Roma Caput vini
Dalla parsimonia
dell’età monarchica ai raffinati convivi di quella imperiale, il nettare di
Bacco domina il desco romano. Dapprima l’Urbe ruba i segreti della viticoltura
a Etruschi, Greci e Fenici, ma poi supera i maestri e la trasforma in una
scienza, facendo del commercio del vino un lucroso business internazionale.
L’iscrizione
bene in vista sul muro della taverna pompeiana di Edoné, parlava chiaro: “qui
si beve per un asse. Se ne paghi 2, berrai un vino migliore. Con 4, avrai vino
Falerno”. Un vero prezzario della mescita, che conteneva un’offerta da non
perdere, se si pensa che il ll Falerno era considerata il “grand cru” (il
vigneto più pregiato) del mondo latino. La scritta, oggi purtroppo scomparsa,
testimonia il forte rapporto dei Romani antichi con la bevanda regina del
desco, consumata non soo nelle domus private, ma anche nelle osterie
frequentate dalle classe più umili (le popinae) e nei locali che offrivano cibi
caldi (thermopolia). Ci dice anche che il vino era, prima ancora che un alimento,
una questione di socialità, e che la produzione vinicola aveva raggiunto, sia
per varietà che per quantità, uno sviluppo tale da permettere all’avventore di
scegliere in base alle tasche e al palato.
Un bacio d’assaggio. Plinio il Vecchio
(23-79 d.C.) scrive, nella Naturalis histoira, che almeno due terzi della
produzione vinicola totale proveniva dall’Impero, ed elenca 91 vitigni diversi
con 195 specie di vini. Tra questi, 50 li definisce “generosi”, 38
“oltremarini”, 18 “dolci”, 64 “contraffatti” e 12 addirittura “prodigiosi”.
Catone afferma di conoscere otto qualità di vino. Varrone 10, Virgilio 15,
Columella ben 58. A Roma, nel periodo tra Repubblica e Principato (I secolo
a.C.), vennero consumati in un solo anno quasi 2 milioni di ettolitri di vino:
erano lontani i tempi della morigeratezza di costume dell’Urbe monarchica, che
aveva in uggia i costumi ritenuti viziosi (vino compreso) importati da società
liberali come quella greca. Era stato un periodo, quello di rigido patriarcato,
e se i maschi avevano goduto con parsimonia del nettare di Bacco (e soltanto
superati i trent’anni), alle donne era addirittura vietato, pena la morte. Per
evitare violazioni della legge era stato istituito la ius osculi, che dava
facoltà ai congiunti maschi di baciare le donne della famiglia per verificare
che non avessero bevuto vino, bevanda che induceva a liberalità e lussuria, e
il cui consumo era tollerato solo per attrici e prostitute.
Nelle ultime fasi della
Repubblica scomparve anche lo ius osculi, l’espansione dei confini del
Principato produsse un ulteriore allentamento dei rigidi costumi dei primi
secoli, in ragione delle maggiori disponibilità economiche che orientavano gusti
e consumi verso il lusso. Se ne giovarono le matrone e tutte le donne del ceto
medio e alto, che poterono cominciare a godersi una coppa ogni tanto, il vino
s’impose, inoltre, come la bevanda più importante sulle tavole di ogni
cittadino romano. La differenza la faceva il ceto di appartenenza e, come ci
ricorda l’iscrizione pompe3iana, la disponibilità economica. Si passava da un
vinello come la lora (surrogato dal basso contenuto alcolico e destinato al
consumo di schiavi, contadini e operai, ottenuto aggiungendo acqua alle vinacce
già pressate o ai grappoli poco maturi o alterati) ai grandi vini adatti
all’invecchiamento (dai 5 ai 25 anni e oltre): nettari di pregio, che potevano
costare anche ottanta volte il prezzo del vino comune. Dopo la pigiatura, la
pressatura e una filtrazione molto grossolana, il mosto veniva messo a
fermentare in recipienti di terracotta di forma sferica, i dolia (i più grandi
raggiungevano la capacità di circa mille litri), dentro i quali il vino veniva
anche invecchiato e trasportato. In altri casi si preferiva travasarlo in
anfore a doppia ansa, le seriae, di capienza dai 180 ai 300 litri, impermeabili
e dotate di una punta che si conficcava nel terreno. Prima del III secolo d.C.,
le anfore di terracotta erano i contenitori principali per il traffico
marittimo, con una capacità di una ventina di litri, chiuse ermeticamente con
tappi di sughero e sigillate con pece, che consentiva l’invecchiamento; su di
esse veniva impressa un’etichetta, il pittacium, che recava il luogo di provenienza
del vino, il nome del produttore e quello del console in carica. Verso la fine
del I secolo d.C., l’anfora per il trasporto vinario venne gradualmente
sostituita dalla botte, di origine celtica. Per il commercio via mare, i Romani
utilizzavano le naves vinarie: piccole, veloci e resistenti alle tempeste,
capace di trasportare circa trecento anfore.
