Guerra del Vietnam.
Nell’inferno di
giungla e risaie.
A presidio della
regione più esposta alle infiltrazioni nemiche in Vietnam i marines
combatterono scontri duri e prolungati e subirono le perdite più gravi rispetto
a tutti gli altri reparti americani.
In alto a sinistra soldati nordvietnamiti si preparano all'attacco, a destra soldati americani si preparano a salire su elicotteri Bell UH-1 Iroquois; In basso a sinistra alcune vittime del tragico massacro di My Lai, a destra un'operazione di rastrellamento in un villaggio
Alle
8,45 dell’8 marzo 1965 gli uomini della 9a Marine Expeditionary Brigade
sbarcarono in Vietnam e trasformarono l’impegno americano nel Paese, fino ad
allora limitato alla presenza di consiglieri militari e ai pesanti
bombardamenti nel Vietnam del Nord, in conflitto sul terreno; dieci anni dopo,
alle 7,55 del 30 aprile 1975, l’ultimo elicottero dei marines decollò dal tetto
dell’ambasciata americana di Saigon e chiuse una drammatica e confusa
evacuazione di civili e militari. Tra queste due date si sviluppò la guerra più
lunga del XX secolo, forse la più impopolare di sempre, il conflitto che sancì
la prima e unica sconfitta degli USA, la potenza che vent’anni prima aveva
spazzato via – con l’aiuto della Russia di Stalin – le forze dell’Asse
Roma-Berlino-Tokio.
La teoria e la pratica. Tutto era cominciato
con ben altre aspettative: 13500 marines che la mattina dell’8 marzo 1965
sbarcarono sul litorale della città portuale di Da Nang, furono accolti da
manifestazioni di giubilo della popolazione sud vietnamita. Erano accompagnati
da elicotteri, mezzi da sbarco, autocarri e jeep, e al loro arrivo non ci fu
opposizione da parte dei guerriglieri. Ufficialmente avrebbero dovuto
presidiare l’importante base militare in città, in realtà fu l’inizio
dell’escalation, la strategia di Washington per un progressivo incremento
dell’impegno militare nel teatro bellico, volta non solo a contenere ma a
debellare la minaccia comunista in Indocina.
Il comandante in capo
del MACV (Military Assistance Command, Vietnam), il generale William
Westmoreland, avrebbe poi utilizzato l’enorme massa di militari a disposizione
per dare compimento alla cosiddetta tattica del “search and destroy” (cerca e
distruggi) che per quattro anni, con scarsi risultati e a costo di ingenti
perdite, impegnò i marines e le altre forze in campo a scovare i reparti nemici
nella giungla e tra le risaie indocinesi, proprio dove era più facile per i
Vietcong (forze guerrigliere comuniste) sopperire con la guerriglia e la
perfetta conoscenza del territorio, allo strapotere americano in quanto a mezzi
e uomini. Lo stato maggiore statunitense aveva diviso il territorio sud
vietnamita in quattro regioni. Ai marines toccò operare principalmente nella I
Tacps Tatcital Zone, quella che comprendeva la zona smilitarizzata sul confine
del 17° parallelo, inquadrati nella III MAF (Marine Amphibious Force)
irrobustita dall’arrivo della 3a divisione. Sarebbero poi approdate nel teatro
di guerra anche la 1a divisione, nel 1966, e successivamente la
5a. Nei primi mesi del
conflitto i marines adottarono con successo un approccio difensivo, tuttavia
questo piano cambiò quando al III MAF giunsero informazioni riguardo la
presenza in zona di un reggimento di Vietcong che stava spostando le sue forze
a 30 chilometri a sud della base aerea di Cu Lai. Il piano d’attacco venne
perfezionato nel giro di 24 ore e, a partire dal 18 agosto, 5mila marines, con
l’appoggio dell’incrociatore lanciamissili Galveston e della nave USS Cabildo,
si lanciarono in un attacco anfibio sulla costa sud della penisola di Van
Tuong, mentre un altro battaglione venne trasportato sul terreno dagli
elicotteri. L’operazione, denominata in codice Starlite, si concluse il 21
agosto l’annientamento della roccaforte nemica. I marines ebbero 45 morti e
oltre 150 feriti i Vietcong contarono oltre 600 vittime. Il netto successo
americano convinse i guerriglieri dell’impossibilità di accettare combattimenti
in campo aperto contro la schiacciante superiorità tecnologica statunitense,
lezione di cui fecero tesoro per tutto il resto della guerra.
