Non
solo tessitrici e filatrici casalinghe o, al massimo, aiutanti nelle botteghe
dei mariti. Nel Medioevo le donne venivano impiegate in tutti i possibili
settori, compresi l’edilizia, le miniere e le saline. Vi erano imprenditrici
che si autofinanziavano con propri capitali ottenuti dalla vendita di abiti e
gioielli. Alcune donne col proprio col proprio lavoro riuscivano a mantenere sé
stesse e i propri familiari in difficoltà, o a saldare i debiti dei mariti in
un momento in cui le retribuzioni erano commisurate alle capacità e quindi non
dipendenti dal genere. Dal canto loro le nobildonne erano impegnate nelle
attività più varie: dall’organizzazione di laboratori per il ricamo, alla
gestione di miniere, alla direzione di opere di bonifica, all’impianto di
caseifici, fino alla gestione di miniere, alla direzione di opere di bonifica,
all’impianto di caseifici, fino alla gestione di alberghi. Lucrezia Borgia, ad
esempio, era un’abilissima imprenditrice agricola impegnata in lavori di
bonifica e in svariate attività, tra cui la produzione di mozzarelle di bufala
(di cui tra l’altro era golosa). Non raramente finanziava i suoi affari
vendendo i propri gioielli: sacrificando una catena d’oro costruì l’argine di
un fiume. Analogamente la madre di Lucrezia, Vanozza Cattanei, con la vendita
dei propri monili sovvenzionò la ristrutturazione di un albergo nel centro di
Roma, garantendosi in tal modo una cospicua rendita.
Battuta di caccia: le donne al centro stanno tirando una freccia con l'arco, quella a sinistra suona un olifante per guidare le cacciatrici verso la preda (1407-09 circa).
Salari personalizzati.
Nel Medioevo i salari erano
determinati dalla resa, indipendentemente dal genere. Nei lavori di
precisione in cui rendevano maggiormente, le donne prendevano più degli
uomini, come in Francia nel ‘300 chi rivestiva l’interno delle armature, e
nel ‘500 le fabbricanti di passamanerie d’oro.
Donne al lavoro dentro casa. Immagine tratta dai Tacuina sanitatis (XIV secolo).
Donne e corporazioni, un rapporto
difficile.
Contrariamente a quanto si pensa,
nel Medioevo erano le corporazioni a rifiutare l’accesso alle donne, ma
succedeva il contrario. Motivi di carattere economico, o di tutela della
collettività, portavano – solo quando strettamente necessario – le
istituzioni cittadine e le associazioni professionali a esigere che anche le
donne fossero sottoposte alla giurisdizione corporativa in cui esse non
avevano alcun interesse a entrare. Preferivano infatti organizzarsi da sole,
cosa che consentiva loro di lavorare in nero, evitando le tasse e di non
avere obblighi di alcun tipo. Questo scatenava a volte liti feroci con la
corporazione: ad esempio nel 1306 le autorità cittadine e corporative
veneziane si misero a cercare casa per casa le sarte, per obbligarle a pagare
le tasse e a lavorare nel rispetto dei regolamenti.
Una donna al lavoro in una piantagione insieme ad un uomo.
Settori femminilizzati. Nonostante la sua
capillare diffusione c’erano settori, come quello tessile, in cui il lavoro
femminile prevaleva, dando vita a manifatture ben organizzate gestite di donne.
Persino per la filature della lana, ritenuta tradizionalmente un’occupazione di
basso profilo svolta a domicilio, esistevano delle professioniste, proprietarie
della materia prima, che agivano autonomamente: a Barcellona alla fine del
trecento alcune di loro davano vita a piccole aziende in cui assumevano
apprendiste e giungevano a commercializzare direttamente il prodotto,
vendendolo al mercato settimanale sulla piazza cittadina.
Tre settori
esclusivamente femminili erano caratterizzati da notevoli e autonome capacità
organizzative: le fasi preliminari alla trattura (che include l’avvolgimento del
filo sul rocchetto); la filatura dell’oro; la confezione di veli e cuffie o di
acconciature di seta e di cotone. Articoli, questi ultimi, destinati alle donne
e che richiedevano un gusto prettamente femminile nell’ideazione. Perciò in
tutta Europa veniva lasciata loro la gestione dell’intero ciclo produttivo
(dalla realizzazione dei modelli, alla tessitura e alla commercializzazione),
compreso il conferimento del capitale necessario ad avviare l’attività. Donne
imprenditrici dotate di propri capitali commissionavano ad altre donne che
lavoravano a domicilio (spesso, a loro volta, con delle apprendiste), la
tessitura dei manufatti. Nella maggior parte delle attività spicca il massiccio
coinvolgimento delle nobildonne come finanziatrici e come imprenditrici: nella
Venezia d’inizio cinquecento le aristocratiche avevano fatto un business
persino di un’attività prettamente casalinga con la confezione dei merletti
intuendo la possibilità di successo di un prodotto raffinato ma di semplice
manutenzione.
Molte di loro, poi,
come mercantesse pubbliche, controllavano tutto il ciclo di lavorazione
dell’oro filato (durante il XIV e il XV secolo) è il caso della “mercantessa”
Pasqua Zantani, in carriera per trent’anni all’inizio del quattrocento; oppure
partecipavano in prima persona a società commerciali per l’esportazione dei
tessuti in tutta Europa. Altre operavano nella nascente arte della stampa (fino
al XV secolo) firmando come editrici le pubblicazioni, come la nobildonna greca
Anna Notaras, che aprì una tipografia a Venezia all’inizio del cinquecento per
diffondere nella città lagunare la cultura della madrepatria. Altre ancora,
soprattutto a Roma (come Vanozza Cattanel), erano attivamente impegnate nella
gestione di alberghi e locande, vere miniere d'oro negli anni santi, oppure
armavano navi (a Marsiglia nel trecento e nel quattrocento) e assoldavano
pescatori per cercare il corallo nel mare della Sardegna, che facevano poi
lavorare in perle da manodopera femminile alle loro dipendenze.
Aspetti di vita quorìtidiana femminile; la lavorazione del lino (Tacuina sanitatis, XIV secolo).
Le vie di finanziamento.
Per le donne di ogni ceto sociale
la prassi abituale per mettersi in affari era quella di autofinanziarsi con
la propria dote, o con la vendita di abiti e monili preziosi. Talvolta le
donne utilizzavano i propri capitali, anziché in prima persona, per finanziare
operazioni di microcredito, soprattutto a favore di aziende femminili.
L’usanza era tanto diffusa che, tra il trecento e il cinquecento ovunque (da
Roma, alla Germania, alla Spagna) esistevano apposite figure professionali,
le “imperatrici”, dotate delle competenze tecniche necessarie a valutare i
preziosi che altre donne cedevano in pegno, per ottenere somme da investire
in attività manifatturiere.
Edilizia e miniere. Le donne medievali
erano attivissime anche in attività molto faticose, nell’edilizia e nelle
miniere: a Siena e a Pavia scavavano acquedotti e canali (dei 640 lavoratori
reclutati nel 1474 a Pavia 284 erano donne, tra cui anche alcune bambine). Nel
XIV e XV secolo in Francia e in Spagna le donne partecipavano come manovalanza
alla costruzione delle cattedrali mentre a Messina nel XIII secolo avevano
costruito le mura cittadine.
In Francia le donne
occupavano un ruolo importante soprattutto nelle miniere di sale. In quelle di
Salins (Jura), tra il quattrocento e il seicento le operaie svolgevano compiti di
primaria importanza come maestranze specializzate, occupando ruoli chiave
all’interno del contesto produttivo, con incarichi di fiducia tramandati di
madre in figlia. Nelle loro mani si trovava la maggior parte dell’attività, e
godevano (alla pari degli uomini), di indennizzi in caso d’infortuni o di
malattia, e di una pensione d’invalidità o di vecchia accordata dal consiglio
direttivo della salina, su richiesta dell’interessata che avesse lavorato a
lungo (38-40 anni) e fosse ormai troppo debole e anziana o impossibilitata a
lavorare.
