Adriano un grande
imperatore che preferiva l’amore alla guerra.
Iniziò il suo regno da
tiranno spietato e vendicativo, ma ben presto si rivelò un uomo colto,
tollerante, illuminato gestore dell’Impero, regalando a Roma una lunga stagione
di pace e prosperità. Questo gli permise di riorganizzare lo stato, di
occuparsi di arte e poesia, oltre a dedicarsi alle sue passioni, forse non
tutte lodevoli.
(Musei Capitolini, Roma)
Adriano
era nipote di Traiano (figlio di un fratello), che diventò il suo tutore
spiando il padre si spense per morte prematura e il bambino aveva appena 10
anni. Erano arrivati entrambi dalla città Romana di Italica, nella Spagna
meridionale, in corrispondenza della moderna Santiponce, vicino a Siviglia.
Perché Traiano abbia scelto proprio Adriano come successore al trono resta
difficile da capire. Nonostante la comune origine ispanica e la stretta
parentela, erano infatti molto diversi tra loro. Traiano era soprattutt2o un
soldato, avido di gloria militare. Dopo la conquista della Dacia – l’attuale
Romania – si era lanciato in una guerra contro i Parti, sognando di emulare le
gesta di Alessandro Magno e rammaricandosi del fatto che l’età avanzata gli
avrebbe impedito di ottenere gli stessi risultati del grande macedone. In
effetti aveva conquistato la Mesopotamia e raggiunto le sponde del Golfo
Persico: era stato il primo e l’ultimo generale romano a navigare in quel mare
lontano e le sue flotte avevano devastato le coste dell’Arabia.
Ma il suo orgoglio per
aver portato i confini dell’impero agli estremi limiti orientali fu di breve
durata. Mantenere il controllo di quelle regioni desertiche, lontane migliaia
di chilometri dalle basi di rifornimento della Sira, era impossibile. Lo aveva
capito lui stesso, che morì in Cilicia di un colpo apoplettico mentre faceva
ritorno a Roma. E lo capì ancora meglio Adriano, che come primo atto del suo
governo rinunciò a quelle terre appena conquistate, ritirò le guarnigioni
dall’Armenia, dall’Assiria, dalla Mesopotamia e riportò il confine dell’impero
alle sponde dell’Eufrate, là dove aveva voluto Augusto.
Una travagliata successione al trono. Traiano
prevedeva che il nipote avrebbe disfatto quello che lui andava costruendo. Lo
conosceva, sapeva che Adriano non amava la guerra, anche se quando era stato
chiamato a farla aveva combattuto con onore e si era conquistato il favore dei
soldati. Preferiva le arti sottili della diplomazia alla forza brutale della
armi. Non condivideva la politica ispanistica e, con tutta probabilità, non
avrebbe proseguito su quella strada quando fosse stato investito del potere.
Per questo Traiano non si decideva ad adottarlo, nonostante le insistenze di
sua moglie, Plotina, che invece aveva una grande considerazione per il nipote
ed era la sua più convinta sostenitrice. Traiano tenne duro fino agli ultimi
giorni di vita resta da chiedersi che cosa gli fece cambiare idea in punto di
morte.
Secondo quanto racconta
la “Historia Augusta” – una controversa raccolta di biografie imperiali –
Traiano morì senza aver fatto il nome dell’erede. Ma la furba Plotina, aiutata
dalla nipote Matilda, ordì una messinscena che trasse tutti in inganno: un loro
servo imitò la voce dell’imperatore appena deceduto per annunciare agli
astanti, nella stanza in penombra che impediva di vedere i volti e le persone,
di avere scelto Adriano come successore. Anche il ben più attendibile storico
Cassio Dione assegna alla moglie dell’imperatore un ruolo decisivo nella nomina
del nipote. Plotina avrebbe tenuto segreta la notizia del decesso di Traiano
per alcuni giorni, il tempo di preparare che annunciava al senato l’adozione
del nipote. Il senato non ebbe nulla da eccepire, meno che mai l’esercito,
legatissimo sia all’imperatore defunto per le battaglie combattute insieme, sia
al suo successore per i generosi donativi da lui ricevuti. Tutti d’accordo,
quindi, a parte forse il defunto imperatore.
