Rivolta di Nika a
Costantinopoli.
Nel 532 d.C. i tifosi
dell’ippodromo misero a ferro e fuoco la capitale dell’Impero romano d’Oriente.
Fino quasi a far cadere chi lo reggeva.
Mosaico raffigurante un auriga
“Nika,
nika”, “vinci, vinci”, urlava il pubblico a squarciagola, incitando i carri che
si sfidavano nella pista dell’antico ippodromo di Costantinopoli, i cui spalti
ospitavano la bellezza di 100mila spettatori. Tra questi, si distinguevano i
turbolenti antenati dei moderni ultras, che vantavano importanti amicizie nelle
stanze del potere e che nell’anno 532 d.C. furono protagonisti di una delle più
violente sommosse nella storia della città, passata alle cronache come “rivolta
di Nika”. Per l’occasione il celebre incitamento sportivo divenne infatti un
grido di guerra.
L'obelisco di Teodosio, vicino all'ippodromo di Costantinopoli
Febbre da ippodromo. Oggi gli ultras
affollano principalmente le curve degli stadi calcio, nei tempi antichi i loro
avi si accalcavano negli ippodromi sorti sull’esempio del Circo Massimo di
Roma. Uno dei più grandi, secondo soltanto all’impianto dell’Urbe, era proprio
quello di Costantinopoli, città rifondata nel 330 (dove sorgeva Bisanzio)
dall’imperatore Costantino I, che investì molti denari per ultimare, su una
struttura preesistente, il monumentale impianto sportivo, lungo 400 metri e
largo 130. Qui il sovrano aveva una sua tribuna privata, accessibile dalla
residenza imperiale, in cui amava celebrare il proprio potere tra la folla,
proprio come avveniva a Roma. E come nell’Urbe, l’ippodromo attirò presto masse
di tifosi di ogni estrazione sociale, pronti a prendere le parti di questa o
quella scuderia durante le corse che si tenevano nelle occasioni di festa. Divenuta
nel 395 capitale del neonato Impero romano d’Oriente, o bizantino.
Costantinopoli si andò intanto affermando come una delle città più grandi,
popolose e cosmopolite del mondo, conoscendo un’eccezionale fioritura con
l’imperatore Giustiniano I (482-565), salito al trono nel 527 assieme alla
carismatica moglie Teodora (497-548). Al pari dei sovrani precedenti, anch’essi
furono colti da una crescente “febbre da ippodromo” (la stessa Teodora, di
umili origini, era figlia di un addetto alla struttura sportiva), coltivando
pericolose amicizie con la fazione degli Azzurri, i tifosi più esagitati di
tutti, sempre pronti alla rissa e con l’ambizione di dettar legge all’intera
città. d’altronde, già da tempo le fortune e le sfortune di un imperatore erano
condizionate dagli esiti delle gare che si tenevano nell’ippodromo, o meglio
dai rapporti che egli sapeva intrecciare con gli ultras più turbolenti.
Pianta dell'Ippodromo
L'Ippodromo al centro degli altri edifici imperiali
Divisi da tutto. Al pari di oggi, il
mondo dei tifosi di Costantinopoli era popolato da gruppi fieramente rivali tra
loro, ognuno connotato da un particolare colore, derivato dalle vesti indossate
dagli aurighi che si sfidavano in pista. Tra le varie fazioni, oltre agli
Azzurri, detti “miserabili”, e rappresentanti delle frange più povere della
popolazione, raccoglievano attorno a sé gli esponenti delle fasce alte (mentre
rivestivano un ruolo secondario i Bianchi e i Rossi). I due gruppi, divisi
anche da dispute religiose interne al cristianesimo, disponevano entrambi di
squadroni militarizzati e, a seconda dei favori che facevano a questo o quel
sovrano – intimorendone magari un rivale – ricevevano agevolazioni o compensi.
Nello specifico, se Giustiniano e Teodora erano stati appoggiati dagli Azzurri,
i Verdi avevano invece sostenuto Ipazio e Flavio Pompeo, nipoti del precedente
imperatore Anastasio I (sul trono dal 491 al 518). Avendo avuto la peggio, gli
stessi Verdi iniziarono a subire le angherie degli Azzurri, famigerati sia per
i tafferugli nell’ippodromo sia per i radi notturni nelle strade di
Costantinopoli, in cui terrorizzavano la
popolazione con rapine e omicidi che rimanevano spesso impuniti, dato il
lassismo di Giustiniano.
L'imperatrice Teodora in un particolare dei mosaici della basilica di San Vitale a Ravenna.