Così, nel 1476,
un’operaia ormai attempata che lavorava da 38 anni chiese e ottenne la pensione
settimanale che “era consuetudine assegnare ai lavoratori della salina”, come
raccontano i documenti amministrative delle miniere. E come lei molte altre
sessantenni che lavoravano da una ventina di anni. Non tutte chiedevano però la
pensione: secondo gli stessi documenti alla fine del quattrocento un’operaia di
80 anni lavorava ancora insieme alla figlia. Sorprendente poi la longevità
delle impiegate nelle saline: alcune raggiungevano i 110 anni, e non si
trattava di casi isolati. Neppure in questo settore mancava l’imprenditoria
femminile: a Milano, ai primi del cinquecento, alcune fornaci che rifornivano
di laterizi i cantieri delle principali costruzioni civili e religiose erano di
proprietà e gestite da donne; a Gaeta, tra il 1449 e il 1453, con le proprie
imbarcazioni un’imprenditrice riforniva di materiale da costruzione il cantiere
reale del castello, come rivelano i libri mastri. Nel Lazio, negli anni novanta
del quattrocento la nobildonna romana Cristofora Margani, vedova del mercante
pisano Alfonso Gaetani ed erede delle importantissime miniere di allume di
Tolfa (Civitavecchia), gestiva in prima persona l’attività occupandosi delle
relazioni con i minatori, dei rapporti con il mondo mercantile e della consegna
dell’allume alla Camera apostolica. Era cioè il fulcro di un universo in cui
confluivano forze ecnomico-sociali diverse. In tutta l’Europa medievale,
insomma, i documenti dimostrano uno straordinario brulicare di attività
femminili del tutto impensate.
Articolo in gran parte
di Maria Paola Zanoboni pubblicato su Storica National Geographic di gennaio
2019
A presidio della
regione più esposta alle infiltrazioni nemiche in Vietnam i marines
combatterono scontri duri e prolungati e subirono le perdite più gravi rispetto
a tutti gli altri reparti americani.
In alto a sinistra soldati nordvietnamiti si preparano all'attacco, a destra soldati americani si preparano a salire su elicotteriBell UH-1 Iroquois; In basso a sinistra alcune vittime del tragico massacro di My Lai, a destra un'operazione di rastrellamento in un villaggio
Alle
8,45 dell’8 marzo 1965 gli uomini della 9a Marine Expeditionary Brigade
sbarcarono in Vietnam e trasformarono l’impegno americano nel Paese, fino ad
allora limitato alla presenza di consiglieri militari e ai pesanti
bombardamenti nel Vietnam del Nord, in conflitto sul terreno; dieci anni dopo,
alle 7,55 del 30 aprile 1975, l’ultimo elicottero dei marines decollò dal tetto
dell’ambasciata americana di Saigon e chiuse una drammatica e confusa
evacuazione di civili e militari. Tra queste due date si sviluppò la guerra più
lunga del XX secolo, forse la più impopolare di sempre, il conflitto che sancì
la prima e unica sconfitta degli USA, la potenza che vent’anni prima aveva
spazzato via – con l’aiuto della Russia di Stalin – le forze dell’Asse
Roma-Berlino-Tokio.
La teoria e la pratica. Tutto era cominciato
con ben altre aspettative: 13500 marines che la mattina dell’8 marzo 1965
sbarcarono sul litorale della città portuale di Da Nang, furono accolti da
manifestazioni di giubilo della popolazione sud vietnamita. Erano accompagnati
da elicotteri, mezzi da sbarco, autocarri e jeep, e al loro arrivo non ci fu
opposizione da parte dei guerriglieri. Ufficialmente avrebbero dovuto
presidiare l’importante base militare in città, in realtà fu l’inizio
dell’escalation, la strategia di Washington per un progressivo incremento
dell’impegno militare nel teatro bellico, volta non solo a contenere ma a
debellare la minaccia comunista in Indocina.
Il comandante in capo
del MACV (Military Assistance Command, Vietnam), il generale William
Westmoreland, avrebbe poi utilizzato l’enorme massa di militari a disposizione
per dare compimento alla cosiddetta tattica del “search and destroy” (cerca e
distruggi) che per quattro anni, con scarsi risultati e a costo di ingenti
perdite, impegnò i marines e le altre forze in campo a scovare i reparti nemici
nella giungla e tra le risaie indocinesi, proprio dove era più facile per i
Vietcong (forze guerrigliere comuniste) sopperire con la guerriglia e la
perfetta conoscenza del territorio, allo strapotere americano in quanto a mezzi
e uomini. Lo stato maggiore statunitense aveva diviso il territorio sud
vietnamita in quattro regioni. Ai marines toccò operare principalmente nella I
Tacps Tatcital Zone, quella che comprendeva la zona smilitarizzata sul confine
del 17° parallelo, inquadrati nella III MAF (Marine Amphibious Force)
irrobustita dall’arrivo della 3a divisione. Sarebbero poi approdate nel teatro
di guerra anche la 1a divisione, nel 1966, e successivamente la
5a. Nei primi mesi del
conflitto i marines adottarono con successo un approccio difensivo, tuttavia
questo piano cambiò quando al III MAF giunsero informazioni riguardo la
presenza in zona di un reggimento di Vietcong che stava spostando le sue forze
a 30 chilometri a sud della base aerea di Cu Lai. Il piano d’attacco venne
perfezionato nel giro di 24 ore e, a partire dal 18 agosto, 5mila marines, con
l’appoggio dell’incrociatore lanciamissili Galveston e della nave USS Cabildo,
si lanciarono in un attacco anfibio sulla costa sud della penisola di Van
Tuong, mentre un altro battaglione venne trasportato sul terreno dagli
elicotteri. L’operazione, denominata in codice Starlite, si concluse il 21
agosto l’annientamento della roccaforte nemica. I marines ebbero 45 morti e
oltre 150 feriti i Vietcong contarono oltre 600 vittime. Il netto successo
americano convinse i guerriglieri dell’impossibilità di accettare combattimenti
in campo aperto contro la schiacciante superiorità tecnologica statunitense,
lezione di cui fecero tesoro per tutto il resto della guerra.
Combattenti Viet Cong in una pausa dei combattimenti nella boscaglia vietnamita
L’antica capitale imperiale Hue,
città sacra al popolo vietnamita, cadde in mano all’esercito del Nord e ai
Vietcong il 31 gennaio 1968 durante la grande offensiva del Tet. Mentre la cittadella
imperiale era già controllata dai comunisti, resistevano agli occupanti il
Quartier generale della Prima divisione dell’esercito vietnamita e la base
americana. Altri marines, nel pomeriggio del 31 riuscirono a farsi strada,
lasciando sul terreno 40 caduti, fino a raggiungere gli assediati all’interno
della base. Nei giorni successivi cominciò la riscossa di americani e sud
vietnamiti e lo scontro tra fanterie più lungo e sanguinoso di tutta la
guerra. Inizialmente il comando americano decise di limitare l’artiglieria e
le incursioni aeree per evitare di distruggere gli edifici dell’antica città,
ma in breve l’ordine fu ritirato perché ci si rese conto che soltanto un
fuoco continuo e pesante poteva stanare le postazioni nemiche annidate in
tutta la città. i marines si trovarono a combattere casa per casa, una guerra
urbana a cui non erano preparati, soprattutto non lo erano i rimpiazzi,
spesso appena giungi da Camp Pendleton, in California, e scaraventati
nell’inferno di Hue. Nel progredire della battaglia risultò decisivo
l’impiego dei carri M48 e M50, che riuscivano ad aprire corridoi di passaggio
nei muri. Tra nuvole basse, pioggia e incendi, infatti, artiglieria pesante e
fuoco navale di supporto dimostravano scarsa efficacia; per identificare un
gruppo di fuoco nemico era spesso necessario esporsi a micidiali scariche di
mitragliatrici; l’assalto a una singola casa doveva essere attentamente
pianificato ed eseguito da squadre di 8 uomini, con quattro di supporto alle
spalle e altrettanti ai lati. Un salto di qualità nella conduzione della
battaglia fu determinato dalla conquista di una stazione di rifornimento
Texaco dove i marines si impossessarono di una serie di cartine della città
più dettagliate, poi distribuite ai capicarro per coordinare le operazioni
isolato dopo isolato. La mattina del 24 febbraio la bandiera vietcong venne
ammainata dal pennone sul Palazzo Imperiale, dove aveva sventolato per 25
giorni, e sostituita da quella del Vietnam del Sud. La battaglia venne
considerata chiusa soltanto il 3 marzo. L’antica Cittadella era quasi
sbriciolata e circa 10mila edifici della città di Hue distrutti o
danneggiati. Sotto le macerie erano rimasti non meno di 6mila civili,
comprese le vittime delle purghe perpetrate dai Vietcong. I marines persero
147 uomini e più di 800 rimasero feriti, i vietnamiti del sud ebbero 452
caduti e 2123 feriti. Difficile stabilire le vittime sul fronte comunista,
anche se una stima abbastanza veritiera si attesa sui 4mila caduti.