Trasporto di vino nella Gallia Aquitania romana: le anfore (sulla sommità) rimasero i tradizionali contenitori mediterranei, ma i Galli introdussero l'uso di barilotti
Il
mitico falerno .
Lo
offrì Cleopatra a Cesare e della sua straordinaria longevità ed eccellenza si
ha testimonianza nel Satyricon di Petronio, quando si racconta che
Trimalcione ne offrì uno invecchiato cent’anni. Si tratta del celebrato
Falerno, il mito enologico dell’antichità, un “grand cru” di culto, venduto
in tutto il mondo conosciuto, da Cartagine alla Britannia, dalla Gallia
all’Egitto. Era prodotta nellìAger Falernus, sulle pendici del monte Massico
(oggi in provincia di Caserta). Di colore giallo, migliorava con
l’invecchiamento e verso i 15 anni risultava perfetto per essere degustato,
come diceva il poeta Marziale, diventava fuscus, cioè “bruno”.
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La più antica bottiglia di vino romano è stata rinvenuta a Spira
Resina, pece e acqua di mare. Nel dolia, il
vino nuovo rimaneva fino al 23 aprile: soltanto dopo le Vinalia urbana
(festività in onore del raccolto dell’uva) lo si poteva assaggiare. Era il
momento in cui entravano in scena gli haustores, appartenenti alla corporazione
dei pregustatores, assaggiatori patentati, che classificavano con appropriata
terminologia i vini, distinguendoli per colore, corpo e struttura. Usando il
poculum, una piccola coppa ombelicata che prelevava una modesta quantità di
vino, ne misuravano qualità, gradazione, acidità e stabilivano i vari tagli e
trattamenti di affinamento e invecchiamento cui sarebbe stato destinato. I vini
migliori venivano trattati e arricchiti con l’aggiunta del defrutum, un mosto
particolarmente concentrato che alzava la gradazione di 1 o 2 gradi alcolici.
Allora come oggi, quelli più pregiati erano adatti all’invecchiamento: un vino
come il Falerno non si beveva prima dei 10 anni, quelli di Sorrento non prima
dei 25, e non era difficile veder consumare vini con più di cent’anni. Durante
l’invecchiamento i vini erano tenuti nel fumarium, dentro l’apoteca, il locale
che fungeva da magazzino e si trovava nella parte alta della casa; qui
giungevano i fiumi degli usi domestici, che favorivano il processo di
affumicamento. Le limitate capacità conservative del vino e la forza dle
prodotto bevuto “liscio” imposero ai Romani la necessità di dolcificarlo,
diluirlo e miscelarlo con resine, pece e acqua di mare concentrata. Il bevitore
di merum, cioè vino puro, era considerato un ubriacone, e durante i banchetti
la misura dell’annacquamento (che poteva arrivare fino a quattro parti di acqua
e una di vino) era affidata a un arbiter bibendi, sorteggiato spesso con i
dadi. All’inizio di banchetti sontuosi si beveva il mulsum, una specie di
miscuglio composto da tre parti di vino e una di miele, lasciato riposare per
circa un mese in anfore di terracotta, filtrato, e poi messo di nuovo a riposo.
Venivano poi serviti vini elaborati con diverse ricette, a seconda delle
occasioni. Si realizzavano anche miscele a base di vino diluito con acqua e
aromatizzato con pepe, spezie, petali di rosa e viola, pece, mirra, menta
assenzio, cumino, coriandolo, timo, aglio, cipolla e persino trito di pigne. Le
lastre di piombo (velenoso) erano impiegate per addolcire il sapore del vino.
Sull’Appia enoteca del III secolo
d.C.
A Roma, sull’Appia Antica, gli
archeologi hanno scoperto un impianto perla produzione, conservazione e
degustazione del vino, databile al III secolo d.C. Si trovava all’interno
della villa dei Quintili, sopra il circo di Commodo, in corrispondenza delle
torrette dei carceres, le gabbie da dove partivano i carri per le corse.
L’impianto, che misurava in tutto oltre 800 mq. Comprendeva due ambienti per
la lavorazione e due stanze per la raffinazione.