Comunque sia andata la
successione, Plotina tornò a Roma con le ceneri del marito chiuse in un’urna
tutta d’oro, che fece sotterrare alla base della Colonna Traiana. In quanto ad
Adriano, pagò il suo debito di riconoscenza nei confronti dello zio facendo
mirabilmente decoare quella stessa colonna con un bassorilievo che copriva per
tutta la lunghezza e che ancora oggi illustra le imprese della guerra in Dacia.
Era l’anno 117 quando
Publio Elio Traiano (acquisì il nome dello zio con l’adozione) assunse anche il
titolo di Augusto, che qualificava gli imperatori. Appena salito al trono,
Adriano regolò i conti con i suoi nemici, reali o immaginari. Allontanò dalla
gestione del potere tutti quelli che avevano avuto a che fare con
l’amministrazione di Traino, per non essere intralciato nei suoi progetti di
riforma. Non ebbe scrupoli nel mandare a morte 4 senatori che considerava
avversari e possibili concorrenti al trono. “Cominciamo bene”, commentarono gli
altri membri del senato temendo un ritorno al terrore di Nerone e Domiziano.
Ancora più fosche furono le previsioni quando il nuovo imperatore si prese una
tardiva e crudele rivincita sul più grande architetto di quel tempo, Appolodoro
di Damasco, che aveva edificato per Traiano le opere più insigni: il foro, la
celebre colonna e i mercati traianei. La vecchia ruggine tra i due risaliva a
un episodio in cui Adriano, che aveva la passione dell’architettura, criticò
Apollodoro mentre illustrava un suo progetto a Traiano. Il grande architetto,
punto sul vivo, gli rispose: “Non parlare di cose che non sai, pensa alle tue
zucche” (il riferimento sprezzante era alle cupole orientaleggianti che tanto
piacevano al giovane nipote dell’imperatore e di cui farà ampio uso nelle sue
costruzioni). Adriano, uomo di tenaci rancori, non dimenticò quell’affronto e,
una volta sul trono, mandò Apollodoro in esilio. Quando gli riferirono che
l’architetto aveva criticato il più grande tempio della città, dedicato a
Venere e Roma, fatto erigere da Adriano sulla Via Sacra con dispendio di fatica
e risorse (furono ingaggiati 24 elefanti solo per spostare il Colosso, cioè la
gigantesca statua di Nerone che diede il nome al Colosseo), ordinò di
giustiziarlo. Roma perse un grande artista e si convinse ancora di più di
essere tornata sotto il giogo di un imperatore tiranno e crudele.
Contro gli ebrei usò il pugno di
ferro. L'antica provincia romana di Giudea al tempo di Adriano. Adriano visitò la Giudea nel 130 e
decise che quel territorio, conquistato da Tito nel 70 d.C., ma di nuovo
ribellatosi nel 115, dovesse essere uniformato – nella vita, nella cultura e
nella pratica religiosa – alla civiltà ellenistica estesa a tutto il mondo
romano. Cominciò dunque col vietare il sabato festivo, lo studio della Torah,
cioè la legge di Mosè, l’uso del calendario giudaico e le cerimonie di culto.