Combattenti Viet Cong in una pausa dei combattimenti nella boscaglia vietnamita
Battaglia di Hue, la guerra in
città.
L’antica capitale imperiale Hue,
città sacra al popolo vietnamita, cadde in mano all’esercito del Nord e ai
Vietcong il 31 gennaio 1968 durante la grande offensiva del Tet. Mentre la cittadella
imperiale era già controllata dai comunisti, resistevano agli occupanti il
Quartier generale della Prima divisione dell’esercito vietnamita e la base
americana. Altri marines, nel pomeriggio del 31 riuscirono a farsi strada,
lasciando sul terreno 40 caduti, fino a raggiungere gli assediati all’interno
della base. Nei giorni successivi cominciò la riscossa di americani e sud
vietnamiti e lo scontro tra fanterie più lungo e sanguinoso di tutta la
guerra. Inizialmente il comando americano decise di limitare l’artiglieria e
le incursioni aeree per evitare di distruggere gli edifici dell’antica città,
ma in breve l’ordine fu ritirato perché ci si rese conto che soltanto un
fuoco continuo e pesante poteva stanare le postazioni nemiche annidate in
tutta la città. i marines si trovarono a combattere casa per casa, una guerra
urbana a cui non erano preparati, soprattutto non lo erano i rimpiazzi,
spesso appena giungi da Camp Pendleton, in California, e scaraventati
nell’inferno di Hue. Nel progredire della battaglia risultò decisivo
l’impiego dei carri M48 e M50, che riuscivano ad aprire corridoi di passaggio
nei muri. Tra nuvole basse, pioggia e incendi, infatti, artiglieria pesante e
fuoco navale di supporto dimostravano scarsa efficacia; per identificare un
gruppo di fuoco nemico era spesso necessario esporsi a micidiali scariche di
mitragliatrici; l’assalto a una singola casa doveva essere attentamente
pianificato ed eseguito da squadre di 8 uomini, con quattro di supporto alle
spalle e altrettanti ai lati. Un salto di qualità nella conduzione della
battaglia fu determinato dalla conquista di una stazione di rifornimento
Texaco dove i marines si impossessarono di una serie di cartine della città
più dettagliate, poi distribuite ai capicarro per coordinare le operazioni
isolato dopo isolato. La mattina del 24 febbraio la bandiera vietcong venne
ammainata dal pennone sul Palazzo Imperiale, dove aveva sventolato per 25
giorni, e sostituita da quella del Vietnam del Sud. La battaglia venne
considerata chiusa soltanto il 3 marzo. L’antica Cittadella era quasi
sbriciolata e circa 10mila edifici della città di Hue distrutti o
danneggiati. Sotto le macerie erano rimasti non meno di 6mila civili,
comprese le vittime delle purghe perpetrate dai Vietcong. I marines persero
147 uomini e più di 800 rimasero feriti, i vietnamiti del sud ebbero 452
caduti e 2123 feriti. Difficile stabilire le vittime sul fronte comunista,
anche se una stima abbastanza veritiera si attesa sui 4mila caduti.
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Cerca e distruggi. Se nell’operazione
Starlite i marines poterono in parte muoversi sul loro terreno preferito, sul
finire del 1965 la volontà del presidente americano Lyndon Johnson di saggiare
l’impiego di truppe terrestri, e la necessità dello Stato Maggiore di
sottoporre a un test probante la tattica del “cerca e distruggi”, impose al
Corpo di spostarsi in uno scenario per niente conosciuto: le risaie dell’interno
del Paese, 37 chilometri a nord ovest di Cu Lai, dove da tempo era stata
segnalata la presenza del 1° Battaglione Vietcong. L’operazione Harvest Moon si
sviluppò tra il 8 e il 20 dicembre 1965 su un terreno acquitrinoso inadatto
all’impiego dei blindati. I marines arrivarono a bordo degli elicotteri e
presero il controllo di Quota 43, una collina poi difesa strenuamente durante
tutta la notte. Il giorno dopo altre truppe chiusero l’unica via di fuga al
nemico e il 18 dicembre lo scontro decisivo si risolse a favore degli
statunitensi, dopo quattro ore di cruente schermaglie, grazie al massiccio
intervento dell’artiglieria. I marines contarono 45 morti, almeno dieci volte
superiori le vittime Vietcong. Harvest Moon inaugurò l’infinta teoria di
vittorie tattiche delle truppe Usa in Vietnam, incapaci però di coglierne una
decisiva che spezzasse la resistenza dei guerriglieri. Il nemico era sfuggente,
preferiva l’imboscata allo scontro frontale e appariva indifferente all’enorme
numero di vittime che lasciava sul campo.
