domenica 8 marzo 2020

Roma Caput vini

Roma Caput vini
Dalla parsimonia dell’età monarchica ai raffinati convivi di quella imperiale, il nettare di Bacco domina il desco romano. Dapprima l’Urbe ruba i segreti della viticoltura a Etruschi, Greci e Fenici, ma poi supera i maestri e la trasforma in una scienza, facendo del commercio del vino un lucroso business internazionale.
 
Iniziazione bacchica in un affresco nella Villa dei misteri a Pompei antica

L’iscrizione bene in vista sul muro della taverna pompeiana di Edoné, parlava chiaro: “qui si beve per un asse. Se ne paghi 2, berrai un vino migliore. Con 4, avrai vino Falerno”. Un vero prezzario della mescita, che conteneva un’offerta da non perdere, se si pensa che il ll Falerno era considerata il “grand cru” (il vigneto più pregiato) del mondo latino. La scritta, oggi purtroppo scomparsa, testimonia il forte rapporto dei Romani antichi con la bevanda regina del desco, consumata non soo nelle domus private, ma anche nelle osterie frequentate dalle classe più umili (le popinae) e nei locali che offrivano cibi caldi (thermopolia). Ci dice anche che il vino era, prima ancora che un alimento, una questione di socialità, e che la produzione vinicola aveva raggiunto, sia per varietà che per quantità, uno sviluppo tale da permettere all’avventore di scegliere in base alle tasche e al palato.

Un bacio d’assaggio. Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) scrive, nella Naturalis histoira, che almeno due terzi della produzione vinicola totale proveniva dall’Impero, ed elenca 91 vitigni diversi con 195 specie di vini. Tra questi, 50 li definisce “generosi”, 38 “oltremarini”, 18 “dolci”, 64 “contraffatti” e 12 addirittura “prodigiosi”. Catone afferma di conoscere otto qualità di vino. Varrone 10, Virgilio 15, Columella ben 58. A Roma, nel periodo tra Repubblica e Principato (I secolo a.C.), vennero consumati in un solo anno quasi 2 milioni di ettolitri di vino: erano lontani i tempi della morigeratezza di costume dell’Urbe monarchica, che aveva in uggia i costumi ritenuti viziosi (vino compreso) importati da società liberali come quella greca. Era stato un periodo, quello di rigido patriarcato, e se i maschi avevano goduto con parsimonia del nettare di Bacco (e soltanto superati i trent’anni), alle donne era addirittura vietato, pena la morte. Per evitare violazioni della legge era stato istituito la ius osculi, che dava facoltà ai congiunti maschi di baciare le donne della famiglia per verificare che non avessero bevuto vino, bevanda che induceva a liberalità e lussuria, e il cui consumo era tollerato solo per attrici e prostitute.
Nelle ultime fasi della Repubblica scomparve anche lo ius osculi, l’espansione dei confini del Principato produsse un ulteriore allentamento dei rigidi costumi dei primi secoli, in ragione delle maggiori disponibilità economiche che orientavano gusti e consumi verso il lusso. Se ne giovarono le matrone e tutte le donne del ceto medio e alto, che poterono cominciare a godersi una coppa ogni tanto, il vino s’impose, inoltre, come la bevanda più importante sulle tavole di ogni cittadino romano. La differenza la faceva il ceto di appartenenza e, come ci ricorda l’iscrizione pompe3iana, la disponibilità economica. Si passava da un vinello come la lora (surrogato dal basso contenuto alcolico e destinato al consumo di schiavi, contadini e operai, ottenuto aggiungendo acqua alle vinacce già pressate o ai grappoli poco maturi o alterati) ai grandi vini adatti all’invecchiamento (dai 5 ai 25 anni e oltre): nettari di pregio, che potevano costare anche ottanta volte il prezzo del vino comune. Dopo la pigiatura, la pressatura e una filtrazione molto grossolana, il mosto veniva messo a fermentare in recipienti di terracotta di forma sferica, i dolia (i più grandi raggiungevano la capacità di circa mille litri), dentro i quali il vino veniva anche invecchiato e trasportato. In altri casi si preferiva travasarlo in anfore a doppia ansa, le seriae, di capienza dai 180 ai 300 litri, impermeabili e dotate di una punta che si conficcava nel terreno. Prima del III secolo d.C., le anfore di terracotta erano i contenitori principali per il traffico marittimo, con una capacità di una ventina di litri, chiuse ermeticamente con tappi di sughero e sigillate con pece, che consentiva l’invecchiamento; su di esse veniva impressa un’etichetta, il pittacium, che recava il luogo di provenienza del vino, il nome del produttore e quello del console in carica. Verso la fine del I secolo d.C., l’anfora per il trasporto vinario venne gradualmente sostituita dalla botte, di origine celtica. Per il commercio via mare, i Romani utilizzavano le naves vinarie: piccole, veloci e resistenti alle tempeste, capace di trasportare circa trecento anfore.