Ordinò che i rotoli con le Scritture fossero bruciati. Proibì la
circoncisione rituale, considerata una mutilazione incivile esattamente come
la castrazione, peraltro già bandita da Domiziano. Soprattutto, impose che
dove sorgeva Gerusalemme si costrusse una città tutta nuova, che si sarebbe
chiamata Aelia Capitolina, e un tempio a Giove sarebbe stato costruito sui
resti del tempio di Erode. Finché Adriano restò nelle vicinanze, prima in
Egitto e poi in Siria, gli Ebrei subirono senza reagire, ma appena si
allontanò per tornare nell’amata Grecia e a Roma esplose la rivolta. Era la
fine del 132: ammaestrati dai precedenti conflitti, i ribelli si guardarono
bene dall’attaccare i Romani in campo aperto. Come racconta Cassio Dione:
“Occuparono le posizioni vantaggiose del paese e le fortificarono scavando
tunnel alzando muri, per avere luoghi dove rifugiarsi nel caso si fossero
trovati sotto forte pressione e potersi incontrare senza essere visti, sotto
terra. E praticarono dei fori dall’alto su questi passaggi sotterranei per
assicurare aria e luce”. Li guidava un certo Simone, detto Bar Kokhba, che
aveva, oltre che un indubbio talento militare, grandi doti di comando. A
tutti i suoi uomini chiese di dimostrare il loro coraggio tagliandosi un
dito. Non risulta che qualcuno si sia tirato indietro. Simone creò un vero e
proprio stato indipendente, con le sue leggi, i suoi tribunali e le sue
monete. Alla fine Adriano perse la pazienza e inviò il suo migliore generale,
Giulio Severo, che nel 135 riuscì a soffocare la rivolta nel sangue. È ancora
Cassio Dione a fornirci il lugubre conteggio dei morti: “in realtà pochissimi
sopravvissero, 50 dei loro avamposti più importanti e 985 dei loro villaggi
più famosi furono rasi al suolo. 500mila uomini furono trucidate nelle varie
incursioni e battaglie, il numero di quelli che morirono di fame, di malattie
e per incendi non si poté calcolare. Così quasi l’intera Giudea fu resa una
desolazione”. Le truppe vittoriose si accanirono
contro Gerusalemme. La zona delle sepolture, dove secondo la tradizione era
stato deposto il corpo di Gesù, fu ricoperta di terra e sopra fu eretto un
tempio a Venere (questo in seguito faciliterà l’individuazione del Santo
Sepolcro). Venne favorito l’insediamento di nuovi abitanti, mentre agli Ebrei
era vietato anche avvicinarsi alla città. Infine, come era stato cancellato
il nome di Gerusalemme, si cambiò anche quello della regione: non più Giudea,
ma Palestina, derivato da quei Filistei contro i quali aveva combattuto e
vinto re David. |
Un poeta sul trono di Roma. È una poesiola breve e facile. Ne
proponiamo i 4 versi, che sono un’ininterrotta successione di vezzeggiativi,
al punto da far pensare che sia stata scritta da una mano femminile. Invece è
di Adriano che, da fine artista e letterato quale era, amava la poesia e si
dilettava a comporre versi. Questa è l’unica rimastaci, riportata in quella
“Historia Augusta” che ci fornisce anche molte informazioni sulla vita
dell’imperatore. Adriano l’ha composta sul letto di morte, come a prendere
congedo dalla sua anima. La scrittrice francese Marguerite Yourcenar la
colloca in apertura delle sue imperdibili “Memorie di Adriano”, quasi
un’istantanea capace di illustrarci meglio di mille parole il vero animo del
suo personaggio. La proponiamo con la traduzione di Lidia Storoni Mazzolani,
che è anche la traduttrice del libro. Animula vagula, blandula, hospes comesque corporis, quae nunc abbis in loca pallidula, rigida nudula, nec, ut soles, dabis iocos… piccola anima smarrita e soave compagna e ospite del corpo ora ti appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti … |
Un imperatore itinerante. Invece si sbagliava,
almeno per la seconda parte della cupa previsione. Primo. Primo perché Adriano
non esercitò mai più il suo potere di morte, secondo, perché dei 21 anni
passati sul trono trascorse la maggior parte lontano dalla capitale
dell’impero. Il successore di Traiano è infatti l’imperatore che ha viaggiato
più di ogni altro. Non per necessità belliche, visto che di guerre non ne fece
neanche una, se si esclude quella contro gli Ebrei, ma perché spinto dal
bisogno di sapere, dal desiderio di vedere le cose con i propri occhi, dalla
necessità di intervenire in prima persona. Adriano è un imperatore in continuo
movimento, seguito da uno stuolo di funzionari che tutto registrano e a tutto
provvedono. Dalla Britannia alla Siria, dall’Africa alla Pannonia, dalla
Bitinia all’Egitto, non c’è provincia che Adriano non abbia visitato, e dove
non abbia edificato fortificazioni e monumenti, templi e città. Mai l’impero
romano ha avuto un’amministrazione così attenta ai bisogni delle provincie,
anche le più lontane da Roma, così solerte nel rafforzamento delle frontiere
(un esempio per tutti, la costruzione del celebre Vallo che separava l’odierna
Inghilterra dalla Scozia), così accorta nella gestione delle imposte. “il suo spirito aperto e attivo era
ugualmente portato alle più larghe vedute, come ai più minuti particolari del
governo”, sottolinea lo storico inglese Edward Gibbon nella sua “Decadenza
e caduta dell’Impero romano”. Questi continui spostamenti, se da una parte
dimostravano quanto fosse saldo il suo potere, dall’altra assicurava il senato
e le più alte magistrature: no, Adriano non era il tiranno che essi temevano.