Cerca e distruggi. Se nell’operazione
Starlite i marines poterono in parte muoversi sul loro terreno preferito, sul
finire del 1965 la volontà del presidente americano Lyndon Johnson di saggiare
l’impiego di truppe terrestri, e la necessità dello Stato Maggiore di
sottoporre a un test probante la tattica del “cerca e distruggi”, impose al
Corpo di spostarsi in uno scenario per niente conosciuto: le risaie dell’interno
del Paese, 37 chilometri a nord ovest di Cu Lai, dove da tempo era stata
segnalata la presenza del 1° Battaglione Vietcong. L’operazione Harvest Moon si
sviluppò tra il 8 e il 20 dicembre 1965 su un terreno acquitrinoso inadatto
all’impiego dei blindati. I marines arrivarono a bordo degli elicotteri e
presero il controllo di Quota 43, una collina poi difesa strenuamente durante
tutta la notte. Il giorno dopo altre truppe chiusero l’unica via di fuga al
nemico e il 18 dicembre lo scontro decisivo si risolse a favore degli
statunitensi, dopo quattro ore di cruente schermaglie, grazie al massiccio
intervento dell’artiglieria. I marines contarono 45 morti, almeno dieci volte
superiori le vittime Vietcong. Harvest Moon inaugurò l’infinta teoria di
vittorie tattiche delle truppe Usa in Vietnam, incapaci però di coglierne una
decisiva che spezzasse la resistenza dei guerriglieri. Il nemico era sfuggente,
preferiva l’imboscata allo scontro frontale e appariva indifferente all’enorme
numero di vittime che lasciava sul campo.
Nel 1966 la tattiche
del “search and destroy” entrò nel vivo e coinvolse in particolare l’aerea geografica
affidata ai marines. Da subito emersero prepotenti i distinguo tattici che
dall’inizio del conflitto avevano visto gli ufficiali dei marines mal
sopportare le aggressive indicazioni di Westmoreland. Il Corpo era, infatti,
poco interessato ad un approccio unicamente militare, preferendo invece
procedere attraverso un’azione di coinvolgimento delle forze sud vietnamite e
la progressiva pacificazione del territorio. Ma lo Stato Maggiore e la
politica, esigevano invece azioni eclatanti e risolutive. Tra luglio e agosto
durante l’operazione Hasting, combattuta per oltre un mese in un territorio
brullo e inospitale, i marines liberarono il terreno da un’intera divisione
nord vietnamita penetrata a sud dalla zona smilitarizzata.
L’azione costò 128
morti agli americano e oltre 800 alle truppe comuniste e permise agli
statunitensi di approntare una serie di capisaldi sulle colline (quota 400 e
484), tra le quali la più importante, denominata Rockpile, divenne una base di
fuoco dalla quale controllare i movimenti in un’ampia sezione della zona
smilitarizzata. Ma i reparti del Nord non avevano smobilitato, erano
semplicemente arretrati per riorganizzarsi, i primi di agosto tornarono
all’assalto e la spallata fu tale da sottrarre agli americani quota 400 e 484, le
due basi dominanti sulla più importante Rockpile. Nonostante le rinnovate
perplessità degli ufficiali, lo Stato maggiore pretese che i marines uscissero
allo scoperto e lanciassero l’operazione Prairie per la riconquista palmo a
palmo dell’intera catena montuosa. Cominciata come un sistematico
rastrellamento del territorio e pochi e sporadici scontri, la battaglia in
quota fu uno dei momenti più cruenti dell’intero conflitto. Dietro ogni
cespuglio o asperità del terreno poteva nascondersi un cecchino vietnamita; la
giungla, che rallentava il passo verso la sommità delle colline, pullulava di
trabocchetti e mine. Alla riconquista della strategica quota 400 si dedicarono
gli uomini del tenente colonnello William Masterpool, comandante del
battaglione del 4° Marines, che cominciarono l’ascesa il 27 settembre guidati
dalla compagnia K del capitano James J. Caroll. I vietnamiti trincerati nei
loro bunker martoriarono a più riprese i soldati americani costringendoli ad
arretrare, alternando i colpi di mortaio alla ricerca dei sanguinosi
combattimenti corpo a corpo. L’impasse si risolse con l’intervento massiccio
delle forze aeree: bombardamenti a tappeto sulle postazioni nemiche – anche con
ordini al napalm – permisero ai marines di riprendere l’avanzata. Il 28
settembre, quel che restava della Compagnia di Carrol, con un ultimo sforzo obbligò
i vietnamiti alla ritirata e raggiunse la vetta. In un territorio ormai
devastato dalle bombe, sempre supportati da aviazione e artiglieria, il 5
ottobre i marines si riportarono anche su quota 484, la collina poi
ribattezzata Camp Carrol, in omaggio al valoroso capitano rimasto ucciso dal
fuoco amico proprio all’ultima ascesa. Westmoreland, però, giudicò non ancora
sufficiente lo sforzo compiuto e provvide ad alzare ulteriormente l’asticella
della difficoltà ordinando ai marines di costruire una base nello sperduto
avamposto di Khe Sanh, ai confini con il Laos.
Il generale Westmoreland durante il suo comando in Vietnam
Assedi continui. La postazione di
Rockpile si trovava al centro di un luogo e articolato sistema difensivo sotto
il controllo dei marines, una serie di avamposti disseminati lungo il tracciato
della Route 9, strada per larghi tratti impraticabile, che correva dalla costa
fino al confine con il Laos. Basi come quella di Con Thien, al limite della
zona demilitarizzata, la stessa Rockpile e successivamente quella di Khe Sanh,
erano considerate da Westmoreland strategiche teste di ponte da cui far partire
spedizioni contro guerriglieri e truppe regolari nord vietnamite che si
infiltravano attraverso la zona demilitarizzata, oppure passando il confine dal
Laos. Così, nella prima metà del 1967, il Corpo fu impegnato in continue
offensive per impedire gli sconfinamenti, operazioni logoranti che seguendo il
criterio di valutazione adottato dallo Stato maggiore, cioè la conta dei corpi
al termine delle battaglie, si risolsero sempre con la vittoria tattica
americana, ma non permisero di alleggerire la pressione sulle basi esposte agli
attacchi.