Nel 1966 la tattiche
del “search and destroy” entrò nel vivo e coinvolse in particolare l’aerea geografica
affidata ai marines. Da subito emersero prepotenti i distinguo tattici che
dall’inizio del conflitto avevano visto gli ufficiali dei marines mal
sopportare le aggressive indicazioni di Westmoreland. Il Corpo era, infatti,
poco interessato ad un approccio unicamente militare, preferendo invece
procedere attraverso un’azione di coinvolgimento delle forze sud vietnamite e
la progressiva pacificazione del territorio. Ma lo Stato Maggiore e la
politica, esigevano invece azioni eclatanti e risolutive. Tra luglio e agosto
durante l’operazione Hasting, combattuta per oltre un mese in un territorio
brullo e inospitale, i marines liberarono il terreno da un’intera divisione
nord vietnamita penetrata a sud dalla zona smilitarizzata.
L’azione costò 128
morti agli americano e oltre 800 alle truppe comuniste e permise agli
statunitensi di approntare una serie di capisaldi sulle colline (quota 400 e
484), tra le quali la più importante, denominata Rockpile, divenne una base di
fuoco dalla quale controllare i movimenti in un’ampia sezione della zona
smilitarizzata. Ma i reparti del Nord non avevano smobilitato, erano
semplicemente arretrati per riorganizzarsi, i primi di agosto tornarono
all’assalto e la spallata fu tale da sottrarre agli americani quota 400 e 484, le
due basi dominanti sulla più importante Rockpile. Nonostante le rinnovate
perplessità degli ufficiali, lo Stato maggiore pretese che i marines uscissero
allo scoperto e lanciassero l’operazione Prairie per la riconquista palmo a
palmo dell’intera catena montuosa. Cominciata come un sistematico
rastrellamento del territorio e pochi e sporadici scontri, la battaglia in
quota fu uno dei momenti più cruenti dell’intero conflitto. Dietro ogni
cespuglio o asperità del terreno poteva nascondersi un cecchino vietnamita; la
giungla, che rallentava il passo verso la sommità delle colline, pullulava di
trabocchetti e mine. Alla riconquista della strategica quota 400 si dedicarono
gli uomini del tenente colonnello William Masterpool, comandante del
battaglione del 4° Marines, che cominciarono l’ascesa il 27 settembre guidati
dalla compagnia K del capitano James J. Caroll. I vietnamiti trincerati nei
loro bunker martoriarono a più riprese i soldati americani costringendoli ad
arretrare, alternando i colpi di mortaio alla ricerca dei sanguinosi
combattimenti corpo a corpo. L’impasse si risolse con l’intervento massiccio
delle forze aeree: bombardamenti a tappeto sulle postazioni nemiche – anche con
ordini al napalm – permisero ai marines di riprendere l’avanzata. Il 28
settembre, quel che restava della Compagnia di Carrol, con un ultimo sforzo obbligò
i vietnamiti alla ritirata e raggiunse la vetta. In un territorio ormai
devastato dalle bombe, sempre supportati da aviazione e artiglieria, il 5
ottobre i marines si riportarono anche su quota 484, la collina poi
ribattezzata Camp Carrol, in omaggio al valoroso capitano rimasto ucciso dal
fuoco amico proprio all’ultima ascesa. Westmoreland, però, giudicò non ancora
sufficiente lo sforzo compiuto e provvide ad alzare ulteriormente l’asticella
della difficoltà ordinando ai marines di costruire una base nello sperduto
avamposto di Khe Sanh, ai confini con il Laos.