Il vino era prodotto con le uve
del vigneto del circo. Accanto si trovava il “ninfeo del vino”, dove il
liquido prodotto dal mosto dell’uva, dopo essere passato attraverso vaschette
di decantazione, fluiva attraverso fontanelle: erano situate all’interno
delle nicchie, in canali di marmo che portavano ai dolia, i grandi
contenitori di terracotta interrati, nei quali il vino veniva conservato e
miscelato con le essenze.
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Parole di Roma: Vinum.
L’origine della parola vinum è
stata oggetto di lunghe discussioni fra gli studiosi. Deriverebbe dal
sanscrito vena, formato sulla radice ven, che significa “amare” (dalla stessa
radice devia Venus, Venere). Altri sostengono una derivazione dall’antico
ebraico lin attraverso il greco oinos; altri ancora partono a loro volta dal
sanscrito, ma dal termine vi, ovvero l’attorcigliarsi, il vino sarebbe dunque
il frutto della pianta che si attorciglia. Cicerone attribuisce alla parola
una curiosa etimologia latina, facendola derivare da vir (uomo) e vis
(forza).
Si è anche ipotizzato che vinum
derivi, si, dal greco, ma non dal termine attico oinos (da cui deriva eno,
sempre indicante il vino ma usato come prefisso in altre parole), bensì
dall’eolico (il dialetto in uso sull’isola di Lesbo) foinos. Tale vocabolo si
distingue proprio per la presenza, all’inizio, del digamma “F” ereditato
dall’etrusco “V” e poi passato al latino.
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Meglio dei maestri greci. Se ai Greci va
riconosciuto il merito di aver diffuso la coltivazione della vite nell’intero
bacino mediterraneo, ai Romani, che a Etruschi, Greci e Fenici carpirono i
segreti della viticoltura se ne de ve la diffusione in Italia e in Europa. Come
accade per altre pratiche, i Romani non si limitarono a copiare, ma, da
impareggiabili organizzatori e affaristi, impressero al vino una potente
accelerazione produttiva e commerciale. Piantagioni specializzate nacquero
inizialmente in Campania, alle pendici dei monti Petrino e Massico, da cui
proveniva il Falerno. Gli autori contemporanei riconoscevano alla Campania una
superiorità qualitativa, eredità della colonizzazione greca, che aveva lasciato
in retaggio le migliori tecniche di coltivazione.
Il vino romano fu
protagonista di una generalizzata crescita, sia in termini qualitativi che
quantitativi. Il massiccio arrivo di schiavi permise l’espansione delle villae
rusticae, strutture che arrivarono a coltivare 2000 ettari di appezzamenti e
dove si diffuse una razionale organizzazione del lavoro, tale da conseguire
un’efficienza produttiva paragonabile a quella moderna. I grandi raccolti
dell’Italia meridionale e della Sicilia ben presto determinarono una caduta
delle importazioni dalla Grecia. Dal III secolo a.C., l’Italia non si limitò
più a produrre per i fabbisogni interni, ma fu in grado di promuovere l’esportazione
dei suoi prodotti, sviluppo che continuò anche nella prima metà del secolo
successivo. Fece passi da gigante anche la tecnica agricola, come testimoniato
dallo straordinario tratto dello scrittore e agronomo Columella (4-70 d.C.),
giunto integro fino a noi. Nel suo De re rustica, egli descrive vigneti con
distanza di circa 3 m tra un filare e l’altro, altri maritati ad alberi o
sostenuti da pali in legno. Con il tempo, l’alberata etrusca venne poi
sostituita da filari con intrecciata di canne, fino ad arrivare a impianti a
cordone. Un ettaro di vigneto arrivò a produrre più di 150 quintali di uva, di
tipo non dissimile da quello odierno.
A partire dal III
secolo d.C., le pressioni militari ai confini germanici determinarono un
rallentamento dell’espansione territoriale e una riduzione della massa di
schiavi diretta a Roma. Ciò influì sull’economia delle villae e
dell’agricoltura generale, che tornò a forme meno ottimizzate. Anche la
diffusione dei beni di lusso rallentò la propria corsa e i commerci
cominciarono a stagnare. Infine, l’affermarsi del cristianesimo, che pure
utilizzò la bevanda durante l’eucarestia, impose costumi più morigerati. Il vino
non scomparve dalle tavole, ma chiuse temporaneamente la sua età dell’oro, che
era coincisa con gli splendori imperiali. Ai posteri, Roma consegnò comunque un
tesoro di progressi in viticoltura destinati a rimanere insuperati fino al
Settecento e insieme a essi una straordinaria varietà di superbi vigneti.
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