Infatti, nella seconda
metà dell’anno le forze vietnamite, tutt’altro che fiaccate dalle enormi
perdite subite, si lanciarono in una temeraria offensiva su tutti i capisaldi
statunitensi. Attorno a Con Thien l’attacco iniziò con un fitto tiro di
cecchini contro una compagnia di marines e proseguì con il martellamento delle
posizioni americane da parte dell’artiglieria. L’assedio si prolungò fino a
settembre e il mantenimento delle posizioni costò ai marines – a corto di
rifornimenti – gravissime perdite (1419 morti). Poi, complice il maltempo,
l’azione si esaurì. In breve, tutte le basi Usa a sud della zona
demilitarizzata subirono lo stesso destino di Con Thien. Il generale
Westmoreland interpretò la controffensiva comunista come l’ultimo colpo di coda
del nemico, il disperato tentativo di gettare il cuore oltre all’ostacolo, di
sottrarsi alla sconfitta. Facendo seguito a questa convinzione, gli Usa
concentrarono in zona ulteriori truppe, in questo modo cadendo nella trappola
tesa dal generale Vo Ngyeyn Giap, comandante delle truppe del Nord, al quale
premeva attirare più forze nemiche possibili intorno a un falso obiettivo e
avere campo libero per la progettata offensiva del Tet, tutta mirata alla
conquista dei grandi centri nel sud del Paese. westmoreland non fu l’unica
vitta del boccone avvelenato servito da Giap: il comandante trascinò nell a sua
disfatta il presidente Johnson e l’intero Paese, avviato a perdere la sua prima
guerra. Emblematico dello stato di confusione americano fu l’inutile sacrificio
dei marines nella battaglia di Khe Sanh, sperduto avamposto ai confini con il
Laos dove il Corpo nel 1966 aveva trasformato la piccola base delle forze
speciali Usa in una roccaforte militare, prima difesa a ogni costo e poi
frettolosamente abbandonata. Quando sul finire del 1967 nei dintorni della base
l’intellingence Usa cominciò a registrare imponenti manovre nemiche,
Westmoreland si convinse di poter finalmente ingaggiare con il grosso del
nemico uno scontro convenzionale dove gli Usa avrebbero potuto dispiegare tutta
la loro potenza e superiorità tecnologica. Ma al primo facile entusiasmo fece
seguito il comparire di uno spettro destinato ad agitare per mesi lo Stato
Maggiore e la Casa Bianca: il timore che Khe Sanh potesse trasformarsi nella
Dien Bien Phu americana, la clamorosa vittoria campale ottenuta da Giap contro
i francesi, disfatta che chiuse la stagione dell’imperialismo d’Oltralpe.
Impedire che ciò si
realizzasse fu l’imperativo categorico degli States nei mesi successivi, anche
perché intorno alla sorte dei marines di Khe Sanh si era acceso l’interesse
della stampa Usa e di un’opinione pubblica sempre più divisa sull’opportunità
stessa della guerra. L’attacco vietnamita scattò poco dopo la mezzanotte del 21
gennaio 1968: la base americana fu scossa da una pioggia di razzi e missili che
rase al suolo gran parte degli edifici e fece esplodere un deposito di
munizioni. Sottoposti al continuo fuoco d’artiglieria e a sporadici attacchi di
fanteria, concentrati soprattutto sulle alture introno alla base, gli assediati
non poterono più essere approvvigionati via terra e anche la pista
d’atterraggio, battuta incessantemente dai mortai dei nord vietnamiti, divenne
inutilizzabile. Gli aerei preferivano evitare di scendere a terra e scaricavano
il carico direttamente sulla pista utilizzando dei paracadute. A pochi metri
dal perimetro della base le forze comuniste presero a scavare un complesso
sistema di tunnel sotterranei per evitare i bombardamenti americani e dai quali
colpire gli assediati e preparare l’assalto finale.
La battaglia di Khe Sanh
Nel villaggio di Khe Sanh, a soli
9 chilometri dal confine con il Laos, gli americani erano arrivati una prima
volta nel 1962, quando i Berretti Verdi (le forze speciali dell’esercito
statunitense) avevano costruito una pista d’atterraggio sulle rovine di un
vecchio forte francese. Quattro anni dopo, nel tentativo di interrompere il
flusso di guerriglieri comunisti provenienti dal Laos, il generale
Westmoreland ordinò di fare del piccolo avamposto una vera e propria base, la
Khe Sanh Combat Base (KSBC), da quel momento presidiata da due reggimenti dei
marines. Tra il 21 gennaio e il 9 luglio del 1968 (con un sanguinoso prologo
tra aprile e maggio dell’anno precedente) nella zona si combatté una delle
più cruente battaglie di tutta la guerra e la base dei marines subì un
assedio che per oltre due mesi la isolò completamente dal resto dell’esercito
americano. A difesa degli assediata fu scatenata una delle più importanti
azioni di bombardamento aereo (operazione Niagara) sulle postazioni nord
vietnamite e una spedizione di soccorso via terra che permise la rottura
dell’assedio in aprile. Nella strenua difesa di Khe Sanh l’esercito americano
perse oltre 1200 uomini, in gran parte componenti del Corpo dei marines, e
quando finalmente le forze comuniste sembravano debellate, lo Stato Maggiore
decise di abbandonare la base.
FASE 1: COMBATTIMENTI DI APRILE
MAGGIO 1967
Il 24 aprile 1967 una pattuglia di
marines entrò in contatto con il nemico intorno a Hill 861, una delle colline
a nord della base. I combattimenti che seguirono rappresentarono il primo
tentativo nord vietnamita di conquistare l’avamposto americano, le cui truppe
furono irrobustite dall’arrivo del 2° e 3° Battaglione del 3° Reggimento
marines. L’ordine per i marines era di conquistare tutte le alture intorno
alla base (861, 881 nord e 881 sud) in modo che al nemico non rimanessero
posti di osservazione e di tiro sul campo d’atterraggio. L’operazione fu
portata a termine entro maggio, a conclusione di una sanguinosa battaglia che
lasciò le colline prive di vegetazione, ricoperte di crateri e cosparse di
macerie dei bunker dove erano ancora sepolti i corpi dei soldati nord
vietnamiti. In agosto un’imboscata sulla Route 9 interruppe l’ultimo
tentativo di fornire approvvigionamenti alla base americana via terra.
Lancio con il paracadute di rifornimenti alle truppe americane assediate a Khe Sanh
FASE 2: BATTAGLIA E ASSEDIO ALLA
BASE.
Marines caricano un obice M118 durante l'assedio di Khe Sanh.
Il 20 gennaio 1968, era da poco
passata la mezzanotte, quando Hill 861, la base principale e il villaggio di
Khe Sanh vennero contemporaneamente attaccate dalle truppe nord vietnamite
che potevano contare su una forza stimata intorno alle 20mila unità. Nella
base americana era arrivato anche il resto del 2° Battaglio, 26° Reggimento
Marines: per la prima volta dalla battaglia di Iwo Jima (Seconda guerra
mondiale) i tre battaglioni del 26° si ritrovarono a combattere insieme. Gli
americani erano venuti a conoscenza del piano dettagliato dell’attacco grazie
a un disertore vietnamita, ma la straordinaria potenza di fuoco del nemico –
pezzi d’artiglieria con gittata maggiore rispetto a quelli in dotazione ai
marines erano stati piazzati anche oltre il confine del Laos – rese
impossibile ogni contrattacco. La base sopportò una pioggia incessante di
colpi di artiglieria e di mortaio che fecero esplodere munizioni e un
deposito di gas lacrimogeno. I marines asserragliati resistettero per oltre
due mesi completamente isolati dal resto dell’esercito. La situazione più
drammatica la vissero le compagnie distaccate sulle alture, difficili da
raggiungere dai rifornimenti e dal personale medico. In soccorso ai marines
di Khe Sanh, già alla fine di gennaio, venne lanciata l’operazione Niagara:
durante tutto il tempo della battaglia sulle postazioni vietnamite ogni
giorno vennero sganciate 1300 tonnellate di bombe.
Nel febbraio del 1968 la base
americana sopportò gli attacchi più intensi e sventò un tentativo di
penetrare all’interno del perimetro difensivo. Il giorno 23 fu bersagliata da
oltre 1300 proiettili, durante un attacco ininterrotto di 8 ore. Due giorni dopo
furono individuate le trincee scavate dal nemico per portarsi a ridosso del
perimetro senza essere centrato dai bombardieri. Il 1° aprile iniziò
l’operazione Pegasus: due battaglioni di marines con l’appoggio di una
Divisione di Cavalleria aerea partirono da Ca Lu (16 chilometri a est di Khe
Sanh) forzando il blocco della Route 9 per raggiungere la base e rompere
l’assedio. La marcia delle truppe americane non incontrò particolari
resistenze e raggiunse la base la mattina dell’8 aprile. L’operazione scatenò
numerose polemiche in seno all’esercito Usa: accusati di non aver difeso
meglio la base, i marine sostennero a loro volta che Pegasus fosse stata
organizzata soltanto per porli in cattiva luce e di non aver mai richiesto un
soccorso via terra.