Trasporto di vino nella Gallia Aquitania romana: le anfore (sulla sommità) rimasero i tradizionali contenitori mediterranei, ma i Galli introdussero l'uso di barilotti

Il mitico falerno .
Lo offrì Cleopatra a Cesare e della sua straordinaria longevità ed eccellenza si ha testimonianza nel Satyricon di Petronio, quando si racconta che Trimalcione ne offrì uno invecchiato cent’anni. Si tratta del celebrato Falerno, il mito enologico dell’antichità, un “grand cru” di culto, venduto in tutto il mondo conosciuto, da Cartagine alla Britannia, dalla Gallia all’Egitto. Era prodotta nellìAger Falernus, sulle pendici del monte Massico (oggi in provincia di Caserta). Di colore giallo, migliorava con l’invecchiamento e verso i 15 anni risultava perfetto per essere degustato, come diceva il poeta Marziale, diventava fuscus, cioè “bruno”.

La più antica bottiglia di vino romano è stata rinvenuta a Spira

Resina, pece e acqua di mare. Nel dolia, il vino nuovo rimaneva fino al 23 aprile: soltanto dopo le Vinalia urbana (festività in onore del raccolto dell’uva) lo si poteva assaggiare. Era il momento in cui entravano in scena gli haustores, appartenenti alla corporazione dei pregustatores, assaggiatori patentati, che classificavano con appropriata terminologia i vini, distinguendoli per colore, corpo e struttura. Usando il poculum, una piccola coppa ombelicata che prelevava una modesta quantità di vino, ne misuravano qualità, gradazione, acidità e stabilivano i vari tagli e trattamenti di affinamento e invecchiamento cui sarebbe stato destinato. I vini migliori venivano trattati e arricchiti con l’aggiunta del defrutum, un mosto particolarmente concentrato che alzava la gradazione di 1 o 2 gradi alcolici. Allora come oggi, quelli più pregiati erano adatti all’invecchiamento: un vino come il Falerno non si beveva prima dei 10 anni, quelli di Sorrento non prima dei 25, e non era difficile veder consumare vini con più di cent’anni. Durante l’invecchiamento i vini erano tenuti nel fumarium, dentro l’apoteca, il locale che fungeva da magazzino e si trovava nella parte alta della casa; qui giungevano i fiumi degli usi domestici, che favorivano il processo di affumicamento. Le limitate capacità conservative del vino e la forza dle prodotto bevuto “liscio” imposero ai Romani la necessità di dolcificarlo, diluirlo e miscelarlo con resine, pece e acqua di mare concentrata. Il bevitore di merum, cioè vino puro, era considerato un ubriacone, e durante i banchetti la misura dell’annacquamento (che poteva arrivare fino a quattro parti di acqua e una di vino) era affidata a un arbiter bibendi, sorteggiato spesso con i dadi. All’inizio di banchetti sontuosi si beveva il mulsum, una specie di miscuglio composto da tre parti di vino e una di miele, lasciato riposare per circa un mese in anfore di terracotta, filtrato, e poi messo di nuovo a riposo. Venivano poi serviti vini elaborati con diverse ricette, a seconda delle occasioni. Si realizzavano anche miscele a base di vino diluito con acqua e aromatizzato con pepe, spezie, petali di rosa e viola, pece, mirra, menta assenzio, cumino, coriandolo, timo, aglio, cipolla e persino trito di pigne. Le lastre di piombo (velenoso) erano impiegate per addolcire il sapore del vino.