Al contrario, la sua figura si andava delineando come quella di un imperatore
non solo giusto, ma anche autorevole e risoluto, contro il quale nessuno mai
avrebbe osato congiurare e nessuno, dopo Apollodoro, avrebbe avuto ragione di
temere per la sua vita. Infatti sotto il suo regno, l’impero fiorì in pace e
prosperità. Quelli che parlavano di lui come un nuovo Augusto non lo facevano
solo per adulazione o per sollecitare la sua vanità, che pure era grande, a
giudicare dalla enorme quantità di ritratti che si fece fare. Le loro lodi
erano il riconoscimento di una condizione di pace, di benessere e di
prosperità, che a Roma non si vedeva dai tempi del fondatore dell’impero.
Non basterebbe un
trattato di Storia dell’Arte per illustrare la magnificenza dei suoi monumenti.
Oltre al già citato tempio di Venere e Roma e alla decorazione in bassorilievo
della colonna Traiana, va almeno ricordata la ricostruzione del Pantheon,
edificato al tempo di Augusto e poi crollato, con la magnifica cupola che
ispirerà gli architetti del Rinascimento, e soprattutto il suo maestoso
mausoleo, che i papi avrebbero poi trasformato nell’inespugnabile Castel
Sant’Angelo, il più grande e più ricco di quello di Augusto che lo fronteggiava
sull’altra riva del Tevere. Ma l’edificio che meglio rispecchia il suo animo di
artista e la sia ammirazione per la civiltà ellenistica è la grande Villa
Adriana, in prossimità di Tivoli. Depredata di marmi e statue nel 1500 dal
cardinale Ippolito d’Este, che li utilizzò per costruire la sia Villa d’Este,
Villa Adriana conserva ancora una parte degli arredi e degli elementi
architettonici, come nel Senapeo e nel Canopo, che abbellivano i rari ozi
romani dell’imperatore e gli davano l’illusione di vivere in un angolo dell’amatissima
Grecia o dell’esotico Egitto.
Adriano ebbe una sola
moglie, Vibia Sabina, figlia di quella Matilda che aveva complottato con Plotina
per metterlo sul trono. Secondo alcune fonti, il matrimonio con Sabina sarebbe
stato il favore che doveva ricambiare la complicità di Plotina. I rapporti tra
loro furono improntati a una formale correttezza e ad una sostanziale
freddezza. L’unione durò quasi 40 anni, fino alla morte di lei, durante i quali
Sabina ottenne tutti gli onori che le erano dovuti, a cominciare dal titolo di
Augusta. Accompagnò il marito in alcuni dei suoi lunghi viaggi in Oriente, ma
per lo più stava da sola a Roma. Secondo la “Historia Augusta”, durante le
assenze del marito Sabina avrebbe intrattenuto rapporti di eccesiva familiarità
con alcuni personaggi del palazzo, come il prefetto del pretorio e lo storico
Svetonio, i quali per questa ragione sarebbero stati allontanati. Certo è che
non diede un figlio all’imperatore, perché era infeconda o forse perché i
contatti con l’augusto consorte, ammesso che ci fossero, erano troppo saltuari.