Il pretesto. A un certo punto le ripetute prepotenze
degli ultras spazientirono l’imperatore, che ordinò al prefetto della città,
Eudemone, di arrestare gli esponenti più agitati di tutte le fazioni. Il 10
gennaio 532 questi furono quindi giustiziati, ma due di loro, uno per fazione,
si salvarono per la rottura del patibolo, implorando clemenza a Giustiniano.
Questi continuò tuttavia a mostrarsi inflessibile, creando un casus belli: i
tifosi delle due fazioni misero infatti da parte l’antica rivalità e si
coalizzarono contro di lui. D’altro canto, già da tempo essi mal digerivano la
sua dura politica fiscale (destinata alle spese belliche e, secondo i maligni,
a soddisfare i lussuosi capricci dell’imperatrice), amministrata da due
funzionari ritenuti corrotti: il questore Triboniano e il prefetto del pretorio
d’Oriente Giovanni di Cappadocia. La mattina dell’11 gennaio, giorno di gare,
nel catino dell’ippodromo l’imperatore e l’imperatrice furono travolti da
fischi e insulti, finché, al grido “Nika, nika”, Azzurri e Verdi iniziarono a
mettere a ferro e fuoco l’intera città. A darci una descrizione di questi
hooligan ante litteram è lo storico bizantino Procopio di Cesarea, che nella
sua Arcana historia si soffermò sull’aspetto degli Azzurri, contraddistinti tra
l’altro da capelli tagliati “alla maniera dei barbari”, con frangia sulla
fronte, tempie rasate e chioma lunga. Oltre a ciò, giravano sempre armati di
pugnali. Di fronte alle intemperanze degli ultras, che trascinarono nella
rivolta gran parte della popolazione, Giustiniano corse a rinchiudersi nel suo
palazzo, pronto a darsi alla fuga dopo aver fatto stipare su una nave tutto il
tesoro imperiale.
Senza via di fuga. I tumulti continuarono
senza sosta, e i rivoltosi diedero addirittura alle fiamme la grande basilica
di Santa Sofia, mentre sul piano politico, dopo aver ottenuto la rimozione dei
funzionari coinvolti negli arresti e di quelli accusati di vessazione fiscale,
nonché la promessa di una riduzione delle tasse, giunsero a reclamare
l’abdicazione del governo. Arrivarono a eleggere arbitrariamente come nuovo
imperatore Ipazio, che a detta di Procopio di Cesarea fu peraltro poco
entusiasta di questa prova di forza. A quel punto, mentre gli ultras
minacciavano ormai il palazzo imperiale, Teodora convinse il marito, pronto a
lasciare il trono, ad affrontare i ribelli. queste le carismatiche parole con
cui, secondo una fonte, si rivolse all’intimorito consorte: “Anche se con la fuga mi dovessi salvare,
non vorrò vivere senza essere salutata da imperatrice … se vuoi, … vai pure;
quanto a me … non fuggirò”.
Sedata nel sangue. A riportare la
situazione sotto controllo furono i generali Narsete e Belisario. Il primo
tramite abili negoziati con gli Azzurri (a cui girò parte del tesoro del
sovrano), riuscì a erodere la compattezza dei ribelli, mentre il secondo,
radunato l’esercito imperiale, iniziò una vasta azione militare senza lesinare
nella violenza. La brutale repressione partì proprio dall’ippodromo, dove gli
insorti vennero trucidati a centinaia. Furono poi spazzate via le barricate
allestite lungo le strade e il 18 gennaio, a una settimana dall’inizio, la
rivolta poté dirsi sedata. I funzionari allontanati vennero quindi richiamati
al loro posto, Belisario fu ricompensato con la carica di magister militum, le
corse ripresero e, per volontà di Teodora, la basilica di Santa Sofia fu
ricostruita più bella e grande di prima, allargandosi a parte dell’area dell’ippodromo.
All’interno della struttura sacra trovò tra l’altro posto un pilastro in marmo
detto “colonna piangente”. Pare infatti che esso trasudi umidità presente nel
terreno sottostante, ma secondo una leggenda le goccioline sprigionate
sarebbero in realtà lacrime dei ribelli lì assassinati (secondo Procopio di
Cesarea, morirono più di 30mila popolani). Tra loro c’erano anche l’usurpatore
Ipazio e suo fratello Pompeo, uccisi e gettati in mare su esplicito ordine di
Teodora, vera vincitrice di quel primo, storico scontro tra istituzioni e
ultras.
Articolo di Matteo
Liberti pubblicato su Focus storia n. 150. Altri testi e immagini da Wikipedia.
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