Sull’Appia enoteca del III secolo d.C.
A Roma, sull’Appia Antica, gli archeologi hanno scoperto un impianto perla produzione, conservazione e degustazione del vino, databile al III secolo d.C. Si trovava all’interno della villa dei Quintili, sopra il circo di Commodo, in corrispondenza delle torrette dei carceres, le gabbie da dove partivano i carri per le corse. L’impianto, che misurava in tutto oltre 800 mq. Comprendeva due ambienti per la lavorazione e due stanze per la raffinazione.
Il vino era prodotto con le uve del vigneto del circo. Accanto si trovava il “ninfeo del vino”, dove il liquido prodotto dal mosto dell’uva, dopo essere passato attraverso vaschette di decantazione, fluiva attraverso fontanelle: erano situate all’interno delle nicchie, in canali di marmo che portavano ai dolia, i grandi contenitori di terracotta interrati, nei quali il vino veniva conservato e miscelato con le essenze.
Parole di Roma: Vinum.
L’origine della parola vinum è stata oggetto di lunghe discussioni fra gli studiosi. Deriverebbe dal sanscrito vena, formato sulla radice ven, che significa “amare” (dalla stessa radice devia Venus, Venere). Altri sostengono una derivazione dall’antico ebraico lin attraverso il greco oinos; altri ancora partono a loro volta dal sanscrito, ma dal termine vi, ovvero l’attorcigliarsi, il vino sarebbe dunque il frutto della pianta che si attorciglia. Cicerone attribuisce alla parola una curiosa etimologia latina, facendola derivare da vir (uomo) e vis (forza).
Si è anche ipotizzato che vinum derivi, si, dal greco, ma non dal termine attico oinos (da cui deriva eno, sempre indicante il vino ma usato come prefisso in altre parole), bensì dall’eolico (il dialetto in uso sull’isola di Lesbo) foinos. Tale vocabolo si distingue proprio per la presenza, all’inizio, del digamma “F” ereditato dall’etrusco “V” e poi passato al latino.

Meglio dei maestri greci. Se ai Greci va riconosciuto il merito di aver diffuso la coltivazione della vite nell’intero bacino mediterraneo, ai Romani, che a Etruschi, Greci e Fenici carpirono i segreti della viticoltura se ne de ve la diffusione in Italia e in Europa. Come accade per altre pratiche, i Romani non si limitarono a copiare, ma, da impareggiabili organizzatori e affaristi, impressero al vino una potente accelerazione produttiva e commerciale. Piantagioni specializzate nacquero inizialmente in Campania, alle pendici dei monti Petrino e Massico, da cui proveniva il Falerno. Gli autori contemporanei riconoscevano alla Campania una superiorità qualitativa, eredità della colonizzazione greca, che aveva lasciato in retaggio le migliori tecniche di coltivazione.
Il vino romano fu protagonista di una generalizzata crescita, sia in termini qualitativi che quantitativi. Il massiccio arrivo di schiavi permise l’espansione delle villae rusticae, strutture che arrivarono a coltivare 2000 ettari di appezzamenti e dove si diffuse una razionale organizzazione del lavoro, tale da conseguire un’efficienza produttiva paragonabile a quella moderna. I grandi raccolti dell’Italia meridionale e della Sicilia ben presto determinarono una caduta delle importazioni dalla Grecia. Dal III secolo a.C., l’Italia non si limitò più a produrre per i fabbisogni interni, ma fu in grado di promuovere l’esportazione dei suoi prodotti, sviluppo che continuò anche nella prima metà del secolo successivo. Fece passi da gigante anche la tecnica agricola, come testimoniato dallo straordinario tratto dello scrittore e agronomo Columella (4-70 d.C.), giunto integro fino a noi. Nel suo De re rustica, egli descrive vigneti con distanza di circa 3 m tra un filare e l’altro, altri maritati ad alberi o sostenuti da pali in legno. Con il tempo, l’alberata etrusca venne poi sostituita da filari con intrecciata di canne, fino ad arrivare a impianti a cordone. Un ettaro di vigneto arrivò a produrre più di 150 quintali di uva, di tipo non dissimile da quello odierno.
A partire dal III secolo d.C., le pressioni militari ai confini germanici determinarono un rallentamento dell’espansione territoriale e una riduzione della massa di schiavi diretta a Roma. Ciò influì sull’economia delle villae e dell’agricoltura generale, che tornò a forme meno ottimizzate. Anche la diffusione dei beni di lusso rallentò la propria corsa e i commerci cominciarono a stagnare. Infine, l’affermarsi del cristianesimo, che pure utilizzò la bevanda durante l’eucarestia, impose costumi più morigerati. Il vino non scomparve dalle tavole, ma chiuse temporaneamente la sua età dell’oro, che era coincisa con gli splendori imperiali. Ai posteri, Roma consegnò comunque un tesoro di progressi in viticoltura destinati a rimanere insuperati fino al Settecento e insieme a essi una straordinaria varietà di superbi vigneti.

Articolo in gran parte di Mario Galloni pubblicato su Civiltà Romana n. 2  Sprea editori, altri testi e immagini da Wikipedia

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