Il Vietnam si affrancò dal
protettorato francese al termine della Guerra d’Indocina (1946—1954). Nel 1954
la conferenza di Ginevra sancì l’abbandono del Paese da parte dei francesi e
la temporanea suddivisione del Vietnam in due parti lungo il 17° parallelo: a
nord la Repubblica comunista di Ho Chi Min, a sud uno stato legato all’occidente
e agli aiuti americani, capeggiato dal presidente Ngo Dinh Diem. Al rifiuto
di quest’ultimo di tenere le previste elezioni generali, a cominciare dal
1957 nel sud cominciò la guerriglia comunista che complice la corruzione e l’autoritarismo
del governo, conobbe una crescita numerica e organizzativa. Nel 1963 un colpo
di stato con il placet degli Usa depose e uccise Diem e nello stesso anno
John F. Kennedy allargò il contingente di consiglieri militari nel Paese fino
a 30000 uomini. Il pretesto che permise agli americani di entrare
definitivamente in guerra fu il controverso attacco del Vietnam del Nord
(agosto 1964) alla marina degli Stati Uniti, stanziata presso il Golfo di
Tonchino. L’anno dopo, sotto la presidenza Johnson, le prime truppe sbarcarono
nel Vietnam del Sud e cominciarono i bombardamenti contro il Vietnam del
Nord. L’incremento progressivo di forze in campo si rivelò tuttavia insufficiente
contro la resistenza dei Vietcong. Nel 1960 l’offensiva comunista del Tet
dimostrò al mondo e in particolare all’Amercia, dove cresceva l’avversione
popolare verso la guerra, quanto la vittoria in Vietnam fosse ben lontana
dall’essere colta. Il successore di Johnson, Richard Nixon, cominciò a
negoziare la pace e da allora la presenza americana nel Paese iniziò a
ridursi, anche se Nixon diede avvio a contemporanee operazioni militari nei
paesi confinanti, Laos e Cambogia. Nel 1973 gli Stati Uniti e il Vietnam del
Nord firmarono un armistizio a Parigi, ma la guerra sarebbe finita soltanto
due anni dopo, il 30 aprile del 1975, quando Vietcong e truppe nord
vietnamite entrarono a Saigon. Nel 1976 i due stati si riunirono nella
Repubblica Socialista del Vietnam.
GuerriglieroViet Cong armato di AK-47 nel 1973 durante i lavori della Four Power Joint Military Commission.
Sacrifici e rabbia. Westmoreland prese in
considerazione anche l’opzione di un bombardamento nucleare, poi scartata e
sostituita dall’operazione Niagara, la più intensa dimostrazione di fuoco aereo
di tutta la guerra: sulle postazioni nord vietnamite furono sganciate 100mila
tonnellate di esplosivo. Per soccorrere i marines intrappolati a Khe Sanh, il
primo aprile scattò l’operazione Pegasus, il tentativo di raggiungere la base
via terra liberando la Route 9. Scarsamente ostacolate dai nord vietnamiti, le
nuove truppe americane ruppero l’assedio e si riunirono ai marines la mattina
dell’8 aprile. Lo stesso mese venne lanciata una nuova manovra di
rastrellamento e inseguimento del nemico, ma a giugno la base così tenacemente
difesa, la cui sopravvivenza era costata la vita di tanti soldati e un
dispendio di mezzi colossale, benne abbandonata. Nella coscienza di molti
americani diventò il simbolo di un sacrificio inutile, sull’altare di una
strategia confusa e perdente.
Infatti, tra il 30 e il
31 gennaio, la notte del Capodanno vietnamita, mentre l’attenzione dell’America
era ancora rivolta a Khe Sanh, nel sud del Paese era stata lanciata una
formidabile offensiva contro tutti maggiori centri: l’attacco a sorpresa che
Giap aveva dissimulato dietro la cortina fumogena delle operazioni lungo la
linea demilitarizzata. L’offensiva del Tet colse impreparate le truppe
americane e sudvietnamite e fu inizialmente un successo per i comunisti. Soltanto
dopo violenti scontri e gravi perdite gli statunitensi riuscirono a riprendere
il controllo della situazione. Dappertutto, ma non a Hué: nella vecchia città
imperiale i combattimenti andarono avanti fino ai primi di marzo e i marines,
giunti in soccorso del contingente sud vietnamita, dovettero ingaggiare una sanguinosa
lotta strada per strada.
Nonostante la pronta
reazione statunitense, l’offensiva del Tet impose al conflitto una nuova
direzione: rese evidente quanto la sbandierata vittoria a portata di mano, di
cui si era nutrita la propaganda occidentale, era ben lontana dal realizzarsi e
lo choc scosse l’America, dove le manifestazioni contro la guerra si fecero
sempre più frequenti e partecipate. Ulteriori richieste di nuove truppe, fatte
recapitare a Washington dal generale Westmoreland, questa volta furono respinte
e lo stesso Comandante in capo delle operazioni venne sostituito nel giugno del
1968. Il presidente Johnson, in un drammatico discorso alla nazione, nel marzo
dello stesso anno aveva già annunciato la volontà di non ricandidarsi alla
presidenza e l’adozione di una nuova strategia per uscire dalla trappola
vietnamita: fermare l’escalation di truppe e mettere al lavoro la diplomazia. Il
conflitto era però ben lontano dalla sua conclusione: si trascinò con nuovi
scontri e ulteriori perdite su entrambi i fronti fino agli accordi di Parigi
del gennaio 1973. Due anni dopo, con la cadute di Saigon e la riunificazione
del Paese sotto l’egida dei comunisti, l’America vide realizzarsi lo scenario
peggiore, per scongiurare il quale era scesa in guerra. Un conflitto che molti
avevano giudicato sbagliato e che adesso, alla luce del fallimento, appariva
soprattutto inutile. Gli ultimi marines che lasciarono Saigon riportarono in
patria il ricordo indelebile di una nuova epopea del Corpo, lo strazio degli
oltre 14mila caduti tra giungla e risaie, la rabbia e la consapevolezza che
molti lutti si sarebbero potuti evitare – forse scrivere un altro finale al
conflitto – se i dubbi strategici dei loro ufficiali avessero trovato qualcuno
disposto ad ascoltarli.
Articolo in gran parte
di Mario Galloni pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 22 – altri testi
e immagini da Wikipedia.
Operazione
Columba: guerra a Hitler con i piccioni.
Il
racconto di una curiosa e ingegnosa operazione britannica escogitata per
appoggiare lo sforzo bellico contro l’aggressione di Hitler. L’arma impiegata:
i piccioni viaggiatori.
La
notte dell’8 aprile 1941 un Whitley della RAF decollò dalla base di Newmarket,
dove risiedeva lo squadrone “Special Duties” che aveva il compito di
paracadutare agenti dei servizi segreti britannici al di là delle linee
nemiche. Nei pressi di Zeebrugge l’aereo venne attaccato dalla contraerea, ma
la sua mitragliatrice di coda riuscì a distruggere uno dei fari di ricerca
nemici. Arrivato al confine tra Belgio e Francia, ricevette l’ordine di “dare
inizio alle operazioni”. Ma quelli che emersero dal portellone per calare verso
terra non erano commando in missione oltre le linee, bensì piccioni
viaggiatori.
