operazioni venne sostituito nel giugno del 1968. Il presidente Johnson, in un drammatico discorso alla nazione, nel marzo dello stesso anno aveva già annunciato la volontà di non ricandidarsi alla presidenza e l’adozione di una nuova strategia per uscire dalla trappola vietnamita: fermare l’escalation di truppe e mettere al lavoro la diplomazia. Il conflitto era però ben lontano dalla sua conclusione: si trascinò con nuovi scontri e ulteriori perdite su entrambi i fronti fino agli accordi di Parigi del gennaio 1973. Due anni dopo, con la cadute di Saigon e la riunificazione del Paese sotto l’egida dei comunisti, l’America vide realizzarsi lo scenario peggiore, per scongiurare il quale era scesa in guerra. Un conflitto che molti avevano giudicato sbagliato e che adesso, alla luce del fallimento, appariva soprattutto inutile. Gli ultimi marines che lasciarono Saigon riportarono in patria il ricordo indelebile di una nuova epopea del Corpo, lo strazio degli oltre 14mila caduti tra giungla e risaie, la rabbia e la consapevolezza che molti lutti si sarebbero potuti evitare – forse scrivere un altro finale al conflitto – se i dubbi strategici dei loro ufficiali avessero trovato qualcuno disposto ad ascoltarli.

Articolo in gran parte di Mario Galloni pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 22 – altri testi e immagini da Wikipedia.

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