Il generale Westmoreland durante il suo comando in Vietnam
Assedi continui. La postazione di
Rockpile si trovava al centro di un luogo e articolato sistema difensivo sotto
il controllo dei marines, una serie di avamposti disseminati lungo il tracciato
della Route 9, strada per larghi tratti impraticabile, che correva dalla costa
fino al confine con il Laos. Basi come quella di Con Thien, al limite della
zona demilitarizzata, la stessa Rockpile e successivamente quella di Khe Sanh,
erano considerate da Westmoreland strategiche teste di ponte da cui far partire
spedizioni contro guerriglieri e truppe regolari nord vietnamite che si
infiltravano attraverso la zona demilitarizzata, oppure passando il confine dal
Laos. Così, nella prima metà del 1967, il Corpo fu impegnato in continue
offensive per impedire gli sconfinamenti, operazioni logoranti che seguendo il
criterio di valutazione adottato dallo Stato maggiore, cioè la conta dei corpi
al termine delle battaglie, si risolsero sempre con la vittoria tattica
americana, ma non permisero di alleggerire la pressione sulle basi esposte agli
attacchi.
Infatti, nella seconda
metà dell’anno le forze vietnamite, tutt’altro che fiaccate dalle enormi
perdite subite, si lanciarono in una temeraria offensiva su tutti i capisaldi
statunitensi. Attorno a Con Thien l’attacco iniziò con un fitto tiro di
cecchini contro una compagnia di marines e proseguì con il martellamento delle
posizioni americane da parte dell’artiglieria. L’assedio si prolungò fino a
settembre e il mantenimento delle posizioni costò ai marines – a corto di
rifornimenti – gravissime perdite (1419 morti). Poi, complice il maltempo,
l’azione si esaurì. In breve, tutte le basi Usa a sud della zona
demilitarizzata subirono lo stesso destino di Con Thien. Il generale
Westmoreland interpretò la controffensiva comunista come l’ultimo colpo di coda
del nemico, il disperato tentativo di gettare il cuore oltre all’ostacolo, di
sottrarsi alla sconfitta. Facendo seguito a questa convinzione, gli Usa
concentrarono in zona ulteriori truppe, in questo modo cadendo nella trappola
tesa dal generale Vo Ngyeyn Giap, comandante delle truppe del Nord, al quale
premeva attirare più forze nemiche possibili intorno a un falso obiettivo e
avere campo libero per la progettata offensiva del Tet, tutta mirata alla
conquista dei grandi centri nel sud del Paese. westmoreland non fu l’unica
vitta del boccone avvelenato servito da Giap: il comandante trascinò nell a sua
disfatta il presidente Johnson e l’intero Paese, avviato a perdere la sua prima
guerra. Emblematico dello stato di confusione americano fu l’inutile sacrificio
dei marines nella battaglia di Khe Sanh, sperduto avamposto ai confini con il
Laos dove il Corpo nel 1966 aveva trasformato la piccola base delle forze
speciali Usa in una roccaforte militare, prima difesa a ogni costo e poi
frettolosamente abbandonata. Quando sul finire del 1967 nei dintorni della base
l’intellingence Usa cominciò a registrare imponenti manovre nemiche,
Westmoreland si convinse di poter finalmente ingaggiare con il grosso del
nemico uno scontro convenzionale dove gli Usa avrebbero potuto dispiegare tutta
la loro potenza e superiorità tecnologica. Ma al primo facile entusiasmo fece
seguito il comparire di uno spettro destinato ad agitare per mesi lo Stato
Maggiore e la Casa Bianca: il timore che Khe Sanh potesse trasformarsi nella
Dien Bien Phu americana, la clamorosa vittoria campale ottenuta da Giap contro
i francesi, disfatta che chiuse la stagione dell’imperialismo d’Oltralpe.