Si trattava della prima
missione di una nuova operazione segreta, il cui nome in codice era “Columba”:
un’operazione insolita, poiché si basava sull’aiuto degli addestratori
amatoriali di piccioni viaggiatori, che donarono alla causa un gran numero dei
loro uccelli preziosi. Chiusi in appositi contenitori, questi piccioni vennero
paracadutati in tutta Europa: sull’esterno di ciascun contenitore c’era una busta
con dentro un questionario e un appello ad aiutare la Gran Bretagna nel suo
sforzo bellico. L’operazione che proseguì per tre anni e mezzo coinvolse 16554
uccelli, paracadutati in un’area che andava da Copenaghen in Danimarca a
Bordeaux nella Francia del Sud, aveva lo scopo di raccogliere informazioni
trami la gente normale che viveva nei territori sotto occupazione nazista.
In quell’aprile del
1941, la priorità assoluta dei servizi segreti Alleati era ottenere dettagli
sul piano tedesco per invadere l’Inghilterra, e in secondo luogo sugli
stanziamenti di truppe nella regione, sul morale del nemico, sui luoghi
significativi frequentati dai tedeschi, sull’ubicazione degli aeroporti e sugli
effetti delle bombe sganciate dagli Alleati. Inoltre, in una sorta di
anticipazione dei sondaggi sull’audience, si voleva sapere fin dove arrivava
nitido il segnale radio della BBC e che cosa ne pensava la gente che la
ascoltava. Il questionario terminava con le parole: “Grazie. Conservate il
coraggio. Non ci siamo dimenticati di voi”.
Seguivano istruzioni su
come riagganciare correttamente il piccolo cilindro verde alla zampa del
piccione una volta che il questionario era stato compilato: una volta liberato,
l’uccello sarebbe tornato da solo a casa sua in Gran Bretagna e i suoi
proprietari avrebbero trasmesso le informazioni alle autorità competenti e a
una piccola misconosciuta ma importante sezione dei servizi segreti militari,
l’M114D. nessuno sapeva dire con certezza se questa ingegnosa trova avrebbe
funzionato davvero. Un ufficiale registrò che a suo avviso le sorti possibili
per un piccioni erano quattro: morire ancora chiuso nel contenitore perché
nessuno lo aveva rinvenuto, essere trovato da qualcuno del posto e tornare con
le informazioni sperate (l’opzione in cui i britannici più speravano), essere
trovato dai tedeschi e tornare con informazioni false (l’opzione che i
britannici più temevano), essere trovato da un patriota molto affamato e finire
in un pasticcio di carne.
Il primo ritorno. Due giorni dopo il
primo lancio di piccioni nel War Office arrivarono buone notizie: il primo
uccello aveva fatto ritorno a casa sua nel Kent. Alle 10,30 del mattino il
primo messaggio dell’operazione Columba fu trasmesso per telefono all’M114D:
veniva dal piccolo villaggio di Le Briel, nel comune di Herzeele, nella Francia
settentrionale, non lontano dal confine con il Belgio, ed era piuttosto
coinciso, ma conteneva informazioni reali.
Il testo diceva:
“Piccione trovato mercoledì 9 alle otto del mattino. Le truppe tedesche si
spostano sempre di notte. C’è un grosso deposito di munizioni a duecento metri
dalla stazione ferroviaria a duecento metri dalla stazione ferroviaria di
Herzeele. Ieri sono passati un convoglio di artiglieria a cavallo diretto a Dunkerque
via Bambecque e un altro diretto a Hazebrouck. I crucci non hanno mai parlato
di un’invasione dell’Inghilterra. La RAF non ha mai bombardato questa zona.
Bisognerebbe bombardare la fabbrica di mattoni perché il proprietario è un…” .
La parola seguente è indicata dal traduttore come “illeggibile”, ma c’è da
domandarsi se piuttosto il traduttore non si vergognasse di pronunciare un
qualche termine francese assai colorito per definire i collaborazionisti. Il
messaggio si concludeva con: “Aspetto il vostro ritorno. Sono un francese e
rimarrò tale per sempre” era firmato: “ABCD34”.
E questo fu solo
l’inizio. Dall’operazione arrivarono informazioni a spettro molto ampio, che
rivelarono l’esistenza di piccole reti di resistenza più che disposte a
collaborare con la Gran Bretagna. In un caso, i dati riferiti da un gruppo di
resistenza belga che aveva come nome in codice “Leopold Vindictive” furono
giudicati abbastanza importanti da essere mostrati allo stesso Winston
Churchill. Columba aprì anche spiragli sulla dura realtà della vita nelle aree
occupate – i razionamenti, la paure, la rabbia – e occasionalmente riuscì a
fornire informazioni essenziali su posizione tedesche che si poté trasformare
in bersagli. Tra gli angenti dell’M16 c’era R.V. Jones, il cui compito era dare
la caccia a qualunque possibile nuova arma o sistema difensivo del nemico: tra
le sue priorità, in particolare, c’era da capire come facessero i caccia
notturni tedeschi a risultare così efficaci nell’abbattere gli aerei britannici
che sorvolavano il continente. Nessuna fonte era mai riuscita a gettare luce su
questo enigma, finché il 5 giugno 1942 arrivò un messaggio Columba.
L’autore diceva di
avere l’impressione che il piccione fosse destinato al Belgio e non ai Paesi
Bassi, ma di aver comunque deciso di aiutare come poteva. Per la gioia dei
britannici, il messaggio forniva informazioni su un campo tedesco presso
Opperdoes, in cui si trovava “una gran quantità di materiale tecnico, apparati
per intercettazioni, tecnologia anti-radar… E’ da lì che i caccia notturni
ricevono istruzioni”. L’autore includeva anche una mappa con la posizione
precisa, aggiungendo: “Venite qui e volate basso, così vedremo che siete
inglesi”. Jones e il Ministero dell’Aria giudicarono di “primaria importanza”
il messaggio. “I piccioni hanno sferrato il primo colpo contro tre stazioni di
controllo dei caccia notturni”, scrive Jones. Di lì a poco, gli uccelli
avrebbero riportati altri dati chiave sui siti di lancio delle VI.
Informazioni freschissime. Quel che rendeva così
preziose le informazioni riportate dai piccioni era la loro incredibile
freschezza. Il rapporto di un agente sotto copertura poteva impiegare mesi ad
attraversare le linee nemiche, spesso passando attraverso la Spagna o prendendo
qualche altra via indiretta, e una volta giunto in Gran Bretagna le
informazioni che conteneva potevano essere ormai datate. Un messaggio Columba,
invece, trovava la strada di casa in pochi giorni, qualche volta persino in
poche ore. Com’era nelle intenzioni originarie, i piccioni fornirono anche alla
BBC dato sulla portata e la ricezione delle trasmissioni radiofoniche
britanniche nel continente: il direttore della sua sezione di intelligente in
Europa arrivò a dire all’M114 che la rapidità dei messaggi rendeva Columba “una
risorsa inestimabile”. Un ascoltatore della BBC nell’Europa occupata scrisse:
“Tutto quel che trasmettete ci interessa, ma dovete parlare più forte e
chiaro”. Un altro, da Pas-de-Calais in Francia, aggiunse: “Mia moglie vorrebbe
baciare gli speaker più famose,tanto sono patriottici”. Un’altra moglie, in
Bretagna, annunciò di aver sentito con immensa gioia la voce del marito ai
microfoni della radio e di volere che lui lo sapesse.
Il valore di Columba
per gli Alleati è dimostrato anche dal fatto che il sistema veniva ancora
impiegato nell’estate del 1944 e giocò un ruolo nella preparazione del D-Day,
soprattutto nell’identificare la disposizione delle forze tedesche. Molti di
quei messaggi che arrivavano dall’Europa occupata erano non emotivamente facili
da leggere, in particolare quelli che riferivano di vittime civile nei
bombardamenti Alleati. “Vorrei chiedervi, amici miei, di avvisare la
popolazione qualche minuto prima di un bombardamento, perché facendo come fate
uccidete molti civili che sono vostri amici, e uccidete pochi tedeschi. da un
vostro bombardamento sono quasi sempre i civili che ricevono i maggiori danni.
Se faceste un giro in aria prima di sganciare le bombe, la gente avrebbe il
tempo di allontanarsi dal paese, e ci sarebbero molte meno vittime francesi.