La cultura greca come modello di vita. Assai
più della moglie, Adriano amava la Grecia, la sua storia, la sia arte, il suo
pensiero. Ai Greci volle assomigliare anche nell’aspetto, lasciandosi crescere
la barba come usavano gli antichi filosofi. Introdusse così a Roma una moda che
sarà seguita dai suoi successori (prima di lui nessun imperatore aveva portato
la barba se si esclude Nerone, che pure si atteggiava a cultore della civiltà
greca). Inoltre, mostrò di apprezzare la pratica tutta greca della pederastia,
cioè quello stretto legame che univa il maestro al discepolo e che spesso
assumeva connotazioni apertamente critiche. Questo genere di omosessualità era
ampiamente diffuso a Roma sin dai tempi della conquista della Grecia, quando la
lingua, la cultura, i costumi di quel paese cominciarono a influenzare
potentemente lo stile di vita dei romani. La disinvoltura sessuale di Cesare,
per fare un esempio illustre, era così nota che i suoi soldati la celebravano
nelle sfilate dei trionfi. Tiberio nella sua villa di Capri era solito nuotare
in mezzo aschiere di adolescenti che chiamava ‘i miei pesciolini’. Anche un
personaggio apparentemente austero come Traiano non disdegnava questo genere di
legami. Ma a differenza di loro, che ne facevano un uso occasionale, per il
passionale Adriano l’omosessualità diventò una scelta totalizzante quando incontrò
il poco più che adolescente Antinoo. Nato in Bitinia, ma di origine greca, era
giunto a Roma per completare l’istruzione superiore. Introdotto a corte,
diventò subito il favorito dell’imperatore, che non se ne separò più. Soggiogato dalla sua bellezza davvero statuaria,
come documentano i tanti ritratti che ci rimangono di lui, oltre che dalla sua
esuberanza giovanile, Adriano lo portò con sé in Africa, in Grecia e in
Oriente. Lo introdusse alla conoscenza dei Misteri Eleusini (riti religiosi
proveniente dall’antica Grecia), lo enne al suo fianco nelle battute di caccia
in Asia Minore, lo volle accanto nella visita ai monumenti della Siria e dell’Egitto.
Finché, nell’ottobre del 130, mentre navigavano sul Nilo, Antinoo cadde in
acqua e annegò. Aveva solo 19 anni. Un incidente, si disse. Ma si parlò anche
di suicidio legato al timore di perdere i favori dell’imperatore, ora che stava
diventando un uomo, oppure di un sacrificio rituale per restituire al maturo
amante la salute che stava declinando.
Andriano, travolto dal
dolore, volle trasformare il favorito in divinità. In Egitto gli dedicò un’intera
città, Antinopoli, dove Antinoo era rappresentato e venerato come un antico dio
egizio. In ogni angolo dell’Impero furono erette statue cui erano riservati gli
stessi onori dei membri della famiglia imperiale. Non bastandogli la terra ad
esaltare il suo protetto, sostenne di averi visto la stella di Antinoo brillare
in cielo e ordinò che una costellazione, prossima a quella dell’Aquila, avesse
il suo nome. Follie d’amore di un uomo a cui restavano solo 8 anni da vivere,
in gran parte dedicati alla memoria di quel ragazzo che, pur essendogli stato
accanto per non più di 3 anni, aveva segnato in maniera indelebile la sua vita
la sua figura nella Storia.
Passata, o meglio
attenuatasi, la disperazione per la perdita dell’amante Adriano si dedicò alla
ricerca di un successore, in vista di una fine che sentiva non lontana. Dopo aver
passato in rassegna molti uomini meritevoli, nel 136 decise di adottare Elio
Vero, un giovanotto frivolo e inconcludente che ai suoi occhi aveva però una
dote decisiva: la straordinaria bellezza, paragonabile a quella di Antinoo. Adriano
gli attribuì il titolo di Cesare, destinato al successore designato, e ne fece
il suo amante. Ma anche Elio Vero morì prematuramente, il 1° gennaio del 138. Il
giorno dopo avrebbe dovuto tenere un discorso al Senato per sancire il suo
ruolo come erede di Adriano.
L’imperatore, sempre
più malato, ripiegò su un senatore di circa 50 anni, da tutti ammirato per la
sua condotta irreprensibile. Si chiamava Antonino e fu detto Pio per la sua
pietas. Adriano lo proclamò figlio e successore a condizione a adottasse a sua
volta Marco Aurelio, un ragazzo di 17 anni figlio di Faustina, la figlia di
Antonino. Mai scelta si rivelò più azzeccata. I due Antonini regnarono
complessivamente per 42 anni e questo periodo è forse stato “il solo della
Storia nel quale la felicità di un grande popolo sia stata l’unico scopo di chi
lo governava” parole del già citato Gibbon, da ascrivere anche a merito di chi
quella scelta, sia pure di ripiego, l’aveva fatta. Pochi mesi dopo aver passato
il potere ad Antonino, il 62 imperatore morì a Baia, dove si era ritirato, il
10 luglio del 138, dopo aver regnato per 21 anni e 12 mesi.
Articolo di Gianna
Bragato (giornalista e scrittore di storia) pubblicato su BBC History n. 22 –
altri testi e immagini da Wikipedia.