Impedire che ciò si
realizzasse fu l’imperativo categorico degli States nei mesi successivi, anche
perché intorno alla sorte dei marines di Khe Sanh si era acceso l’interesse
della stampa Usa e di un’opinione pubblica sempre più divisa sull’opportunità
stessa della guerra. L’attacco vietnamita scattò poco dopo la mezzanotte del 21
gennaio 1968: la base americana fu scossa da una pioggia di razzi e missili che
rase al suolo gran parte degli edifici e fece esplodere un deposito di
munizioni. Sottoposti al continuo fuoco d’artiglieria e a sporadici attacchi di
fanteria, concentrati soprattutto sulle alture introno alla base, gli assediati
non poterono più essere approvvigionati via terra e anche la pista
d’atterraggio, battuta incessantemente dai mortai dei nord vietnamiti, divenne
inutilizzabile. Gli aerei preferivano evitare di scendere a terra e scaricavano
il carico direttamente sulla pista utilizzando dei paracadute. A pochi metri
dal perimetro della base le forze comuniste presero a scavare un complesso
sistema di tunnel sotterranei per evitare i bombardamenti americani e dai quali
colpire gli assediati e preparare l’assalto finale.
La battaglia di Khe Sanh
Nel villaggio di Khe Sanh, a soli
9 chilometri dal confine con il Laos, gli americani erano arrivati una prima
volta nel 1962, quando i Berretti Verdi (le forze speciali dell’esercito
statunitense) avevano costruito una pista d’atterraggio sulle rovine di un
vecchio forte francese. Quattro anni dopo, nel tentativo di interrompere il
flusso di guerriglieri comunisti provenienti dal Laos, il generale
Westmoreland ordinò di fare del piccolo avamposto una vera e propria base, la
Khe Sanh Combat Base (KSBC), da quel momento presidiata da due reggimenti dei
marines. Tra il 21 gennaio e il 9 luglio del 1968 (con un sanguinoso prologo
tra aprile e maggio dell’anno precedente) nella zona si combatté una delle
più cruente battaglie di tutta la guerra e la base dei marines subì un
assedio che per oltre due mesi la isolò completamente dal resto dell’esercito
americano. A difesa degli assediata fu scatenata una delle più importanti
azioni di bombardamento aereo (operazione Niagara) sulle postazioni nord
vietnamite e una spedizione di soccorso via terra che permise la rottura
dell’assedio in aprile. Nella strenua difesa di Khe Sanh l’esercito americano
perse oltre 1200 uomini, in gran parte componenti del Corpo dei marines, e
quando finalmente le forze comuniste sembravano debellate, lo Stato Maggiore
decise di abbandonare la base.
FASE 1: COMBATTIMENTI DI APRILE
MAGGIO 1967
Il 24 aprile 1967 una pattuglia di
marines entrò in contatto con il nemico intorno a Hill 861, una delle colline
a nord della base. I combattimenti che seguirono rappresentarono il primo
tentativo nord vietnamita di conquistare l’avamposto americano, le cui truppe
furono irrobustite dall’arrivo del 2° e 3° Battaglione del 3° Reggimento
marines. L’ordine per i marines era di conquistare tutte le alture intorno
alla base (861, 881 nord e 881 sud) in modo che al nemico non rimanessero
posti di osservazione e di tiro sul campo d’atterraggio. L’operazione fu
portata a termine entro maggio, a conclusione di una sanguinosa battaglia che
lasciò le colline prive di vegetazione, ricoperte di crateri e cosparse di
macerie dei bunker dove erano ancora sepolti i corpi dei soldati nord
vietnamiti. In agosto un’imboscata sulla Route 9 interruppe l’ultimo
tentativo di fornire approvvigionamenti alla base americana via terra.
Lancio con il paracadute di rifornimenti alle truppe americane assediate a Khe Sanh
FASE 2: BATTAGLIA E ASSEDIO ALLA
BASE.