Dovete risparmiare i vostri amici e uccidere i tedeschi”: era un messaggio
scritto da un contadino della Mayenne che aveva trovato un piccione nel suo
campo di barbabietole. Il messaggio si concludeva poi con un‘accorata preghiera
per la liberazione della Francia il più in fretta in possibile, dato che tutti
gli amici dello scrivente erano stati portati via dalla Gestapo. “Vi prego,
mandateci armi. Paracadutateci fucili, pistole, munizioni”. Uno dei messaggi
più impressionanti giunse il 13 luglio 1944 da un gruppo di resistenza in
Bretagna: “Poiché sospettiamo che questo piccione venga dai tedeschi, vi
mandiamo alcune informazioni che troverete interessati”. Il gruppo proseguiva
di essere stato ben rifornito dagli Alleati e di essere in procinto di
“impartirvi la lezione che meritate. Alla fine pagherete il vostro debito nei
confronti dei prigionieri, delle famiglie che avete fucilato e delle vittime
delle vostre torture”. Il messaggio conteneva un altro avvertimento: “A partire
da oggi, ci prenderemo fuori dieci crucci per ogni francese. Dolore per dolore,
occhio per occhio, dente per dente… Abbiamo già fatto secchi parecchi crucchi
e, adesso che abbiamo le armi che ci servivano, imparerete ad avere paura molto
in fretta”. Ovviamente i singoli messaggi raramente riportavano informazioni
capitali. Il loro valore stava piuttosto nel contribuire al quadro più vasto
della situazione, e in questo l’esercito segreto dei piccioni fece egregiamente
il prprio lavoro. L’ingegnoso sistema, inoltre, non permise solo di raccogliere
dati sulle fabbriche di armi tedesche e sui movimenti delle truppe, ma anche di
aprire un canale di comunicazione tra chi si trovava in Gran Bretagna – agenti
dei servizi segreti e addestratori di piccioni – e le popolazioni sotto
occupazione nel continente. Una comunicazione che ebbe l’effetto di rassicurare
entrambe le parti: nessuno ebbe più l’impressione di trovarsi a combattere i
nazisti da solo. Certo, non furono gli uccelli ma gli esseri umani a vincere la
guerra: tuttavia i piccioni dell’operazione Columba non mancarono di far la
loro parte.
Articolo in gran parte
di Gordon Corera, corrispondente della BBC pubblicato su BBC History Sprea
editori del mese di ottobre 2018 immagini e altri testi da Wikipedia
Dalla parsimonia
dell’età monarchica ai raffinati convivi di quella imperiale, il nettare di
Bacco domina il desco romano. Dapprima l’Urbe ruba i segreti della viticoltura
a Etruschi, Greci e Fenici, ma poi supera i maestri e la trasforma in una
scienza, facendo del commercio del vino un lucroso business internazionale.
L’iscrizione
bene in vista sul muro della taverna pompeiana di Edoné, parlava chiaro: “qui
si beve per un asse. Se ne paghi 2, berrai un vino migliore. Con 4, avrai vino
Falerno”. Un vero prezzario della mescita, che conteneva un’offerta da non
perdere, se si pensa che il ll Falerno era considerata il “grand cru” (il
vigneto più pregiato) del mondo latino. La scritta, oggi purtroppo scomparsa,
testimonia il forte rapporto dei Romani antichi con la bevanda regina del
desco, consumata non soo nelle domus private, ma anche nelle osterie
frequentate dalle classe più umili (le popinae) e nei locali che offrivano cibi
caldi (thermopolia). Ci dice anche che il vino era, prima ancora che un alimento,
una questione di socialità, e che la produzione vinicola aveva raggiunto, sia
per varietà che per quantità, uno sviluppo tale da permettere all’avventore di
scegliere in base alle tasche e al palato.
Un bacio d’assaggio. Plinio il Vecchio
(23-79 d.C.) scrive, nella Naturalis histoira, che almeno due terzi della
produzione vinicola totale proveniva dall’Impero, ed elenca 91 vitigni diversi
con 195 specie di vini. Tra questi, 50 li definisce “generosi”, 38
“oltremarini”, 18 “dolci”, 64 “contraffatti” e 12 addirittura “prodigiosi”.
Catone afferma di conoscere otto qualità di vino. Varrone 10, Virgilio 15,
Columella ben 58. A Roma, nel periodo tra Repubblica e Principato (I secolo
a.C.), vennero consumati in un solo anno quasi 2 milioni di ettolitri di vino:
erano lontani i tempi della morigeratezza di costume dell’Urbe monarchica, che
aveva in uggia i costumi ritenuti viziosi (vino compreso) importati da società
liberali come quella greca. Era stato un periodo, quello di rigido patriarcato,
e se i maschi avevano goduto con parsimonia del nettare di Bacco (e soltanto
superati i trent’anni), alle donne era addirittura vietato, pena la morte. Per
evitare violazioni della legge era stato istituito la ius osculi, che dava
facoltà ai congiunti maschi di baciare le donne della famiglia per verificare
che non avessero bevuto vino, bevanda che induceva a liberalità e lussuria, e
il cui consumo era tollerato solo per attrici e prostitute.
Nelle ultime fasi della
Repubblica scomparve anche lo ius osculi, l’espansione dei confini del
Principato produsse un ulteriore allentamento dei rigidi costumi dei primi
secoli, in ragione delle maggiori disponibilità economiche che orientavano gusti
e consumi verso il lusso. Se ne giovarono le matrone e tutte le donne del ceto
medio e alto, che poterono cominciare a godersi una coppa ogni tanto, il vino
s’impose, inoltre, come la bevanda più importante sulle tavole di ogni
cittadino romano. La differenza la faceva il ceto di appartenenza e, come ci
ricorda l’iscrizione pompe3iana, la disponibilità economica. Si passava da un
vinello come la lora (surrogato dal basso contenuto alcolico e destinato al
consumo di schiavi, contadini e operai, ottenuto aggiungendo acqua alle vinacce
già pressate o ai grappoli poco maturi o alterati) ai grandi vini adatti
all’invecchiamento (dai 5 ai 25 anni e oltre): nettari di pregio, che potevano
costare anche ottanta volte il prezzo del vino comune. Dopo la pigiatura, la
pressatura e una filtrazione molto grossolana, il mosto veniva messo a
fermentare in recipienti di terracotta di forma sferica, i dolia (i più grandi
raggiungevano la capacità di circa mille litri), dentro i quali il vino veniva
anche invecchiato e trasportato. In altri casi si preferiva travasarlo in
anfore a doppia ansa, le seriae, di capienza dai 180 ai 300 litri, impermeabili
e dotate di una punta che si conficcava nel terreno. Prima del III secolo d.C.,
le anfore di terracotta erano i contenitori principali per il traffico
marittimo, con una capacità di una ventina di litri, chiuse ermeticamente con
tappi di sughero e sigillate con pece, che consentiva l’invecchiamento; su di
esse veniva impressa un’etichetta, il pittacium, che recava il luogo di provenienza
del vino, il nome del produttore e quello del console in carica. Verso la fine
del I secolo d.C., l’anfora per il trasporto vinario venne gradualmente
sostituita dalla botte, di origine celtica. Per il commercio via mare, i Romani
utilizzavano le naves vinarie: piccole, veloci e resistenti alle tempeste,
capace di trasportare circa trecento anfore.
Trasporto di vino nella Gallia Aquitania romana: le anfore (sulla sommità) rimasero i tradizionali contenitori mediterranei, ma i Galli introdussero l'uso di barilotti
Il
mitico falerno .
Lo
offrì Cleopatra a Cesare e della sua straordinaria longevità ed eccellenza si
ha testimonianza nel Satyricon di Petronio, quando si racconta che
Trimalcione ne offrì uno invecchiato cent’anni. Si tratta del celebrato
Falerno, il mito enologico dell’antichità, un “grand cru” di culto, venduto
in tutto il mondo conosciuto, da Cartagine alla Britannia, dalla Gallia
all’Egitto. Era prodotta nellìAger Falernus, sulle pendici del monte Massico
(oggi in provincia di Caserta). Di colore giallo, migliorava con
l’invecchiamento e verso i 15 anni risultava perfetto per essere degustato,
come diceva il poeta Marziale, diventava fuscus, cioè “bruno”.
La più antica bottiglia di vino romano è stata rinvenuta a Spira
Resina, pece e acqua di mare. Nel dolia, il
vino nuovo rimaneva fino al 23 aprile: soltanto dopo le Vinalia urbana
(festività in onore del raccolto dell’uva) lo si poteva assaggiare. Era il
momento in cui entravano in scena gli haustores, appartenenti alla corporazione
dei pregustatores, assaggiatori patentati, che classificavano con appropriata
terminologia i vini, distinguendoli per colore, corpo e struttura. Usando il
poculum, una piccola coppa ombelicata che prelevava una modesta quantità di
vino, ne misuravano qualità, gradazione, acidità e stabilivano i vari tagli e
trattamenti di affinamento e invecchiamento cui sarebbe stato destinato. I vini
migliori venivano trattati e arricchiti con l’aggiunta del defrutum, un mosto
particolarmente concentrato che alzava la gradazione di 1 o 2 gradi alcolici.
Allora come oggi, quelli più pregiati erano adatti all’invecchiamento: un vino
come il Falerno non si beveva prima dei 10 anni, quelli di Sorrento non prima
dei 25, e non era difficile veder consumare vini con più di cent’anni. Durante
l’invecchiamento i vini erano tenuti nel fumarium, dentro l’apoteca, il locale
che fungeva da magazzino e si trovava nella parte alta della casa; qui
giungevano i fiumi degli usi domestici, che favorivano il processo di
affumicamento. Le limitate capacità conservative del vino e la forza dle
prodotto bevuto “liscio” imposero ai Romani la necessità di dolcificarlo,
diluirlo e miscelarlo con resine, pece e acqua di mare concentrata. Il bevitore
di merum, cioè vino puro, era considerato un ubriacone, e durante i banchetti
la misura dell’annacquamento (che poteva arrivare fino a quattro parti di acqua
e una di vino) era affidata a un arbiter bibendi, sorteggiato spesso con i
dadi. All’inizio di banchetti sontuosi si beveva il mulsum, una specie di
miscuglio composto da tre parti di vino e una di miele, lasciato riposare per
circa un mese in anfore di terracotta, filtrato, e poi messo di nuovo a riposo.
Venivano poi serviti vini elaborati con diverse ricette, a seconda delle
occasioni. Si realizzavano anche miscele a base di vino diluito con acqua e
aromatizzato con pepe, spezie, petali di rosa e viola, pece, mirra, menta
assenzio, cumino, coriandolo, timo, aglio, cipolla e persino trito di pigne. Le
lastre di piombo (velenoso) erano impiegate per addolcire il sapore del vino.
Sull’Appia enoteca del III secolo
d.C.
A Roma, sull’Appia Antica, gli
archeologi hanno scoperto un impianto perla produzione, conservazione e
degustazione del vino, databile al III secolo d.C. Si trovava all’interno
della villa dei Quintili, sopra il circo di Commodo, in corrispondenza delle
torrette dei carceres, le gabbie da dove partivano i carri per le corse.
L’impianto, che misurava in tutto oltre 800 mq. Comprendeva due ambienti per
la lavorazione e due stanze per la raffinazione.
Il vino era prodotto con le uve
del vigneto del circo. Accanto si trovava il “ninfeo del vino”, dove il
liquido prodotto dal mosto dell’uva, dopo essere passato attraverso vaschette
di decantazione, fluiva attraverso fontanelle: erano situate all’interno
delle nicchie, in canali di marmo che portavano ai dolia, i grandi
contenitori di terracotta interrati, nei quali il vino veniva conservato e
miscelato con le essenze.
Parole di Roma: Vinum.
L’origine della parola vinum è
stata oggetto di lunghe discussioni fra gli studiosi. Deriverebbe dal
sanscrito vena, formato sulla radice ven, che significa “amare” (dalla stessa
radice devia Venus, Venere). Altri sostengono una derivazione dall’antico
ebraico lin attraverso il greco oinos; altri ancora partono a loro volta dal
sanscrito, ma dal termine vi, ovvero l’attorcigliarsi, il vino sarebbe dunque
il frutto della pianta che si attorciglia. Cicerone attribuisce alla parola
una curiosa etimologia latina, facendola derivare da vir (uomo) e vis
(forza).
Si è anche ipotizzato che vinum
derivi, si, dal greco, ma non dal termine attico oinos (da cui deriva eno,
sempre indicante il vino ma usato come prefisso in altre parole), bensì
dall’eolico (il dialetto in uso sull’isola di Lesbo) foinos. Tale vocabolo si
distingue proprio per la presenza, all’inizio, del digamma “F” ereditato
dall’etrusco “V” e poi passato al latino.
Meglio dei maestri greci. Se ai Greci va
riconosciuto il merito di aver diffuso la coltivazione della vite nell’intero
bacino mediterraneo, ai Romani, che a Etruschi, Greci e Fenici carpirono i
segreti della viticoltura se ne de ve la diffusione in Italia e in Europa. Come
accade per altre pratiche, i Romani non si limitarono a copiare, ma, da
impareggiabili organizzatori e affaristi, impressero al vino una potente
accelerazione produttiva e commerciale. Piantagioni specializzate nacquero
inizialmente in Campania, alle pendici dei monti Petrino e Massico, da cui
proveniva il Falerno. Gli autori contemporanei riconoscevano alla Campania una
superiorità qualitativa, eredità della colonizzazione greca, che aveva lasciato
in retaggio le migliori tecniche di coltivazione.
Il vino romano fu
protagonista di una generalizzata crescita, sia in termini qualitativi che
quantitativi. Il massiccio arrivo di schiavi permise l’espansione delle villae
rusticae, strutture che arrivarono a coltivare 2000 ettari di appezzamenti e
dove si diffuse una razionale organizzazione del lavoro, tale da conseguire
un’efficienza produttiva paragonabile a quella moderna. I grandi raccolti
dell’Italia meridionale e della Sicilia ben presto determinarono una caduta
delle importazioni dalla Grecia. Dal III secolo a.C., l’Italia non si limitò
più a produrre per i fabbisogni interni, ma fu in grado di promuovere l’esportazione
dei suoi prodotti, sviluppo che continuò anche nella prima metà del secolo
successivo. Fece passi da gigante anche la tecnica agricola, come testimoniato
dallo straordinario tratto dello scrittore e agronomo Columella (4-70 d.C.),
giunto integro fino a noi. Nel suo De re rustica, egli descrive vigneti con
distanza di circa 3 m tra un filare e l’altro, altri maritati ad alberi o
sostenuti da pali in legno. Con il tempo, l’alberata etrusca venne poi
sostituita da filari con intrecciata di canne, fino ad arrivare a impianti a
cordone. Un ettaro di vigneto arrivò a produrre più di 150 quintali di uva, di
tipo non dissimile da quello odierno.
A partire dal III
secolo d.C., le pressioni militari ai confini germanici determinarono un
rallentamento dell’espansione territoriale e una riduzione della massa di
schiavi diretta a Roma. Ciò influì sull’economia delle villae e
dell’agricoltura generale, che tornò a forme meno ottimizzate. Anche la
diffusione dei beni di lusso rallentò la propria corsa e i commerci
cominciarono a stagnare. Infine, l’affermarsi del cristianesimo, che pure
utilizzò la bevanda durante l’eucarestia, impose costumi più morigerati. Il vino
non scomparve dalle tavole, ma chiuse temporaneamente la sua età dell’oro, che
era coincisa con gli splendori imperiali. Ai posteri, Roma consegnò comunque un
tesoro di progressi in viticoltura destinati a rimanere insuperati fino al
Settecento e insieme a essi una straordinaria varietà di superbi vigneti.
Articolo in gran parte
di Mario Galloni pubblicato su Civiltà Romana n. 2 Sprea editori, altri testi e immagini da
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