Il 20 gennaio 1968, era da poco
passata la mezzanotte, quando Hill 861, la base principale e il villaggio di
Khe Sanh vennero contemporaneamente attaccate dalle truppe nord vietnamite
che potevano contare su una forza stimata intorno alle 20mila unità. Nella
base americana era arrivato anche il resto del 2° Battaglio, 26° Reggimento
Marines: per la prima volta dalla battaglia di Iwo Jima (Seconda guerra
mondiale) i tre battaglioni del 26° si ritrovarono a combattere insieme. Gli
americani erano venuti a conoscenza del piano dettagliato dell’attacco grazie
a un disertore vietnamita, ma la straordinaria potenza di fuoco del nemico –
pezzi d’artiglieria con gittata maggiore rispetto a quelli in dotazione ai
marines erano stati piazzati anche oltre il confine del Laos – rese
impossibile ogni contrattacco. La base sopportò una pioggia incessante di
colpi di artiglieria e di mortaio che fecero esplodere munizioni e un
deposito di gas lacrimogeno. I marines asserragliati resistettero per oltre
due mesi completamente isolati dal resto dell’esercito. La situazione più
drammatica la vissero le compagnie distaccate sulle alture, difficili da
raggiungere dai rifornimenti e dal personale medico. In soccorso ai marines
di Khe Sanh, già alla fine di gennaio, venne lanciata l’operazione Niagara:
durante tutto il tempo della battaglia sulle postazioni vietnamite ogni
giorno vennero sganciate 1300 tonnellate di bombe.
FASE 3: ATTACCHI ALLA BASE E
OPERAZIONE PEGASUS.
Uomini della 1ª Divisione di cavalleria aerea in azione durante l'operazione Pegasus, organizzata per sbloccare la guarnigione di Khe Sanh.
Nel febbraio del 1968 la base
americana sopportò gli attacchi più intensi e sventò un tentativo di
penetrare all’interno del perimetro difensivo. Il giorno 23 fu bersagliata da
oltre 1300 proiettili, durante un attacco ininterrotto di 8 ore. Due giorni dopo
furono individuate le trincee scavate dal nemico per portarsi a ridosso del
perimetro senza essere centrato dai bombardieri. Il 1° aprile iniziò
l’operazione Pegasus: due battaglioni di marines con l’appoggio di una
Divisione di Cavalleria aerea partirono da Ca Lu (16 chilometri a est di Khe
Sanh) forzando il blocco della Route 9 per raggiungere la base e rompere
l’assedio. La marcia delle truppe americane non incontrò particolari
resistenze e raggiunse la base la mattina dell’8 aprile. L’operazione scatenò
numerose polemiche in seno all’esercito Usa: accusati di non aver difeso
meglio la base, i marine sostennero a loro volta che Pegasus fosse stata
organizzata soltanto per porli in cattiva luce e di non aver mai richiesto un
soccorso via terra.
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Il conflitto in Vietnam.
Il Vietnam si affrancò dal
protettorato francese al termine della Guerra d’Indocina (1946—1954). Nel 1954
la conferenza di Ginevra sancì l’abbandono del Paese da parte dei francesi e
la temporanea suddivisione del Vietnam in due parti lungo il 17° parallelo: a
nord la Repubblica comunista di Ho Chi Min, a sud uno stato legato all’occidente
e agli aiuti americani, capeggiato dal presidente Ngo Dinh Diem. Al rifiuto
di quest’ultimo di tenere le previste elezioni generali, a cominciare dal
1957 nel sud cominciò la guerriglia comunista che complice la corruzione e l’autoritarismo
del governo, conobbe una crescita numerica e organizzativa. Nel 1963 un colpo
di stato con il placet degli Usa depose e uccise Diem e nello stesso anno
John F. Kennedy allargò il contingente di consiglieri militari nel Paese fino
a 30000 uomini. Il pretesto che permise agli americani di entrare
definitivamente in guerra fu il controverso attacco del Vietnam del Nord
(agosto 1964) alla marina degli Stati Uniti, stanziata presso il Golfo di
Tonchino. L’anno dopo, sotto la presidenza Johnson, le prime truppe sbarcarono
nel Vietnam del Sud e cominciarono i bombardamenti contro il Vietnam del
Nord. L’incremento progressivo di forze in campo si rivelò tuttavia insufficiente
contro la resistenza dei Vietcong. Nel 1960 l’offensiva comunista del Tet
dimostrò al mondo e in particolare all’Amercia, dove cresceva l’avversione
popolare verso la guerra, quanto la vittoria in Vietnam fosse ben lontana
dall’essere colta. Il successore di Johnson, Richard Nixon, cominciò a
negoziare la pace e da allora la presenza americana nel Paese iniziò a
ridursi, anche se Nixon diede avvio a contemporanee operazioni militari nei
paesi confinanti, Laos e Cambogia. Nel 1973 gli Stati Uniti e il Vietnam del
Nord firmarono un armistizio a Parigi, ma la guerra sarebbe finita soltanto
due anni dopo, il 30 aprile del 1975, quando Vietcong e truppe nord
vietnamite entrarono a Saigon. Nel 1976 i due stati si riunirono nella
Repubblica Socialista del Vietnam.
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Sacrifici e rabbia. Westmoreland prese in
considerazione anche l’opzione di un bombardamento nucleare, poi scartata e
sostituita dall’operazione Niagara, la più intensa dimostrazione di fuoco aereo
di tutta la guerra: sulle postazioni nord vietnamite furono sganciate 100mila
tonnellate di esplosivo. Per soccorrere i marines intrappolati a Khe Sanh, il
primo aprile scattò l’operazione Pegasus, il tentativo di raggiungere la base
via terra liberando la Route 9. Scarsamente ostacolate dai nord vietnamiti, le
nuove truppe americane ruppero l’assedio e si riunirono ai marines la mattina
dell’8 aprile. Lo stesso mese venne lanciata una nuova manovra di
rastrellamento e inseguimento del nemico, ma a giugno la base così tenacemente
difesa, la cui sopravvivenza era costata la vita di tanti soldati e un
dispendio di mezzi colossale, benne abbandonata. Nella coscienza di molti
americani diventò il simbolo di un sacrificio inutile, sull’altare di una
strategia confusa e perdente.
Infatti, tra il 30 e il
31 gennaio, la notte del Capodanno vietnamita, mentre l’attenzione dell’America
era ancora rivolta a Khe Sanh, nel sud del Paese era stata lanciata una
formidabile offensiva contro tutti maggiori centri: l’attacco a sorpresa che
Giap aveva dissimulato dietro la cortina fumogena delle operazioni lungo la
linea demilitarizzata. L’offensiva del Tet colse impreparate le truppe
americane e sudvietnamite e fu inizialmente un successo per i comunisti. Soltanto
dopo violenti scontri e gravi perdite gli statunitensi riuscirono a riprendere
il controllo della situazione. Dappertutto, ma non a Hué: nella vecchia città
imperiale i combattimenti andarono avanti fino ai primi di marzo e i marines,
giunti in soccorso del contingente sud vietnamita, dovettero ingaggiare una sanguinosa
lotta strada per strada.
Nonostante la pronta
reazione statunitense, l’offensiva del Tet impose al conflitto una nuova
direzione: rese evidente quanto la sbandierata vittoria a portata di mano, di
cui si era nutrita la propaganda occidentale, era ben lontana dal realizzarsi e
lo choc scosse l’America, dove le manifestazioni contro la guerra si fecero
sempre più frequenti e partecipate. Ulteriori richieste di nuove truppe, fatte
recapitare a Washington dal generale Westmoreland, questa volta furono respinte
e lo stesso Comandante in capo delle operazioni venne sostituito nel giugno del
1968. Il presidente Johnson, in un drammatico discorso alla nazione, nel marzo
dello stesso anno aveva già annunciato la volontà di non ricandidarsi alla
presidenza e l’adozione di una nuova strategia per uscire dalla trappola
vietnamita: fermare l’escalation di truppe e mettere al lavoro la diplomazia. Il
conflitto era però ben lontano dalla sua conclusione: si trascinò con nuovi
scontri e ulteriori perdite su entrambi i fronti fino agli accordi di Parigi
del gennaio 1973. Due anni dopo, con la cadute di Saigon e la riunificazione
del Paese sotto l’egida dei comunisti, l’America vide realizzarsi lo scenario
peggiore, per scongiurare il quale era scesa in guerra. Un conflitto che molti
avevano giudicato sbagliato e che adesso, alla luce del fallimento, appariva
soprattutto inutile. Gli ultimi marines che lasciarono Saigon riportarono in
patria il ricordo indelebile di una nuova epopea del Corpo, lo strazio degli
oltre 14mila caduti tra giungla e risaie, la rabbia e la consapevolezza che
molti lutti si sarebbero potuti evitare – forse scrivere un altro finale al
conflitto – se i dubbi strategici dei loro ufficiali avessero trovato qualcuno
disposto ad ascoltarli.
Articolo in gran parte
di Mario Galloni pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 22 – altri testi
e immagini da Wikipedia.
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